Noi credenti dobbiamo evitare di entrare dentro le chiese storiche per tutelare la nostra fede e il nostro senso del sacro?

NOI CREDENTI DOBBIAMO EVITARE DI ENTRARE DENTRO LE CHIESE STORICHE PER TUTELARE LA NOSTRA FEDE E IL NOSTRO SENSO INNATO DEL SACRO?

Se un credente, per di più un prete ― anche se oggi essere prete non implica essere credente, ne abbiamo a bizzeffe di preti che sono dei perfetti atei devoti al nuovo potere clericale, tutti impegnati nel sociale ― si rifiuta di entrare dentro le chiese storiche, qualche domanda i vescovi se la dovrebbero porre, se non fossero a loro volta impegnati a fare i capo-operatori sociali.

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In questo mese di agosto ho trascorso dieci giorni al fresco, sui monti d’Abruzzo. Tra non molto “al fresco” ci finirò nel senso letterale del termine: in galera. O per dirla col Cardinale Francis George (1937 – †2015), sul quale ci rende testimonianza anche il Cardinale Angelo Comastri:

«Penso di morire nel mio letto ma il mio successore ho paura che morirà in prigione. E il successore ancora ho paura che morirà fucilato, perché difendiamo la famiglia, perché diciamo che la famiglia è formata da un uomo e da una donna e che la vita deve nascere da un padre e da una madre. Saremo perseguitati per questo» (dall’omelia del 4 agosto 2024, QUI).

Anche se molti non ne sono consapevoli, il nostro destino è segnato. Altri, che invece ne sono consapevoli, amoreggiano con questo nostro mondo immondo cercando di piacergli, nella speranza di ottenere le sue grazie ed essere graziati al momento opportuno.

Da anni evito di entrare nelle chiese storiche, a partire da quelle di Roma, memore delle dissacrazioni alle quali i credenti sono costretti ad assistere per opera dell’assalto dei moderni lanzichenecchi (cfr. Sacco di Roma del 1527). E così, quando ritrovandomi con persone in giro per la nostra Capitale mi è stato più volte proposto di entrare con loro in alcune di queste chiese, senza esitare ho risposto: «Andate voi, io vi aspetto fuori».

Prima di ripartire dai freschi monti mi sono recato nelle vicine Marche, ad Ascoli Piceno, per visitare quell’autentico gioiello urbano, questa volta entrando dentro la Chiesa Cattedrale, coi risultati visibili dal video che ho girato col mio telefono cellulare. Posso narrarne una sola, perché penso basti e avanzi: entrando nella cappella del Santissimo Sacramento mi sono inginocchiato alla balaustra davanti al tabernacolo, alle mie spalle una voce femminile esordisce così a basso tono: «…e quello lì che cazzo fa in ginocchio davanti a quel mobile?». Mi volto e vedo a pochi metri di distanza da me tre ragazzine di tredici, quattordici anni circa, in pantaloncini-mutanda-inguinali, intente a osservarmi da dietro come fossi stato David Bowie nel film di fantascienza L’uomo che cadde sulla terra.

Se un credente, per di più un prete ― anche se oggi essere prete non implica essere credente, ne abbiamo a bizzeffe di preti che sono dei perfetti atei devoti al nuovo potere clericale, tutti impegnati nel sociale ― si rifiuta di entrare dentro le chiese storiche, qualche domanda i vescovi se la dovrebbero porre, se non fossero a loro volta impegnati a fare i capo-operatori sociali.

Non entro dentro le chiese storiche ridotte a musei visitati da persone sempre più irriverenti e volutamente sprezzanti tutto ciò che è sacro, perché non sono disposto a vedere ragazze che non indossano neppure più pantaloncini corti detti shorts, ormai entrano nei luoghi di culto vestendo delle vere e proprie mutande, quelle che una volta si chiamavano culottes e che costituivano la biancheria intima femminile indossata sotto i vestiti. Oggi le culottes hanno invece assunto rango di vestiti e con esse si entra nelle chiese, con tanto di reggiseni detti top che lasciano la pancia scoperta in bella vista.

Non entro dentro le chiese storiche perché molte donne e ragazzine che con certi loro atteggiamenti provocano volutamente e intenzionalmente, non desiderano di meglio che qualche prete irritato dai loro atteggiamenti oltraggiosi verso la sacralità del luogo apra bocca per redarguirle; questo vogliono e cercano, per poi scatenare pubbliche polemiche sui social media o dare vita a un vero e proprio caso mediatico.

Se osassi redarguire qualcuna di queste porno-visitatrici, per assurdo che sembri finirei redarguito io dalla competente autorità ecclesiastica, non essendo né il vescovo di quella diocesi né il parroco né il rettore di quella chiesa. Anche perché, se dentro una chiesa cattedrale si entra in mutande, chi di fatto lo permette è anzitutto il vescovo.

In occasione del tradizionale Palio ho commentato giorni fa sulla mia pagina socialin modo volutamente colorito — l’immagine di diverse ragazze entrate urlanti e sguaiate dentro la cattedrale metropolitana di Siena vestite non tanto in modo indecente, ma proprio mezze nude. Il filmato qui riportato mostra in primo piano le donzelle che attraversano la navata centrale in mutande a pancia scoperta.

Ovviamente mi sono dovuto sorbire le ire e gli insulti del più gretto provincialismo senesota formato da contradaioli che se fermati e interrogati non saprebbero recitare il Padre Nostro dall’inizio alla fine; soggetti che rimarrebbero ammutoliti dinanzi alla domanda: riesci a dirmi le prime cinque parole del Credo? Questo esercito social di persone che non sanno neppure da quale punto preciso del loro corpo partire per farsi il segno della croce, ha difeso a spada tratta queste spudorate dando del «volgare» e della «vergogna di prete a me» per avere osato — a loro dire — emettere un sospiro sul “sacro dogma” del Palio, di cui a me non interessa niente, come avevo spiegato in modo chiaro. Ciò che solo a me interessa è che delle giovani donne prive di comune senso del pudore non siano fatte entrare urlanti dentro una storica chiesa cattedrale in mutande a pancia scoperta, neppure se ha vinto la loro cosiddetta Contrada, di cui a me, come a qualsiasi altro figlio della orbe catholica, ripeto, non può interessar di meno, perché il rispetto del luogo sacro è di gran lunga superiore ai tradizionali ludi pagani del Palio di Siena.

15 agosto 2024, ingresso trionfale delle donne in mutande dentro la Cattedrale metropolitana di Siena per festeggiare la contrada vincitrice del Palio

Ecco perché non entro dentro le chiese storiche, con buona pace dei nostri vescovi che dinanzi a queste scene dissacranti si sfogano più che mai parlando di poveri e migranti, di migranti e poveri, oltre che di «Chiesa in uscita».

Il problema è che dalle chiese stiamo uscendo noi credenti, noi preti stessi animati da fede e solido spirito sacerdotale, per lasciare spazio alle mutande delle sfacciate che con i perizoma in mezzo al culo rimirano nella storica cattedrale quella grande sedia posta in bella mostra sul presbiterio, a noi nota come cattedra episcopale, sulla quale sale una tantum uno dei numerosi tizi che cerca di piacere e compiacere le Sinistre internazionali parlando di poveri e migranti di migranti e poveri, mentre dentro la sua chiesa cattedrale si passeggia con le culottes o il filo del perizoma messo in mostra nel bel mezzo del culo sotto pantaloncini trasparenti. Per questo è molto coerente che il Santo Padre abbia lanciato a suo tempo l’eccitante slogan della «Chiesa in uscita», dalla quale i primi a uscire sono proprio i credenti, a tutela e salvaguardia della loro fede, semmai dietro consiglio di noi preti stessi rimasti ancóra cattolici.

Io sarò tra quelli che non moriranno nel proprio letto, sicuramente morirò in carcere, mentre quelli dopo di me, i pochi che avranno conservata la fede, moriranno fucilati in piazza per aver affermato che un bambino può nascere solo da un padre e da una madre, mentre i clericali piacioni della «Chiesa in uscita» domanderanno perdono a tutte le Sinistre internazionali per il rigore di certi cattolici indegni privi di spirito inclusivo incapaci di stare al passo coi tempi, proprio come quei vili ecclesiastici che per aver salva la pelle e mantenere i propri privilegi giurarono fedeltà sul testo ateo e anti-cristiano della Carta Costituzionale di Francia durante la Rivoluzione.

Il filo del perizoma certe donne lo portano in mezzo al culo quando vanno a visitare le chiese storiche; certi ecclesiastici, il perizoma, lo portano invece stampato sulle loro facce mentre governano e gestiscono la Chiesa in modo tale da dimostrare di giorno in giorno quanto si vergognino profondamente di Cristo, scusandosi col mondo per lui e per il suo eccessivo rigore impresso sulle pagine del Santo Vangelo che racchiude al proprio interno tutto ciò che non piace al mondo, per questo è fonte di imbarazzo sempre più crescente per il clericalismo accondiscendente che desidera piacere, compiacere e vivere sereno.

 

dall’Isola di Patmos, 21 agosto 2024

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Gli affreschi omoerotici realizzati dal Sodoma nell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore sono peggiori della parodia dell’ultima cena fatta da gay e trans all’apertura delle Olimpiadi in Francia

GLI AFFRESCHI OMOEROTICI REALIZZATI DAL SODOMA NELL’ABBAZIA DI MONTE OLIVETO MAGGIORE SONO PEGGIORI DELLA PARODIA DELL’ULTIMA CENA FATTA DAI GAY E TRANS  ALL’APERTURA DELLE OLIMPIADI IN FRANCIA

L’onestà intellettuale impone di ammettere che immagini ben peggiori sono state fissate su affreschi e tele all’interno dei nostri luoghi sacri, con scene tali da far impallidire il teatrino dei gay e dei trans che hanno parodiata l’Ultima Cena all’apertura delle Olimpiadi.

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Nel 2019 scrissi e pubblicati un articolo che ripropongo oggi in seguito alle polemiche del tutto legittime sulla dissacrazione anti-cristiana fatta alla inaugurazione delle Olimpiadi in Francia, la cui cerimonia è stata mutata in un grottesco Gay Pride.

L’onestà intellettuale impone di ammettere che immagini ben peggiori sono state fissate su affreschi e tele all’interno dei nostri luoghi sacri, con scene tali da far impallidire il teatrino dei gay e dei trans che hanno parodiata l’Ultima Cena all’apertura delle Olimpiadi. Si pensi per esempio agli osceni affreschi omoerotici nel chiostro centrale dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore sui quali nessun pio abate, nel corso di oltre cinque secoli, si è mai sognato di far passar sopra della calce bianca, pur trattandosi di splendide pitture realizzate da Ugo Bassi, noto col suo nome d’arte che non a caso era Il Sodoma.

Dinanzi certi trionfi di frocismo nei nostri luoghi sacri, abbiamo veramente motivo di scandalizzarci come delle vergini vilipese, ferma restando l’offesa e la volgarità di quanto accaduto alle Olimpiadi?

dall’Isola di Patmos, 5 agosto 2024

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— attualità ecclesiale —

DAL SODOMA ALLO SPINELLO SINO AGLI ESERCIZI SPIRITUALI ALLA CURIA ROMANA, MENTRE NEL MONDO DELL’IRREALE NESSUNO SI RENDE CONTO CHE LA VITA MONASTICA È MORTA E CIÒ CHE NE RESTA È UNA PARODIA: «TU CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI»

L’Abate predicatore parlerà alla Curia Romana del sognatore Giorgio La Pira e del poeta Mario Luzi, come se la spiritualità fosse un sogno e la teologia poesia, come se il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, proclamato a gran voce santo non avesse mai scritta l’Enciclica Fides et Ratio, alla base della quale c’è il pensiero di un grande Abate Benedettino, poi Arcivescovo di Canterbury, Sant’Anselmo d’Aosta, che non viveva il rapporto con la fede tra sogni e poesia, ma spiegando che fides quaerens intellectum [la fede richiede la ragione] e precisando: «credo ut intelligam, intelligo ut credam» [credo per comprendere, comprendo per credere]. Purtroppo il famoso cantante italiano Lucio Battisti è morto da anni, altrimenti, per i prossimi esercizi spirituali, forse il Cardinale Gianfranco Ravasi avrebbe proposto i testi meditati della sua celebre canzone Emozioni …

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Avanti il Concilio di Trento che tentò di porre freno alle derive del clero, molte abbazie versavano in condizioni morali disastrose. Di recente se n’è parlato in un saggio dedicato alla vita religiosa [cf. QUI]. Lo stato delle abbazie maschili, sul finir del XV secolo non era dissimile da quello desolante di molti monasteri femminili, specie in quelle dotate di ricchi patrimoni.

L’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, XIV secolo, eretta nella zona delle crete senesi

Un esempio tra i tanti: nell’architettura di molte storiche abbazie possiamo osservare delle costruzioni indipendenti, distaccate dal complesso monastico perlomeno di un centinaio di metri. Se domandiamo ai monaci che seguitano a vivere in quelle abbazie e monasteri — perché molte di queste strutture oggi non sono più abbazie e monasteri, altre non sono più abitate da monaci —, le risposte che ne riceveremo saranno disparate, ed in modo altrettanto disparato non sarà risposto il vero, perché spesso la verità brucia, soprattutto può risultare davvero poco edificante.

l’antica garçonnière degli abati più o meno rinascimentali

Giacché parleremo degli affreschi del chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, eretta nel XIV secolo nelle campagne delle crete senesi, come esempio prenderemo uno di questi stabili distaccati dal monastero e oggi indicato come porta d’ingresso. Nulla da dire che gli stili architettonici mutino nel corso dei secoli, ma che funzione aveva una torre distaccata dall’abbazia e non visibile dal complesso abbaziale, che si sviluppa su quattro livelli ed incorpora una struttura che partendo dal piano terra è sovrastata da due livelli superiori, il tutto su una superficie di oltre mille metri quadrati? Dobbiamo proprio credere che questo architettonico ben di Dio sia stato veramente creato solo come porta d’ingresso all’abbazia, oppure forse come fortilizio? Ma un fortilizio sarebbe tale se vi fossero delle solide ed alte mura di cinta, che in quella struttura non sono però mai esistite, dunque?

Dunque quella struttura era la residenza di certi gaudenti abati, divenuti tali per i buoni uffici di potenti famiglie o per questioni legate a precisi assetti politici, che essendo avvezzi condurre stili di vita affatto monastici, in quei locali avevano le proprie piccole corti, erano dediti alle battute di caccia, alle feste e via dicendo. Poi ogni tanto scendevano nel monastero, per adempiere all’occorrenza i loro uffici.

l’antica garçonnière degli abati più o meno rinascimentali

L’epoca di fine Quattrocento segnò una crisi dottrinale, morale e dei costumi preceduta circa tre secoli prima da altrettanta infausta epoca, quando nel XIII secolo il Sommo Pontefice Eugenio III indisse il IV Concilio Lateranense che sancì severi canoni contro i malcostumi del clero e dei religiosi. E fu in questa gaudente epoca rinascimentale che giunge da Vercelli presso la ricca e potente Abbazia di Monte Oliveto Maggiore un gaio personaggio: Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma [1477-1549].

Riguardo Il Sodoma, le successive storiografie vergate da pii religiosi tenteranno di precisare quanto fosse malizioso collegare il soprannome col quale il celebre artista è passato alla storia dell’arte con quelli che sarebbero stati i suoi gusti omosessuali. Si tentò persino di ricorrere ad un sofisma patetico affermando che il soprannome de Il Sodoma non aveva a che fare con la pratica della sodomia bensì fosse legato ad un’espressione dell’artista che nel suo dialetto piemontese era solito dire «su, ‘nduma», che significava «su andiamo». Diversamente da ciò che in seguito tentarono di affermare i pii critici per salvare l’onore non del Bazzi, ma quello delle strutture monastiche che questo sodomita se lo contendevano tra di loro, il celebre pittore e architetto aretino Giorgio Vasari [1511-1574], che fu suo coevo e conoscitore delle sue gesta, afferma che l’origine di siffatto soprannome derivava proprio dalla sua omosessualità. Il Vasari precisa che quella del Sodoma era anche una omosessualità per nulla celata, tutt’altro: era esibita in modo ostentato e sfacciato.

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma: Cristo legato alla colonna per la flagellazione

Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma si sposò in gioventù, ma molto presto si separò dalla moglie. Chissà se pur a tal proposito qualche pio critico d’arte — convinto che nessuno conosca il diritto canonico e la disciplina dei Sacramenti —, possa affermare che questa separazione era dovuta a pura incompatibilità caratteriale. Come se sul finire del Quattrocento separarsi dalla moglie e darsela a gambe fosse quanto di più ovvio potesse accadere?

La gaia ricerca del bello che in questo artista trascende nell’omoerotico, è una caratteristica della pittura del Sodoma, basti analizzare la figura davvero eclatante del Cristo legato alla colonna ubicata in un angolo del chiostro centrale dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore prima della porta d’ingresso interna alla cattedrale abbaziale. Immagine questa sufficiente per valutare se Cristo legato alla colonna può avere quell’aria sensuale da maschietto ammiccante. Ma per la carità divina, si guardi con attenzione l’aria e la posizione sfacciata di quel Cristo alla colonna ritratto dal Sodoma: non vi ricorda forse certe immagini del celebre film Un uomo da marciapiede, con l’allora giovane Jon Voight nei panni del provinciale texano che giunto a New York pieno di sogni finisce poi appoggiato ad un palo della strada a fare marchette?

 la storica locandina del celebre film Un uomo da marciapiede, con il giovane Jon Voight appoggiato al palo nel ruolo del marchettaro

Il Sodoma, in quel luogo di apparente quiete, nonché di religiosità ancor più apparente, forse il segno lo ha lasciato non solo negli affreschi, ma anche nell’aria, ed attraverso i secoli! Infatti, la splendida natura che circonda quell’abbazia altrettanto splendida con tutte le opere d’arte architettoniche e pittoriche, incluse le pitture omoerotiche, suppliscono da secoli alla carente mancanza di religiosità; cosa questa che non affermo io, perché a provarlo è la storia. Basterebbe porsi solo questa domanda: dal 1313 ad oggi, quanti sono i monaci della Congregazione Benedettina Olivetana che nei successivi settecento anni di vita sono stati beatificati e canonizzati? Si tenga presente che questa Congregazione, seppur giunta tra la fine del XV e la fine del XVII secolo a contare sino a 1200 monaci distribuiti in diverse decine di monasteri italiani, in sette secoli di vita ha dato alla Chiesa un unico beato, il proprio fondatore Bernardo Maria Tolomei [Siena 1272 — †Siena 1348], beatificato a tre secoli di distanza dalla sua morte. Poi, decorsi 661 anni, il Beato Bernardo Maria Tolomei fu infine canonizzato il 20 agosto 2009.

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto

Riguardo la canonizzazione di Bernardo Maria Tolomei sarebbe interessante verificare in che modo l’illustre agiografo benedettino belga Dom Réginald Grégoire [1935 — †2013], postulatore della causa, abbia infine reperito i documenti per portare avanti questa causa storica presso la Congregazione delle cause dei Santi, a ben considerare che per diversi secoli è stata lamentata proprio la oggettiva impossibilità di procedere con un processo di canonizzazione per la mancanza di necessaria documentazione storica, alla quale pare abbia infine supplito la agiografia (!?). Essendo però questa Congregazione dotata di un ricco patrimonio ed essendo annoverata tra le grandi aziende toscane che posseggono i più grandi appezzamenti terrieri, può essere che abbia avuto i mezzi per reperire infine le storiografie che per secoli non sono esistite?

 particolare dell’affresco grande

Di Bernardo Maria Tolomei ci sono stati forse tramandati memorabili sermoni e mirabili lezioni di spiritualità tenute ai propri monaci o altrettanti suoi testi di alta levatura teologica? A dire il vero, la raccolta delle sue lettere [cf. QUI] più che dello spirituale hanno il sapore degli scritti di un amministratore che organizza, dirige, impartisce direttive e che richiede a legati pontifici e vescovi concessioni e privilegi per i propri monasteri. Per quanto riguarda i testi sulla sua vita, a partire da uno dei più antichi [cf. QUI], essi sono una evidente accozzaglia di ordinarie leggende auree con le quali erano infiorettate alla metà del Seicento le vite dei Santi o dei candidati alla canonizzazione, il tutto attraverso stili precisi e ripetitivi, grazie agli agiografi che spesso riunivano assieme episodi, visioni e prove di virtù che emergevano tali e quali nelle vite di altre decine di santi o di candidati alla canonizzazione. E lavorando neppure di agiografia in agiografia ma di apografia in apografia, l’insigne agiografo benedettino belga ha infine mutato apografie stratificate nei secoli in una Positio super vitavirtutibus et fama sanctitatis. Dunque oggi, narrare le sante gesta di Bernardo Maria Tolomei, di cui non esistono scritti ed opere originali ma solo biografie postume, è come narrare la lotta di San Giorgio con il drago, canonizzando infine biografi e agiografi. Detto questo è bene chiarire, a coloro ai quali non fosse eventualmente chiaro, che i discorsi testé fatti non si basano su opinioni più o meno severe o addirittura ingenerose, ma su dati rigorosamente scientifici e non facili da smentire. 

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma

A puro titolo di indagine storica, vogliamo verificare quanti beati e santi sono stati invece donati, compresi anche alcuni Dottori della Chiesa, da altre Congregazioni religiose, in un lasso di vita molto inferiore alla Congregazione dei Monaci Benedettini Olivetani? Può una Congregazione monastica non donare alla Chiesa Beati e Santi in settecento anni? Sì, è possibile, quanto un gaio personaggio come Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma non si limita a lasciar la propria impronta solo negli affreschi del passato, ma anche nell’aria che impregna quelle mura, dal palazzotto d’ingresso che fu la garçonnière dei gaudenti abati rinascimentali sino allo stabile monastico popolato di svariati altri monaci non meno gaudenti. Se è vero il detto che «la bótte dà il vino che ha», la carenza di beati, santi, mistici e padri della spiritualità, è stata però compensata con altri talenti, a partire da quello di Dom Francesco Ringhieri [1721-1787], dedito in epoca barocca alle opere teatrali e definito dai critici come «Più eretico d’ogni altro frate tragediante in quel secolo» [si può consultare QUI, QUI, QUI].

Sempre parlando sul piano patrimoniale: nessun Abate di Monte Oliveto Maggiore ha mai avuto problema ad accogliere tra quelle mura ricche di uno spirituale estetico ma spesso vuote di Anima Christi, un nutrito esercito di figli del Sodoma simili all’incirca al povero Cristo sensuale e ammiccante legato alla colonna. Quando però l’Abate Dom Maurizio Maria Contorni [1986-1992], in precedenza già economo generale della Congregazione, fu coinvolto nell’avallo di operazioni finanziarie che comportarono la perdita di svariati miliardi delle vecchie lire, i figli del Sodoma non esitarono a destituirlo, perché sulla morale dei monaci sfarfallanti legati alla colonna si può soprassedere, ma sui soldi depositati presso la Banca del Monte dei Paschi di Siena non si può invece transige. Il tutto sebbene un Abate rimanga in carica fino a 75 anni d’età, quantunque rieletto dal capitolo generale ogni sei anni. A documentare il tutto è la cronotassi degli abati del Novecento, che fino al 1970 rimanevano in carica a vita, solo a partire dal successore di Dom Romualdo Maria Zilianti [1928-1946], con il suo successore Dom Angelo Maria Sabatini [1970-1986] subentra la prassi della rinuncia alla cattedra abbaziale al compimento del 75° anno di età.

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma, tra sacro, profano e scene da baccanali … alla destra sono raffigurati i familiari dell’Abate dell’epoca

Se oggi possiamo dirci cristiani lo dobbiamo ai figli di San Benedetto da Norcia che attraverso il monachesimo hanno prima salvato, poi diffuso la Cristianità nell’Occidente. Lo stesso lemma Europa, di cui San Benedetto è patrono, nasce come idea e concetto nel grande circuito delle abbazie benedettine, perché sono stati i figli di San Benedetto a creare l’Europa. E se oggi possiamo leggere e studiare la filosofia greca, la letteratura classica latina o conoscere le opere dei grandi Padri della Chiesa, se possediamo tante opere profane dai contenuti tutt’altro che cristiani, ivi incluso Valerio Gaio Catullo, lo dobbiamo proprio ai Monaci Benedettini, nati figli di San Benedetto, per poi essere ridotti secoli dopo ai figli del Sodoma.

A chi ha sempre nutrita grande venerazione storica e teologica verso l’Ordine Benedettino, strazia il cuore vedere oggi il monachesimo ridotto in simile decadenza. Purtroppo in questo mondo nel quale anche le notizie più scandalose nascono oggi per morire domani e lasciare spazio ad altri scandali, temo che in pochi si siano resi conto che a Montecassino, madre di tutte le abbazie dell’Occidente, un omosessuale incancrenito nei propri vizi sfrenati ha decretata la morte del monachesimo; ed oggi, ciò che ne resta, è un guscio vuoto, fatto di storiche abbazie — quelle che oggi sono sopravvissute — ricche di opere d’arte e di bellezze paesaggistiche, ma vuote della sostanza della fede e di quel glorioso monachesimo che a partire dal VI secolo la fede l’ha salvata e poi diffusa. Insomma: attenzione a lasciarsi sedurre dalle storiche cornici di quel bello e di quell’estetico che cela però il vuoto dello spirito e delle cristiane virtù, perché il Demonio, oltre ad avere straordinario senso estetico, canta meravigliosamente in gregoriano e “celebra i pontificali abbaziali” con grande eleganza esteriore, dopo essersi formato alla vita monastica saltando da una “amicizia particolare all’altra”. E oggi, tutti gli “amici particolari” di ieri, sono abati nelle varie abbazie, per non parlare dei monaci che le “amicizie particolari” le hanno suggellate col loro voto nei capitoli monastici e nel capitolo generale, vale a dire quanto basterebbe a pregare la misericordia di Dio per tutta la loro vita affinché possa preservarli dalle fiamme dell’Inferno.

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma.

La marcia funebre sul monachesimo, dopo tanti scandali avvenuti nelle abbazie e nei monasteri d’Europa l’ha infine suonata Dom Pietro Vittorelli, 191° successore di San Benedetto da Norcia, che si dilettava a condurre una vita di lusso in giro per l’Europa, a soggiornare in hotel costosi ed pagare ad elevato prezzo la compagnia di giovani gay con i soldi dell’Abbazia [cf. QUI, QUI, QUI, ecc …]. A questo va poi aggiunto pure l’uso delle droghe, per le quali ha avuto conseguenti problemi di salute costati all’Abbazia di Montecassino somme molto elevate quando per un periodo di tempo l’Abate si ricoverò in una clinica svizzera per disintossicarsi e per cercare di curare la propria dipendenza dalla cocaina. La cosa però più tragica è che costui non sia stato sottoposto a sanzioni canoniche e che non sia stato dimesso dallo stato clericale, tanto da risultare tutt’oggi nella cronotassi degli Arciabati di Montecassino e negli annuari della Conferenza Episcopale Italiana come «Abate Ordinario emerito» [cf. QUI] anziché come «destituito».

 le figure omoerotiche per nulla celate nella pittura “sacra” di Giovanni Bazzi detto il Sodoma

Con l’Abate di Montecassino la marcia funebre del monachesimo è giunta solo al finale, perché l’esecuzione è avvenuta in precedenza con scandali morali disseminati per le abbazie sparse per l’Europa. Certo, altri casi s’è riusciti a trattarli con riservatezza, dall’Abbazia di San Paolo fuori le mura, privata infine dello status di prelatura territoriale, per seguire con l’Abbazia di Grottaferrata, dove fu destituito l’Abate Dom Emiliano Fabbricatore, anche in quel caso ciò avvenne specie pel viavai notturno degli immancabili giovanotti a pagamento che andavano a sollazzare alcuni monaci viziosi, tanto che la Santa Sede — cosa invero rara — procedette a dichiarare invalide alcune ordinazioni sacerdotali di giovani monaci. Potremmo seguire col Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, struttura accademica della Confederazione Benedettina, alla quale più volte il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica [1999-2015], tra il 2007 ed il 2008 intimò che se non ripulivano il loro collegio interno dalle varie gaiezze e dalle numerose coppiette di fatto, la Santa Sede glielo avrebbero chiuso.

Per limitarci sempre e solo all’ambito romano: che cosa accadde all’Abbazia cistercense di Santa Croce in Gerusalemme, dove fu eletto abate un ex stilista milanese, anch’esso molto gaio, passato dal mondo della moda al monachesimo e divenuto in pochi anni monaco, sacerdote e infine abate estetico? Eppure, sul vicino Colle Aventino, si trova la Curia Generalizia dei Monaci Cistercensi, dove un decennio fa, all’epoca di certi fatti, risiedeva l’Abate Generale Dom Mauro Esteva i Alsina [1933 — †2014], la preoccupazione del quale era di impartire ossessive lezioni di galateo ai giovani monaci e di verificare che il refettorio fosse apparecchiato con le forchette ed i coltelli posizionati a giusta distanza alla destra ed alla sinistra del piatto, o che gli inchini fossero fatti secondo l’angolazione giusta, quasi che da essi fosse dipesa la sopravvivenza e lo storico onore dell’Ordine Cistercense. Possa oggi quest’uomo riposare in pace nella cripta dell’Abbazia catalana di Poblet e possa la misericordia di Dio perdonargli con un mite purgatorio tutti i gravi ed irreparabili danni da lui recati all’intero Ordine Cistercense durante il suo mandato di Generale svolto tra il 1995 ed il 2010.

particolare: efebo ammiccante

Per gli esercizi spirituali alla Curia Romana quest’anno è stato scelto dal Cardinale Gianfranco Ravasi e presentato al Pontefice un membro della Congregazione dei Monaci Benedettini Olivetani, Dom Bernardo Gianni, Abate dell’Abbazia di San Miniato al Monte in Firenze. Se nell’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore primeggia Il Sodoma, a San Miniato gli affreschi più pregevoli sono quelli di Spinello Aretino. La sostanza resta però la stessa, pur spaziando dall’arte del Sodoma a quella dello Spinello. E quest’ultimo — lo Spinello —, sarebbe stato particolarmente apprezzato dall’Arciabate di Montecassino Dom Pietro Vittorelli, che delle droghe era un gran cultore e consumatore.

L’Abate dell’Abbazia di San Miniato in Firenze è uno che sa parlare a questo mondo. Egli parla al mondo il linguaggio che piace al mondo. Infatti, gli esercizi spirituali, saranno improntati su sogno e poesia: il sogno del politico Giorgio La Pira e la poesia di Mario Luzi, la cui poesia, cristianamente parlando, non è certo quella dello scrittore e presbitero francese Michel Quoist [1921-1997]. 

le figure omoerotiche per nulla celate nella pittura “sacra” di Giovanni Bazzi detto il Sodoma

L’Abate predicatore, figlio del nobile Ordine di San Benedetto cui dobbiamo la sopravvivenza della Cristianità e la salvaguardia del patrimonio storico, filosofico e letterario, parlerà alla Curia Romana di un sognatore e di un poeta, come se la spiritualità fosse un sogno e la teologia poesia, come se il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, proclamato a gran voce santo, non avesse mai scritta l’Enciclica Fides et Ratio, alla base della quale c’è il pensiero di un grande Abate Benedettino, poi Arcivescovo di Canterbury, Sant’Anselmo d’Aosta, che non viveva il rapporto con la fede tra sogni e poesia, ma spiegando che fides quaerens intellectum [la fede richiede la ragione] e precisando: «credo ut intelligam, intelligo ut credam» [credo per comprendere, comprendo per credere]. Purtroppo il famoso cantante italiano Lucio Battisti è morto da anni, altrimenti, per i prossimi esercizi spirituali, forse il Cardinale Gianfranco Ravasi avrebbe proposto i testi meditati della sua celebre canzone Emozioni :

 particolare: efebo ammiccante che mostra il posteriore

«E chiudere gli occhi per fermare 
qualcosa che è dentro me 
ma nella mente tua non c’è 
Capire tu non puoi 
tu chiamale se vuoi 
emozioni » [Mogol-Battisti, 1970]

Sappiamo che dopo la tragedia giunge sempre la farsa grottesca che spazia appunto tra Il Sodoma e lo Spinello. Ragione in più per pregare e per purificarci durante questa Santa Quaresima, nel corso della quale, la più grande delle mortificazioni, resta la consapevolezza di non essere più credibili al mondo, ma di essere invece derisi dal mondo, specie quando per compiacere il mondo cerchiamo di parlare il linguaggio del mondo, dopo esserci svuotati di Cristo e del mistero della Croce, per riempirci di sogni e poesie … «tu chiamale se vuoi emozioni».

Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: la insistente ossessione del Sodoma a raffigurare il posteriore maschile che “si offre” e nel quale potremmo leggere la profezia sul postumo monachesimo decadente …

Una cosa è certa: l’arte non lascia il segno semplicemente sui muri, specie se certe immagini pittoriche sono la più realistica rappresentazione di chi certe mura le abita. Ovviamente, il quesito sul perché in settecento anni di vita i Monaci della Congregazione Benedettina Olivetana non hanno dato alla Chiesa beati, santi, mistici, teologi, dottori e padri della spiritualità, è una domanda puramente retorica, la risposta è infatti tutta contenuta nelle immagini omoerotiche che campeggiano negli affreschi realizzati dal Sodoma nel chiostro; ed al chiostro si giunge dopo essere entrati nel territorio abbaziale passando dal palazzotto usato un tempo come garçonnière dagli abati rinascimentali gaudenti. Nel Paradiso, invece, si giunge solo dopo essersi convertiti, pentiti e mondati dai peccati, non ci si giunge né coi sogni di Giorgio La Pira, né con le poesie di Mario Luzi. La Quaresima inizia con l’imposizione delle ceneri seguita dal monito «convertiti e credi al Vangelo», non comincia con l’invito a credere nei sogni e vivere le poesie 

 

dall’Isola di Patmos, 08 marzo 2019

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Facendo uso di segni visibili Gesù ci porta dal materiale allo spirituale

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

FACENDO USO DI SEGNI VISIBILI GESÙ CI PORTA DAL MATERIALE ALLO SPIRITUALE

Gesù proclamerà la beatitudine di chi crede senza avere visto: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto». La fede apre gli occhi e consente di risalire dal segno al suo significato profondo, dal dono al Donatore, dalla realtà materiale alla sua dimensione simbolica, dal pane materiale al «pane della vita»

 

 

 

 

 

 

 

 

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La lettura del Vangelo giovanneo ci mette in contatto col modo particolare che ha questo autore di narrare le vicende di Gesù. L’intento del singolare evangelista è quello di elevarci dal semplice fatto storico narrato al significato o mistero in esso nascosto. A lui si potrebbe applicare quel che scrisse Gregorio Magno riferendosi alla Sacra Scrittura: «Uno eodemque sermone dum narrat textum, prodit mysterium (Perché con una stessa parola mentre espone il testo enuncia un mistero)» (Moralia in Iob, XX,1).

L’esposizione di una domanda e talvolta il fraintendere tornano utili all’autore del Quarto Vangelo per compiere questa operazione ermeneutica. La Samaritana chiede a Gesù come possa attingere al pozzo senza un mezzo, la Maddalena domanda dove fosse stato posto il corpo di Gesù che non trovava più. I primissimi discepoli chiedono a Gesù: «Dove rimani?». Nella pagina evangelica di questa XVIII Domenica le domande sono addirittura tre: «Rabbi, quando sei venuto qua?»; «Che cosa dobbiamo compiere?»; «Quale segno tu compi perché vediamo e crediamo?». Ecco la pagina del Vangelo di cui vogliamo parlare.

«In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto qua?”. Gesù rispose loro: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. Gli dissero allora: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. Gesù rispose loro: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Allora gli dissero: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: ‘Diede loro da mangiare un pane dal cielo’. Rispose loro Gesù: “In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Allora gli dissero: “Signore, dacci sempre questo pane”. Gesù rispose loro: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”» (Gv 6,24-35).

Con il brano odierno il Lezionario ci introduce nel discorso sul pane di vita contenuto nel capitolo VI del Quarto Vangelo. Le annotazioni iniziali ci mettono in contatto con l’affanno delle folle che cercano Gesù. Se teniamo presente ciò che riferisce il v. 23: «il luogo dove avevano mangiato il pane, dopo che il Signore aveva reso grazie»; si comprende ciò che era rimasto impresso nella memoria della folla. L’aver mangiato pane abbondante è uno stadio iniziale, ma basta a mettere in movimento le persone alla ricerca di Gesù. La descrizione di questa è un po’ confusa, come a far percepire, attraverso l’affanno e l’ansia della folla, una incoativa ricerca di fede: prima vedono una sola barca, poi notano che Gesù che non vi era salito, quindi vedono arrivare altre imbarcazioni (vv. 22. 23). E quando finalmente lo rintracciano in Cafarnao la domanda «Quando sei venuto qua?» (Gv 6,25), mostra più un interesse sugli spostamenti di Gesù, come sia potuto sfuggir loro, che l’aver compreso il significato recondito del segno compiuto da Gesù. Il lettore è così spontaneamente invitato a chiedersi: «Cosa cerchiamo quando desideriamo incontrare Gesù?».

Le parole di Gesù mettono inizialmente a nudo questa ricerca che non va in profondità e si arresta sul limitare del bisogno soddisfatto: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26). Le folle non hanno capito il segno e la straordinaria novità che esso indicava e cioè che in Gesù si rivela la sovrabbondante gratuità di Dio che non è circoscritta al bisogno imminente, presente ora, ma conduce ad un futuro eterno. Ciò che dice Gesù è decisivo in proposito: «Mettetevi all’opera per il cibo che non perisce, ma che dura per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà» (Gv 6,27).

Il verbo utilizzato, ἐργάζεσθε, che significa lavorare, fare concretamente, guadagnare, richiama l’altra curiosa espressione di Gesù ricordata nel Vangelo di Giovanni: «fare la Verità».  La prima cosa che si aspetta da un uomo che viene messo a confronto col Cristo e con la sua parola è che egli «faccia la verità». Questa formula biblica non significa come si potrebbe pensare: vivere in conformità con la verità. «Fare la verità» comporta, nel Quarto Vangelo, tutto il processo di assimilazione della rivelazione portata da Gesù, il cammino del progresso nella fede; significa «far propria la verità» di Gesù, ascoltando la sua parola e contemplando la sua persona e le sue azioni. Così l’uomo entra progressivamente nel mistero di Cristo e diventa cristiano. Ma credere non basta. Il credente deve anche approfondire la sua fede. È ciò che Giovanni definisce con l’espressione: «conoscere la verità». Questa conoscenza profonda non si acquista in un giorno; essa si ottiene a poco a poco, col ritmo stesso dello sviluppo della fede.

Ecco allora che Gesù, secondo il modo proprio di narrare giovanneo, ci fa entrare nella comprensione profonda del segno compiuto, passando dal materiale allo spirituale, dal bisogno al desiderio di Dio, alla fede nel Cristo che dona il pane di vita eterna. Rispondendo, dunque, alla domanda delle persone su quali siano le «opere di Dio» da compiere (v. 28), Gesù non rinvia alle «buone opere», per esempio del digiuno, dell’elemosina o della preghiera. Non ci sono molte opere, ma una sola: l’opera della fede. La famosa diatriba fra la fede e le opere in San Giovanni è superata affermando che la fede è l’opera essenziale e necessaria. Essa dà il senso e l’orientamento alla sacramentalità delle azioni del cristiano. L’opera di Dio, ovvero ciò che consente a Dio di operare nell’uomo, è la fede, così espressa da Gesù: «Credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,29). E richiamando il tema del fare e della Verità, precedentemente accennato, nello stesso Vangelo Gesù aveva affermato: «Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,21).

La risposta di Gesù non viene recepita e compresa in profondità dai suoi interlocutori che gli chiedono di nuovo un segno che legittimi la sua autorità e li abiliti a «vedere e credere» (Gv 6,30). Per dare fondamento alla richiesta le folle citano l’episodio avvenuto durante l’esodo dei figli d’Israele dall’Egitto, quando il dono della manna legittimò l’autorità di Mosè (Es 16,4.15; Sal 78,24). Siamo ancora nell’ottica dei prodigi e del dono di scambio, come avviene fra i poteri di questo mondo, un’ottica aborrita da Gesù per cui chi ha visto i suoi segni vuole farlo re (Gv 6,14-15). Ma alla logica del «vedere per credere» delle folle, Gesù oppone di fatto il «credere per vedere». Non dirà forse a Marta: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?» (Gv 11,40)? A Tommaso che afferma: «Se non vedo, … io non credo» (Gv 20,25) Gesù proclamerà la beatitudine di chi crede senza avere visto: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). La fede apre gli occhi e consente di risalire dal segno al suo significato profondo, dal dono al Donatore, dalla realtà materiale alla sua dimensione simbolica, dal pane materiale al «pane della vita» (Gv 6,35), il «pane vero» (Gv 6,32), il «pane di Dio» (Gv 6,33), il pane che non è frutto della terra, ma «che discende dal cielo» (Gv 6,33).

Gesù chiarisce allora per mezzo di una sua affermazione di fede, la quale opera un passaggio dal passato al presente, dai fatti dell’Esodo all’oggi, e rivela chi dona il Pane, quello vero, che è Gesù il Cristo: «Non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane del cielo, quello vero» (Gv 6,32). Dio che per Gesù è «il Padre mio» (Gv 6,33) non «diede», come in passato, ma finalmente «dà» oggi e sempre questo pane. Questo è il punto culminante dove Gesù svela l’opera di Dio Padre che si compie in Lui e che la manna del deserto sinaitico prefigurava. E la rivelazione è che questo pane è il Cristo stesso: «Io sono il pane della vita». La pericope evangelica di questa domenica si arresta qui, su questa autorivelazione: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai» (Gv 6,35).

Il padre latino Sant’Ambrogio (339-340 – 397), commentando il Salmo 118, così si esprime:

«Sta a te prendere questo pane. Accostati a questo pane e lo prenderai. Se ti allontanerai da Cristo, morirai, se ti avvicinerai a Cristo, vivrai. Questo è il pane della vita: dunque, chi mangia la Vita, non può morire. Come potrà morire chi ha per cibo la Vita? Come potrà venir meno chi avrà la Vita per sostentamento? Accostatevi a Lui e saziatevi: Egli è pane. Accostatevi a Lui e bevete: Egli è la sorgente. Accostatevi a Lui e lasciatevi illuminare: Egli è la luce. Accostatevi a Lui e lasciatevi liberare: infatti dove c’è lo Spirito del Signore, lì c’è la libertà. Accostatevi a Lui e lasciatevi sciogliere dai legami: Egli è la remissione dei peccati. Vi domandate chi Egli sia? Ascoltate quello che lui stesso dice: “Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame, chi viene a me non avrà più sete”».

 

Dall’Eremo, 4 agosto 2024

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Padre Ariel ha citato la Santa Sede e l’Ordine delle Monache Domenicane dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: «Sono una monaca perché tale mi sento»

PADRE ARIEL HA CITATO LA SANTA SEDE E L’ORDINE DELLE MONACHE DOMENICANE DINANZI ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO: «SONO UNA MONACA PERCHÈ TALE MI SENTO»

L’oltraggio omofobico della Madre Priora: «Reverendo Padre, lo storico manicomio di Santa Maria della Pietà, che si trovava qui, in questa nostra zona, a Monte Mario, è stato chiuso definitivamente nel gennaio del 2000. Mentre noi, come monache domenicane, non possiamo fare niente per lei».

– Leggerezze estive dei Padri de L’Isola di Patmos –

AutoreTeodoro Beccia

Autore
Teodoro Beccia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Mentre Roma era avvolta da una cappa di calore e il termometro segnava 40°, il nostro Padre Ariel S. Levi di Gualdo si è presentato al Monastero dei Santissimi Domenico e Sisto in Santa Maria del Rosario, che si trova a Roma nel quartiere di Monte Mario, per chiedere alla Madre Priora di iniziare il noviziato in vista della sua professione dei voti religiosi come monaca domenicana.

Padre Ariel si sente una monaca e come tale va accolta e rispettata

La Madre Priora è stata inizialmente molto delicata e ha cominciato col dire:

«Reverendo Padre, in effetti fa molto caldo in questi giorni a Roma. Quindi non bisogna preoccuparsi più di tanto dinanzi a eventuali azioni, reazioni o peggio pretese del tutto sconsiderate, perché in alcuni soggetti il caldo può giocare veramente brutti scherzi, persino nei presbiteri».

Niente da fare. Determinato più che mai si è messo a spiegare che ciascuno di noi, oggi, non è tanto ciò che è o che appare di essere, ma ciò che sente o percepisce di essere. A tal proposito ha portato l’esempio delle Olimpiadi in Francia, dove uno, una o une pugile algerino definito iperandrogina (vedere QUI, QUI) ha costretto una concorrente italiana a ritirarsi dalla competizione dopo pochi secondi, salvo essere letteralmente massacrata (vedere QUI, QUI, QUI, ecc…).

la pugile algerina Imane Khelif, indubbiamente e indiscutibilmente donna, come hanno spiegato molti giornalisti, dinanzi alla quale la concorrente italiana Angela Carini si è ritirata nel giro di pochi secondi dopo un solo cazzotto ricevuto da questa donna, indubbiamente e indiscutibilmente donna

Ormai spazientita la Madre Priora, sentendosi tra l’altro presa in giro da questo prete che pareva veramente fulminato nel cervello, ha sbottato:

«Reverendo Padre, lo storico manicomio di Santa Maria della Pietà, che si trovava qui, in questa nostra zona, a Monte Mario, è stato chiuso definitivamente nel gennaio del 2000. Mentre noi, come monache domenicane, non possiamo fare niente per lei».

A quel punto Padre Ariel è corso scioccato e piangente al Convento domenicano di Santa Maria Sopra Minerva per parlare con un anziano teologo di sua fiducia, Padre Daniel Ols. Dopo averlo ascoltato senza batter ciglio, l’anziano teologo ha fatto finta di niente, perché come risaputo i pazzi non vanno mai contraddetti. Con una scusa si è assentato e ha provveduto a chiamare il 118. Poco dopo è giunta un’autoambulanza della Misericordia a sirene spiegate con due infermieri nerboruti, uno dei quali aveva in mano una camicia di forza. Fuggito ai due prima che lo incartassero dentro quello strumento di contenzione, poco dopo ha chiesto asilo politico presso l’ambasciata LGBT del Muccassassina di Roma, dove è accorsa una squadra di avvocati friendly che in questo momento lo stanno aiutando per citare in giudizio, con accusa di discriminazione, la Santa Sede e le Monache Domenicane presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In conclusione: tra noi Padri de L’Isola di Patmos, capaci all’occorrenza a prenderci in giro anche da noi stessi e le Olimpiadi di Francia trasformate in un grottesco Gay Pride all’insegna dell’irrisione del Cattolicesimo (vedere QUI); evento nel quale si è tentato di far vincere a ogni costo il mondo dell’irreale, corre questa differenza sostanziale: noi scherziamo destituendo di serietà ciò che non può essere trattato come serio, perché non lo è. Per contro, invece, gli organizzatori di certi eventi olimpico-gallici vogliono imporre come vero e serio a tutti i costi ciò che rimane e che sempre rimarrà surreale e grottesco alla prova dei fatti. Per non parlare del pericolo, perché quello è tutto quanto un capitolo da trattare a parte, infatti, obbligare la società civile ad accettare le persone non per ciò che in realtà sono, ma per ciò che in modo del tutto surreale o capriccioso sentono o dicono di essere, è pericoloso, molto pericoloso …

Auguriamo una lieta estate ai nostri Lettori.

    Velletri di Roma, 2 agosto 2024

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Cari Cugini d’Oltralpe, stando così le cose, molto semplicemente, ridateci la Gioconda

CARI CUGINI D’OLTRALPE, STANDO COSÌ LE COSE, MOLTO SEMPLICEMENTE, RIDATECI LA GIOCONDA

Non mi straccio le vesti in nome del sacrilegio, non di questo si tratta. Le vesti me le straccio per l’aborto inserito in Costituzione. Terribile. In questo caso, teniamoci pure addosso le vesti, nonostante l’afa, e chiediamoci: cosa c’entra la carnevalata con le Olimpiadi?

Attualità

Autore
Anna Monia Alfieri, I.M. 
Cavaliere della Repubblica Italiana

             

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In sostanza è questo che ho pensato, quando ho visto, all’interno della cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi, il carro con la parodia, chiamiamola così, dell’ultima cena di Leonardo (cfr. Avvenire, QUI e QUI).

Non mi straccio le vesti in nome del sacrilegio, non di questo si tratta. Le vesti me le straccio per l’aborto inserito nella Costituzione Francese. Terribile. In questo caso, teniamoci pure addosso le vesti, nonostante l’afa, e chiediamoci: cosa c’entra la carnevalata con le Olimpiadi, cui prodest?

Si è voluto ribadire il carattere laico dello Stato? Laicità non vuol dire cattivo gusto o dissacrazione della cultura. Credo che si sia trattato di una brutta pagina della storia delle Olimpiadi e della Francia, in generale della cultura occidentale, visto anche il silenzio pressoché generale. Del resto tutti, mi correggo, quasi tutti — perché chi non è allineato con la cultura dominante deve stare zitto, pena l’accusa di essere oscurantista — hanno il diritto di dire la loro, indipendentemente dalla forma che è sempre sostanza.

Ancora un’altra considerazione, questa, lo ammetto, suoresca, del resto appartengo anch’io alla categoria: vedendo quelle immagini ho pensato a Carlo Magno, ho pensato alle pagine del Bossuet, così tanto amato dal Manzoni, ho pensato a Santa Teresa di Lisieux, ho pensato a Maritain, così apprezzato da San Paolo VI. Ma, soprattutto, ho pensato alla grotta di Lourdes che ancora attira pellegrini da tutto il mondo e che rimane segno di contraddizione per le intelligenze di tutti, anche laiche, quelle oneste, è ovvio.

Cari giovani, riflettete e rifiutate il cattivo gusto, l’ignoranza e il vilipendio della vera cultura che, per essere tale, è frutto di cuori e menti liberi e onesti. A noi che abbiamo ereditato tanta bellezza spetta il compito di custodirla e rispettarla. Se non ne siamo capaci, diamo ad altri il compito di farlo. Dunque, ridateci la Gioconda!

Milano, 1 agosto 2024

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