Cosa significa realmente farsi piccoli per entrare nel Regno dei Cieli?

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

COSA SIGNIFICA REALMENTE FARSI PICCOLI PER ENTRARE NEL REGNO DEI CIELI? 

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

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Un religioso che aveva un senso molto pratico delle cose e degli uomini mi ripeteva spesso che le società sono belle, in numero dispari, minore di tre. Il vecchio detto mirava a sottolineare che non appena le comunità si espandono di numero e in distribuzione territoriale subito nascono anche i problemi e, quindi, la necessità di ricavare regole per dirimerli o almeno arginarli. La pagina evangelica di questa domenica, che riporta alcuni detti di Gesù in tal senso, sembra infatti essere scaturita dalle difficoltà che si presentarono nelle comunità giudeo-cristiane sul finire del I secolo d.C. Ecco il brano evangelico:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”» (Mt 18, 15-20).

Ci troviamo all’interno del capitolo diciotto del primo Vangelo che riporta il cosiddetto “discorso alla comunità” introdotto dal gesto di Gesù di collocare un bimbo al centro dei discepoli e chiedere loro di farsi piccoli come lui per diventare «il più grande nel regno dei cieli»1. Di seguito l’invito a non scandalizzare il piccolo bambino e a non disprezzarlo, pena una fine miserevole giù per la ‘Geenna’ dove si giacerà come un oggetto abbandonato in discarica, mentre lui, il piccolo, avrà sempre in alto un angelo che rimirerà il volto di Dio Padre.

La preoccupazione di Gesù nasce dalla consapevolezza che le comunità cristiane, così come fu per il primo nucleo dei suoi discepoli, saranno attraversate da dinamiche relazionali e di potere che potranno ingenerare scandali i quali screditeranno l’esperienza cristiana non solo agli occhi del mondo, ma riusciranno a  indebolire anche i rapporti  all’interno delle stesse; in particolare nei riguardi di coloro che Gesù chiama piccoli e deboli, che necessariamente accuseranno più di altri certi comportamenti. Per Gesù nessuno dovrebbe sperdersi, soprattutto chi è in posizione di minorità. Infatti prima del brano odierno narrò la breve parabola della pecora perduta:

«Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda»2.

Ecco, allora, di seguito una specie di road map del comportamento da seguire in caso si presenti la situazione del peccatore che arreca scandalo e divisione. Nelle parole di Gesù si coglie l’eco di esperienze concretamente vissute nelle comunità ferite da certi peccati, le quali interrogarono i capi delle stesse al fine di formulare indicazioni improntate alla gradualità, alla discrezione e al rispetto verso tutti. Ma anche a fermezza, come sottolineato dal ripetersi per ben cinque volte di proposizioni condizionali, nel breve spazio di tre versi: «Se tuo fratello; Se ti ascolterà; Se non ascolterà; Se non ascolterà costoro; Se non ascolterà neanche l’assemblea». Testimonianze di una riflessione ecclesiale sui casi concreti verificatisi e della nascita di una pratica disciplinare con regole e limiti volti a impedire la disgregazione della comunità e che certi episodi si ripetano. Questa esperienza ha fatto maturare una prassi da seguire nel caso si presentino queste situazioni:

«Va e ammoniscilo fra te e lui solo; Prendi con te una o due persone; Dillo alla comunità; Sia per te come il pagano e il pubblicano».

Si tratta con ogni evidenza di quei peccati che minano la comunione nella comunità cristiana, dunque di colpe pubbliche e non solamente interpersonali. Perché in questo caso, se si trattasse di un problema sorto fra due persone credenti, l’unica via da percorrere sarebbe quella del perdono senza misura:

«Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: ”Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”». (Mt 18, 21-22).

Ma nel caso di una colpa pubblica che arreca danno alla comunione, nonostante la parabola di Gesù sulla pecora perduta e l’insegnamento sul perdono, la strada da seguire, fatto tutto il possibile e con la comunità posta con le spalle al muro, potrà giungere anche alla scelta dolorosa della separazione. Ne abbiamo un ricordo nelle parole di San Paolo che di vita comunitaria se ne intendeva:

«Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità. Ma voi, fratelli, non stancatevi di fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello»3.

E altrove:

«Vi esortiamo, fratelli: ammonite chi è indisciplinato, fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, siate magnanimi con tutti»4.

Come avviene dunque questa correzione fraterna se in una comunità un membro pecca («Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te ― Ἐὰν δὲ ἁμαρτήσῃ ⸂εἰς σὲ⸃ ὁ ἀδελφός σου»)? Nel testo greco troviamo il verbo ‘amartano – ἁμαρτάνω’ che ha il significato di errare, fallire e per estensione anche peccare e rendersi colpevole. Il v.15 contiene l’espressione ‘contro di te’ (εἰς σὲ), presente in molti testimoni del testo, ma assente in altri. A mio avviso, se teniamo per vero quanto detto sopra sulla differenza fra un peccato pubblico che mina la comunione ecclesiale e quello interpersonale, potrebbe trattarsi di un’aggiunta per armonizzare la presente frase con quella che Pietro rivolgerà a Gesù poco dopo e sopra riportata: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?»; un effetto abbastanza frequente fra i copisti. Se un fratello peccherà, quale sarà allora l’iter da seguire per una correzione veramente cristiana? Il cammino sarà svolto in tre passaggi. Innanzitutto la correzione personale, «fra te e lui solo», poiché se il fratello ascolterà e si ravvedrà il problema sarà risolto senza l’imbarazzo di coinvolgere altri. Se questo ascolto non si attiverà sarà necessario il coinvolgimento di due o tre testimoni, come già prevedeva il Deuteronomio: «Un solo testimone non avrà valore contro alcuno»5. In questo modo verrà garantito sia il diritto della persona accusata che la solidità della testimonianza portata su ‘ogni parola’ (lett. pân rhêma; il testo CEI ha: ogni cosa). Si rimane ancora a livello del dialogo e della possibilità di spiegarsi, quando la presa di parola nella Chiesa dà la possibilità di presentare le proprie opinioni e aprirsi ad un ascolto reciproco. Ma se anche in questo caso l’ascolto decade allora “dillo alla Chiesa”. L’ultima istanza sarà la comunità ecclesiale, l’assemblea locale. La correzione dovrà a questo punto svolgersi nel contesto allargato dell’intera comunità. Però, sia nel rapporto a tu per tu, che davanti ad alcuni testimoni o di fronte all’assemblea, l’elemento discriminante della correzione rimarrà la relazione e la capacità di ascolto. In altre parole quella libertà interiore, con l’umiltà e l’apertura che riconoscono la bontà del rimprovero mosso e che porta a rinunciare a difendersi contrattaccando o negando e rimuovendo il rimprovero.

Purtroppo il fantasma dell’ego aleggia sempre sulle nostre personalità o sulle nostre relazioni impedendo il vero ascolto dell’anima, sia la personale che quella comunitaria. Coi suoi tranelli, che sono i pensieri egoici, eserciterà un blocco che impedirà la cura e l’ascolto di queste anime e cioè quel ‘ritornare bambini’ di cui parlava Gesù, come sopra ricordato.

È a questo punto che le strade della comunità e del peccatore potranno separarsi. Quando anche l’ultima istanza della sequenza di correzione incontrerà il non ascolto Gesù dirà: «sia per te come il pagano e il pubblicano» (Mt 18,17). È interessante notare che con questa formula di esclusione venga accordato alla comunità un potere, quello di sciogliere e legare, che in precedenza era stato affidato al singolo Pietro (Mt 16,19): sciogliere e legare significano perdonare e escludere, permettere e proibire. La comunità, l’assemblea ecclesiale, è dotata del potere di ammissione o di esclusione, dove la scomunica sarà l’ultima scelta (cf. 1Cor 5,4-5)6, mentre il vero grande potere sarà quello del perdono. La correzione fraterna infatti mentre è rivolta al peccatore perché ne riconosca il bene è al contempo dono dello Spirito7 per la stessa comunità che mai dovrà arrivare a odiare il fratello, ma continuare ad amarlo mentre svolge il servizio della verità:

«Non odierai il tuo fratello nel tuo cuore, ma correggerai apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato contro di lui» (Lv 19,17).

La letteratura neotestamentaria, che riporta per forza di cose queste situazioni, è piena di indicazioni volte a considerare il peccatore sempre come un fratello:

«Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello» (2Tes 3, 15); «Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati» (Gc 5, 19-20).

Nonostante la possibilità della separazione, ultima ratio, nelle parole di Gesù persiste uno spazio dove è possibile ancora ritrovarsi e cioè la preghiera rivolta al Padre. Riprendendo infatti il detto rabbinico «Quando due o tre sono insieme e tra loro risuonano le parole della Torah, allora la Shekinah, la Presenza di Dio, è in mezzo a loro» (Pirqé Abot 3,3), Gesù lo trasformò ponendo la sua persona come centro dell’incontro: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Nonostante la separazione sarà dunque sempre possibile pregare insieme per qualsiasi conflitto. Paolo stigmatizzerà l’uso dei corinti di rivolgersi ai tribunali pagani per risolvere contese e liti sorte fra i cristiani: «È già per voi una sconfitta avere liti tra voi!»8. Perché chi crede in Gesù risorto e possiede il suo Spirito troverà sempre in Lui un luogo di incontro (cfr. il verbo sunaghein – synághein del v. 20: riuniti nel mio nome) e nella preghiera al Padre l’accordo; quel ‘La’ che darà di nuovo inizio alla sinfonia della fraternità fra i credenti (cfr. il verbo accordarsi, sunfoneo – symphonéo al v. 19).

In tutti i commenti ai brani evangelici della domenica che fin qui ho prodotto per i Lettori de L’Isola di Patmos ho tenuto come leitmotif di fondo il tema della fede in Gesù. Perché mi sembrava necessario, soprattutto nell’epoca attuale della Chiesa, non dimenticare quanto sia preminente ― non maggiore ma in armonia con le opere della carità ― la fede in Cristo risorto che rappresenta il vero ‘specifico’ cristiano. Quella fede in Gesù che apre orizzonti di senso, ci rende pieni di visioni, diventa capacità ermeneutica del tempo che ci è dato di vivere. A volte rischia di scomparire dall’orizzonte della Chiesa quando essa si pensa più grande rispetto a Gesù che si fa piccolo, come quel bambino collocato in mezzo ai discepoli di cui ha parlato all’inizio l’odierna pagina del Vangelo. E alla fine della stessa Egli si metterà di nuovo al centro fra i discepoli che vorranno ritrovare con la preghiera l’armonia dopo le contese. Se non si perderà o occulterà questo centro si avrà modo di vivere l’autentica fraternità. Fratello (adelfos – ἀδελφός nel v. 15) è infatti il termine col quale il Vangelo chiama ogni membro della comunità che è la Chiesa: «Voi siete tutti fratelli… perché uno solo è il Padre vostro» (Mt. 23, 8-9). La fraternità è probabilmente l’altro ‘specifico’ cristiano che mi sembra dobbiamo oggi recuperare: nel sentire profondo di ognuno, nel vivere quotidiano, dentro i mondi incontrati ed abitati, nelle relazioni e nelle interazioni, perfino in quelle virtuali dove le polarizzazioni sono diventate acute e nelle assemblee liturgiche che sono punto di arrivo e di ripresa della vita cristiana. La fraternità fu il primo manifesto che balzò agli occhi di coloro che incontrarono i discepoli di Gesù e fu riconosciuto come un loro tratto distintivo più e più volte rammentato nelle testimonianze scritte:

«Dopo aver purificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri» (1Pt 1, 22); «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35); «Siamo fratelli, invochiamo uno stesso Dio, crediamo in uno stesso Cristo, sentiamo lo stesso Vangelo, cantiamo gli stessi salmi, rispondiamo lo stesso Amen, ascoltiamo lo stesso Alleluia e celebriamo la stessa Pasqua» (Sant’Agostino)9.

Buona domenica a tutti!

dall’Eremo, 9 settembre 2023

 

NOTE

[1] Mt 18, 4

[2] Mt, 18, 12-14

[3] 2Tes, 3, 11-15

[4] 1Tes 5, 14

[5] Deut 19, 15: «Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni»

[6] «Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù, questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore»

[7] «Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu».(Gal 6, 1)

[8] 1Cor 6, 7

[9] Augustinus., En. in Ps. 54,16 (CCL 39, 668): «Fratres sumus, unum Deum invocamus, in unum Christum credimus, unum Evangelium audimus, unum Psalmum cantamus, unum Amen respondemus, unum Alleluia resonamus, unum Pascha celebramus»

 

San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).

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