A proposito del Coronavirus: ogni pestilenza e pandemia ha sempre segnato nella storia dell’umanità un rinascimento: «A peste, fame et bello libera nos, Domine»

– pastorale sanitaria –

A PROPOSITO DEL CORONAVIRUS: OGNI PESTILENZA E PANDEMIA HA SEMPRE SEGNATO NELLA STORIA DELL’UMANITÀ UN RINASCIMENTO: «A PESTE, FAME ET BELLO LIBERA NOS, DOMINE»               

 

All’approssimarsi di una malattia particolarmente estesa, tale sembrerebbe infatti essere il Coronavirus, oggi non discutiamo più riguardo a untori, monatti, lazzaretti e crociferi: l’epoca del Manzoni è terminata da un pezzo. La discussione si inerpica, invece, su terreni ben più accidentati e insidiosi, che interpellano le responsabilità delle classi dirigenti al governo e le politiche immigrazioniste e sanitarie poste in essere per circoscrivere il contagio. E in questo panorama non mancano gli scaricabarili, i negazionisti radicali, i complottisti, o certi cattolici che invocano l’apocalisse imminente, per seguire con i cultori delle dietrologie più raffinate e via dicendo a seguire.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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«Se tu non guarisci tuo fratello che è malato, sei responsabile del suo sangue». La ospitalità come identità di una comunità sanante

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— pastorale sanitaria —

«SE TU NON GUARISCI TUO FRATELLO CHE È MALATO, SEI RESPONSABILE DEL SUO SANGUE». LA OSPITALITÀ COME IDENTITÀ DI UNA COMUNITÀ SANANTE. 

[…] molto tempo prima della frase di Papa Francesco sulla immagine della Chiesa come ospedale da campo, le prime comunità cristiane sono state sollecitate dallo Spirito Santo verso questa forma di cura e di assistenza nella forma dell’ospitalità. La Chiesa nasce come comunità ospitale – cioè ospedaliera – luogo accogliente in cui riconoscersi bisognosi di cure, di guarigione e di riconciliazione con Dio e i fratelli: «Per questo, è importante tendere la mano ai malati, far loro percepire la tenerezza di Dio, integrarli in una comunità di fede e di vita in cui possano sentirsi accolti, capiti, sostenuti, degni, in una parola, di amare e di essere amati. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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foto: Ivano Liguori, Ofm. Capp. Veglia di Pasqua, processione con il Lumen Christi nelle corsi dell’Ospedale Brotzu di Cagliari

L’Apostolo Paolo, ci invita a essere premurosi nella ospitalità con queste parole: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» [R 12, 1]

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Nel primo secolo d.C all’ingresso di alcune chiese vi era questo avviso:

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«Se tu non guarisci tuo fratello che è malato, sei responsabile del suo sangue» [cf. Beppino Cò Le 7 tappe spirituali della guarigione fisica, pg. 6 ed. Villadiseriane].

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Apro questo nuovo articolo partendo da questa suggestione che ho trovato in un libricino che tratta della guarigione fisica inserita all’interno di un percorso di risanamento spirituale. Pur non potendo verificarne la fonte storica in modo più preciso, quello che mi ha colpito di questa frase non è tanto l’invito alla guarigione del fratello o il riferimento al carisma stesso di guarigione, bensì l’affissione di tali parole reingresso di una chiesa.

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Riflettendo su questo, sono stato folgorato da questa certezza: la Chiesa è nata per essere comunità sanante, via santa dove liberarsi delle proprie infermità e gustare la salute e la salvezza che Dio dona premurosamente ai suoi figli. In questo è possibile vedere la realizzazione di quelle parole di profezia di Isaia:

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«Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore

e verranno in Sion con giubilo;

felicità perenne splenderà sul loro capo;

gioia e felicità li seguiranno

e fuggiranno tristezza e pianto» (cf. Is 35,10)

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È quanto mai necessario realizzare un cammino missionario che metta in crisi certe scelte odierne che spesso – come comunità dei credenti – preferiamo. Il magistero pontificio ci aiuta a fare chiarezza in tal senso:

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«Di fatto, la Chiesa nel corso dei secoli ha fortemente avvertito il servizio ai malati e sofferenti come parte integrante della sua missione e non solo ha favorito fra i cristiani il fiorire delle varie opere di misericordia, ma ha pure espresso dal suo seno molte istituzioni religiose con la specifica finalità di promuovere, organizzare, migliorare ed estendere l’assistenza agli infermi. I missionari, per parte loro, nel condurre l’opera dell’evangelizzazione, hanno costantemente associato la predicazione della Buona Novella con l’assistenza e la cura dei malati.» (cf. Dolentium Hominum, 1)

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Dobbiamo perciò prendere atto di come molto tempo prima della frase di Papa Francesco sull’immagine della Chiesa come ospedale da campo, le prime comunità cristiane sono state sollecitate dallo Spirito Santo verso questa forma di cura e di assistenza nella forma dell’ospitalità.

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La Chiesa nasce come comunità ospitale – cioè ospedaliera – luogo accogliente in cui riconoscersi bisognosi di cure, di guarigione e di riconciliazione con Dio e i fratelli:

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«Per questo, è importante tendere la mano ai malati, far loro percepire la tenerezza di Dio, integrarli in una comunità di fede e di vita in cui possano sentirsi accolti, capiti, sostenuti, degni, in una parola, di amare e di essere amati. Per loro – come per ciascun altro – contemplare Cristo e lasciarsi “guardare” da Lui è esperienza che li apre alla speranza e li spinge a scegliere la vita (cf. Dt 30,19)» (cf. Tarcisio Mezzetti, Accogliere lo stanco e l’oppresso, ed. Elledici, pag. 11]. 

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Inoltre:

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«Nella comunione con il Cristo morto e risorto, con colui che ha vissuto significativamente il dolore e la morte, la Chiesa diventa locanda ospitale, grembo accogliente dove la vita, nella sua interezza, è rispettata, difesa, amata e servita, luogo di speranza, dove qualsiasi pellegrino stanco e malato, ricercatore del senso di ciò che sta sperimentando, può vivere in modo salutare e salvifico il suo soffrire e il suo morire, e scrivere un capitolo significativo della sua storia di alleanza con gli altri e con Dio» [cf. Luciano Sandrin, Chiesa, comunità sanante, pg 77, Ed. San Paolo].

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La Chiesa non può rinunciare a questo tratto essenziale della sua identità, che rappresenta un modello si servizio essenzialmente terapeutico attraverso la diaconia della comunione ecclesiale.

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La comunione ecclesiale – per la Chiesa di ogni tempo – è la sfida più grande e difficile per generare un discepolato che sia conforme all’immagine di Cristo [cf. Rm 8,29]. La comunione ecclesiale costituisce di fatto certezza della presenza di Cristo, non solo segno della sua premurosa assistenza [cf Mt 18,20].

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Per essere in comunione tra noi – e quindi attivare le risorse per poter procurare la guarigione agli altri – è essenziale essere in comunione con Cristo, pacificarmi con lui.

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Madre Teresa di Calcutta, rivolgendosi al cardinale Angelo Comastri, era molto chiara a tal proposito: «Figlio mio, senza Dio siamo troppo poveri per aiutare i poveri!», volendo parafrasare queste parole secondo l’orientamento della nostra riflessione arriviamo ad affermare come: senza Dio siamo troppo malati per aiutare i malati!

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Gesù ci dona un suggerimento per guarire e capire se siamo arrivati ad essere in piena comunione con lui: l’amore vicendevole [cf. Gv 13,35]. Possiamo anche stupirci, ma non costituisce segno rivelatore della presenza di Cristo nel discepolo il numero di comunioni ricevute o di pellegrinaggi compiuti o di elemosine elargite, non perché queste cose non abbiano valore, anzi! Infatti nella scelleratezza umana, posso accostarmi alla comunione in stato di disordine spirituale, fare un pellegrinaggio con animo dissipato, oppure elargire elemosine per un tornaconto personale.

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Ma mai e poi mai riuscirò ad amare l’altro e a provare stima per lui se non sono in comunione con Cristo. Sarò facilmente smascherabile e preda delle mie debolezze se non vivo questa comunione nell’autenticità.

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Gesù ci sfida su un terreno dove è impossibile barare. Per questo motivo, la comunione ecclesiale costituiva il vanto e il tormento dei primi cristiani, il beato apostolo Pietro la raccomanda nel cammino dell’ospitalità: «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare» [cf. 1Pt 4,9], e Paolo nel cammino della stima vicendevole:

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«amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» [cf. Rm 12,10].

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La Chiesa ospedale, diventa luogo di accoglienza quando Cristo vi è accolto con tutte le premure; luogo di stima e di rispetto, quando ci riconosciamo figli beneamati dal Padre [cf. Mc 1,11].

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La terapeuticità della Chiesa è data dall’obbedienza alla Parola, come ho avuto modo di dire in un altro mio contributo, [cf. articolo, QUI], che mentre viene proclamata suscita la fede, aumenta la speranza, invita alla carità e produce benefici terapeutici. Dice l’evangelista Marco:

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«Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» [cf. Mc 16,20].

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Quest’affermazione che conclude il secondo Vangelo è un unicum in tutto il Nuovo Testamento, Cristo agisce insieme alla comunità dei credenti affinché nella comunione ecclesiale la predicazione scaturisca fruttificando con il dono della fede e delle guarigioni.

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Nella comunità cristiana post pasquale una delle manifestazioni più eloquenti della presenza del Risorto era costituita proprio dalle guarigioni – come ristabilimento fisico – e dalle liberazioni – come ristabilimento spirituale –.

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Stare nella Chiesa significa percepire chiaramente la presenza viva di Gesù che ci ricostituisce in salute affidandoci a una comunità che è resa dallo Spirito Santo capace di  custodirci dopo essere stati raccolti dal Signore.

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È l’immagine evocativa del buon Samaritano che Sant’Agostino riassume così:

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«Questa locanda sarà la casa dalla quale non migreremo finché, pienamente rifatti nella salute, non saremo giunti nel regno dei cieli» [cf. Sant’Agostino, Sermo, 131, 6, PL 38, 732].

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Sull’esempio del buon Pastore che lascia le novantanove pecore per cercare quella smarrita [cf. Lc 15,6], è necessario che tutta la Chiesa, nella sua componente laica e ministeriale, trovi e torni a cercare i malati con la freschezza e l’entusiasmo dei tempi apostolici.

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Una Chiesa veramente ospitale, dilata il suo grembo affinché i deboli, gli infermi e i denutriti possano ristabilirsi alla luce del Risorto. La Chiesa deve rispondere ad un imperativo divino: prendere per mano e accudire gli infermi in attesa di Cristo [cf. Lc 10,35].

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La Chiesa comunità ospitale e sanante, riunita attorno al Salvatore nella comunione ecclesiale, acquisisce uno stile pastorale che intende operare e interagire secondo la dignità del sacerdozio battesimale e ministeriale poiché

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«Nell’uno e nell’altro caso, il ministero si realizza come un carisma in stato di servizio, recepito dalla comunità: la ricchezza dei doni dello Spirito nel Corpo ecclesiale è tale che non soltanto la Chiesa intera viene a caratterizzarsi come una comunità ministeriale, ma le varie forme personali o anche comunitarie di ministerialità non esauriscono mai da sole le possibilità carismatiche di cui i credenti sono investiti da  colui che soffia dove vuole» [cf. Bruno Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione, pag. 304, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995].

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Il Cardinale Elio Sgreccia amplifica e definisce meglio queste parole, riferendole allo specifico della pastorale sanitaria:

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«È certamente più ecclesiale portare l’aiuto dell’evangelizzazione, della grazia sacramentale, della carità cristiana, del fatto redentivo ai pazienti attraverso sacerdoti, diaconi, religiosi/e, laici che non attraverso il solo cappellano. Al punto che, se anche i sacerdoti non mancassero, noi dovremmo preferire questa formula a quella che vede soltanto i cappellani operare nell’ospedale» [cf. Elio Sgreccia, La cappellania ospedaliera, un progetto di comunità pastorale, in Insieme per servire, 3 (1990), pag. 43]».

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Come all’interno della comunità cristiana nessuno – ma proprio nessuno – deve sentirsi in diritto di escludersi accudimento dei sofferenti: poiché questa esclusione apporterebbe una ferita mortale alla comunione, all’azione dello Spirito Santo, alla presenza reale di Cristo tra i suoi, all’anelito impellente di ogni uomo che – fin dai tempi di Abele – interpella la fede circa le ragioni della sofferenza, del sangue innocente, del dolore che ha il diritto di trovare un cuore accogliente e braccia spalancate.

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Cagliari, 25 maggio 2019

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I tumori più terribili e difficili da guarire sono le malattie che ci impediscono di essere testimoni di Cristo [IIIª riflessione: «La mancanza di perdono»]

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— Pastorale sanitaria —

I TUMORI PIÙ TERRIBILI E DIFFICILI DA GUARIRE SONO LE MALATTIE CHE CI IMPEDISCONO DI ESSERE TESTIMONI DI CRISTO 

IIIª RIFLESSIONE: La mancanza di perdono ]

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Partiamo da una constatazione banale: perché proviamo il rancore e non riusciamo a perdonare? Semplicemente perché riviviamo interiormente il male che ci è stato fatto, rimuginandolo nel nostro cuore. La memoria dell’offesa arrecata — in questo caso — non lavora più affinché si giunga a una risoluzione ma lavora per reiterare l’offesa, che nel tempo cronicizza e resta calcificata come ossessione nel nostro animo.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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le vignette di Gioba [Giovanni Berti, presbìtero veronese] originale in gioba.it  QUI

La terza patologia spirituale che tratterò è legata alla tendenza a non concedere il perdono facilmente, ed è assai diffusa. Essa non risparmia i fedeli laici come i consacrati. Così, da sacerdote dedito al ministero di confessore,spesso mi trovo a sondare questo aspetto all’interno della vita dei penitenti che s’accostano al prezioso Sacramento della riconciliazione.

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Assisto così il più delle volte ad una sorta di schizofrenia spirituale, infatti, se da un lato si vuole ottenere il perdono di Dio a qualunque costo — dato il proliferare delle tendenze misericordiste — questo desiderio non corrisponde però ad una concessione di perdono altrettanto voluta verso gli altri. La ricerca del perdono e la rigidità nel concederlo costituisce certamente un paradosso nella vita di molti uomini e donne che vivono la fede.

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Da confessore, devo ammettere che la realtà più dolorosa consiste nel prendere atto di come la mancanza di perdono difficilmente viene percepita come peccato da confessare, e a volte non viene neanche recepita come conditio sine qua non che rende conformi all’immagine di Cristo [cf. 1Pt 2,23]. Ogni giorno recitando la preghiera del Padre Nostro, siamo messi davanti a una clausola di perfezione ascetica che chiede a Dio di rimettere le nostre mancanze, nella misura in cui noi ci facciamo portatori di perdono verso coloro che ci hanno offeso. Dunque cerchiamo di stare attenti a ciò che chiediamo in preghiera, difatti Dio prende sul serio queste parole che non sono dell’uomo ma di Cristo, cosa questa che c’insegna la versione del Padre Nostro nel Vangelo di San Matteo che dice così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» [cf. Mt 6,12], quella del Vangelo di San Luca invece: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore» [cf Lc 11,4]. Le differenze sono minime, ma la sostanza non cambia: il cristiano si riconosce da come perdona, cioè dal modo in cui esercita la propria giustizia non secondo la logica del mondo ma secondo la logica del Vangelo [cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2838; Compendio n. 594].

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Il Padre Nostro è da sempre una preghiera problematica — è stato così per Sant’Agostino — ma tale problematicità non è sinonimo di impossibilità a realizzare ciò che chiede, semmai di resistenza alla grazia, ovvero indice di un cuore umano ammalato.

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Ci sono tante persone che dicono: «Io non perdono» oppure «Io perdono ma non dimentico». Sono frasi estrapolate dal loro contesto e dalla carica emozionale con cui vengono pronunciate, ma che racchiudono realmente una profonda verità. E con questa mia riflessione voglio cercare di rispondere proprio a queste due obiezioni.

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I. DIO PERDONA, IO NO: UN TRAGUARDO CHE SUPERA L’UOMO.

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Che l’uomo fosse un disastro nel perdonare lo aveva ben capito il Beato apostolo Pietro [cf. Mt 18,21-22], quando rivolgendosi a Gesù domanda fino a quante volte è lecito perdonare il proprio offensore. Pietro interroga Gesù sulla liceità di un atto morale previsto dalla legge, ma il maestro risponde capovolgendo in positivo la cifra della vendetta di Lamec [cf. Gn 4,23-24]: «Non ti dico fino a sette volte, ma a settanta volte sette». Con questa risposta spiazzante Gesù — tenendo presente tutta la valenza simbolica dei numeri sette e settanta — vuol far capire a Pietro che il perdono non è un atto morale che tocca l’obbligatorietà giuridica ma la grazia. La parabola successiva del servo spietato, illustra molto bene la vexata quaestio e la corretta ermeneutica del pensiero di Gesù espresso a Pietro [cf. Mt 18,23-35].

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Il perdono insegnato da Cristo ai discepoli raggiunge il suo vertice sul Calvario e vive della mistica dell’incontro col Padre autore della grazia e quindi del per-dono [cf. Lc 23,34]. Perdonare significa ritornare a Dio, permettere che lui ci renda nuovi. Il santo re Davide, consapevole di questa necessità di conversione e di rinnovamento nello spirito che indirizza verso il perdono, nel Miserere si fa portatore di una richiesta precisa «Crea in me, o Dio, un cuore puro rinnova in me uno spirito saldo» [cf. Sal 51,12].

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Il ricorso alla conversione, necessario per essere docili alla grazia e ammorbidire il cuore, ci permette di essere perdonati e di perdonare a nostra volta. Colui che perdona, infatti, è un graziato ed è consapevole di dover vivere in un perenne desiderio di conversione. Non basta una generosa volontà di sapore pelagiano per attuare pienamente il perdono. L’esperienza quotidiana insegna che, nella maggioranza dei casi, posso tentare di isolare l’offesa e l’offensore, forse anche tentare di dimenticare, ma questo non significa ancora perdonare.

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Sono solito dire ai penitenti che perdonare vuol dire avere, verso coloro che ci hanno offeso, il medesimo sguardo che Dio Padre ha verso di noi quando ci inginocchiamo davanti al sacerdote confessore. Significa fare l’esperienza autentica del Padre Misericordioso di Luca [cf. Lc 15,11-32], che concede il perdono, visto quasi come impossibile dal figlio minore, senza indugiare sulle motivazioni del ritorno e senza la costrizione di un ritorno stabile nella casa paterna. È proprio questo il modo corretto di esercitare il perdono cristiano, tanto da rafforzare la credibilità della nostra fede e della proposta che Gesù fa ad ogni discepolo [cf. C. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità, I-II, Bologna, EDB, 2009]. Non posso che condividere, a questo punto, l’ottimo pensiero di Alessio  Rocchi, quando afferma che:

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«Avere viscere di misericordia non significa essere smidollati, ma piuttosto disporre di un supplemento di forza (o di grazia, ndr). In questo senso il perdono è redenzione, non negazione o riduzione del male ma sua revisione. Non è miracolo non azione priva di fatica compiuta da un potente mago o da un onnipotente dio, ma dura prova di esistenza terrena, attraverso sguardi che (re)inseriscono in una relazione, mediante parole che (re)integrano in una storia» [cf. A. Rocchi, Il tempo del perdono, Aporie del perdonare tra filosofia e teologia, p. 97, IUSTO – Studi e ricerche, 2015].

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Proprio perché il perdono è un momento redentivo che riconduce a una relazione intima e nuova, esso si colloca come luogo teologico in cui è possibile vivere la novità promessa da Dio per bocca del profeta Isaia [cf. Is 43,19]; cioè vedere nascere una strada nel deserto in cui è possibile percorrere nuove situazioni, e in cui l’uomo può muoversi in piena comunione con il Padre senza la paura di sentirsi vulnerabile o nudo [cf. Gn 3,11].

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Perdonare significa costruire vie nuove, perciò il rapporto che si crea tra offeso e offensore non ha nulla a che fare con la relazione precedente il torto, ma è un rapporto trasfigurato in cui Dio si rivela. Studiando la dinamica del perdono a cui Dio invita l’uomo, siamo così ricondotti alla riflessione sulla dinamica escatologica della vita oltre la vita.

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Nel mio ministero di cappellano ospedaliero è prassi comune assistere i morenti e le loro famiglie. Il nodo più doloroso che il malato morente deve recidere prima del congedo definitivo è quello di concedere il perdono o di accettare il perdono. Una prova simile deve essere affrontata anche dalla famiglia del malato. Tralasciando in questa sede, le motivazioni e le cause scatenanti i debiti da condonare prima della morte, è necessario soffermarsi sul bisogno che il morente ha di morire riconciliato. Riconciliato con Dio e quindi riconciliato con i fratelli che ha offeso o che sono stati per lui motivo di sofferenza.

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L’episodio del Buon Ladrone detta il nostro approfondimento. I vangeli testimoniano come Gesù sia stato crocifisso tra due ladroni [cf. Mc 15,27]: sappiamo come il termine greco λήστοι [lèstoi] individui un criminale politico — oggi diremo un terrorista — piuttosto che un ladro o un delinquente generico. La situazione che si presenta sul Calvario agli occhi dei romani è chiara: l’esecuzione di due prigionieri politici insieme a Gesù visto come un sobillatore e un sovvertitore del popolo d’Israele. Ma ecco che nel pieno dell’agonia, uno di questi nemici di Roma, ormai prossimo alla fine, si rivolge a Gesù e — riconoscendo in lui il Signore e insieme bisognoso di conversione e rappacificazione per una vita di delitti, odi e rancori — esclama: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno» [cf. Lc 23,42].

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Queste parole che ci permettono di capire come

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«Il perdono venga – ancora una volta – insieme richiesto e offerto. A leggerle e rileggerle suonano come tre grazie. Grazie, ti chiedo grazie, ti chiedo perdono perché la mia vita non è stata un granché. Grazie, ti faccio grazie, ti perdono per la tua impotenza, per il tuo non scendere dalla croce, per il tuo non farmi scendere insieme a te. Ti grazio e ti accetto per quello che sei, mettendo da parte la mia delusione nei tuoi confronti. Ti faccio la grazia di non chiederti un miracolo, di non imprecare – e ne avrei molti motivi – sulla mia e sulla tua sorte. Questo malfattore crocifisso chiede di essere perdonato attraverso la domanda di un ricordo, sembra perdonarsi attraverso il riconoscimento della propria pena, decide di perdonare tacendo le proprie legittime maledizioni e zittendo le rivendicazioni miracolistiche del compagno condannato» [cf. A. Rocchi, Il tempo del perdono, Aporie del perdonare tra filosofia e teologia, p. 95, IUSTO – Studi e ricerche, 2015].

Il dialogo del ladrone pentito con Gesù si colloca nell’orizzonte della vita che non tramonta, di una speranza escatologica molto netta, di cui tutti abbiamo bisogno. È evidentissimo il desiderio che questo condannato ha di vivere, ed è altrettanto evidente in lui la consapevolezza che il morire senza chiedere e concedere il perdono, pregiudica la vita futura con l’aggravante della conclusione di una vita terrena dentro una tragicità non necessaria. L’unica speranza per non morire eternamente — nell’oblio, tra i fantasmi di una storia personale che dice violenza, distruzione e odio — è la benedizione che giunge con il perdono. Sebbene la morte si atteggi a signora — così come ricorda il cantautore Branduardi in una sua famosa ballata [cf. video QUI] — il perdono prima dell’addio vince sulla morte, e può essere già caparra di eternità, riscatto di un’esistenza rovinata, garanzia di guarigione verso se stessi e verso il prossimo. Del resto sarebbe paradossale che il cristiano iniziasse la nuova vita in Paradiso con diverse pendenze a suo seguito. Una vita piena [cf. Gv 10,10] è il sinonimo di una vita pienamente riconciliata, una vita a metà è al contrario l’espressione di un rallentamento che ci priva della comunione con Dio e con i fratelli, una frizione che dovrà essere ricomposta o espiata in altro modo.

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II.  BUONA MEMORIA PER PERDONARE

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Siamo sinceri, dopo aver ricevuto un’offesa è difficile metterci una pietra sopra. Molti desidererebbero mettere una pietra sopra l’offensore, ma questo non è civilmente e cristianamente accettabile. Esistono poi le persone che ci invitano a dimenticare e a far finta di niente. Costoro finiscono per essere consolatori inopportuni come i tre amici del saggio Giobbe [cf. Gb 3,ss], e non ci arrecano nessun buon servizio. Per questo motivo — come detto in precedenza — abbiamo bisogno della grazia di Dio insieme a una richiesta di preghiera costante ed esplicita, affinché il Signore guarisca la nostra ferita e ci doni il tempo necessario per giungere convertiti al perdono. Ma il raggiungimento del perdono include la capacità di una buona memoria, infatti dimenticare completamente l’offesa — opzione improbabile — ci priverebbe della possibilità di concedere il perdono e quindi di raggiungere la pace e quella benedizione che è garanzia per un nuovo inizio di vita.

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Partiamo da una constatazione banale: perché proviamo il rancore e non riusciamo a perdonare? Semplicemente perché riviviamo interiormente il male che ci è stato fatto, rimuginandolo nel nostro cuore. La memoria dell’offesa arrecata — in questo caso — non lavora più affinché si giunga a una risoluzione ma lavora per reiterare l’offesa, che nel tempo cronicizza e resta calcificata come ossessione nel nostro animo.

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Uno dei sintomi di coloro che non vivono il perdono è la sensazione di avere un peso nel cuore, e tale sensazione spesso viene trascinata per anni. Il filosofo Paul Ricoeur diceva:

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«l’autentico perdono non implica l’oblio degli eventi stessi, ma un modo diverso di significare un debito […] che paralizza la memoria e di conseguenza la capacità di ricreare noi stessi in un nuovo futuro» [cf. R. Kearney M. Dooley, Questioni di etica: dibattiti contemporanei in filosofi, Armando Editori, 2005, p. 40;  a completamento del pensiero cf. anche P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004].

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Questa fissazione della memoria sull’offesa è deleteria, quando la memoria deve concentrasi sull’offesa è solo per avviare un processo di liberazione che condoni, pezzo per pezzo, il torto subito.

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Alcune volte, per vincere l’ossessione insieme all’ansia del perdono non concesso, si ha la tendenza a sostituire il rancore con l’indifferenza, ma ciò è un falso rimedio. La medicina de «l’occhio non vede, cuore non duole», non solo non è cristiana ma diventa una modalità sottile e tremenda per condurre a morte il fratello esiliandolo dalla propria esistenza.

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L’insieme dei processi appena descritti ci aiutano a capire nell’insieme la frase: «non riesco a perdonare!». Realmente la persona è impossibilitata a perdonare, perché tale offesa si è indurita, sclerotizzata, non bastano più le medicine tradizionali ma urge l’intervento chirurgico. L’intervento d’urgenza consiste nell’associare la memoria alla presenza di Dio. Una parola che ricorre molto nell’Antico Testamento è «ricorda», il verbo che si collega direttamente alla memoria delle persone, delle cose e degli eventi. Ma per l’agiografo biblico, il ricordare si traduce in memoriale. Detto semplicemente il memoriale è il ricordare insieme a Dio.

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Fare memoria di quelle situazioni e di quegli eventi in cui Dio si è rivelato — e ancora si rivela — nella sua potenza, tanto da operare meraviglie a beneficio dell’uomo. Il memoriale perciò è più che far memoria, è ricordare attraverso la fede, ripristinare una ben definita identità teologica, che vede in Dio il riscattatore e nell’uomo una creatura da riscattare e redimere.

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Per perdonare da cristiano devo fare memoriale, cioè ricordare insieme a Dio, vedere con nitidezza le offese e le ferite, affinché si formi uno sguardo provvidenziale all’interno del quale lo Spirito di Dio — memoria viva della Chiesa [cf. Gv 15,26] — lavori affinché ogni offesa e ferita si traduca in occasione di lode. Facendo memoriale vedo nella persona che mi ha ferito, i lati positivi, le buone intenzioni realizzate, i propositi di bene naufragati, le immancabili contraddizioni e incoerenze. Riesco a vedere nell’offensore non più un nemico da combattere ma una persona bisognosa di aiuto perché anch’essa ferita e assetata di redenzione. Nel memoriale percepisco bene anche le mie responsabilità, mi assumo la consapevolezza di aver forse agevolato determinati comportamenti nell’altro e ridimensiono la tendenza a vedermi come capro espiatorio.

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Il memoriale è l’esame di coscienza con cui, come per Abramo, Dio mi permette di diventare intercessore verso chi si è reso ostile [cf. Gn 18,20-32], senza chiudere gli occhi davanti al male inferto e ricevuto e con la tendenza a far trionfare la giustizia misericordiosa di Dio.

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[fine della IIIª meditazione]

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Cagliari, 10 marzo 2019

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«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». XXVII giornata mondiale del malato

visita il blog personale di Padre Ivano

— Pastorale sanitaria —

«GRATUITAMENTE AVETE RICEVUTO, GRATUITAMENTE DATE». XXVII GIORNATA MONDIALE DEL MALATO

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Guardando all’esempio della Santa Madre Teresa di Calcutta, motivo ispiratore della Giornata Mondiale del Malato in quest’anno che si celebrerà solennemente a Calcutta, l’assistenza all’infermo può essere efficace solo se prima pieghiamo le ginocchia e impariamo a dialogare adoranti davanti al Santissimo Sacramento. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa
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Santa Teresa di Calcutta

Il tema della XXVIIª Giornata del Malato di quest’anno è incentrato sulla gratuità e sulla logica del dono, seguendo il riferimento evangelico del Vangelo di San Matteo [cf. 10, 8]. Nel suo messaggio di saluto il Santo Padre sottolinea come il dono della vita implichi il riconoscimento della gratuità e che la stessa cura e tutela della vita umana nel tempo della malattia si può svolgere solo nella donazione totalizzante della propria persona a somiglianza del Buon Samaritano [testo ufficiale, QUI]. Tale suggerimento del Pontefice ci permette di poter ampliare il discorso attraverso alcune riflessioni molto importanti.

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I

IL PRIMATO DEL DIO DELLA VITA

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Santa Teresa di Calcutta

Anzitutto, riconoscere la vita come dono significa riconoscerne il vero donatore che è Dio. San Giacomo, nella sua lettera, ci dice che «ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre» [cf. Gc 1,17], questo primo riferimento ci mostra bene come Dio, in quanto vero padre, è anche vero autore del dono della vita. Infatti, l’atto creativo di Dio, è legato intimamente alla sua paternità e tale atto non può essere compreso senza questa categoria. Il Dio di Gesù Cristo non assomiglia per nulla al freddo demiurgo presentato da Platone nel Timeo; non è neanche l’artefice dell’universo dei culti gnostici o il distaccato grande orologiaio tanto caro all’Illuminismo. L’atto creatore di Dio è un atto paterno ed egli crea comunicando se stesso, la sua paternità [cf. At 17,28].

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Da queste prime considerazione, è facile affermare come la vita implichi, per essere generata, di una figura paterna e materna — sebbene oggi quest’evidenza stia attraversando una crisi profonda —. La Sacra Scrittura, molto saggiamente, insegna che Dio si rende conoscibile all’uomo sia come padre che come madre [cf. Ef 3,14; Is 49,14-15].

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Il primato paterno di Dio su ogni vita, interpella l’uomo a diventarne il custode [cf. Gn 2,15; 4,9] e a tutelarla di fronte alla cultura dello scarto, della violenza e dell’indifferenza che è frutto dell’individualismo e della frammentazione sociale contemporanea.

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Santa Teresa di Calcutta

Il dialogo che il Santo Padre sottolinea esser necessario come presupposto del dono, non deve ridursi solo alla dimensione orizzontale della fraternità tra gli uomini, ma anzitutto deve raggiungere il verticalismo dell’incontro con Dio. È quindi necessario sollevare la testa verso il Signore per poter essere sicuri di vedere l’uomo per ciò che è, e così condurlo a salvezza.

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Il mistero dell’incarnazione è proprio l’esempio di come la relazione verticale divina si umilia per raggiungere l’orizzontalità della natura umana bisognosa di guarigione e risurrezione [cf. Fil 2,7]. Sicché il dialogo è fecondo, solo se accettiamo la sfida del dialogo con Dio e l’accoglienza del Verbo di Dio fatto uomo, che ci rivela la definitiva paternità di Dio datore di una vita in abbondanza [cf Gv 10,10]. Senza il dialogo con il Signore, il confronto tra gli uomini rischia di fermarsi all’utopia, all’ideologia politica, alla demagogia, alla logica dell’utilitarismo e del mercato, alla strategia aziendale, alle nuove dottrine etiche spersonalizzanti; e oggi purtroppo l’ambito della sanità paga lo scotto di questa tipologia di “pacati” e “fraterni confronti”.

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II

LA CHIESA, GREMBO MATERNO DEL DIALOGO E DELLA CURA

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Santa Teresa di Calcutta

È nella Chiesa che si attua il riconoscimento di quella fraternità che ci viene concessa nell’essere figli attraverso il Figlio. Se Cristo non si fosse fatto solidale con l’uomo fino al dono totale di sé, la condizione umana sarebbe stata caratterizzata da tante individualità smarrite e frammentate [cf. Mc 6,34]. È nella Chiesa che lo Spirito Santo — che è Signore e dà la vita — educa i figli di Dio all’unità e alla reciproca assistenza [cf At 4,32] e gli abilità a partecipare del dono della vita come rapporto fecondo con Dio e come collaborazione alla sua paternità. È ancora nella Chiesa che troviamo il grembo materno che ha nel fonte battesimale il luogo liturgico in cui gustiamo una nuova fraternità che risplende della dignità dei figli beneamati dal Padre [cf. Mc 1,11].

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La Chiesa, davanti al mondo, diventa perciò il vessillo di quell’amore prioritario e misericordioso che si rende concreto solo nell’obbedienza al comando del Figlio di Dio e nostro fratello Gesù Cristo: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» [Mt 28,18-20].

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Il mandato di Cristo, alla fine del primo Vangelo, lungi dall’essere propaganda al proselitismo, è garanzia di una continua assistenza fraterna alla Chiesa, è dono di grazia che dispone il cristiano a lasciarsi salvare e guarire imparando la docilità alla volontà di Dio che in Maria — Salus Infirmorum — ha il suo esempio più fulgido e sicuro.

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Cagliari, 11 febbraio 2019

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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I tumori più terribili e difficili da guarire sono le malattie che ci impediscono di essere testimoni di Cristo [IIª riflessione: La tiepidezza]

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— Pastorale sanitaria —

I TUMORI PIÙ TERRIBILI E DIFFICILI DA GUARIRE SONO LE MALATTIE CHE CI IMPEDISCONO DI ESSERE TESTIMONI DI CRISTO 

IIª RIFLESSIONE: La tiepidezza ]

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Molte comunità ecclesiali sono infestate da questo tipo di malattia: la tiepidezza. Tutto viene contaminato da questo morbo: le relazioni fraterne, la vita affettiva, l’aspetto economico, la scelta e l’elezione degli animatori della comunità, la vita liturgica, la carità … 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

 

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PDF  articolo formato stampa
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Fragilità, opera della pittrice romana Anna Boschini, tratta dal catalogo d’arte Mondadori, 2019 [cf. Vitarte GaleriaQUI]

Sfido i lettori de L’Isola di Patmos a non aver mai udito nell’ambiente ecclesiale — includendo gruppi di laici, comunità religiose, sacerdoti o ambienti curiali — l’espressione: «si è sempre fatto così».

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Questa frase, lungi dal voler salvaguardare la Tradizione — quella vera, non i tradizionalismi — è in realtà il pericolo più grande per la maturazione di una comunità ecclesiale. Dietro il «si è sempre fatto così», si nasconde il tranello che impedisce al cristiano di essere autentico testimone del Signore risorto.

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Ecco allora fare il suo ingresso la seconda malattia spirituale: la Tiepidezza. Si arriva a contrarre questa patologia quando prendiamo l’abitudine di fare le cose del Signore per routine. Così come insegnano i vecchi manuali di spiritualità, la tiepidezza può riguardare tutti sia gli incipienti che i perfetti.

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Sembra strano, ma spesso possiamo scoprirci tiepidi proprio dopo aver conquistato un sufficiente grado di fervore e di unione con il Signore. Infatti, la chiusura alla grazia o alle ispirazioni dello Spirito Santo, si caratterizzano come elementi pericolosi che trascinano verso la tiepidezza; così come la cristallizzazione in una fede che soddisfa  una visione solo prettamente umana. In questo caso, il compiacimento di una fede artificiosa prende il sopravvento sul «vino nuovo» (cf. Mc 2, 22) che il Signore vuole versare con abbondanza nella mia vita e mi vedrò imprigionato a ripetere lo stesso schema che prosciugherà la vitalità del Vangelo, conducendomi all’appiattimento spirituale.

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Volendo azzardare una definizione di tiepidezza possiamo dire che: è il culto ripetitivo verso l’opera dell’uomo che si oppone alla virtù di religione che consiste in una prontezza d’animo verso Dio. E la Parola di Dio è chiara, circa la condanna della tiepidezza e la condanna dell’uomo tiepido:

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«Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (cf. Ap 3,14-16).

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Dopo la tempesta, opera della pittrice romana Anna Boschini

Molte comunità ecclesiali sono infestate da questo tipo di malattia e tutto viene contaminato da questo morbo: le relazioni fraterne, la vita affettiva, l’aspetto economico, la scelta e l’elezione degli animatori della comunità, la vita liturgica, la carità … Spesso, davanti a un giusto richiamo davanti a questo stile di vita soporifero, ci si giustifica dicendo: «Che male faccio? Le mie preghiere cerco di recitarle, la messa domenicale più o meno la seguo, che altro devo fare?». Quello che manca in queste persone e in queste comunità è una santa inquietudine a conoscere Gesù ed a farlo amare.

 

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La tiepidezza si riconosce da diversi sintomi, vediamone insieme qualcuno: il primo sintomo, è la normalizzazione. Oggi si ha la tendenza a normalizzare tutto e quindi a giustificare ogni cosa. Ad esempio il peccato. Normalizzare il peccato significa riconoscere che tale ferita all’amore di Dio, poiché viene compiuta da molti e con una certa frequenza, perde la propria problematicità. Oppure si tende a normalizzare gli atti peccaminosi minimizzandoli: «ho commesso dei peccatucci, ho avuto una passioncella, ho mantenuto dei vizietti».

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Sfida, opera della pittrice romana Anna Boschini

Il tiepido tende a normalizzare e a ridurre il più possibile la realtà che lo circonda con l’illusione di portare serenità e misericordia. Si auto-convince che non c’è più nulla da migliorare nella propria vita perché – in fondo – ha raggiunto uno stabile equilibrio rassicurante. Tuttavia, Gesù nel Vangelo non loda i tiepidi ma domanda l’innalzamento del livello del discepolato verso una giustizia potenziata dalla grazia santificante:

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«Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» [cf. Mt 5,20].

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Il terzo sintomo della tiepidezza è il dubbio, figlio della tiepidezza, il quale l’uomo tiepido ha una grande propensione a dubitare – non perché sia uno scettico convinto – ma perché il dubbio gli permette di non prendere una posizione netta sulla fede e nel rapporto con Dio. Spesso è solito ripete frasi come queste: «Io penso di essere credente ma ho da sempre molti dubbi di fede irrisolti», e malgrado si attui in lui un buon accompagnamento che tenda a dirimere certe problematicità, i dubbi persistono ancorati alla volontà della persona. Al ché come Mosè, il tiepido che dubita, è impossibilitato ad entrare nella Terra Promessa in cui si realizza pienamente la relazione con Dio [cf. Dt 32,48-52]. Esso si accontenta di vedere le realtà spirituali da lontano. C’è una sostanziale differenza però, ciò che per Mosè diventa motivo di vergogna e sottolinea una certa incompletezza alla propria vocazione; nel tiepido il dubbio si concepisce come  sollievo che lo sgrava, ancora una volta, dal problema di Dio.

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Incontro alla libertà, opera della pittrice romana Anna Boschini

Quarto sintomo della tiepidezza è il libero sfogo della concupiscenzaL’uomo che è immerso nella tiepidezza, perde ben presto il riferimento alla persona di Dio, la capacità di rinunziare a se stesso e lo status di uomo nuovo che San  Paolo invoca per l’uomo che è stato redento da Cristo [cf. Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23; Ef 4,24]. Con la proliferazione nell’animo di vari disordini che rendono la natura umana lontana dalla grazia, il tiepido si trova schiavo della concupiscenza che lui stesso ha contribuito a nutrire. Ecco dunque che la concupiscenza conduce così alla maturazione di alcuni frutti molto pericolosi – i sette vizi capitali – che conducono verso disordini morali sempre maggiori, tanto da rovinare la bellezza dell’uomo creato da Dio. In questo modo la concupiscenza porta l’uomo a regredire verso una condizione che lo rende schiavo del proprio istinto e delle proprie passioni.

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Nel passato i santi padri del monachesimo Evagrio Pontico, Giovanni Damasceno, Gregorio di Nissa, Antonio Abate poiché espertissimi delle profondità dell’animo umano, avevano elaborato diverse modalità per combattere i vizi capitali, oltre alla costante vigilanza del cuore, era necessaria l’evangelizzazione della coscienza, dei pensieri e dei sentimenti.

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Con questo secondo contributo che ha cercato di analizzare la malattia spirituale della tiepidezza, si vuole mettere in guardia i cristiani affinché ci sia sempre una costante progressione nel cammino di conoscenza del Signore, poiché come insegna giustamente Sant’Agostino, il non avanzare sulla via di Dio significa tornare indietro. E poiché il desiderio di Dio è la santità per tutti i suoi figli [cf 1Ts 4,3], non possiamo che combattere il morbo della tiepidezza che ammantandosi al giorno d’oggi di buonismo e di tolleranza miete molte vittime nel campo della Chiesa.

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[fine della IIª meditazione]

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Cagliari, 5 febbraio 2019

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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I tumori più terribili e difficili da guarire sono le malattie che ci impediscono di essere testimoni di Cristo [Iª La tristezza]

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— Pastorale sanitaria —

I TUMORI PIÙ TERRIBILI E DIFFICILI DA GUARIRE SONO LE MALATTIE CHE CI IMPEDISCONO DI ESSERE TESTIMONI DI CRISTO

Iª La tristezza ]

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Mi colpisce sempre vedere dei cristiani tristi, mi ha sempre colpito. Allo stesso modo mi colpisce vedere sacerdoti e religiosi musoni. Questo perché è una contraddizione palese in coloro che dovrebbero annunciare la Pasqua. Quando celebro la Santa Messa, quando guido un momento di preghiera oppure quando semplicemente entro in una chiesa, mi piace soffermarmi ad osservare le persone. Le osservo perché anch’io, ho bisogno di incoraggiamento da coloro che vivono una fede forte e hanno un rapporto intimo con Dio. E mentre sovente osservo, ecco … i musi lunghi!

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

 

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PDF  articolo formato stampa

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pagliaccio triste …

Con questo nuovo articolo darò avvio ad un ciclo di riflessioni sulle malattie spirituali più pericolose per la vita di un cristiano. Come sempre desidero citare la Parola di Dio, prendendo come spunto un brano evangelico che ho avuto modo di citare anche altre volte nei miei scritti sulla nostra Isola di Patmos:

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«Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» [cf. Lc 24,13-16].

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Al versetto 16 è evidente una certa cecità del cuore e della mente, ciò vuol dire che vi è qualcosa in questi due discepoli che gli impedisce di riconoscere il Signore risorto. Esistono infatti alcune patologie dell’anima che ci separano da Cristo e che ci impediscono di fare nostra la novità del Vangelo affinché questo trasformi la nostra vita e quella degli altri. È quindi in questi termini che desidero presentare la prima malattia spirituale: la Tristezza.

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Mi colpisce sempre vedere dei cristiani tristi, mi ha sempre colpito. Allo stesso modo mi colpisce vedere sacerdoti e religiosi musoni. Questo perché è una contraddizione palese in coloro che dovrebbero annunciare la Pasqua. Quando celebro la Santa Messa, quando guido un momento di preghiera oppure quando semplicemente entro in una chiesa, mi piace soffermarmi ad osservare le persone. Le osservo perché anch’io, ho bisogno di incoraggiamento da coloro che vivono una fede forte e hanno un rapporto intimo con Dio. E mentre sovente osservo, ecco … i musi lunghi!

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pagliaccio triste …

Cerchiamo anzitutto di capire una cosa: questo genere di tristezza non è data dai rovesci della vita che inevitabilmente tutti ci ritroviamo a sostenere. La tristezza di cui parlo, è quella mista a rassegnazione, è una tristezza che spesso è disperazione, depressione, staticità, arrendevolezza che – per quanto vogliamo maschere con aria mistica e affettata santità – affiora sempre a galla.

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Il cristiano non può che definirsi se non in seno alla gioia, è stato creato per la gioia e la stessa redenzione operata da Cristo – sebbene accompagnata dalla inevitabile tragedia della Passione – non si conclude con il Venerdì Santo ma con la Domenica di Risurrezione espressione della gioia che vince sulla morte. La viva rappresentazione della gioia di Cristo e dei discepoli, ossia dei primi cristiani, emerge dal Vangelo di San Giovanni Apostolo, indicato dai grandi Padri della Chiesa e dagli esegeti, anche come «Il Vangelo della gioia».

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Il segno più credibile di un cristiano dovrebbe essere proprio quello della gioia, l’intima gioia di vivere di Dio e della sua compagnia; l’intima gioia di poter presentare al Padre ogni istante della nostra giornata e avere la certezza di sentirci amati, compresi, perdonati e guariti intimamente. Per questo mi piace citare spesso un passo delle omelie per il Natale di san Leone Magno papa che dice: «Riconosci o cristiano la tua dignità». Cioè siamo chiamati a ri-conoscerci nuovamente, a prendere coscienza della nostra identità, a capire nuovamente chi siamo come credenti. Ogni vita cristiana – quindi anche la mia e la tua – è vita in cui Cristo vive, opera, ama, prega, spera, soffre, si affida al Padre.

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pagliaccio triste …

La vita cristiana è vita di comunione in cui la relazione con Gesù è presente: ecco la mia dignità, ecco la mia gioia! Al contrario, facendo invece spazio alla tristezza, metto in ombra la presenza di Gesù che vive in me e vado avanti spesso con le sole mie forze che verifico essere inadeguate. Inoltre, questo atteggiamento di melanconia spirituale viene rafforzato da espressioni come queste: «Siamo nati per soffrire !», «Non valgo a nulla, cosa posso mai fare di buono?», «Io sono zero, Dio è tutto», «Siamo nelle mani di Dio, non possiamo farci più nulla», «Merito di soffrire a causa dei miei peccati, Dio giustamente mi punisce». Tutti questi modi di pensarsi “cristiani”, pongono una seria caparra sulla gioia che Dio vuole per i suoi figli, che Cristo ci ha meritato con la sua risurrezione e che lo Spirito Santo continuamente riversa nei nostri cuori come dono gratuito.

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Tale situazione d’ombra è spesso il risultato derivante dalla nostra bassa autostima spirituale e di una pessima o assente formazione spirituale e catechetica. Mi spiego meglio …

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… l’autostima spirituale è la consapevolezza del valore che ciascuno attribuisce a se stesso in relazione alla persona di Dio, l’atteggiamento che ognuno ha nei propri confronti come persona amata, accettata e valorizzata da Dio. Questa autostima spirituale in parte dipende da noi e dalla nostra esperienza di Dio, in parte dipende da coloro che ci hanno educato alla fede affinché potessimo sentirci cristiani amati e degni di valore. Avere una bassa autostima spirituale è anche indice dell’immagine di Dio che ci siamo coltivati. Possiamo percepire Dio come un contabile, colui che segna sul taccuino i nostri errori e difetti pronto a farci pagare il conto. Possiamo percepire Dio come il dittatore che ci priva della gioia e ci chiede solo sacrifici, possiamo farci l’idea di Dio come simbolo dell’efficienza che vuole tutti perfettivi senza la possibilità di sbagliare o manifestare debolezze. Oppure abbiamo sperimentato l’idea di Dio come truffatore che promette tutto e mantiene niente, o l’idea del Dio giudice vendicativo che si diverte a punire e castigare l’uomo per manifestare la sua forza.

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pagliaccio triste …

Tutte queste immagini di Dio sono indicative del modo patologico con cui ci percepiamo cristiani e il modo che abbiamo di vivere lo stile del Vangelo all’interno delle nostre comunità religiose. E con questi presupposti si crea il pericolo serio di una problematica autostima spirituale.

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Può capitare che come cristiani tendiamo a non considerare gli aspetti positivi della nostra vita, negando o non vedendo il bene che Dio opera in noi. Ci sembra più naturale considerare i lati negativi e piangere sconsolati sulle nostre miserie. Anche una certa educazione religiosa, guidata da un falso e deviato concetto di umiltà, ci ha condotti a sentirci in colpa ogni qual volta parliamo delle nostre qualità e di quello che di bello e santo stiamo vivendo nel rapporto con Dio.

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La confessio laudis, cioè la manifestazione delle cose belle – e quindi della gioia – che il Signore compie nella mia vita è indispensabile per far tramontare una volta per tutte la tristezza. Ecco perché durante la confessione sacramentale, prima ancora dell’accusa dei peccati, è necessario manifestare al sacerdote le realtà gioiose di cui devo rendere grazie a Dio.

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La Sacra Scrittura e l’antropologia cristiana più autentica ci dicono che l’uomo non è un essere negativo, perduto e sconsolato. Esiste un ottimismo ben radicato che vede positivamente l’uomo e questo deriva proprio dall’unione con Dio che dona bellezza, conforto, dignità e fa risplendere continuamente il volto del Figlio su ogni realtà creata. L’uomo è creato non solo nel bene e nell’amore infinito di Dio ma è strutturato come realtà molto buona [cf. Gn 1,31] e come realtà positiva che ha il suo modello in Gesù Signore del mondo [cf. Col 1,16-17]. Neanche la prima disobbedienza [cf. Gn 3] riesce ad intaccare la stima e l’amore che Dio prova per l’uomo, tanto da continuare a valutare la sua creatura con un personale atto d’amore e di cura. Per questo motivo, all’apice del dramma del peccato originale, l’uomo riceve ugualmente una promessa di redenzione e gli viene donato un nuovo abito che possa ridargli dignità e valore [cf. Gn 3,15; 21].

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pagliaccio triste …

Nella storia del popolo di Israele Dio assiste sempre l’uomo affinché nulla sminuisca il suo valore, la sua certezza di essere amato. Né l’arroganza del faraone d’Egitto, né la fame e la sete del deserto, né la malattia, l’ostinazione e la mormorazione riescono a convincere Dio a rigettare e disistimare l’uomo creato molto buono. Non sono le cose esterne – buone o cattive – che determinano il nostro valore di cristiani, non è quello che la gente dice di me che mi rende cristiano migliore o peggiore, è il valore che ho per Dio che mi rende amabile.

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Sulla scia di questo pensiero, lo psicologo James Bugental afferma che la nostra vera identità non sta all’esterno di noi stessi, non deve essere ricercata nelle conferme esterne, nelle sicurezze esterne. La nostra vera identità, il nostro tesoro lo possiamo trovare scavando nel campo della nostra anima, nell’intimo di noi stessi: luogo in cui Dio prende dimora e si rivela nella gioia.

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È in questo sacrario che posso trovare l’immagine originaria che Dio ha pensato per me, la parola originaria che Dio ha pronunciata nel crearmi e che è capace di dare senso e gioia a tutta una vita, anche a quella più rovinata e apparentemente inutile.

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[fine della Iª meditazione]

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Cagliari, 20 gennaio 2019

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Ridi, pagliaccio !

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
ma portare, diffondere e difendere la verità non solo ha dei
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Attraverso la Via di Emmaus delle corsie dell’ospedale: il Cappellano come discepolo e compagno di viaggio nella malattia

— pastorale sanitaria —

ATTRAVERSO LA VIA DI EMMAUS DELLE CORSIE DELL’OSPEDALE: IL CAPPELLANO COME DISCEPOLO E COMPAGNO DI VIAGGIO NELLA MALATTIA

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… nella parabola del Buon Samaritano, è chiaro il riferimento a Gesù come colui che si prende cura dell’uomo bastonato dai briganti e versa sulle sue ferite olio e vino simboli della grazia sacramentale che da Cristo scaturisce con abbondanza e potenza. L’uomo maltrattato dai briganti è preso in carico da Gesù affinché passi dalla condizione di moribondo a quella di risorto.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

 

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Ivano Liguori, Ofm. Capp. in visita al reparto di pediatria dell’Ospedale Brotzu di Cagliari con i folletti e Babbo Natale

Il fatto che «soli si muore» ci guida a capire, attraverso l’esperienza quotidiana, che nella vita tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci affianchi e insieme a noi condivida i momenti spensierati e di prova. La constatazione divina di Genesi 2,18 «Non è bene che l’uomo sia solo», a mio parere non si deve leggere solo come riferimento dell’unione sponsale tra uomo e donna, ma come imperativo alla socialità e alla comunione. L’uomo è chiamato a fare esperienza di Dio solo nella comunione con il fratello. Il mistero stesso della Trinità, è mistero di comunione, non esiste in Dio solitudine.

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Nel momento della prova e della malattia la dinamica dell’essere con è essenziale affinché si verifichi un vero accompagnamento che sia di supporto e di stimolo per non sentirsi soli e per gustare così la provvidenza di Dio che mette al nostro fianco qualcuno che ci ama. Già la sapienza del salmista ci fa cantare: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme» [cf Sal 133,1].

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Due sono gli episodi del Vangelo che meglio di altri incarnano il dovere di prossimità del cristiano verso l’uomo sofferente nel corpo e nell’anima: la parabola del Buon Samaritano [cf. Lc 10,23-37] ed il racconto dei Discepoli di Emmaus [cf. Lc 24,13-35]. In questi brani evangelici l’evangelista Luca, maestro di tenerezza e di compassione, rivela l’amore preferenziale di Cristo per l’uomo infermo. Da qui nasce lo stimolo al coraggio di non passare oltre.

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foto ricordo dopo la Santa Messa di Natale nel reparto di pediatria

Nella parabola del Buon Samaritano è chiaro il riferimento a Gesù come colui che si prende cura dell’uomo bastonato dai briganti e versa sulle sue ferite olio e vino simboli della grazia sacramentale, che da Cristo scaturisce con abbondanza e potenza. L’uomo maltrattato dai briganti è preso in carico da Gesù affinché passi dalla condizione di moribondo a quella di risorto. La figura dell’uomo bastonato sulla strada, esprime con vividezza:

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«la ferita inguaribile da cui siamo stati colpiti […] e che solo il Signore poteva guarire. È per questo che egli è venuto di persona, perché nessuno degli anziani, né la Legge, né i profeti, erano capaci di porvi rimedio. Solo lui, venendo, ha guarito questa inguaribile ferita dell’anima» [cf. Macario il Grande, Omelie, (Coll. II), XXX, 8].

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Gesù buon samaritano compie un passaggio di stato nella vita di ogni uomo: dall’orizzontalismo dell’infermità al verticalismo della nuova vita [cf. Lc 4,38-39]. Gesù è colui che risana e guarisce poiché è il Signore. La potestà del Risorto e la sua signoria si manifestano attraverso una nuova creazione che si compie nell’uomo attraverso un passaggio dalla condizione di infermità alla condizione di salute che diventa attestazione di salvezza e quindi di risurrezione.

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Natale nel reparto di pediatria

Davanti all’azione risanante di Gesù, si avverte la necessità di essere collaboratori di una cura che si esprime nel tempo e che viene portata avanti grazie all’opera del padrone della locanda a cui viene affidato il compito di custodire e proseguire il lavoro di risanamento iniziato da Cristo. Così,  nella cura e nell’assistenza degli infermi, la figura del cappellano ospedaliero incarna colui al quale Gesù affida la custodia del moribondo, obbedendo al mandato di aver cura di lui, mutandolo in ministro dell’annuncio pasquale che Gesù è risorto e che è il Signore [cf. At 3,1-16], da questo annuncio scaturisce la potenza della guarigione.

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Nel ministero di consolazione e di cura che viene svolto in ospedale, il cappellano è chiamato a imitare gli atteggiamenti del Buon Samaritano che vede l’infermo ma non passa oltre. Nel medesimo tempo, il cappellano è anche ministro di diaconia nella misura in cui è capace di assumere e progettare realtà concrete di assistenza nel tempo della malattia di tanti uomini poveri e disagiati. 

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Possiamo dire allora che il ministero ospedaliero verso gli infermi è un servizio missionario, che nell’annuncio, nella cura e nell’accudimento edifica la Chiesa volto di Cristo tra i sofferenti. Ecco allora che il compito di cura e di compassione si coniuga nell’accompagnamento dello sfiduciato, dell’uomo senza speranza, perciò infermo nell’anima.

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Natale nel reparto di pediatria

Alla luce della prossimità e dell’impulso al cammino comune, l‘episodio del Vangelo di Luca dei Discepoli di Emmaus ci mostra Gesù che si rende compagno di viaggio dell’uomo che ha perso la speranza e la gioia. Infatti la malattia, la paura della morte e la solitudine, distruggono la gioia nell’uomo, così come mettono a dura prova la fede. Domande come: «perché proprio a me?» e «dove è Dio in tutto questo?» provano l’infermo e la sua famiglia e richiedono una risposta che non può mai essere scontata o facilona. Allora, contemporaneamente al prendersi cura del malato, c’è bisogno di un camminare insieme con lui, aprire il suo cuore al messaggio gioioso di Pasqua: Dio è vincitore della morte, della malattia, della solitudine dell’uomo.

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Natale lungo la Via di Emmaus dell’ospedale …

L’annuncio della Parola di Dio, la vicinanza umana del cappellano e della comunità cristiana che visita di frequente l’infermo, realizzano quel miracolo della inclusione e dell’accompagnamento che predispone poi l’infermo a dismettere il volto triste della delusione e della tristezza per vestire l’esultanza e la riconoscenza in Gesù vivo. Per questo il camminare vicino al malato all’interno della realtà ospedaliera significa attuare con costanza e spirito missionario la visita quotidiana ai reparti di degenza, l’incontro con le famiglie dei malati, la cura sacramentale delle anime inferme.

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Il cappellano è chiamato per dovere di giustizia a incontrare il malato, non solo per obbedire al comando di Cristo [cf. Mt 25,36], ma per farsi viaggiatore con lui dentro la malattia, amico che asciuga le lacrime e riempie un vuoto, profeta che annuncia che Dio è fedele e realizza le sue promesse.

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i discepoli lungo la Via di Emmaus [vedere testo lucano QUI].

Cristo Signore, attraverso la mediazione umana e sacramentale del sacerdote cappellano, spezza ancòra il pane della Parola e dell’Eucaristia affinché i ciechi riacquistino la vista, gli zoppi camminino, i lebbrosi siano purificati, i sordi  tornino ad udire, i morti siano richiamati alla vita, i poveri siano immersi nella buona novella del Regno [cf. Lc 7,22].

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Un ministero di questo tipo è senza dubbio faticoso, lento e meticoloso e si presta a condivide la stessa pazienza divina, affinché l’uomo malato nel corpo e nello spirito sia, giorno dopo giorno, curato e amato affinché possa raggiungere la salute e la salvezza che sono condizioni normali per ogni figlio di Dio.

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Cagliari, 28 dicembre 2018

Nell’Ottava di Natale

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«Io sono il Signore, colui che ti guarisce». La vita cristiana è un percorso terapeutico alla luce dell’obbedienza alla Parola

— pastorale sanitaria —

«IO SONO IL SIGNORE, COLUI CHE TI GUARISCE». LA VITA CRISTIANA È UN PERCORSO TERAPEUTICO ALLA LUCE DELL’OBBEDIENZA ALLA PAROLA.

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Nella venerazione del nome di Dio si esprime la volontà dell’uomo a sperimentare la sua presenza salvatrice e risanatrice. Ecco perché sia nell’Antico Testamento sia nell’opera di Gesù nel Vangelo la guarigione è conseguente a un ascolto obbediente della Parola che salva

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

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Miracolo della guarigione del cieco, narrato nel Vangelo di Giovanni: 9, 1-41

Oggi si fa un gran parlare di guarigione e metodi che conducono alla guarigione di diversi mali. Non è raro imbattersi in turlupinatori che millantano doti da guaritori a scapito di poveri ammalati che combattono con infermità gravi e invalidanti. C’è poi anche un certo mondo pseudo spirituale che dispone di un vasto arsenale di energie ed entità spiritiche che sono evocate per porre in essere guarigioni e risanamenti. Coloro che si sottomettono alla loro influenza e autorità, finiscono in un fitto ginepraio che presenta tutta una serie di terapie alternative che sono però slegate dal principio di causalità e conducono con molta sicurezza verso un sistema tecnico che sfocia nella mentalità magica e nel superstizioso [cf. Jacques Ellul, The Technological Society, 1954; Il sistema tecnico, 1977]. 

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DIO HA UN NOME CHE GUARISCE

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miracolo della guarigione del paralitico alla piscina di Betsaida, narrato nel Vangelo di Giovanni: 5, 1-18.

Per il fedele cristiano il discorso è assai diverso. Infatti, parlare di guarigione e di risanamento non è nient’altro che riconoscere la potestà di Dio sul mondo, quindi sulle leggi naturali che lo governano, ed esprimere così la sua autorità di creatore esercitata liberamente a beneficio di tutti i suoi figli:

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«Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!» [cf. Ap 1,8]

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A questo proposito, voglio citare un passo del libro dell’Esodo che recita:

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«Se tu darai ascolto alla voce del Signore, tuo Dio, e farai ciò che è retto ai suoi occhi, se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi, io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitto agli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!» [cf. Es 15,26].

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La cosa che colpisce maggiormente in questo versetto è il nome di Dio che viene presentato in virtù di una chiara azione terapeutica di risanamento: «io sono colui che ti guarisce!»

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La terapeuticità del nome divino sottende un ascolto attento che conduce a un cammino di santità ben chiaro. Il riferimento alle infermità dell’Egitto attesta la conseguenza di una vita malsana che ha ripudiato Dio e si è staccata da lui. Dio non è solo il trascendente, il numinoso, l’onnipotente, l’esistente, ma è colui che si rende conoscibile e comunicabile proprio trasmettendo il suo nome. Egli dice infatti a Mosè nel roveto ardente:

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«Io sono colui che sono!» [cf. Es 3,14].

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che non è solo l’espressione indicante un mistero — nel senso teologico del termine — ma anzitutto garanzia di una presenza che accompagna il Popolo di Israele e che protegge da ogni sciagura e libera da ogni male [cf. Sal 20,2; Pr 18,8]. Dio, comunicando il suo nome, realizza salvezza [cf. Sal 124,8], garantendo così la salute a coloro che si rivestono di questo nome:

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«Fece uscire il suo popolo […], fra le tribù non c’era alcun infermo» [cf. Sal 105, 37].

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Dobbiamo però rifuggire decisamente dall’uso magico del nome di Dio! Nel linguaggio della Sacra Scrittura il nome ha un rapporto intimo con la realtà significata, non solo si usa per designare la persona ma per esprime tutta la personalità, sicché possiamo dire che il nome  manifesta il cuore, il destino che quella persona è chiamato a compiere: il nome realizza la vocazione.

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La persona di Dio è inscindibilmente legata all’Alleanza sancita con i Padri del Popolo di Israele. Dio è anzitutto il dio di un popolo, di una nazione che si lega a lui con profondi vincoli di amore e fedeltà:

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«Dirai agli Israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» [ cf. Es. 3,15].

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L’Alleanza con il Popolo di Israele che trova in Abramo, Isacco e Giacobbe gli interlocutori privilegiati di un rapporto di amore e fedeltà ci spingono a comprendere che solo nell’obbedienza a Dio — e quindi nell’ascolto attivo della sua Parola — l’Alleanza si compie, la salvezza trova concretezza e la salute diventa manifestazione di un cammino di grazia che ricrea l’uomo a partire da un rapporto nuovo con il suo Signore.

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L’obbedienza alla Parola e l’ascolto della stessa — nella pienezza dei tempi — si specificano con l’incarnazione di Gesù Cristo, Parola fatta carne [cf. Gv 1,3]. Dio attraverso l’opera del Figlio, ricrea l’uomo ristabilendo nel suo cuore un patto nuovo [cf. Ger 31,33], non più basato sulla debolezza dei Padri d’Israele ma sulla docile volontà del Figlio che si rende obbediente e risoluto alla volontà del Padre fino alla morte e alla morte di croce [cf. Fil 2,8].

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L’OBBEDIENZA ALLA PAROLA FATTA CARNE È PRINCIPIO DI OGNI RISANAMENTO NELLO SPIRITO

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miracolo della risurrezione di Lazzaro, narrato nel Vangelo di Giovanni: 11, 1-45

Nella venerazione del nome di Dio si esprime la volontà dell’uomo a sperimentare la sua presenza salvatrice e risanatrice. Ecco perché sia nell’Antico Testamento sia nell’opera di Gesù nel Vangelo la guarigione è conseguente a un ascolto obbediente della Parola che salva [cf. Sal 81, 12-16].

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Nel suo ministero pubblico Gesù annuncia il Regno di Dio, questo diventa il momento favorevole in cui la Parola proclamata diventa anche farmaco. Infatti molte delle guarigioni compiute da Gesù avvengono nella cornice della predicazione [cf. Mc 1, 29-32; Mc 1, 40-45; Mc 2,1-12; Mc 3, 1-6; Mt 9, 14-31; Lc 13, 10-17]. La Parola di Dio — così come all’origine della creazione — è generatrice di una condizione di ordine e di salute laddove il caos del peccato e della disobbedienza umana hanno causato infermità e morte.  Allo stesso modo, nella comunità cristiana post pasquale, l’obbedienza alla Parola è sottolineata dalla presenza ordinatrice dello Spirito Santo che scende con abbondanza sopra gli apostoli il giorno di Pentecoste e conferisce loro autorevolezza nel predicare e potenza di risanamento fisico e spirituale. Dice a tal proposito il Cabasilas:

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«Chi ha il dono di […] guarire gli infermi […] lo ha ricevuto dal myron» [cf. Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, 3, 2].

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Ossia: dal sacro olio del Crisma che è segno liturgico e veicolo dell’effusione dello Spirito Santo conferita ai sacri ministri. In virtù della sacra ordinazione e della intima conformazione a Cristo, i Pastori della Chiesa non solo sono costituiti maestri autorevoli di fede ma anche medici esperti con il dovere di curare le pecore inferme del proprio gregge [cf. Ez 34,4].

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La comunità apostolica post pasquale è comunità carismatica nel senso pieno del termine poiché proclamando nella predicazione che Dio opera salvezza nel Cristo risorto [cf. At 3] conferma con il carisma delle guarigioni la missione di nuova comunità ecclesiale illuminata dalla grazia, obbediente alla Parola e sempre rinnovata dall’azione vivificante dello Spirito Santo [cf At 2, 42 ss]. La Chiesa, perciò, memore di questa storia di salvezza è chiamata ogni giorno a predicare e a guarire.

         

Questo discorso lo ritroviamo affrontato dai Padri della Chiesa con il concetto teologico di rifusione ontologica, cioè di quella trasformazione di tutto l’uomo attraverso l’azione della grazia divina  che avviene — come per la Vergine Maria — in un cuore obbediente e disponibile all’azione dello Spirito Santo.

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Le virtù teologali che lo Spirito di Dio infonde in noi nel battesimo, realizzano un risanamento continuo e progressivo della nostra umanità: la fede ci guarisce perché libera l’uomo dall’angoscia dell’esistenza trasformandosi in fiducia [cf. Giovanni Crisostomo, Homilia in 1 Tm. 1,2,3; e Agostino, Enarrationes in Psalmos, 118,18,3]; la speranza ci guarisce dall’ansia della morte e anticipa un destino di immortalità in vista della risurrezione dei corpi che già opera in noi nei segni sacramentali; la carità è il grande medicamento offerto da Cristo, che guarisce ogni male e ogni dolore [cf. Barsanufio di Gaza, Lettera 62].

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VUOI ESSERE GUARITO?

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miracolo della guarigione del figlio unico della vedova, narrato nel Vangelo di Luca: 7, 11-17.

La domanda che apre questo III paragrafo appare quasi scontata, ma non è così. Anzitutto poiché essendo una domanda presente nel Vangelo non possiamo liquidarla come semplice e banale. Essa viene pronunziata, quasi come sferzata, da Gesù stesso nei riguardi del paralitico infermo alla piscina di Betzaetà [cf. Gv 5,6]. Infine perché tale domanda intende verificare il desiderio reale del malato di guarire, lasciando lavorare nella sua persona la grazia dello Spirito Santo.

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Nel Vangelo vediamo come diverse volte Gesù interroga il malato sulla volontà di voler essere collaboratore di Dio nel suo risanamento. Questa domanda interpella fondamentalmente la fede: «credi tu questo?» [cf. Gv 11,25]; «la tua fede ti ha guarito … salvato» [cf. Mt 9,22; Mt 15,28; Mc 5,34; Mc 10,52; Lc 18,42]. Avere fede per l’uomo biblico significa sostanzialmente credere nella fedeltà divina. L’avvento stesso del Messia è preceduto da promesse in cui Dio espone la sua credibilità realizzando definitivamente ciò che in diversi modi attraverso i tempi aveva annunciato  per mezzo dei profeti.

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Il cammino terapeutico di guarigione, che vediamo narrato dagli evangelisti e che resta valido anche per noi oggi, è possibile attraverso tre passi: il primo, è l’accettazione della propria condizione personale — di infermità o di peccato — alla luce del progetto salvifico di Dio [cf. Lc 7,36-50; Lc 18,13; Lc 18,39]. Il secondo, è la illimitata fiducia nella grazia divina e la volontà a collaborare con essa [cf. Mt 8,5-13; Mt 15,21-28]. Il terzo, è il concreto desiderio di conversione e di rottura definitiva con il peccato in tutti gli ambiti della propria vita [cf. Gv 4,16-19.29; 5,14; 8,11].

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Il cammino che conduce alla guarigione può esser poi più o meno veloce, istantaneo o a tappe [cf. Mc 8,22-26; Lc 17,11-19] ma quello che lo definisce è sempre l’obbedienza dell’infermo alla Parola proclamata e insegnata che diventa terreno fertile dentro il quale nasce una nuova esistenza risanata. Poiché l’uomo è un essere complesso, il suo risanamento è sempre duplice: Gesù guarendo il corpo risana l’anima e perdonando il peccato restituisce vigore al corpo [cf. Mc 2,1-12].

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IL FINE DELLA GUARIGIONE È LA SEQUELA CHRISTI.

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miracolo della guarigione del servo del centurione, narrato nel Vangelo di Luca: 7, 1-10

L’uomo divenuto obbediente alla Parola e che è stato da essa risanato è pronto per essere apostolo del Regno, affinché le opere di Dio vengano proclamate al mondo intero. Prendiamo come esempio questo passo evangelico:

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«In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni [cf. Lc 8, 1-3].

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La guarigione ristabilisce l’uomo perché esso diventi il testimone del Regno e perché l’umanità si accorga che esiste un Dio che mantiene le promesse. Consapevolizzarsi in quest’ottica è fondamentale, perché l’evento cristologico assume tutta la concretezza della vita vissuta. Un conto è seguire una dottrina filosofica bella e accattivante, altro è donarsi per una ideologia che si considera vincente, altro ancora è testimoniare con la propria vita e con le proprie ferite che Cristo ha fatto irruzione nella mia quotidianità è mi ha trasformato toccando le mie fragilità fisiche e spirituali.

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Come abbiamo avuto modo di vedere con l’aiuto dei Padri della Chiesa, assistiamo a una trasformazione dell’essere dell’uomo che non ha eguali. Il seguito di Gesù — includendo anche la comunità apostolica — è sostanzialmente composto da discepoli risanati, da persone ferite a cui è stata fatta grazia e che hanno trovato la forza di annunciare la gioia della guarigione: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te» [cf. Mc 5,19ss]. Solo la gratuità della Parola e dell’insegnamento di Cristo può attivare la riconoscenza che si esprime nel dono di sé al Signore.

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L’uomo donato a Dio, così come capirà bene il beato apostolo Pietro, è capace di amare anche con la debolezza, l’imperfezione e l’infermità [cf. Gv 21,15ss], e se apparentemente alcune guarigioni appaiono come parziali, esse rimandano alla grande guarigione escatologica che avverrà alla fine dei tempi, perché solo lì, in Paradiso, sanità e santità coincideranno nel mistero del Cristo crocifisso e risorto.

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Cagliari, 17 dicembre 2018

III Settimana di Avvento

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A.A.A. Cappellano ospedaliero cercasi, pregasi astenersi: inabili al lavoro, disoccupati in cerca d’impiego e problematici di varia fatta

— pastorale sanitaria —

A.A.A. CAPPELLANO OSPEDALIERO CERCASI, PREGASI ASTENERSI: INABILI AL LAVORO, DISOCCUPATI IN CERCA D’IMPEGO E PROBLEMATICI DI VARIA FATTA

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e così scegliemmo di andare in giro per l’ospedale mantenendo il nostro abito religioso per poter essere subito riconosciuti, tra tanti camici bianchi, come Frati Minori Cappuccini. E, debbo dire: la cosa funzionò. Dopo qualche tempo, nell’ospedale, si accorsero che i due tizi vestiti di marrone, con cingolo attorno ai fianchi, sandali ai piedi e barba, erano i nuovi cappellani.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

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Cagliari, Chiesa di Santa Lucia: Santa Caterina di Labouré che distribuisce la medaglia miracolosa [opera di Aurelio Galleppini]

Vorrei cercare di far chiarezza sull’identità del cappellano ospedaliero, perché per strano che possa sembrare, in effetti mi sono accorto che alla prova dei fatti, tra le diverse figure pastorali all’interno della Chiesa, è un essere quasi mitologico.

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Anzitutto è necessario chiarire l’aspetto canonico e pastorale: il cappellano è un sacerdote scelto dal vescovo per la cura pastorale di quella porzione di Popolo di Dio che si trova a vivere il tempo della malattia presso una struttura sanitaria, per esempio un ospedale, una clinica, o presso una residenza sanitaria assistita geriatrica.

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Già questa prima definizione permette di fare alcune considerazioni particolari: il luogo d’azione del cappellano non è la chiesa parrocchiale o conventuale, bensì un luogo di cura dove lui svolge una funzione di operatore specializzato insieme ad altre figure. Capire questo è fondamentale perché, all’interno della struttura sanitaria, il cappellano non è il padrone, neppure il rappresentante giuridico, come avviene invece nel caso del parroco. Nei concreti fatti, è quindi uno dei tanti. Comprendere questo aspetto, è cosa fondamentale.

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Spesso, lo spirito di vanità di noi appartenenti al clero, non digerisce questa sfumatura che mal si adatta al sacerdote, né ciò aiuta certo a creare occasioni in cui Dio si possa rivelare in un ministero tanto delicato come quello ospedaliero, perché è indubbio che il sacerdote sia un uomo, senza però mai dimenticare che egli è — ed è chiamato ad essere — un uomo consegnato a Dio, che nel cappellano ed attraverso il cappellano agisce per mezzo di una dinamica di ordinarietà e nascondimento che a me piace accostare biblicamente al periodo della giovinezza di Gesù a Nazareth.

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Cagliari: Chiesa di Santa Lucia: Le martiri di Arras uccise in odium fidei durante la rivoluzione francese [opera di Aurelio Galeppini]

Il luogo in cui il cappellano opera è l’ospedale, la clinica, l’hospice, la residenza sanitaria assistita. Tutti luoghi non consacrati dal profumato olio del Crisma che il vescovo usa per consacrare a Dio un luogo adibito al culto. Per questo motivo oggi, il cappellano, opera all’interno di un luogo di cura che assume connotazioni fortemente laiche. Possiamo pertanto anche dimenticare le vecchie pellicole in bianco e nero degli anni Cinquanta del Novecento, nelle quale si vedevano le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli con i loro cappelloni bianchi inamidati, intente a suonare la campanella nei reparti per annunziare l’arrivo del sacerdote recante il Santissimo Sacramento. Nulla di questo avviene oggi in queste strutture, all’interno delle quali il cappellano è presenza silenziosa, spesso confusa tra le diverse figure professionali del mondo della salute.

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Detto questo apro adesso una piccola divagazione: al mio arrivo all’Ospedale Brotzu di Cagliari, nel 2013, sbrigate le pratiche dell’assunzione ci fu proposto l’utilizzo del camice bianco: quello comune a tutti gli operatori sanitari. Dopo qualche istante di riflessione, io ed il mio confratello, decidemmo di rifiutare la proposta, semplicemente per non aumentare il divario di anonimato ed uniformità che il camice bianco conferisce. Così, scegliemmo di andare in giro per l’ospedale mantenendo il nostro abito religioso, soprattutto per poter essere subito riconosciuti tra tanti camici bianchi come Frati Minori Cappuccini. E, debbo dire: la cosa funzionò. Dopo qualche tempo, nell’ospedale si accorsero che i due tizi vestiti di marrone, con cingolo attorno ai fianchi, sandali ai piedi e barba, erano i nuovi cappellani.

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Adesso desidero condividere coi Lettori de L’Isola di Patmos qualche altra interessante considerazione: nelle strutture sanitarie, il cappellano, giorno dopo giorno ha il compito di guadagnarsi un diritto di cittadinanza. O per meglio chiarire: se il ruolo del cappellano — fino ad oggi — è ancora riconosciuto dalla Legge, la persona che ricopre tale ruolo ha necessità di farsi conoscere, quindi deve necessariamente attuare una socialità nella comunità sanitaria in cui opera.

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Le Figlie della Carità ieri l’altro –  immagine della Beata Giuseppina Nicoli [1863-1924]

Non è mia intenzione fare prediche, tuttavia debbo dire che l’identità del cappellano è insita nel suo essere sacerdote. Solo il sacerdote può essere cappellano [cf. can. 564 del Codice di Diritto Canonico]. A ragion veduta, al cappellano è per ciò richiesto uno stile confacente alla sua identità, una socialità che manifesti la sua donazione a Dio. E questo debbo precisarlo a chiare lettere, perché spesso accade che il cappellano sia invece identificato come una sorta di assistente sociale, come uno psicologo o come un amico confidente di tutti. E se da un certo punto di vista ciò è la conseguenza di una tipologia di laicismo sempre più dilagante che tende a rimodellare quello che gli è estraneo, d’altro canto è necessario vigilare affinché il sacerdote non eserciti la sua identità snaturandola, sino ad assumere altre identità più accattivanti che risultino ben accette alla modernità per un verso, allo spirito di laicismo per altro verso.

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Nei luoghi di cura, il sacerdote cappellano è profeta che parla a nome di Dio perché capace di ascoltarlo. È l’angelo del Getsemani che consola il morente e lo riconcilia con Dio [cf. Lc 22, 43]. È custode della misericordia e della giustizia affinché il Regno di Dio si realizzi tra le corsie di tanti malati e deboli, e padre e maestro per guidare e istruire gli uomini al Vangelo che è buona notizia per tutti.

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le Figlie della Carità ieri –  immagine di Madre Suzanne Guillemin, Superiora Generale dal 1962 al 1968

Davanti a questa identità sacerdotale si inserisce la variegata opera di Dio che, nel creare ogni uomo, elargisce a ciascuno doni personali caratteristici, arricchendo così il sacerdozio ministeriale con carismi propri a servizio del popolo di Dio e della Chiesa.

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Desidero infine mettere in risalto una nota critica che riguarda la figura del cappellano ospedaliero e di un certo stile di fare Pastorale Sanitaria. Da quel poco che ho scritto sulla figura del sacerdote chiamato a ricoprire l’incarico di cappellano in una struttura sanitaria, si evince come questi debba essere un elemento di buona qualità o, perlomeno, non problematico. Purtroppo, il dato oggettivo che deriva dai fatti come dalle esperienze, non sempre è invece questo. Infatti, in un momento storico nel quale la Chiesa soffre di una sempre più crescente penuria di sacerdoti a fronte di molto lavoro da compiere, l’area pastorale della sanità è spesso discriminata. I nostri pastori preferiscono impiegare i loro migliori sacerdoti nelle parrocchie, nella pastorale familiare, nella formazione catechetica dei giovani, nella accoglienza degli emarginati e via dicendo. Si tratta di una scelta che si può anche capire, non però condividere.

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Cristo non ha mai fatto una hit parade nel proprio ministero, ma tutti gli uomini che venivano a Lui erano degni della Sua attenzione e tutti ricevevano aiuto e salvezza.

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le Figlie della Carità oggi – incontro di formazione per religiose

Alcuni esempi di cattiva pastorale sanitaria che implica la figura del cappellano. Partiamo dal primo caso: nominare cappellano un sacerdote anziano e malato poiché non più in grado di reggere il ritmo parrocchiale che richiede di per sé dinamicità, equivale a pensare che l’ospedale possa fornirgli una pronta assistenza per i suoi malanni. Per seguire col secondo caso: nominare cappellano un sacerdote che in assenza di una consona collocazione parrocchiale è costretto per obbedienza dal suo vescovo a stare in ospedale, ma ciò col rischio che questo soggetto finisca presto per rivelarsi insofferente alla malattia e alla morte, sino a non sopportare l’odore del disinfettante o la vista del sangue, diventando ben presto un latitante difficilmente raggiungibile, eccezione fatta per il giorno 27 del mese, quando ritira lo stipendio dall’Ente Ospedaliero. Il terzo caso, forse il più triste, è quello dell’ospedale visto da alcuni vescovi come luogo d’esilio, una sorta di nuova Isola di Sant’Elena per i sacerdoti disobbedienti e turbolenti che finiscono per questo collocati tra i malati, come una sorta di punizione.

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In questi tre diversi casi, come sarà possibile vivere e praticare nella pastorale sanitaria il ministero sacerdotale attraverso la concretezza dell’amorevole invito rivolto da Cristo Signore che ci esorta: «Ero malato e mi avete visitato» [cf. Mt 25, 36], nella piena consapevolezza che «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» ? [cf. Mt 25, 40].

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Cagliari, 8 dicembre 2018

Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria

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Gesù Cristo nel sofferente. La teologia pastorale sanitaria narrata da chi vive la dimensione della malattia e della disabilità nella quotidiana esperienza di vita sacerdotale

— pastorale sanitaria —

GESÙ CRISTO NEL SOFFERENTE. LA TEOLOGIA PASTORALE SANITARIA NARRATA DA CHI VIVE LA DIMENSIONE DELLA MALATTIA E DELLA DISABILITÀ NELLA QUOTIDIANA ESPERIENZA DI VITA SACERDOTALE

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La malattia ha il vantaggio di ridimensionare l’orgoglio dell’uomo e la debolezza fisica induce ad essere sostenuto dagli altri nelle pratiche corporali, anche in quelle più intime. Purtroppo, esiste la remota possibilità che il sacerdote malato – così come Cristo nell’Orto degli Ulivi – conosca l’abbandono dei confratelli e dei familiari in fuga davanti alla desolazione che la malattia comporta.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

 

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San Leopoldo Mandic, riconosciuto dall’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana come protettore degli ammalati di tumore [cf. QUI]

Inizio a collaborare con L’Isola di Patmos con una riflessione sul ministero più bello e delicato nella vita di un sacerdote: la cura pastorale degli infermi. Questo articolo è tratto da un incontro coi seminaristi del Pontificio Seminario Regionale Sardo, dove mi sono intrattenuto con un gruppo di futuri sacerdoti in un momento di dialogo, rifuggendo la tentazione di condurre una lezione di teologia pastorale.

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Voglio chiarire da subito cosa significhi «si opera bene solo se si crede bene», un concetto di estrema importanza che riguarda ogni tipologia di pastorale. Spesso ed erroneamente, la pastorale è identificata con la sola prassi; quasi fosse una realtà pratica chiamata a realizzare il solo “operare”. Vista in questi termini, la pastorale sembra quasi la naturale antagonista della teologia dogmatica, vista come la realtà statica della verità. In realtà, è invece necessario fare uno sforzo di logica e comprendere che per poter “operare bene” è necessario “credere bene”. La stessa cosa viene vissuta nel campo della divina liturgia, in cui celebriamo nei riti e nei segni quello che crediamo fermamente nel cuore [cf. Rm 10,10]. In forza di ciò, non posso pretendere di operare una buona pastorale – qualunque essa sia – senza partire dalla solidità del dato rivelato e dal magistero della Chiesa. È necessario coniugare la verità al fare, la fede alle opere, l’essere alla prassi, affinché la teologia pastorale divenga:

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«presenza e azione della Chiesa finalizzata all’evangelizzazione del mondo […] attraverso l’attualizzazione della presenza liberatrice, sanante, e salvatrice di Cristo, nella potenza dello Spirito Santo» [cf. Brusco – Pintor, Sulle orme di Cristo medico, EDB, Bologna 1999, p.37].

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San Leopoldo Mandic

La pastorale così correttamente intesa, mi trasforma in un cercatore di Dio, di quel Dio che sempre entra in dialogo con gli uomini per farsi conoscere intimamente e che nella pienezza dei tempi si comunica pienamente attraverso il Figlio parola di Verità [cf. Eb 1,1-2]. La pastorale è l’annuncio gioioso che Dio abita il tempo dell’uomo e in questo contesto, in modo gratuito e definitivo, opera la salvezza. E in questo tempo di grazia in cui l’uomo cerca Dio, si viene guidati dallo Spirito Santo a comunicare alle fonti della salvezza, che sono i Sacramenti; a vivere relazioni trasfiguranti all’interno della Chiesa comunità dei credenti; a testimoniare e proclamare che ogni uomo dal battesimo appartiene a Cristo risorto tanto da essere da lui assimilato, secondo le belle parole che troviamo nelle Confessioni di Sant’ Agostino:

«Non sarai tu che assimilerai me a te, ma io che assimilerò te a me» [cf. S. Agostino, “Confessioni”, VII, 10].

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Poste in essere queste considerazioni, la teologia pastorale è la più pura presa di coscienza dell’azione di Dio nell’identità di fede – già espressa dalla teologia dogmatica – che la Chiesa propone all’uomo che vuole incontrare Dio. La pastorale non è il contenitore di strategie accattivanti per annunciare Cristo o guadagnare discepoli, ma comunicazione del depositum fidei nel cuore di un’umanità che sull’esempio del beato Pietro apostolo proclama:

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«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» [cf. Gv 6,68-69].

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Proprio per questo affermiamo che la pastorale è un cammino di fede e di conoscenza di Cristo.

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UNA PASTORALE DEI SOFFERENTI PER INCONTRARE IL “SOFFERENTE”

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San Leopoldo Mandic

Chiarito a grandi linee il discorso sulla pastorale nel suo rapporto alla verità rivelata, passiamo ad analizzare ora la cura pastorale dei fratelli infermi e sofferenti. Da sempre, questa è una tipologia di attività tipicamente cristiana, in quanto Cristo ha identificato la sua persona con l’infermo [cf. Mt 25,36ss] e nel momento della sua passione si è fatto carico non solo dei peccati, ma  di ogni sofferenza fisica [cf. Is 53,4]. Il suo corpo santissimo e il suo sangue preziosissimo che noi adoriamo nel  pane e nel vino costituisce sacramentum cioè segno sacro, velo di una presenza reale; similmente nel corpo sofferente del malato Cristo è velato ma presente nel segno di colui che soffre per la sua infermità. A questo proposito, si narra che Pascal alla fine della sua vita, non potendo ricevere il santo viatico a causa di un male allo stomaco che avrebbe comportato il pericolo di profanare l’eucaristia, chiese di poter ricevere il Signore attraverso il segno-presenza dei poveri malati dell’ospedale degli incurabili.

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Per noi sacerdoti e per i futuri sacerdoti, la cura pastorale del malato è prosecuzione naturale della celebrazione eucaristica dove abbiamo avuto la possibilità di incontrare e farci adoratori e ascoltatori di Cristo sull’esempio di Maria di Bethania, per poi diventarne suoi miti servitori come Marta. Per questo mi sento di affermare – senza timore di smentita –  che il sacerdote che nella sua giornata non visita e serve gli infermi sofferenti, svilisce seriamente il sacrificio eucaristico che celebra. Purtroppo nel dialogo fraterno con diversi confratelli sacerdoti e parroci, ho maturato la sensazione di come la visita agli infermi stia diventando uno tra i doveri sacerdotali più trascurato e dimenticato. E quanto ho appena detto trova solida testimonianza nell’esperienza dei santi. Il beato San Francesco d’Assisi fece esperienza sacramentale di Cristo redentore proprio nel segno del malato di lebbra che incontra sul suo cammino:

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«Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo» [cf. S. Francesco d’Assisi, “Testamento” 1-3, FF. 110].

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Prima ancora dell’incontro e del dialogo con il Crocifisso di San Damiano, Francesco d’Assisi è folgorato da Cristo attraverso il segno della malattia del fratello lebbroso [cf. 1Cel17, FF. 348; 3Comp11, FF. 1407-1408]. Così, seguendo l’esempio del suo fondatore, la prima fraternità francescana scelse di stare con i malati di lebbra e di servirli come immedesimazione a coloro che nella malattia, causa di marginalità, sono imago Christi.

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Prima ancora della scelta pauperistica, San Francesco sceglie come via di riavvicinamento a Cristo la categoria di infermi più spaventosi del suo tempo: i lebbrosi [cf. Manselli, San Francesco d’Assisi, Ed. San Paolo, pp. 109-110].

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LA CURA DEL SOFFERENTE È CAUSA DI CONVERSIONE PER IL SACERDOTE

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Attraverso l’esempio di San Francesco che incontrando il lebbroso si converte, voglio ora sottolineare come questa tipologia di pastorale è condotta non solo in vista di una dinamica assistenziale ministeriale verso i sofferenti, ma come occasione di grazia e conversione personale per la persona del sacerdote.

         

San Leopoldo Mandic

Visitare l’infermo, ripropone l’ineludibile certezza della condizione di fragilità della nostra natura umana contratta con il peccato originale. Devo tener presente che, nel trascorrere del tempo e delle stagioni, un domani la condizione di infermità sarà anche la mia. Nell’esperienza come cappellano ospedaliero, mi sono occupato diverse volte dell’assistenza di confratelli ammalati ricoverati che hanno sperimentato nella propria carne quello che nel tempo della loro giovinezza vivevano solo indirettamente attraverso la pratica pastorale. In tale condizione di debolezza e di infermità, le insegne sacerdotali esteriori e le bardature cerimoniali che spesso nutrono la vana gloria restano mute e vengono meno. Nel sacerdote malato, si rende presente con tutta la crudezza del realismo una spogliazione necessaria che rende fulgida l’immedesimazione a Cristo sacerdote e vittima [cf. Fil 2,7; Mt 27,35]. A seconda della gravità della malattia e delle condizioni di accudimento personali, il sacerdote malato specchia la propria immagine in quella del Servo sofferente di JHWH:

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«Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto» [cf. Is 53,2].

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La malattia ha il vantaggio di ridimensionare l’orgoglio dell’uomo e la debolezza fisica induce ad essere sostenuto dagli altri nelle pratiche corporali, anche in quelle più intime. Purtroppo, esiste la remota possibilità che il sacerdote malato – così come Cristo nell’Orto degli Ulivi – conosca l’abbandono dei confratelli e dei familiari in fuga davanti alla desolazione che la malattia comporta. Eventualità questa che potrebbe riguardare ogni ammalato. Ma è nel sacerdote che assume un valore particolarmente identitario con Cristo in virtù della sacra ordinazione. A questo proposito, basta ricordare gli episodi di infermità che hanno toccato la lunga vita di Giovanni Paolo II per capire il ruolo conformante a Cristo che la malattia assume nella persona del sacerdote malato.

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Il sacerdote infermo, a volte non è più in grado di offrire il pane e il vino ma solo la sua persona al Padre. Dio accetta questo sacrificio in unione a quello di Cristo in vista di una purificazione personale e per la redenzione del mondo. Non già dunque come realtà cruenta che ricerca il dolore per il dolore così da estinguere la coppa dell’ira della divinità [cf. René Girard, Il capro espiatorio].

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Ricordo molto bene le parole di un sacerdote anziano dopo avergli amministrato il sacramento degli infermi:

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«Riferisci al vescovo che offro tutto questo per i sacerdoti e i bisogni della Chiesa!».

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Già San Paolo aveva espresso questo concetto con le parole: «completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» [cf. Col 1,24]. Ecco come la malattia chiama a conversione, a rivedere le proprie priorità e posizioni personali, a verificare la propria vita così come l’oro è purificato e raffinato nel crogiolo [cf. Sir 2,4-5].

     

Guardando alla nostra debolezza di ministri di Dio, nel momento in cui soffriamo con Cristo non è più tempo di mettere le nostre mani tra quelle del vescovo come nel giorno dell’ordinazione sacerdotale ma in quelle stesse del Padre come segno di unione all’obbedienza del Figlio sulla croce. E ripetendo con San Bernardo diciamo:

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Non fu la morte di Cristo che piacque a Dio Padre, ma la sua volontà di morire spontaneamente per noi» [cf. San Bernardo di Chiaravalle, Epistola 90, De Errore Abelardi, 8,21-22 PL 182, 1070, «Non mors, sed voluta placuit sponte morientis»].

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Questa riflessione sulla malattia nella persona del sacerdote, non solo produce il proposito di una vera e concreta conversione, in quanto acuisce il desiderio di essere ben preparato ad affrontare l’infermità e la morte con le armi della fede. Ma anche rende presente come la malattia di coloro che serviamo come ministri, acquista un senso solo attraverso la sapienza della fede che troviamo espressa nelle scritture:

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«Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» [cf. Lc 13 2-5].

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LA SALUTE MESSIANICA È COMPITO CHE CRISTO CONSEGNA AL SACERDOTE.

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San Leopoldo Mandic

Il sacerdote che si occupa della cura pastorale degli infermi intraprende un cammino di guarigione insieme al fratello sofferente, che è il soggetto messianico a cui Gesù si rivolge all’inizio del suo ministero pubblico:

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«Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella» [cf. Lc 7,22].

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Siamo di fronte a un nuovo tipo di pastorale, Gesù opera una pastorale terapeutica, capace di coinvolgere gli uomini in un cammino di guarigione e di riavvicinamento a Dio proprio perché  richiede la conversione [cf. Mc 1,14-15]. Questo tipo di pastorale compie un salto che non è solo metodologico ma ontologico: si passa da una pastorale centrata solo sulla malattia ad una pastorale della salute che richiede il prendersi cura del malato. E Gesù non è forse il Salvatore, colui che ci si cura della salus e la realizza? San Pietro Crisologo esprime questo pensiero così:

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«Cristo è venuto a prendere le nostre infermità e a conferirci le sue virtù, a farsi carico dell’umano e a donarci il divino, ad accogliere le ingiurie e a rendere merito, a sopportare il fastidio e a restituire la salute. Il medico infatti che non si fa carico delle malattie non le sa curare e colui che non è malato con il malato non gli può dare la salute. [cf. S. Pietro Crisologo, Sermones,  PL 52, 50].

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Quando il cristianesimo parla di salvezza, usa la parola latina salus. Ogni domenica nel Credo diciamo propter nostram salútem, cioè per la nostra salvezza. La salute cristiana, quella che vediamo nei Vangeli è tale nel momento in cui Cristo mi strappa dall’infermità voluta dal diavolo – origine e causa di ogni peccato e male – e mi introduce dentro la guarigione pasquale ottenuta a prezzo del suo sangue. Dentro questa logica ogni guarigione e liberazione che ha Cristo come autore diviene momento pasquale dove l’opera del demonio è sconfitta e l’uomo è restituito in salute secondo il piano salvifico di Dio.

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San Leopoldo Mandic

L’agire terapeutico che Cristo compie nel suo ministero pubblico è anticipazione di quel ministero definitivo di salvezza e di salute che si realizza con la sua passione, morte e risurrezione. La pietà popolare ci viene incontro in questo ragionamento con la bella preghiera attribuita a Sant’Ignazio di Loyola: Anima ChristiAd un certo punto della preghiera l’orante si esprime così:

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«Sangue di Cristo, inebriami. Acqua del costato di Cristo, lavami».

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Siamo messi davanti a Gesù crocifisso sul Golgota, i soldati controllano i corpi dei condannati e secondo la prassi della crocifissione romana spezzano le gambe ai condannati per impedire una lenta agonia e anticiparne la morte, ma a Gesù questa sorte non spetta poiché è già morto, tanto che per sicurezza gli viene inferta una ferita al costato che versa sangue e acqua [cf. Gv 19,31-36]. Il lavacro che mi guarisce e mi strappa dal potere del diavolo è certamente quello battesimale figura dell’acqua che sgorga dal costato del redentore. Ma esiste un secondo lavacro, quello nel sangue di Cristo che il sacerdote amministra ogni volta che assolve i peccati.

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San Leopoldo Mandic

Il sangue e l’acqua sono così i due torrenti dove l’uomo può mondare tutta la sua vita e acquistare con la salvezza anche la guarigione. Interessante notare che del sangue di Cristo nella preghiera Anima Christi viene detto che inebria. A cosa allude l’autore? Non penso di sbagliare se interpretiamo queste parole in riferimento allo Spirito Santo, presenza discreta che inebria la vita dei credenti con lo stesso amore che unisce il Padre e il Figlio. Il sangue che Cristo ha versato è segno di obbedienza al Padre, segno dell’amore di fedeltà più alto che un figlio può manifestare al proprio genitore. Nel momento stesso in cui il sangue di Cristo mi purifica dai peccati, mi lava dalle colpe, vengo anche raggiunto dallo stesso amore che il Figlio ha per il Padre. Vengo riempito di Spirito Santo che mi dona la dolcezza inebriante della sua presenza vitale che mi rende la vita [cf. Ez 37,9]. Non per nulla l’apostolo Matteo dice che Gesù al momento della sua morte restituì lo spirito [cf. Mt 27,50]. A chi lo restituisce? Al Padre come totale consegna della sua persona e all’uomo come dimostrazione e insegnamento di un amore che si spinge fino alla fine [cf.  Gv 13,1]. Nel momento in cui Cristo mi salva con il suo sangue, mi concede anche la caparra del suo amore inebriante che è lo Spirito Santo, facendomi gustare la salvezza e il bene che Dio Padre mi vuole. Il sacerdote è reso da Gesù strumento di questa grazia per i fratelli, fino al dono totale della sua persona, del suo tempo e del suo ministero.

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Estrema unzione, oggi Sacramento dell’Unzione degli infermi [dipinto di Rogier van der Weyden, 1445]

Concludo citando il sacramento di guarigione che la Chiesa concede ai fratelli infermi. Questo sacramento è la sintesi mirabile della passione del Cristo e del suo amore offerto a ogni infermo. Nel ministero a favore degli infermi, il sacerdote è chiamato ad amministrare con sollecitudine il sacramento dell’Unzione dei malati. Sacramento che unisce il carattere terapeutico e salvifico dell’azione di Cristo sui corpi e sulle anime dei sofferenti. L’efficacia terapeutica e remissoria di questo sacramento sui mali del corpo e dello spirito comporta un lavacro spirituale che agisce sempre in virtù di quel sangue sgorgato dal costato aperto del redentore. L’imposizione delle mani del sacerdote sul capo del malato prima dell’unzione è il richiamo esplicito al dono dello Spirito Santo che in quel momento viene effuso come linimento all’uomo oppresso dalle sofferenze.

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La fedeltà del sacerdote a compiere questi gesti salvifici nel suo ministero, rendono presente l’azione salutare e salvifica di Cristo tra i fratelli. Il dovere-compito del sacerdote di donare la salvezza è identico a quello di Cristo. E se Gesù è venuto a donarci la vita in abbondanza [cf. Gv 10,10], lo stesso è chiamato a realizzare il sacerdote: donare la vita, non possederla; operare per una guarigione degli uomini, non per aumentarne le ferite.

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Cagliari, 4 dicembre 2018

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