Dall’homo Sapiens ai contadini assassini nella vigna del Signore

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DALL’HOMO SAPIENS AI CONTADINI ASSASSINI NELLA VIGNA DEL SIGNORE

I nostri antenati sapiens quando iniziarono a domesticare quelle specie animali e quei pochi semi che ancora ritroviamo sulla nostra tavola non potevano immaginare il particolare legame che si sarebbe creato fra l’uomo e la coltivazione della vite. Un rapporto che sa di alleanza e perciò di passione, di cura e perfino di amore. Ricordo i contadini che ho conosciuto, quando volevano esprimere la fatica del loro specifico lavoro dicevano: «La terra è bassa!». Perché non solo ti devi chinare verso di essa, ma anche assecondarla e lavorarla con grande fatica.

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Gli storici dell’evoluzione dicono che il passaggio all’agricoltura per la nostra specie ebbe inizio in un periodo che va dal 9500 all’8500 a.C. in una regione collinosa situata tra la Turchia sudorientale, l’Iran occidentale e il Vicino Oriente. Prese il via lentamente e in un’area geografica piuttosto ristretta. Il frumento e le capre furono domesticati approssimativamente intorno al 9000 a.C.; piselli e lenticchie intorno all’8000 a.C.; gli ulivi nel 5000 a.C.; i cavalli nel 4000 a.C.; e la vite nel 3500 a.C. Proprio del terreno che dalla vite prenderà  nome di vigna parlerà Gesù nel brano evangelico di questa ventisettesima domenica del tempo ordinario

«In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi»? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» (Mt 21,33-43).

I nostri antenati sapiens quando iniziarono a domesticare quelle specie animali e quei pochi semi che ancora ritroviamo sulla nostra tavola non potevano immaginare il particolare legame che si sarebbe creato fra l’uomo e la coltivazione della vite. Un rapporto che sa di alleanza e perciò di passione, di cura e perfino di amore. Ricordo i contadini che ho conosciuto, quando volevano esprimere la fatica del loro specifico lavoro dicevano: «La terra è bassa!». Perché non solo ti devi chinare verso di essa, ma anche assecondarla e lavorarla con grande fatica. Quando invece iniziavano a parlare della vigna e del vino che avevano spillato il discorso cambiava, il ricordo della fatica e della dedizione sparivano: apparivano ripagati, diventavano orgogliosi del frutto della vite ricavato e perciò gelosi della loro vigna. È possibile che questa esperienza primordiale abbia ispirato gli autori biblici, in particolare i profeti, quando cantarono in più occasioni lo speciale legame fra l’agricoltore e la vigna in quanto allegoria dell’alleanza fra Dio e il suo popolo Israele. Il brano indubbiamente più famoso è quello riportato nella prima lettura di questa domenica tratto dal profeta Isaia:

«Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?» (Is 5,1-4).

Così quando Gesù iniziò a raccontare gli ascoltatori intesero istantaneamente di cosa stesse parlando a differenza nostra che quella immediatezza l’abbiamo persa e necessitiamo di molte spiegazioni. Infatti la comprensione della parabola detta “dei vignaioli omicidi” ha rappresentato un momento significativo nella storia dell’esegesi cristiana. C’è stato un tempo, non molto distante dal nostro, in cui si è pensato che il versetto  «Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» costituisse una vera punizione per Israele e un attacco da parte di Gesù al giudaismo, cosicché la Chiesa non fosse da considerarsi come un nuovo Israele subentrato al vecchio, ma quello vero1, come l’aveva pensato Dio fin dall’inizio. Ma in tutto il Vangelo di Matteo quest’attacco non si evince e così quella interpretazione è oggi ritenuta obsoleta. Come pure l’idea discendente dalla precedente che Israele in quanto popolo fosse stato rifiutato da Dio. Certo Gesù stava parlando nel tempio rivolgendosi agli anziani e ai capi dei sacerdoti e le sue parole riportavano la pesante punizione causata dal rifiuto degli emissari del padrone della vigna. Essi erano quegli inviati di cui parlerà in Mt 23,34: «Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città». Soprattutto Gesù annunciò l’uccisione del figlio. Ma si stava rivolgendo ai leader religiosi, quelli che chiamerà guide cieche (cfr. Mt 23,16) e poiché ora la parabola è presente  nel Vangelo quelle parole varranno sempre per la Chiesa ed i suoi responsabili. In particolare la vigna  che è l’Israele santo di Dio, il popolo eletto,  non sarà incendiata o devastata come la città di cui si parlerà nella parabola seguente (Mt 22,7) ma anzi è lì pronta per dare frutti buoni; solo, non saranno gli attuali vignaioli a coglierli: la vigna, il popolo dell’alleanza, verrà affidata ad altri contadini. Perciò tutte le parabole di Gesù e questa in particolare vanno considerate come opere aperte. Rinchiuderle dentro un’unica interpretazione, come un letto di Procuste, farebbe loro torto perché il valore sta nell’inquietudine che continueranno a suscitare, unita alle domande che incalzeranno la fede dei discepoli e la loro sequela, affinché siano continuamente spronate.

Gesù iniziò il racconto dicendo che c’era un uomo, un proprietario ― il termine oikodespotes (οἰκοδεσπότης) può significare anche un padre di famiglia, infatti la Vulgata tradusse: Homo erat pater familias ― che piantò una vigna e la dotò di tutto il necessario, quindi l’affidò a dei vignaioli e partì. Il verbo apodemeo (ἀποδημέω da cui ἀπεδήμησεν del v.33) indica qualcuno che va fuori della patria, all’estero, allontanandosi dalla propria abitazione. Quest’uomo partì portando con se il pensiero e il ricordo della vigna, così quando venne il tempo dei frutti mandò dei servi a richiederli, ma furono brutalmente trattati dagli affidatari. Evidentemente si erano convinti nell’animo che il padrone essendosene andato si fosse anche scordato della vigna e che questa ormai fosse loro, così se l’erano accaparrata sostituendosi al vero proprietario. Ma in fondo questi rivendicava solo i frutti, non stava pretendendo la proprietà. Con una pazienza che parrà incredibile se non fosse ascritta a Dio egli inviò di nuovo servi in numero maggiore e pure questi subirono la stessa sorte dei precedenti. I lettori del Vangelo che a questo punto già sentiranno montare la rabbia per il sopruso, speranzosi di vedere il ristabilimento della giustizia anche con l’uso della forza, si troveranno impreparati e spiazzati nel leggere che il padre starà per mettere a repentaglio la vita del suo proprio figlio. Ma il proprietario della vigna, ormai lo sappiamo, è un padre fuori dell’ordinario, come dirà la preghiera di colletta di questa domenica: Egli aggiunge «quello che la preghiera non osa sperare».  Così non mandò altri emissari come rappresentanti, ma inviò direttamente suo figlio mosso da un’intima speranza: «Avranno rispetto per mio figlio!».

Sappiamo come le cose andarono a finire, è inutile ripeterlo. Il particolare dell’omicidio compiuto al di fuori della vigna rimase scolpito nella memoria degli autori del nuovo testamento e così lo menzionarono quando si trattò di raccontare la morte di Gesù (cfr. Mc 15,20; Mt 27,31, Eb 13,12) oppure quella di Stefano (cfr. At 7,58). Il figlio espulso dalla vigna fu il segno tangibile del rifiuto della volontà divina e della sostituzione che quei contadini vollero perseguire: «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!».

Le successive parole di Gesù introdotte dalla domanda circa la sorte di quei vignaioli omicidi si prenderanno tutta l’attenzione e, come abbiamo più su riportato, anche quella della futura esegesi, facendo passare sotto silenzio un particolare non di poco conto a cui Gesù aveva accennato e che potrebbe rappresentare invece il cuore della parabola, quello che illuminandola le dà senso, ancor più della stessa eliminazione e sostituzione dei vignaioli malvagi. Questo particolare fa riferimento al pensiero del padrone della vigna che si aspettava rispetto verso il figlio inviato. Il verbo entrepo, εντρέπω del v. 37 nella forma attiva significa mutare, cambiare, tornare di senno e in quella passiva, come sta nel Vangelo: commuoversi, portare rispetto, esitare. La Vulgata scelse aver timore e riportò: “Verebuntur filium meum“. In qualsiasi modo si voglia tradurre quel desiderio esplicitato, è chiaro che il padrone della vigna non si attendeva la morte violenta del figlio. Quello era il suo sogno, il sogno di Dio. Nel Vangelo di Matteo già Giuseppe e poi i Magi (cfr. Mt 1,20; 2,12-13) prestando ascolto a un sogno poterono salvare Gesù. Avevano così compiuto la volontà di Dio. Cosa sarebbe accaduto se Pilato avesse ascoltato il sogno della moglie (cfr. Mt 27,19) narrato nel racconto della passione: egli avrebbe risparmiato Gesù dalla condanna? Quella frase della parabola, apparentemente innocente, mette in crisi alcune facili e inappropriate teologie della redenzione. In essa vi leggiamo non solo la speranza che Israele si converta, ma anche che il figlio venga risparmiato.

Naturalmente senza dimenticare che per tre volte Gesù mostrerà di salire volontariamente, liberamente e consapevolmente a Gerusalemme (cfr. Mt 16,21-23), dove vi avrebbe incontrato la morte che accetterà ancora più decisamente nel Getsemani: «avvenga la tua volontà» (Mt 26,42). Addirittura Matteo rilesse la sua consegna alla luce delle Scritture: «Tutto questo è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Non si potrebbe però pensare, sempre nella logica del racconto matteano, che il progetto iniziale non fosse questo, quanto piuttosto quello di cui parlerà lo stesso Gesù  ― in verità dopo tutti e tre gli annunci della passione ― accennando a una palingenesi (cfr. Mt 19,282 e 25,31-46); che egli avrebbe voluto far avanzare restaurando l’Israele di Dio? Quando il piano però cominciò a deteriorarsi, allora Gesù, come il figlio della parabola, mostrerà di amare tanto la sua vigna al punto di morire per essa. Ci torna in mente il commento di Sant’Ambrogio:  «Salve, vigna meritevole di un custode così grande: ti ha consacrato non il sangue del solo Nabot ma quello di innumerevoli profeti, e anzi quello, tanto più prezioso, versato dal Signore»3. La parabola, dunque, che insistette sulla misericordia del padrone, lasciò emergere anche sullo sfondo l’offerta gratuita del figlio.

Questa parabola risuona certamente come un giudizio di Dio, non però sul popolo d’Israele, ma su quei capi del popolo che hanno rigettato e condannato Gesù. Matteo, infatti, registrerà subito dopo la loro reazione; cercarono di catturarlo ma ebbero paura della folla e per questo rimandarono di qualche giorno il loro piano, attendendo una situazione più propizia (nella notte e nel Getsemani, dove non ci sarà la folla dei suoi seguaci; cfr. Mt 26,47-56). Avevano infatti compreso che quella parabola individuava proprio in loro i vignaioli omicidi. Ma la parabola dice che questo sarà pure il giudizio sulla Chiesa, soprattutto sui suoi capi. La vigna è stata tolta a quei capi di Israele e data una nuova collettività umana (éthnos, senza articolo del v.43): la comunità dei poveri nello spirito, dei miti che, secondo la promessa del Signore, erediteranno la terra (cf. Mt 5,5; Sal 37,11), a quel popolo umile e povero costituito erede per sempre dal Signore (cf. Sof 3,12-13; Is 60,21; Ger 30,3).

È molto importante sul piano teologico capire che la funzione della forma matteana della parabola non è quella di esaltare il cristianesimo rispetto al giudaismo, ma piuttosto di lasciare aperta la risposta alla rinnovata offerta di riconciliazione fatta dal Cristo innalzato. In un certo senso, la Chiesa si trova in una posizione analoga a quella d’Israele. In un altro senso, tuttavia, essa ha già fatto esperienza del miracoloso intervento di Dio. La pietra scartata costituisce ora la testata d’angolo. Sarà questa generazione di cristiani ad accogliere il regno di Dio e a produrre frutti di giustizia, oppure esso le sarà tolto per essere affidato ad un’altra? Il già citato Ambrogio di Milano vedeva che il pericolo di incorrere nel castigo è per tutti, anche per i cristiani: «Il vignaiolo è senza alcun dubbio il Padre onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci: ma se non portiamo frutto in Cristo veniamo recisi dalla falce del coltivatore eterno»4. Detto questo, è chiaro che la parabola è cristologica e teologica. Il figlio del padrone della vigna è caratterizzato con quegli attributi, come l’idea dell’eredità, che sono tipici del linguaggio di Gesù quando voleva parlare di sé e del suo rapporto col padre; la sua morte fuori delle mura della città ovviamente ricorderà la fine del Messia. Ma la parabola dice molto anche a proposito del Padre: il suo giudizio, stranamente, tarda ad arrivare; Dio è rappresentato addirittura come fin troppo paziente. Qualsiasi ascoltatore del racconto, ai tempi di Gesù, sarebbe rimasto colpito da quella che potrebbe sembrare una debolezza di carattere. Quel Dio invece sa aspettare e continua a sperare in un cambiamento dei suoi vignaioli che potrebbero addirittura «rispettare suo figlio» (cfr. Mt 21,37). Diversamente da quanto facciamo noi Dio non si lascia demoralizzare da un rifiuto, insiste nella sua proposta di salvezza, Egli non vuole mai la morte del peccatore, ma che questi si converta e viva.

Vorrei concludere ricordando che la pregnanza di questa parabola fu colta in modo particolare da Benedetto XVI, in un momento che immaginiamo fu carico di emozione e di grande timore per lui. Dalla loggia della Basilica di San Pietro la sera della sua elezione così parlò di se stesso:

«Hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore. Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere»5.

Buona domenica a tutti. 

dall’Eremo, 8 ottobre 2023 

 

 

 

1 Trilling W., Il vero Israele. Studi sulla teologia del Vangelo di Matteo, Piemme, 1992

2 «E Gesù disse loro: “«In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele”».

3 Sant’Ambrogio, Esposizione del Vangelo secondo Luca, Città Nuova 1978.

4 Sant’Ambrogio, op. cit.

5 Vedere:  https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2005/april/documents/hf_ben-xvi_spe_20050419_first-speech.html

 

 

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