Il “pieno compimento”, tra eresia marcionista ed ecumenismo a tutti i costi

IL «PIENO COMPIMENTO»
TRA ERESIA MARCIONISTA ED ECUMENISMO A TUTTI I COSTI

Non pensate che io sia venuto ad abrogare la legge o i profeti; io non sono venuto per abrogare, ma per portare a compimento. Perché in verità vi dico: Finché il cielo e la terra non passeranno, neppure un iota o un solo apice della legge passerà, prima che tutto sia adempiuto [Mt 5, 17-18].

 

Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

 

 

si si no no

si quando è si, no quando è no ...

Questo frammento del Vangelo di San Matteo è ricco di tali elementi che su queste poche righe potrebbero scriversi trattati enciclopedici solo per inquadrare gli argomenti diversi racchiusi in un unico contesto armonico: la rivelazione del Verbo di Dio fatto uomo. Si pensi a quanto potremmo parlare e discutere, oggi forse più di ieri, sulla sola frase che segue poche righe avanti: « Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno» [Mt 5, 37]. Superfluo dire quanto nella società ecclesiale di oggi sia invece difficile dire si quando è si e no quando è no, memori che il di più — ma a volte anche il di meno, se non peggio il “di niente”, per esempio l’omissione — proviene dal Maligno, per il quale il “di meno” e il “di niente” è terreno di semina, irrigazione, germoglio e infine mietitura.

Nunzio Galantino

S.E. Mons. Nunzio Galantino, segretario generale della CEI, in una posa ieratica durante la actio liturgica

Pensiamo solamente a quanto appare difficile all’interno della Chiesa odierna dire con chiarezza: questo è giusto e questo è sbagliato, questo è lecito e questo è illecito, perché così sta scritto nel deposito della fede rivelata. Il tutto non perché lo diciamo noi, ma perché lo insegna la Rivelazione, di cui noi siamo servi e strumenti devoti, fedeli annunciatori, non arbitrari padroni. E con ciò è presto detto qual genere di desolazione ci pervada quando si è costretti a udire vescovi pronunciare omelie nelle quali i nostri sommi sacerdoti parlano di reati contro la giustizia sociale con linguaggi da spiccia sociologia, senza più parlare di peccato o di dottrina sociale della Chiesa, per non parlare della mancanza pressoché totale di un corretto lessico metafisico. Cosa a dire il vero comprensibile, perché quando la Rivelazione e la teologia sua devota ancella devono tenere troppo in considerazione le esigenze mondane della società a cui si vuole piacere e mai dispiacere, per seguire appresso con le logiche dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso ridotto perlopiù a sociologia politica, può accadere che si tenti per logica conseguenza di avere in tutti i modi “la botte di vino piena e la moglie ubriaca”, come recita un nostro vecchio proverbio popolare.

Dire «si» o «no» risulta  così più difficile di quanto sembri, quando ormai si è perduto il nostro linguaggio naturale, che è appunto quello metafisico, oggi tragicamente sostituito con quello hegeliano-rahneriano. Così spesso finiamo col dire un po’ sì e un po’ no, o col sostenere che potrebbe essere si ma al tempo stesso anche no e, se tutto va bene, concludiamo con un “ni”, pur di non prendere decisioni a volte anche dolorose, dicendo con prudenza e carità quella verità che non può essere mai taciuta, posto che siamo chiamati a conoscere, servire e annunciare quella verità che ci farà liberi [Gv 8, 32], perché nessuno di noi è un “cristiano anonimo”, ma un fedele  oggetto e soggetto principe della Rivelazione e della Redenzione. Nessuno è per Dio “anonimo”, posto che Egli ci chiama a uno a uno per nome, avendoci voluti, pensati e amati prima ancora della creazione del mondo. In questo consiste l’insidia di certe derive eterodosse del gesuita Karl Rahner che oggi la fa da padrone assoluto nella maggioranza degli studi teologici: conferire una impropria e relativistica dignità salvifica all’ “anonimato”, attraverso il quale si finisce per rendere anonimo Dio, vanificando attraverso la sua velenosa teoria dei cosiddetti “cristiani anonimi” l’intero mistero della Redenzione.

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L’Arca dell’Alleanza contenente le Tavole della Legge

Questo frammento del Vangelo di Matteo contiene numerose ispirazioni di profonda riflessione che ebbi modo di approfondire anni fa in un mio libro [E Satana si fece Trino, cit. pag. 100-104]. Prendiamo la sola frase iniziale di questo passo evangelico: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento». È un terreno veramente minato, in parte insidioso quello che si apre all’orizzonte attraverso questa frase, perché addentrandosi in esso andiamo a toccare l’Antica e la Nuova Alleanza, il Vecchio e il Nuovo Testamento, l’antico Popolo di Israele e il nuovo Popolo di Israele nato dalla incarnazione, dalla morte e dalla risurrezione del Cristo Dio.

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Una edizione del Catechismo

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo queste parole [n. 121-123]:

«L’Antico Testamento è una parte ineliminabile della Sacra Scrittura. I suoi libri sono divinamente ispirati e conservano un valore perenne, poiché l’Antica Alleanza non è mai stata revocata. Infatti, l’economia dell’Antico Testamento era soprattutto ordinata a preparare […] l’avvento di Cristo Salvatore dell’universo.

Il Concilio Vaticano II precisa che «I libri dell’Antico Testamento, sebbene contengano anche cose imperfette e temporanee, rendono testimonianza di tutta la divina pedagogia dell’amore salvifico di Dio. Essi esprimono un vivo senso di Dio, una sapienza salutare per la vita dell’uomo e mirabili tesori di preghiere; in essi infine è nascosto il mistero della nostra salvezza» [Cf Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Dei Verbum, 14: AAS 58 (1966) 825].

tavole della legge

Tavole della Legge

I cristiani venerano l’Antico Testamento come vera Parola di Dio e la Chiesa ha sempre respinto energicamente l’idea di rifiutare l’Antico Testamento col pretesto che il Nuovo l’avrebbe reso sorpassato. Si tratta di una tesi ereticale portata avanti dal Vescovo Marcione di Sinòpe nel II secolo, il quale dette vita a quella eresia che prenderà poi nome di marcionismo. Inutile a dirsi: il discorso è a tal punto delicato che ogni parola, anzi, ogni sospiro andrebbe soppesato, specie in questi tempi dove sempre più spesso, all’uso delle parole corrette — che sono base imprescindibile fondamentale sia per esprimere la dottrina sia soprattutto per fare speculazione teologica, ovvero il corretto lessico metafisico — si sostituiscono “parole nuove” se non peggio esternazioni basate su impulsi dettati da correttezza socio-politica, altre strutturate su sentimentalismi buonisti sterili e fini a se stessi.

Chi di noi ha praticato un po’ gli studi giuridici, o più semplicemente per questioni anche pratiche personali ha avuto a che fare col libro delle successioni pro mortis causa — mi riferisco allo specifico al Codice di Diritto Civile del nostro Paese — sa bene, semmai anche sapendone poco di diritto, che il testamento valido è l’ultimo sottoscritto. Se prima di questo testamento ne sono stati sottoscritti altri, automaticamente non sono più validi. A meno che, l’ultimo testamento redatto, non sia inficiato da irregolarità e vizi tali da renderlo invalido, perché in tal caso fa fede il precedente. Ovviamente non siamo qui a discutere di rogiti notarili ma, visto che si parla di testamenti …

tempio di gerusalemme

Ricostruzione plastica dell’antico Tempio di Salomone

… noi siamo di fronte ad una Antica Alleanza che non è annullata dalla prima e ad una Nuova Alleanza che nasce da quella antica. Da una parte abbiamo gli ebrei con un Antico Testamento ed un’Alleanza Antica, dall’altra i cristiani con una Nuova Alleanza e con un Nuovo Testamento. Non è un problema di poco conto, anche se in modo troppo accomodante certi teologi e biblisti sostengono da anni che entrambi i figli delle due alleanze detengono il sacro patto, dato ai primi e mai revocato, ossia l’Antica Alleanza del Popolo di Israele; quindi dato ai secondi, ossia il Nuovo Testamento dei cristiani, la Nuova Alleanza. A tutto questo si aggiunge il Catechismo della Chiesa Cattolica dove si afferma: «l’Antica Alleanza non è mai stata revocata». Ce n’è quanto basta per essere confusi, specie se dinanzi a tutto questo i preti non fanno i pastori di anime che ammaestrano i fedeli; o se i teologi non fanno bene — ma soprattutto con fede — il loro mestiere di strumenti della teologia devota ancella della Verità Rivelata.

The Sermon on the Mount Carl Bloch, 1890

Carl Heinrich Bloch, Discorso della Montagna, olio su tela

Ciò che insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica è sacrosanto, purché sia adeguatamente spiegato, perché il compito del testo è indicare e talvolta schematizzare le verità di fede; mentre il compito dei devoti servitori della verità è quello di spiegarle, per evangelizzare ed istruire i fedeli alla corretta dottrina. La spiegazione a questo apparente dilemma sta tutta quanta in una sola parola che completa questa frase del Signore Gesù, perché con quella sola parola il Verbo di Dio ci offre quella spiegazione che molti — vuoi per eccessi di ecumenismo male interpretato, vuoi per fare dialogo interreligioso a tutti i costi e costi quel che costi — non vogliono però cogliere. Anche perché nel contesto del discorso del Vangelo di Matteo emergono due espressioni che sembrano davvero in contrasto e che tra di loro quasi stridono nell’originale testo greco. Da una parte il concetto di continuità con la Antica Legge: «Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire … [5,17]». Dall’altra, poco più avanti, una frase che pare un monito contenente una vera e propria rottura: «Avete udito ciò che fu detto agli antichi … ma io vi dico … [5,21ss.]». E dinanzi a tutto questo il problema non svanisce ma si complica parecchio. Anche perché, l’affermazione «ma io vi dico», va colta e interpretata secondo gli schemi lessicali della lingua aramaica parlata dal Signore Gesù: è un imperativo espresso con solenne autorità che nella costruzione della stessa frase ruota tutta quanta sull’«io». Cosa che equivale a dire: «È vero perché io lo dico, in quanto io sono prova stessa della verità». Detto questo proviamo a metterci adesso nei panni degli scribi e dei farisei, peggio ancora dei dottori della Legge, per capire come mai costoro accusarono più volte Gesù di bestemmia [Mt 26, 57-58], altre di agire in nome e per conto del Demonio in persona [Lc 11, 15-26], tanto incapaci erano a recepire il messaggio contenuto nel suo linguaggio.

compimentoLa soluzione al “dilemma” è quindi racchiusa tutta in una parola in apparenza così semplice da passare quasi inosservata a molti sapienti: «Compimento». Afferma Gesù: «Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti, non sono venuto per abolire ma per dare compimento». Il Signore, che è figlio dell’Antica Alleanza, nato ebreo tra gli ebrei e come tale circonciso e sottoposto dal devoto zelo dei suoi genitori a tutti i rituali previsti dalla Legge Mosaica, non porta semplicemente l’Antica Legge a compimento: egli stesso è il compimento fatto carne, quindi corpo e presenza viva, alpha e omega, perché il suo «io» è in verità incarnazione di Dio, quindi sua visibile presenza corporea.

oltre

Andare oltre …

Compire, che può essere tradotto anche come “superare”, “procedere oltre” o “completare”, non vuol dire annullare o cancellare, tutt’altro. L’Antico Testamento è stato propedeutico al Nuovo e come tale va colto e recepito in una dimensione di fede cattolica. Basti pensare alla figura di Giovanni il Battista, il Precursore, colui che dal deserto gridava: «Preparate le nuove strade». Quando il Verbo di Dio si fece carne non cancellò con la sua predicazione quella del Battista, anzi andò da lui e chiese e pretese di essere battezzato. E più volte, predicando, il Signore Gesù ricordò la figura eroica di questo grande uomo di fede che annunciava l’avvento del Messia: «Io vi dico, tra i nati di donna non c’è nessuno più grande di Giovanni» [Lc 7, 28].

foro

veduta dell’antico foro romano

Facciamo un altro esempio ancora, questa volta di carattere storico: dopo la caduta dell’impero romano nasce il medioevo che si articola in almeno tre diversi periodi storici, al termine del quale abbiamo il Rinascimento. Ebbene: il Rinascimento non nasce d’improvviso, tanto meno per caso, ma al termine di un’epoca che lo ha preceduto e in un certo senso preparato, quindi nel Rinascimento è racchiuso e vive anche il medioevo. Altrettanto il barocco, che al proprio interno contiene anche il medioevo e il rinascimento.
Sotto le case di molti centri storici italiani ci sono strati di fondamenta molto più antiche, sulle quali e grazie alle quali oggi sorgono le case visibile e abitate. Questo è ciò che nel linguaggio del Signore Gesù vuol dire portare a compimento. Il Signore Gesù non ha abolito la legge e i profeti, ma sopra le loro antiche fondamenta ha costruito il nuovo tempio di Dio, eretto grazie a quelle antiche fondamenta. E noi siamo grati e sinceri debitori a quelle antiche fondamenta, imprescindibili e indispensabili, grazie alle quali e sopra alle quali il Cristo ha eretto la nuova dimora dell’Altissimo; e dentro quella dimora noi viviamo, benedicendo in eterno e per sempre Cristo Dio che non ha abolito ma ha compiuto, dando vita al Nuovo Israele, al Vero Israele, senza nulla togliere alle fondamenta dell’Antico e del Vero Israele antico, che oggi non è più la casa, ma il fondamento sul quale si regge e si edifica la nuova casa, il tempio di Cristo che ha portato a compimento, senza abolire un solo iota dell’antica legge: «Finché il cielo e la terra non passeranno, neppure un iota o un solo apice della legge passerà, prima che tutto sia adempiuto» [Mt 5, 18].

areopago

raffigurazione della predicazione di Paolo all’areopago di Atene

L’Apostolo Paolo, cresciuto e formatosi nell’ambito della cultura farisaica, non si sottrae dall’affrontare il delicato rapporto tra l’Antica e la Nuova Alleanza. Nella Seconda Lettera agli abitanti di Corinto l’Apostolo precisa da una parte che «la nostra capacità viene da Dio che ci ha resi degni di essere ministri della nuova alleanza» [2 Cor 3,6], dall’altra che «fino ad oggi quel medesimo velo rimane non rimosso, quando si legge l’antica alleanza, perché è in Cristo ch’esso viene eliminato» [2 Cor 3,14]. Il tutto per spiegare in modo chiaro che ad essere rimossa non è l’Antica Alleanza ma il velo caduto sopra di essa e che dalla stessa sarà tolto per tutti coloro che credono in Cristo. L’Apostolo non manca di ricordare anche i privilegi dell’antico Israele scrivendo nella Lettera ai Romani: «Essi sono Israeliti, hanno l’adozione filiale, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Gesù secondo la carne» [Rm 9,4-5]. Tutti questi doni rimangono per sempre perché l’amore di Dio inteso come dono indelebile non è vincolato né dalle logiche né dalle risposte umane, ma dalla sua fedeltà all’Alleanza. Per questo «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» [Rm 11,29]. Dunque irrevocabili sono le Alleanze della storia biblica, come irrevocabile ed incancellabile è l’umanità ebraica di Gesù. In questo risiede il concetto stesso che delinea una differenza tra l’Antica e la Nuova Alleanza. L’Antica diventa Nuova in Cristo e non è né vecchia, né abrogata. La Nuova Alleanza fa rivivere l’Antica perché è realizzata col sangue di Cristo: «Questo calice è la nuova alleanza con il mio sangue versato per voi» [Lc 22,20]. O come chiarisce Sant’Agostino: «Il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico, mentre l’Antico è svelato nel Nuovo».

Tettamanzi

carnevale ambrosiano” – Il Cardinale Dionigi Tettamanzi ritratto durante una festa vicino ad una Signora mascherata da prete appartenente alla setta dei Vetero-Cattolici.

Queste sono le basi sulle quali si dovrebbe fare ecumenismo con aggregazioni nate da dolorose separazioni col nucleo cattolico che hanno preso vita infarcite delle peggiori eresie, per esempio il Protestantesimo. Il vero ecumenismo si fa partendo di rigore dalla consapevolezza che su questa terra Cristo Dio ha dato vita ad un’unica Chiesa affidata a Pietro, non ad una molteplicità di “Chiese” affidate ad un esercito di congregazioni protestanti suddivise in migliaia di diverse denominazioni, inclusi quei pentecostali dai quali tanti tristi spunti hanno preso certi gruppi cattolici di incontrollati e di incontrollabili carismatici e neocatecumenali. Chi poi avesse dubbi a tal proposito — inclusi alcuni vescovi e cardinali, teologi o biblisti, siano essi viventi come Gianfranco Ravasi o defunti come Carlo Maria Martini — basterebbe che pensasse alle sole parole della professione di fede in cui si proclama il nostro «credo la Chiesa una, santa cattolica e apostolica». Nel Simbolo di fede niceno-costantinopolitano non proclamiamo affatto la molteplicità delle “chiese”, che sono tutte «une» e «sante».

Più delicato ancora è il dialogo interreligioso fatto invece con fedi religiose estranee al nucleo originariounedi cristiano. In quel caso è necessario confermare sempre in modo deciso e rispettoso la nostra fede nel Verbo di Dio fatto uomo. Evitando in ogni modo di annacquare le nostre verità di fede per paura di offendere chi rifiuta e chi nega il mistero dell’incarnazione, della morte e della risurrezione di Cristo Dio, esercitando in modo del tutto legittimo, con tale rifiuto, quella libertà e quel libero arbitrio donato da Dio all’uomo contestualmente alla sua stessa creazione; perché l’uomo è da sempre libero di accettare o di rifiutare il mistero del suo Dio e Creatore, del Cristo Dio Redentore, dello Spirito Santo Consolatore che procede dal Padre e dal Figlio.

una santa cattolica apostolicaSi dialoga spiegando ciò in cui si crede e cercando di trasmettere nel migliore dei modi il nostro credo, non certo ridimensionandolo per andare incontro in modo compiacente a chi rifiuta con decisione — non di rado anche con aggressività distruttiva o con violenza omicida come certe frange islamiche — la Rivelazione del Cristo Dio. Un rifiuto che merita il nostro doloroso rispetto, proprio come Dio stesso ha rispettato con dolore le peggiori scelte ed i peggiori rifiuti liberamente operati dall’uomo e racchiusi sia nel mistero del peccato originale sia nel mistero della croce. Ciò che importa è che sia chiaro che rispettare chi rifiuta il Verbo di Dio fatto uomo non vuol dire certo approvare con gioia chi opera questo rifiuto che nasce a monte dal dramma della chiusura ad ogni azione della grazia redentrice.

Chi rifiuta Cristo Dio va dolorosamente rispettato, non approvato, non condiviso, meno che mai invitato a tenere conferenze ecumeniche nei nostri studi teologici e nei nostri seminari, all’interno dei quali andrebbero spiegati i pericolosi errori insiti — per esempio — nell’eresia protestante e di conseguenza nella sua teologia. Non andrebbero invitati certi studiosi all’interno di questi nostri centri di studio e di formazione per tenere conferenze, perché per quanto possano essere degne persone sotto tutti i profili umani e sociali, sul piano teologico sono infarciti di errori dottrinari e forse, proprio per questo, graditi presso vari atenei ed università pontificie nelle quali di fatto non si insegna più una teologia cattolica, nella migliore delle ipotesi si insegnano filosofismi e sociologismi religiosi elaborati sul linguaggio creativo ed arbitrario di certi teologi, anziché sul linguaggio universale del Magistero della Chiesa, del quale il teologo è solo strumento e fedele diffusore, non critico, non censore …

Assieme alla nostra intima e rispettosa disapprovazione per chi è in errore e per chiprostitute persiste nell’eresia, dobbiamo essere pervasi anche da un profondo senso di pena. Queste sono le basi metafisiche, sorrette dalla filosofia del senso comune [Cf Antonio Livi sulla Filosofia del senso comune]; queste le basi teologiche e pastorali sulle quali si dovrebbe fare ecumenismo e dialogo interreligioso, specie quando protagonisti di certi dialoghi sono vescovi e cardinali chiamati a custodire la fede, non certo ad annacquarla e svenderla per meglio piacere e per rimanere graditi a tutti; inclusi coloro che con fiero orgoglio seguitano indomiti a portare avanti ed a diffondere tutt’oggi le peggiori eresie in danno della Verità Rivelata, incuranti del chiaro monito che ci esorta ad essere perfetti nell’unità [Gv  17, 20]. E se l’unità è stata rotta non va certo benedetta la frattura e conferita dignità all’eresia che ha rotto l’unità della Verità. Il tutto sempre a prescindere dal fatto che il mistero della salvezza è tutt’altra cosa e che come tale è racchiuso nel cuore di Dio che solo è Giudice e che solo può decidere di accogliere nel proprio regno anche interi eserciti di eretici, senza dover chiedere il permesso ad alcun collegio di dottori della legge; cosa di cui, peraltro, ci ha dato chiaro monito per tutti i secoli avvenire, avvisandoci che «I pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno dei Cieli» [Mt 21,28-32].

Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Giovanni

Dialogo tra teologi: “La teologia come scienza”

DIALOGO TRA TEOLOGI:
«LA TEOLOGIA COME SCIENZA»

 

[…] per quanto riguarda poi la tradizione teologica protestante, per quanto Lutero, prima di essere scomunicato, fosse dottore in teologia regolarmente autorizzato e ci tenesse a considerarsi “teologo”, tuttavia non si può dire che il tipo di “teologia” avviato dal protestantesimo, e che oggi sta avendo un influsso nel mondo cattolico, sia una vera e propria teologia, nonostante l’attenzione alla Sacra Scrittura e le intuizioni teologiche molto profonde di molti maestri del protestantesimo e la straordinaria intensità dei loro studi e della loro erudizione.  Ma ci vuole ben altro per avere una teologia che si rispetti.

 

Autore Giovanni Cavalcoli OP

Autore
Giovanni Cavalcoli OP

 

Come il lettore saprà, di recente Monsignor Antonio Livi ha pubblicato un importante trattato che tocca molto opportunamente e con grande competenza questovera e falsa teologia argomento: Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”» [vedere presentazione video qui]. Un triste e scandaloso fenomeno che purtroppo oggi si nota nella cultura cattolica è il proliferare di persone: preti, religiosi e laici, uomini e donne, magari laureati in teologia presso qualche Facoltà Pontificia, ma che in realtà non sanno che cosa è la teologia; dal che si può immaginare i disastri che combinano. Nel contempo, se da una parte si notano certi laici, anche del popolo, madri di famiglia, giovani, operai, contadini, i quali, fieri della propria fede, hanno il discernimento di notare le eresie di cattivi teologi o pastori, per converso, purtroppo, ce ne sono altri i quali, forse insuperbitisi per il successo mediatico che ottengono, soprattutto giornalisti con indubbie qualità, ma privi di formazione accademica o di mandati ecclesiastici, si atteggiano a censori dal giudizio inappellabile anche contro teologi di professione da lunghi anni al servizio della Chiesa o della Santa Sede e si offendono se quei teologi si permettono di far loro qualche osservazione; come è successo anche noi tre che abbiamo dato vita a questa rivista telematica anche per non dover soggiacere a certi generi di censure [vedere qui, qui]. Che diremmo di questo comportamento posto in essere per esempio negli ambiti clinici legati alla salute fisica? E nel campo del sapere di fede o del bene dell’anima non bisognerebbe essere più umili ed ascoltare coloro che, anche se indegnamente, hanno un mandato ufficiale dalla Chiesa o una lunga esperienza pastorale, soprattutto se sacerdoti o vescovi? Per non parlare poi del mandato conferito al Sommo Pontefice.

Vito Mancuso, teologo, direttore collana “Campo dei Fiori” (Fazi Editore)

il teologo Vito Mancuso, degno del più profondo rispetto, ma non considerabile come un teologo cattolico

Scegliamo fra tutti l’esempio più noto ed evidente: quello di un Vito Mancuso, che nel suo libro sull’anima, venduto in 130 mila copie e regolarmente invitato da molti centri culturali cattolici, dottore in teologia presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, raccomandato dal Cardinale Carlo Maria Martini, dichiara in quel libro apertamente e, lasciatemelo dire, spudoratamente, che egli è “cattolico” e che “lo sarà sempre”, ma che nel contempo egli rifiuta quattro o cinque dogmi, perchè, a suo dire, sarebbero “contrari alla ragione”, diciamo meglio: alla sua ragione.  Del resto, mi domando: quanti teologi cattolici oggi ammettono, con metodo realistico e non soggettivistico, l’esistenza di una ragione universale ed oggettiva, propria dell’uomo come tale, alla quale la cultura europea ha creduto a partire da Platone ed Aristotele, e poi da San Tommaso fino a Kant, benchè quest’ultimo non ne riconoscesse adeguatamente il realismo e i presupposti empirici? Per tanti teologi di oggi, a causa di un malinteso pluralismo, non esiste quindi la ragione, universale ed immutabile, con salde certezze, ma ognuno ha la sua ragione, per cui ragiona come gli pare, ossia in base all’apparenza, od alla sua particolare cultura, in continua evoluzione, non quindi in base alla realtà in sè, esterna e indipendente dal pensiero: l’importante è farsi dei discepoli e che si parli di lui nei mass-media e nei circoli intellettuali. Parafrasando il famoso romanzo di Cronin: Le stelle stanno a guardare (1), potremmo dire con molto rammarico: «I vescovi stanno a guardare». San Tommaso e Kant parlano di “ragione speculativa”, anche se naturalmente in modo molto differente. Ne parlerà ancora Hegel, ma ormai in un senso panteistico e gnostico, che susciterà la giusta, anche se esagerata reazione del grande Kierkegaard, che da buon protestante ritroverà l’irrazionalismo esistenzialista ed occamista di Lutero.

tommaso

imagine pittorica raffigurante San Tommaso d’Aquino

Hegel parla ancora di “scienza” dell’Assoluto e riconosce che noi cogliamo la verità divina nel “concetto”. Egli però disprezza la teologia, che per lui si pone non nell’alto livello del denken, ma in quello basso e volgare della Vorstellung. Così la “Scienza assoluta” e il “Concetto assoluto”, di Hegel, idealisticamente identici al reale, sono talmente pretenziosi, che saranno rifiutati parimenti anch’essi da Kierkegaard. Per questo il Kierkegaard, spirito onesto e sincero amante della verità, si mostrò nel contempo un acutissimo critico delle imposture hegeliane, tanto che, come ha dimostrato Fabro nei suo studi interessantissimi, il filosofo danese è molto vicino a noi cattolici e allo stesso San Tommaso (2). Fatto sta che dopo Kierkegaard non si parla più di “ragione speculativa” a causa dell’avvento dello storicismo, del positivismo e dell’esistenzialismo, col loro caratteristico disprezzo per la metafisica e perla filosofia scolastica.

Alcuni, soprattutto tra i cattolici, continueranno a credere disinteressatamente nella verità, se non della ragione, almeno della fede, ma si avranno le varie forme di tradizionalismo, liberalismo, soggettivismo, fideismo, sentimentalismo, ontologismo e fenomenismo condannate dalla Chiesa dai tempi del Beato Pio IX e del Concilio Vaticano I a Pio XII. Infatti la fede è impossibile o falsa, se non esiste la verità razionale che fa da presupposto o da supporto. Per questo San Tommaso sostiene che una buona teologia si costruisce solo utilizzando una buona filosofia (3). La rinascita tomistica di fine Ottocento, preparata da una serie di notevolissimi e zelanti filosofi e teologi e fortemente sostenuta e promossa da Leone XIII e dai successivi Pontefici, fino al Concilio Vaticano II, che raccomanda espressamente il discepolato tomista, ha ridato credito nella cultura cattolica alla teologia come scienza o, come la chiama Antonio Livi, alla “scienza della fede”. È grande merito dell’Aquinate aver fondato la teologia cattolica come scienza (4), anche se la teologia è scienza in un senso speciale, diverso da quello di tutte le altre scienze. Infatti, mentre le altre scienze si fondano su princìpi razionali primi o sul senso comune, i princìpi della teologia cattolica sono dati della rivelazione cristiana, ossia le verità di fede o dogmi. Per questo Antonio Livi la chiama “scienza della fede”: non che la fede possa diventare scienza o che la scienza dimostri razionalmente i dati di fede, come credette di poter fare Hegel. Ma in quanto si tratta di una scienza connessa alla fede, ne costituisce o il presupposto razionale oppure è basata sulla fede e da essa discende, pur restando un sapere umano, capace di obbiettività e certezza (theologice certum), o addirittura di innalzarsi alla prossimità della fede (fidei proximum), soprattutto se si tratta di dottrine approvate o raccomandate dalla Chiesa (5), ma anche cognizione fallibile, che a volte resta limitata al livello della semplice opinione o probabilità.

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La locandina pubblicitaria del film dedicato a Duns Scoto

Questa alternanza di situazioni epistemiche, ora solide, ora precarie, dipende dalla difficoltà più o meno grande delle questioni affrontate. Laddove la materia è più alla portata della nostra ragione, la sua realtà è già stata esplorata e il metodo di indagine è più sicuro, i risultati sono più certi. Diversamente, ci si muove solo nelle ipotesi e in una pluralità di punti di vista a volte contrastanti, ma tutti legittimi, se l’ambito della verità naturale e del dogma viene rispettato. Il teologo può preparare inoltre il pronunciamento dogmatico del Magistero della Chiesa, quando raggiunge risultati molto solidi ed attendibili, in piena conformità alla Scrittura, alla dottrina della fede ed alla Tradizione. Tali risultati possono essere innovativi, sì da far avanzare la conoscenza della Parola di Dio. Tuttavia, una dottrina teologica, per quanto vera, sicura, saldamente fondata sul dato rivelato definito o non definito, non può essere oggetto di fede teologale, se non è la Chiesa che con la sua infallibile autorità la eleva alla dignità di dogma o comunque di verità di fede. Stando così le cose, bisogna distinguere accuratamente l’errore teologico dall’eresia, benchè un errore teologico possa condurre all’eresia. Per esempio, il concetto scotista dell’univocità della nozione dell’essere di per sè è un errore metafisico. Ma in quel grande teologo francescano di vita santa l’univocità è tenuta a bada da tali potenti correttivi, che essa è impedita nel dare i suoi frutti amari.  Applicata infatti in teologia, conduce a concepire la differenza fra l’uomo e Dio solo come divario esistente fra finito (uomo) e infinito (Dio) sulla base di un medesimo concetto dell’essere, dimenticando che l’essere della creatura è solo “analogicamente” essere (esse per participationem) rispetto all’essere divino (esse per essentiam). L’uomo non è un ente al quale, per avere l’essere divino, si aggiunga semplicemente una quantità infinita di essere, così che l’essere come tale si predichi univocamente dell’uomo e di Dio, ossia resti lo stesso con lo stesso significato. Invece, come dice il Concilio Lateranense IV, “tra il creatore e la creatura non si può dare una tale somiglianza, senza che non si debba affermare una ancor maggiore dissomiglianza” [ Cf. Denz. 806].

È vero che l’essere metafisico di Scoto è ancora solo l‘ens ut ens, l‘esse commune. Ma tra l’essere della creatura, univoco all’essere divino, per quanto si enfatizzi la distanza infinita, peraltro quantitativa e non qualitativa, e l’essere divino, resta in realtà solo una sottile parete, che sarà facilmente abbattuta dal panteismo spinoziano ed hegeliano nei secoli seguenti. Il rimedio apportato da Ockham con l’introduzione dell’equivocità, non servirà a nulla, dato che, se da una parte, col pretesto della libertà ed onnipotenza divine, si apre un abisso incolmabile tra l’uomo e Dio, quello che Kant chiamerà il “baratro della ragione” di luterana memoria e la ragione non conduce più a Dio, dall’altra l’essere divino non si concilia più con l’essere umano, sicchè nei secoli seguenti nascerà il terribile dilemma: o l’uomo espelle Dio ribellandosi a Lui e si avrà l’ateismo; o Dio assorbe in sè l’uomo che si fa identico a Dio e si avrà il panteismo.

Hegel

Ritratto d’epoca di Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Passiamo ad un altro aspetto del nostro tema. Certo, la teologia, in quanto discorso su Dio, non deve sempre proporsi la modalità scientifica, perchè certi suoi oggetti, come dimostra chiaramente la storia della salvezza narrata dalla Sacra Scrittura, sono fatti, eventi, luoghi o singole persone o gruppi agenti nello spazio-tempo, quindi una materia contingente, che non può assumere la forma della scienza, avendo essa per oggetto l’universale e il necessario. Per questo, taluni parlano di “teologia narrativa”. Infatti si può parlare di Dio narrando fatti, per esempio il fatto dell’Incarnazione del Verbo o dell’ascensione di Cristo al cielo. Tuttavia, poichè Dio Uno e Trino è Essere assolutamente necessario, eterno ed immutabile, principio universale di tutte le cose, e il necessario, eterno, immutabile ed universale è oggetto della scienza, ecco che la teologia, più che narrazione, è scienza; e, se essa narra, lo fa in relazione all’oggetto principale che è Dio, come rileva San Tommaso (6). La teologia certo racconta, ma lo fa o per condurci a Dio o per mostrare le opere di Dio. Il racconto fine a se stesso è storia, non teologia. Ancor più ci si allontana dalla teologia e dalla stessa verità, cadendo al limite nell’eresia, in quelle concezioni della teologia, ispirate a Hegel, nelle quali la storia finisce per invadere tutto il campo dell’essere e sostituire la metafisica, per cui nulla esiste di immutabile, ossia tutto è divenire, persino Dio. Inoltre San Tommaso, che pure è grande teologo speculativo, amante del concetto proprio e preciso, riconosce che la teologia, per il fatto stesso di usare l’analogia dell’essere, può e deve far uso della metafora (7), che è una forma di analogia, quando la mente avverte di non essere proporzionata all’immensità del divino: un linguaggio che del resto è comunissimo nel Vangelo. In tal modo il concetto preciso ed appropriato, proprio della scienza, si accompagna in teologia all’espressione metaforica, che di per sè sarebbe propria della poesia. Anche in questo sconfinamento nella poesia la teologia mostra di essere una scienza diversa dalle altre. Infatti qui concetto e metafora si illuminano a vicenda: il concetto illumina l’intelletto, la metafora sostiene l’immaginazione. Se per esempio diciamo che il peccato è un'”offesa” a Dio, chiaramente questa è una metafora, giacchè, parlando propriamente, ossia metafisicamente, da cosa può essere menomato o di cosa può esser privato l’Assoluto? Tuttavia, il paragone con le avventure dell’uomo, ci aiuta a capire il male del peccato.

rivelazioneAltra considerazione. Come sappiamo, esiste una teologia naturale e una teologia soprannaturale, che è la teologia cattolica, fondata sulla virtù teologale della fede, che nasce dall’ascolto della predicazione della Chiesa (fides ex auditu). Solo i princìpi del secondo tipo di teologia sono di fede, mentre quelli della prima sono di ragione e di senso comune. Invece il metodo di indagine e i procedimenti dimostrativi sono scientifici sia nell’uno che nell’altro caso. La teologia si costruisce attingendo a speciali fonti o valendosi di speciali mezzi epistemici o metodologici, i cosiddetti “luoghi (gr. topos) teologici” (8). Le fonti principali sono la Scrittura, la Tradizione e il Magistero. Fonti o strumenti o scienze ausiliarie sono una buona filosofia, la liturgia, la patrologia, la storia della Chiesa, la storia della teologia, il diritto canonico, l’agiografia, la storia dell’arte e della letteratura. La teologia è vera teologia, come spiega Antonio Livi, quando il suo metodo è corretto dal punto di vista epistemico, cosa, questa, che conduce all’ortodossia dei contenuti, così come la strada giusta per un certo luogo ci guida al luogo al quale intendiamo arrivare, benchè io possa in qualche modo conoscere questo luogo anche prima di arrivarci. Così similmente i contenuti della teologia hanno già un valore in se stessi, anche indipendentemente dal metodo col quale il teologo li ha stabiliti. Indubbiamente da un metodo sbagliato, come si è detto, non possono che nascere errori. Dal falso non esce il vero. Ma ciò non toglie che un teologo acquisisca o recepisca dottrine teologiche valide o per apprendimento da altri o traendo informazioni da colleghi di lavoro. Il criterio epistemico per stabilire il valore di una teologia è quindi duplice: occorre la correttezza del metodo e l’ortodossia dei contenuti, cosa che a sua volta si verifica seguendo due vie: controllo della bontà della filosofia della quale il teologo si è servito e verifica dell’ortodossia in riferimento agli insegnamenti del Magistero, il quale interpreta infallibilmente le due fonti della Rivelazione: Scrittura e Tradizione. Se la teologia di un dato autore passa a questi esami, allora, sempre secondo il nostro Autore, quella teologia è vera teologia (9).

Bianchi-Martini

il cardinale Carlo Maria Martini ed il dottor Enzo Bianchi

Quando Antonio Livi nega alle opere di certi autori che passano per teologi il vero carattere teologico dei loro scritti, naturalmente non intende necessariamente notarli di qualche errore dottrinale, ma semplicemente osservare che, stando alla rigorosa definizione di “teologia” da lui stabilita del resto sul solco della tradizione cattolica, non possono propriamente essere qualificati come “teologi”, anche se qui possiamo avere dei grandi nomi come Chesterton, Dostojevsky, Bulgakov, Berdiaeff, Guardini, Papini, Pascal, ecc., ma semmai possiamo qualificarli come “pensatori religiosi”. Per quanto riguarda poi la tradizione teologica protestante, per quanto Lutero, prima di essere scomunicato, fosse dottore in teologia regolarmente autorizzato e ci tenesse a considerarsi “teologo”, tuttavia non si può dire che il tipo di “teologia” avviato dal protestantesimo, e che oggi sta avendo un influsso nel mondo cattolico, sia una vera e propria teologia, nonostante l’attenzione alla Sacra Scrittura e le intuizioni teologiche molto profonde di molti maestri del protestantesimo e la straordinaria intensità dei loro studi e della loro erudizione.  Ma ci vuole ben altro per avere una teologia che si rispetti. Quello che manca infatti è un vero spirito sistematico, è l’assunzione di tutti i luoghi teologici, il rispetto della logica, un linguaggio preciso come si conviene alla scienza, un moderato uso dell’immaginazione ed dell’emotività. Da qui la facilità nel cadere in enormi confusioni o al contrario nell’opporre quello che andrebbe unito e armonizzato, per non parlare dell’arroganza con la quale vengono trattati non solo la tradizionale teologia scolastica, ma, come è noto, lo stesso Magistero della Chiesa.
Si direbbe trattarsi di una disastrosa confusione tra profetismo e teologia, che porta ad abusare dell’aspetto metaforico e allusivo del linguaggio profetico, che può essere certo suggestivo, ma senza un’opportuna vigilanza critica, una rigorosa concettualità e una metodologia teologica, si esce spesso dal sentiero della verità. Come stabilisce San Tommaso, la teologia è formalmente una sola scienza (10), benché materialmente e descrittivamente, anche per motivi didattici, comporti una molteplicità di diramazioni o discipline, le quali però fanno tutte capo all’oggetto principale, che nella teologia cattolica, è Dio rivelatosi in Cristo nell’interpretazione dogmatica del Magistero della Chiesa. Queste diramazioni o specializzazioni allora non si determinano in relazione a Dio, benchè si debba distinguere il trattato De Deo Uno dal De Deo Trino e dalla cristologia, ma piuttosto in relazione al creato, all’uomo ed al mondo e quindi all’agire di Dio nel creato e nella storia (magnalia Dei).

bonaventura

immagine di San Bonaventura di Bagnoregio, Dottore della Chiesa

Così avviene che oggi il campo delle discipline teologiche è talmente vasto e molteplice, che non esiste ormai più, come era ancora possibile nel Medioevo, un teologo accademico capace di spaziare su tutti i settori del sapere teologico, ma, al fine di avere una buona preparazione, chi vuol fare il teologo, soprattutto se accademico, deve necessariamente scegliere una particolare disciplina e specializzazione e limitarsi a quella, senza presumere di sentenziare nei settori dove non è competente. Una cosa simile avviene oggi per la medicina, dove, per i problemi seri, bisogna ricorrere allo specialista. In tal modo la prima divisione della teologia è fra teologia dogmatica o speculativa, che considera gli attributi divini e in generale le verità divine immutabili, come per esempio gli angeli, benchè presenti nella storia passata (protologia), presente (ecclesiologia, mariologia e sacramentaria) e futura (escatologia), oggetto di pura contemplazione, e teologia pratica, che considera l’agire umano. A sua volta questo ramo della teologia abbraccia la teologia morale, che tratta delle virtù; e la teologia spirituale, che tratta della perfezione cristiana sotto l’influsso dei sette doni dello Spirito Santo. Si parla qui anche di “teologia della perfezione”, “teologia mistica”, “teologia affettiva” e simili. La teologia morale a sua volta comprende la direzione dall’azione del popolo o del comune fedele e la direzione dell’agire o dell’opera educativa e formatrice dei pastori e delle guide del popolo. La prima è la teologia precettiva (comandamenti di Dio e della Chiesa); la seconda è la teologia pastorale. Siccome poi il dovere del pastore è pascere il gregge ed annunciare il Vangelo, da qui nascono rispettivamente la teologia canonistica (fondamenti teologici del diritto canonico e delle leggi della Chiesa) e la teologia dell’evangelizzazione.  Quest’ultima comporta varie tappe o momenti educativi. Il primo passo è il dialogo con ogni uomo ragionevole concernente la tematica religiosa (teologia del dialogo interreligioso e con i non-credenti); secondo passo è la dimostrazione della credibilità del cristianesimo e la sua difesa dagli attacchi degli increduli (apologetica o educazione alla fede); il terzo è l’istruzione sulla dottrina cristiana (catechesi); il quarto è l’inculturazione, ossia l’inserzione del messaggio evangelico nelle varie culture, dovutamente purificate alla luce dello stesso Vangelo; il quinto è l’attività ecumenica (teologia ecumenica).

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Monsignor Antonio Livi durante la visita del Santo Padre Benedetto XVI alla Pontificia Università Lateranense

Dato che compito della teologia cattolica è quello di far uso di una buona filosofia per interpretare la Scrittura e la Tradizione sotto la guida del Magistero, ecco che, sotto questo punto di vista, bisogna distinguere la teologia scolastica dalla teologia biblica. La prima, la teologia per antonomasia, teologia come “scienza della fede”, come dice la parola, è la teologia che si insegna nelle scuole cattoliche e negli istituti accademici ecclesiastici di ogni ordine e grado. La seconda, è l’indagine, con l’aiuto dell’esegesi biblica, dei grandi temi teologici della Scrittura, che poi sta al teologo sistematico ordinare ed organizzare attorno alle verità fondamentali della fede. Infine c’è da tener presente che ancora per un’altra ragione la teologia cattolica non è soltanto una scienza come le altre, ma, a somiglianza del profetismo biblico e sotto la guida dei doni dello Spirito Santo, è una sapienza, che suppone nel teologo non solo un semplice sapere intellettuale, ma un vero gusto e per così dire un’esperienza delle cose divine, che lo porta a giudicare di esse per una specie di affinità con esse, che San Tommaso chiama iudicium per modum inclinationis (11). La teologia scolastica è così strettamente imparentata con la teologia mistica, frutto dell’esperienza contemplativa di quella verità infinita, che è il Pensiero di Dio, del quale l’uomo è chiamato a partecipare quaggiù nella fede e dopo la morte nella visione beatifica.

Fontanellato, 28 ottobre 2014

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NOTE

(1) Edizione originale The Stars Look Down, 1935
(2) Vedi per esempio i saggi contenuti in Dall’essere all’esistente, Morcelliana, Brescia 1957.
(3) Sum.Theol., I, q.1,a.1.
(4) Vedi su ciò gli studi storici di Dominique Chenu.
(5) Per esempio certe dottrine fondamentali o principali (pronuntiata maiora) di San Tommaso d’Aquino.
(6) Sum.Theol.,I,q.1,aa.2 e 7.
(7) Sum.Theol.,I,q.1,a.9.
(8) Iniziatore di questo trattato, poi divenuto classico, fu il domenicano Melchior Cano con l’opera De Locis theologicis, Edizione di Venezia, 1776.
(9) Questo importantissimo tema dello statuto scientifico della teologia è sempre stato trattato dai tomisti, soprattutto della scuola domenicana. Tanto per fare alcuni nomi del secolo scorso: Garrigou-Lagrange, Maritain, Congar, Journet, Ramirez, Gagnebet, Gardeil, Spiazzi. Cf il mio libro Teologi in bianco e nero. Il contributo della scuola domenicana alla storia della teologia, Piemme, Milano, 2000.
(10) Sum.Theol., I, q.1,a.3.
(11) Sum.Theol.,I,q.1,a.5.