Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Oltre l’utopia e il disincanto: la speranza cristiana oggi

— Theologica —

OLTRE L’UTOPIA E IL DISINCANTO: LA SPERANZA CRISTIANA OGGI

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La speranza cristiana, oggi deve farsi largo con molto impegno e fatica tra le nuove esperienze di millenarismo, fra le pretese di escatologia politica del protestantesimo statunitense, la narrazione apocalittica del jihadismo in Occidente, fino alle strane esperienze della religiosità New Age e del Calendario Maya conclusosi il 21 dicembre del 2012. Da questi estremismi, come quasi un toccare il fondo di noia dell’immanenza, ci possiamo spostare verso ben altra dimensione, quella che ci apre le porte alla prospettiva della speranza cristiana.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Il teologo domenicano Daniele Aucone

Daniele Aucone, sacerdote e teologo domenicano della provincia romana Santa Caterina da Siena [cf. vedere QUI], già autore de La questione della comunità tra filosofia e Teologia [Ed. Nerbini, cf. QUI] propone al pubblico di studiosi e ricercatori il suo ultimo libro, Oltre l’utopia e il disincanto – La speranza cristiana oggi, frutto anche del lavoro di dissertazione dottorale in teologia [Ed. Angelicum University Press, cf. QUI].

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Il tema centrale del testo è la speranza, come si evince dal titolo; l’autore cerca di delineare e individuare in essa traiettorie feconde [cf. pag. 10] per rinvigorire l’annuncio di questo tema assai caro alla teologia cattolica. Speranza che per i credenti risiede nel volto e nell’incontro di Gesù Cristo.

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Il testo si divide in due parti: nella prima parte il Padre Daniele Aucone si sofferma a scandagliare la società e la cultura occidentale e la prospettiva dell’attesa, a partire da diversi autori: Kojève e Zizek fra gli altri. Nella seconda parte, invece, egli si sofferma a generare una prospettiva teologico-sistematica della speranza, facendosi aiutare da diversi autori fra i quali Theobald, Durand e Mendoza – Alvarez.

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l’ultima opera del teologo domenicano Daniele Aucone

La prima parte può definirsi strictu sensu come una descrizione di un “urlo” della società post-moderna che, ormai tramontate le speranze mondane, si racchiude fra rassegnazione, disillusione e nuove paure.

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Alexander Kojève, nella veste di interprete del fine della storia in senso hegeliano, spalanca le porte ad una ricerca di immortalità terrena. Slavko Žižek allora conduce una analisi della prossimità del punto zero, in cui si porge una apocalittica di tipo classico in cui vive solo una panoramica di scenari di panico. In questa prima parte, ci sembra molto interessante, anche per il lettore meno esperto di materia filosofica, la accurata sezione che narra le nuove esperienze di millenarismo: fra le pretese di escatologia politica del protestantesimo statunitense, la narrazione apocalittica del jihadismo in Occidente, fino alle strane esperienze della religiosità New Age e del Calendario Maya conclusosi il 21/12/12. Da questi estremismi, come quasi un toccare il fondo di noia dell’immanenza, finalmente l’autore può effettuare una transizione e spostarsi verso la prospettiva della speranza cristiana. Scrive il Padre Daniele Aucone:

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«In questo contesto di disagio dell’Occidente contemporaneo infatti, ma anche di ricerca di senso e di direzione, è chiamato a inserirsi il messaggio della speranza cristiana quale attesa dell’incontro definito con il Risorto come τέλος [N.d.R. telos, “scopo”, “fine”] e  πέρας [peras: “illimitato”, “infinito”] della storia». [cit. pag. 114].

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La speranza è allora un dono, un generare un desiderio all’Homo Desiderans, oltre la pretesa postmoderna di una vita liquida, per fondare saldamente una vita degna nel tempo della Fine. È speranza che infine permette di fuggire dalla tirannia del tutto e subito, di un’attesa del tempo definitivo fondata sulla memoria resurrectionis; infine, spunto molto interessante che l’Autore riprende dal teologo Roberto Repole: la speranza intesa come Pensiero Umile ed apertura alla prospettiva della Rivelazione, oltre il pensiero debole vattimiano, ma senza neanche pretendere di risolverla del tutto, oltre l’impensabile ritorno ad un pensiero forte: la speranza è radice di un pensiero umile [cit. pag. 116].

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Nella analisi della sezione biblica, si chiarifica abbondantemente il senso della apocalittica nell’orizzonte esegetico attuale, mostrando come l’analisi dell’ultimo libro della Bibbia, lungi da prospettive circa «la fine del mondo» vuole invece mostrare come ci siano varie fini, che chiudono diverse epoche storiche; e al tempo stesso l’Apocalisse svela un narcisismo di fondo dell’uomo contemporaneo, che nasconde una profonda instabilità esistenziale [cit. pag. 126].

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la precedente opera del teologo domenicano Daniele Aucone

A partire dagli studi di Cristoph Theobald, il Padre Daniele Aucone propone infine il Cristianesimo come stile di vita col quale abitare e vivificare il mondo; ciò è possibile perché esso genera legami di fraternità oltre lo spazio e il tempo, che superano l’individualismo attuale. [cit. pag. 142]. Nella sezione teologica, egli si lega al pensiero del confratello domenicano Emanuel Durand che offre riflessioni interessanti sulla teologia della Provvidenza. Per molti credenti si è infatti notato che la fede nel Dio Creatore non portava ad una profonda attenzione alla sua opera di provvidenza, anche nel più piccolo quotidiano. Con il Padre Emanuel Durand c’è il recupero di una teologia della provvidenza in cui, l’uomo è fondato da una continua relazione vivente con Dio. Il Signore della creazione, ne conclude quindi il nostro Autore insieme al teologo domenicano Emanuel Durand, agisce tramite fenomeni puramente naturali, oltre che in quelli miracolistici: la provvidenza ha dunque un’azione nel necessario e nel contingente: nulla sfugge alla mano invisibile, materna e al tempo stesso collaborante con l’uomo del Dio Trinitario [cit. pag. 163].

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Interessantissimi sono infine i cinque spunti finali sulle attuali missioni ecclesiali, che compongono l’ultimo capitolo: una nuova missionarietà della Parola [cit. pag. 267], una evangelizzazione nel soffio dello spirito [cit. pag. 270], una attenzione per una ecologia umana integrale [cit. pag. 273], una formazione alla fraternità e comunione [cit. pag. 277] e infine una trasfigurazione del tempo mediante la celebrazione liturgico – sacramentale [cit. pag. 281].

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Il libro è vivamente consigliato agli appassionati della teologia, oltre che agli addetti ai lavori per la una ventata di novità circa la speculazione teologica sulla speranza e l’escatologia, in grado di uscire dagli schemi classici e proporsi anche in confronto con la cultura attuale. Soprattutto, gli spunti circa le missioni ecclesiali possono essere fonte per una meditazione personale, oltre che speculativa, anche per gettare linee guida pastorali.

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Roma 27 maggio 2019

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Senza la pace di Cristo, presto l’Europa sarà morta e sepolta sotto le macerie della falsa pace del mondo [in appendice: la bandiera mariana dell’Unione Europea]

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

SENZA LA PACE DI CRISTO, PRESTO L’EUROPA SARA MORTA E SEPOLTA SOTTO LE MACERIE DELLA FALSA PACE DEL MONDO

[IN APPENDICE: LA BANDIERA MARIANA DELL’UNIONE EUROPEA] 

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Se non ricordo male, domani si vota per le elezioni europee, sinceramente non ho ascoltato le raccomandazioni date dal comitato elettorale della Conferenza Episcopale Italiana né da quello della Segreteria di Stato della Santa Sede, perché avevo di meglio da fare, incluso pregare per le sorti del nostro vecchio, glorioso e amato Continente, a proposito del quale mi torna a mente una frase lapidaria lanciata dal Cardinale Giacomo Biffi agli inizi del Secondo Millennio: «L’Europa, o sarà di nuovo cristiana o non lo sarà più».

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Laudetur Jesus Christus !

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sono stati numerosi i devoti cattolici che attraverso i mezzi telematici mi hanno inviata questa vignetta, inclusi numerosi sacerdoti e religiosi, cosa questa che dovrebbe far riflettere coloro che non vivono, come noi, nella reale Isola di Patmos, ma nella irreale Isola che non c’è

In questa VI domenica di Pasqua, il Vangelo ci offre un brano dell’Evangelista Giovanni [Liturgia della Parola: QUI], il discepolo prediletto dal Signore. Colui che rimase sotto la croce con la Beata Vergine, mentre «tutti i discepoli abbandonatolo fuggirono» [Mt 26, 56; Mc 14, 50]. Sotto quel supplizio — sul quale il Cristo straziato nel corpo non era affatto un bel santino iconografico, né la figura linda raffigurata in pitture e sculture —, avviene lo straordinario atto di affidamento:

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«Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» [Gv 19, 26-27].

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Poco prima, Cristo, pietra angolare [cf. Mt 21, 42; Mc 12, 10; Lc 20, 17], aveva edificata la Chiesa nascente su Pietro con un’espressione spesso male intesa, forse oggi più di ieri: «Pietro, tu sei pietra, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» [Mt 16, 18]. Frase che può essere compresa solo capendo a chi si riferisce Cristo Signore indicando «su questa pietra». Se infatti non si comprende che la pietra fondante è Cristo Dio, sulla quale Pietro è appoggiato come pietra, si può correre il rischio di cadere nella pietrolatria. È per ciò bene ricordare che Pietro, di Cristo, è il vicario sulla terrà, non il successore. Chiunque avesse dubbi in proposito, legga le parole del Beato Apostolo Paolo:

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« […] edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù» [Ef 12, 20].

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Col giovane Giovanni e col maturo Pietro, abbiamo due figure quasi antitetiche di Apostoli: il primo, sotto la croce con la Beata Vergine e con una Santa ex prostituta convertita e redenta, il secondo che scappa per primo in testa agli altri Discepoli e che poco dopo rinnega Cristo per tre volte; e lo fa prima giurando, poi persino imprecando [cf. Mt 26, 74].

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Il Vangelo del Beato Evangelista Giovanni è noto anche come il Vangelo della gioia e dell’amore, benché nelle sempre più stravaganti catechesi e nelle omelie sempre più scialbe, non si precisi — o forse, ahimè, proprio non si conosca! —, che questo giovane, tal era all’epoca, ha goduto delle particolari cure spirituali da parte del Divino Redentore, in seguito ha vissuto buona parte della sua esistenza con la Immacolata Concezione, la Mater Dei, da noi venerata anche come Mater Ecclesia

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Cristo Signore ha affidata la Chiesa nascente alla guida del più limitato degli Apostoli, forse affinché Pietro potesse incarnare anche tutte quelle fragilità, debolezze e miserie umane ch’egli non tarda a manifestare, seguitando a manifestarle anche nella vecchiaia, per esempio quando a Roma, sotto le persecuzioni di Nerone, sta dandosi alla fuga per l’ennesima volta. Però, come sappiamo, sulla Via Appia gli apparve il Cristo, al quale Pietro domanda: «Quo vadis Domine?» [dove vai, Signore?»]. Risponde Cristo: «Eo Romam, iterum crucifigi» [vado a Roma per essere crocifisso di nuovo]. A quel punto Pietro tornò indietro, morendo poco dopo martire sul Colle Vaticano, dove si trovava sia il luogo delle esecuzioni, sia il circo di Nerone. Sotto certi aspetti un po’ come oggi: perché il Vaticano è un luogo di esecuzioni “misericordiose” e al contempo un circo. E in quel luogo di esecuzioni e di giochi circensi, Pietro si santificò col martirio; e come lui chiunque lo voglia può santificarsi oggi, inclusi i Successori di Pietro.

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Forse con due millenni d’anticipo, sotto la croce Cristo affida al giovane e amato Giovanni la Madre Chiesa straziata dal dolore, mentre colui che l’ha voluta come sposa dell’Agnello [cf. Ap 19, 7-8], agonizza affisso ad un palo con quattro chiodi ed una corona di spine sulla testa.

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Assieme alla Chiesa nascente, Cristo ha lasciato agli Apostoli anche qualcos’altro di molto prezioso: la sua pace, che è elemento centrale di questo brano evangelico redatto dalla giovannea aquila. A tal proposito Cristo precisa:

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«Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore» [Gv 14, 27].

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La dualità tra Cristo e il mondo, torna ad affiorare tra queste righe, dinanzi alle quali dovremmo anzitutto interrogarci: ma che cos’è veramente la pace di Cristo, che, rispetto a quanto Lui ci dice, appare del tutto antitetica, rispetto alla pace del mondo?

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La pace del mondo, o se preferiamo la falsa pace, è quella che non rigetta il peccato, ma che anzi lo accoglie trasformandolo in bene, in preziosa diversità da accogliere, in diritto e in valore supremo. Volendo potremo riassumere il tutto con uno striscione che durante la Marcia per la Vita del 23 maggio è stato affisso a Roma da un gruppo di femministe indiavolate con su scritto: «La legge 194 non si tocca, le donne sono libere di abortire in santa pace!».

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Ecco la pace del mondo: il “diritto” ad uccidere creature innocenti, il “diritto” all’eutanasia, od il “diritto” dell’utero in affitto, affinché due gay possano fabbricarsi il loro bimbo giocattolo. O forse, il mondo, può essere per caso così “crudele” da togliere a siffatto modello di coppia così felice questa “meritata” pace?

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La pace di Cristo risiede nella verità e nella giustizia, dalla quale nascono le espressioni più profonde di carità. Ma soprattutto, la pace, è Cristo stesso che è via verità e vita [cf. Gv 14, 6], che della pace è fonte e datore [Ef 2,14]. 

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Accomiatandosi dai Discepoli prima della passione, Gesù lascia loro la sua pace [Gv 14,27], ed in seguito, una volta risorto dalla morte, torna a offrire il dono supremo della sua pace salutandoli: «Pace a voi!» [Lc 24,36; Gv 20,19-21.26]. La pace di Cristo si ottiene attraverso la riconciliazione con Dio Padre, dalla quale nasce poi la riconciliazione con i fratelli [cf. Mt 6,12], affinché questa cristologica pace possa essere estesa a un mondo rinnovato dal Cristo che mediante la grazia dello Spirito Santo ci purifica e ci santifica. Dunque, ogni volta che noi sacerdoti apriamo le braccia e diciamo «Pax vobiscum» [la pace sia con voi], in quel momento siamo Cristo che vi dona la Sua pace e che vi inviata nella Sua pace.

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Se non ricordo male, domani si vota per le elezioni d’Europa, sinceramente non ho ascoltato le raccomandazioni date dal comitato elettorale della Conferenza Episcopale Italiana né da quello della Segreteria di Stato della Santa Sede, perché avevo di meglio da fare, incluso pregare per le sorti del nostro vecchio, glorioso e amato Continente, a proposito del quale mi è ritornata alla mente una frase lapidaria lanciata dal Cardinale Giacomo Biffi agli inizi del Secondo Millennio: «L’Europa, o sarà di nuovo cristiana o non lo sarà più».

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Tante altre cose mi sono tornate a mente, vorrei ricordarle in breve a chi pare privo di memoria storica. Anche perché non si tratta di tornare indietro di secoli, ma solo di pochi decenni …

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… negli archivi dell’ex Sant’Uffizio e in quelli di molti tribunali ecclesiastici diocesani d’Italia, sono sempre conservati atti nei quali diversi sacerdoti sono stati canonicamente sanzionati anche e solo per sospette simpatie verso il vecchio Partito Comunista Italiano. Ebbene, in queste ultime settimane abbiamo dovuto assistere all’autentico sconcio dei nostri Vescovi — ma quel che è peggio della Santa Sede —, che sono entrati a gamba tesa nella campagna elettorale per sostenere il Centro-Sinistra, erede molto annacquato del vecchio Partito Comunista Italiano. Infatti, mentre i vecchi comunisti, tanto agguerriti quanto coerenti, parlavano di proletariato e di classe operaia, portando avanti molte giuste rivendicazioni a tutela delle classi più deboli, i loro nipotini piddini, — quelli sostenuti dal nostro episcopato, per intendersi —, li troviamo invece all’ora dell’aperitivo nei caffè di lusso del quartiere Parioli, nei super attici del centro e nelle ville romane dell’Olgiata.

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Siccome non tutti sono privi di memoria storica, vorrei ricordare che da adolescente, nell’affatto lontano 1978, ho visto piangere un anziano parroco che finì fulminato dal Vescovo poiché accusato di essere troppo vicino a circoli comunisti. L’accusa al Vescovo fu presentata da alcuni politici e amministratori democristiani finiti sotto processo per corruzione e poi in galera un ventennio dopo. Detto questo mi sarebbe lecito domandare, sia al comitato elettorale della Conferenza Episcopale Italiana sia a quello della Segreteria di Stato, se sono io che ho capito male, se sono io che mi sono perso qualche passaggio della nostra incredibile evoluzione storico-politica ecclesiastica, oppure: siamo proprio all’appoggio clericale dato ai nipotini incoerenti e viziosamente borghesi di quelli che furono i vecchi e coerenti comunisti italiani? Perché temo che un certo clero politicante, con la nuova Sinistra, condivida un elemento inquietante: una idea di popolo ideologico e onirico totalmente avulsa dal reale, a ben considerare che il popolo non si incontra né nei caffè di lusso dei Parioli, né nei super attici del centro, né nelle ville romane dell’Olgiata, ma neppure nei palazzi delle curie, per quanto oggi ammantate di grande pauperismo con i loro vescovi che indossano croci di legno al collo e che procedono in processione con i bastoni pastorali fatti non più dagli artigiani argentieri ma dai falegnami, il tutto in attesa che cambi vento per poi presentarsi, come se nulla fosse accaduto, con sette metri di cappa magna.

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Possa l’Europa accogliere la pace di Cristo, perché con la pace del mondo, portata avanti dai nipotini incoerenti dei vecchi comunisti coerenti, presto sarà morta e sepolta, con la benedizione del nostro episcopato italiano.

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dall’Isola di Patmos, 25 maggio 2018

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NOTA STORICO POLITICA SULLA BANDIERA MARIANA DELL’UNIONE EUROPEA

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La bandiera dell’Unione Europea rappresenta il velo e il diadema di stelle della Beata Vergine Maria

Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. [Apocalisse di San Giovanni Apostolo: 12, 1]

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A chi non lo sapesse ricordo qual è il significato della bandiera d’Europa: il colore blu raffigura il manto della Vergine Maria, le dodici stelle il suo diadema. All’epoca, quando fu costituito il primo nucleo dell’Unione Europea, i politici cattolici, all’insaputa dei protestanti Nord Europei, misero la nascente unione sotto la protezione della Mater Dei.

Se di ciò prenderanno atto laicisti, gay e lesbiche incattivite che pullulano nel Parlamento di Strasburgo, forse faranno un’interpellanza per cambiare bandiera.

Altri ancóra non sanno poi che alle urne si va in questo mese di maggio, che tradizionalmente è il mese dedicato alla Vergine Maria, anche se in molte chiese, in questo mese mariano, svariati vescovi e presbiteri si sono profusi in auguri sperticati di buon Ramadam, anziché lodare la Vergine Santa con la recita del Santo Rosario col quale l’Europa vinse la Battaglia di Lepanto, evitando che la bandiera con la mezzaluna potesse sventolare sulla cattedrale del Vescovo di Roma, il tutto prima ancóra di creare un’unione che ha, come proprio emblema, il manto e il diadema della Madonna …

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«Se tu non guarisci tuo fratello che è malato, sei responsabile del suo sangue». La ospitalità come identità di una comunità sanante

visita il blog personale di Padre Ivano

— pastorale sanitaria —

«SE TU NON GUARISCI TUO FRATELLO CHE È MALATO, SEI RESPONSABILE DEL SUO SANGUE». LA OSPITALITÀ COME IDENTITÀ DI UNA COMUNITÀ SANANTE. 

[…] molto tempo prima della frase di Papa Francesco sulla immagine della Chiesa come ospedale da campo, le prime comunità cristiane sono state sollecitate dallo Spirito Santo verso questa forma di cura e di assistenza nella forma dell’ospitalità. La Chiesa nasce come comunità ospitale – cioè ospedaliera – luogo accogliente in cui riconoscersi bisognosi di cure, di guarigione e di riconciliazione con Dio e i fratelli: «Per questo, è importante tendere la mano ai malati, far loro percepire la tenerezza di Dio, integrarli in una comunità di fede e di vita in cui possano sentirsi accolti, capiti, sostenuti, degni, in una parola, di amare e di essere amati. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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foto: Ivano Liguori, Ofm. Capp. Veglia di Pasqua, processione con il Lumen Christi nelle corsi dell’Ospedale Brotzu di Cagliari

L’Apostolo Paolo, ci invita a essere premurosi nella ospitalità con queste parole: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» [R 12, 1]

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Nel primo secolo d.C all’ingresso di alcune chiese vi era questo avviso:

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«Se tu non guarisci tuo fratello che è malato, sei responsabile del suo sangue» [cf. Beppino Cò Le 7 tappe spirituali della guarigione fisica, pg. 6 ed. Villadiseriane].

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Apro questo nuovo articolo partendo da questa suggestione che ho trovato in un libricino che tratta della guarigione fisica inserita all’interno di un percorso di risanamento spirituale. Pur non potendo verificarne la fonte storica in modo più preciso, quello che mi ha colpito di questa frase non è tanto l’invito alla guarigione del fratello o il riferimento al carisma stesso di guarigione, bensì l’affissione di tali parole reingresso di una chiesa.

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Riflettendo su questo, sono stato folgorato da questa certezza: la Chiesa è nata per essere comunità sanante, via santa dove liberarsi delle proprie infermità e gustare la salute e la salvezza che Dio dona premurosamente ai suoi figli. In questo è possibile vedere la realizzazione di quelle parole di profezia di Isaia:

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«Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore

e verranno in Sion con giubilo;

felicità perenne splenderà sul loro capo;

gioia e felicità li seguiranno

e fuggiranno tristezza e pianto» (cf. Is 35,10)

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È quanto mai necessario realizzare un cammino missionario che metta in crisi certe scelte odierne che spesso – come comunità dei credenti – preferiamo. Il magistero pontificio ci aiuta a fare chiarezza in tal senso:

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«Di fatto, la Chiesa nel corso dei secoli ha fortemente avvertito il servizio ai malati e sofferenti come parte integrante della sua missione e non solo ha favorito fra i cristiani il fiorire delle varie opere di misericordia, ma ha pure espresso dal suo seno molte istituzioni religiose con la specifica finalità di promuovere, organizzare, migliorare ed estendere l’assistenza agli infermi. I missionari, per parte loro, nel condurre l’opera dell’evangelizzazione, hanno costantemente associato la predicazione della Buona Novella con l’assistenza e la cura dei malati.» (cf. Dolentium Hominum, 1)

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Dobbiamo perciò prendere atto di come molto tempo prima della frase di Papa Francesco sull’immagine della Chiesa come ospedale da campo, le prime comunità cristiane sono state sollecitate dallo Spirito Santo verso questa forma di cura e di assistenza nella forma dell’ospitalità.

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La Chiesa nasce come comunità ospitale – cioè ospedaliera – luogo accogliente in cui riconoscersi bisognosi di cure, di guarigione e di riconciliazione con Dio e i fratelli:

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«Per questo, è importante tendere la mano ai malati, far loro percepire la tenerezza di Dio, integrarli in una comunità di fede e di vita in cui possano sentirsi accolti, capiti, sostenuti, degni, in una parola, di amare e di essere amati. Per loro – come per ciascun altro – contemplare Cristo e lasciarsi “guardare” da Lui è esperienza che li apre alla speranza e li spinge a scegliere la vita (cf. Dt 30,19)» (cf. Tarcisio Mezzetti, Accogliere lo stanco e l’oppresso, ed. Elledici, pag. 11]. 

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Inoltre:

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«Nella comunione con il Cristo morto e risorto, con colui che ha vissuto significativamente il dolore e la morte, la Chiesa diventa locanda ospitale, grembo accogliente dove la vita, nella sua interezza, è rispettata, difesa, amata e servita, luogo di speranza, dove qualsiasi pellegrino stanco e malato, ricercatore del senso di ciò che sta sperimentando, può vivere in modo salutare e salvifico il suo soffrire e il suo morire, e scrivere un capitolo significativo della sua storia di alleanza con gli altri e con Dio» [cf. Luciano Sandrin, Chiesa, comunità sanante, pg 77, Ed. San Paolo].

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La Chiesa non può rinunciare a questo tratto essenziale della sua identità, che rappresenta un modello si servizio essenzialmente terapeutico attraverso la diaconia della comunione ecclesiale.

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La comunione ecclesiale – per la Chiesa di ogni tempo – è la sfida più grande e difficile per generare un discepolato che sia conforme all’immagine di Cristo [cf. Rm 8,29]. La comunione ecclesiale costituisce di fatto certezza della presenza di Cristo, non solo segno della sua premurosa assistenza [cf Mt 18,20].

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Per essere in comunione tra noi – e quindi attivare le risorse per poter procurare la guarigione agli altri – è essenziale essere in comunione con Cristo, pacificarmi con lui.

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Madre Teresa di Calcutta, rivolgendosi al cardinale Angelo Comastri, era molto chiara a tal proposito: «Figlio mio, senza Dio siamo troppo poveri per aiutare i poveri!», volendo parafrasare queste parole secondo l’orientamento della nostra riflessione arriviamo ad affermare come: senza Dio siamo troppo malati per aiutare i malati!

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Gesù ci dona un suggerimento per guarire e capire se siamo arrivati ad essere in piena comunione con lui: l’amore vicendevole [cf. Gv 13,35]. Possiamo anche stupirci, ma non costituisce segno rivelatore della presenza di Cristo nel discepolo il numero di comunioni ricevute o di pellegrinaggi compiuti o di elemosine elargite, non perché queste cose non abbiano valore, anzi! Infatti nella scelleratezza umana, posso accostarmi alla comunione in stato di disordine spirituale, fare un pellegrinaggio con animo dissipato, oppure elargire elemosine per un tornaconto personale.

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Ma mai e poi mai riuscirò ad amare l’altro e a provare stima per lui se non sono in comunione con Cristo. Sarò facilmente smascherabile e preda delle mie debolezze se non vivo questa comunione nell’autenticità.

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Gesù ci sfida su un terreno dove è impossibile barare. Per questo motivo, la comunione ecclesiale costituiva il vanto e il tormento dei primi cristiani, il beato apostolo Pietro la raccomanda nel cammino dell’ospitalità: «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare» [cf. 1Pt 4,9], e Paolo nel cammino della stima vicendevole:

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«amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» [cf. Rm 12,10].

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La Chiesa ospedale, diventa luogo di accoglienza quando Cristo vi è accolto con tutte le premure; luogo di stima e di rispetto, quando ci riconosciamo figli beneamati dal Padre [cf. Mc 1,11].

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La terapeuticità della Chiesa è data dall’obbedienza alla Parola, come ho avuto modo di dire in un altro mio contributo, [cf. articolo, QUI], che mentre viene proclamata suscita la fede, aumenta la speranza, invita alla carità e produce benefici terapeutici. Dice l’evangelista Marco:

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«Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» [cf. Mc 16,20].

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Quest’affermazione che conclude il secondo Vangelo è un unicum in tutto il Nuovo Testamento, Cristo agisce insieme alla comunità dei credenti affinché nella comunione ecclesiale la predicazione scaturisca fruttificando con il dono della fede e delle guarigioni.

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Nella comunità cristiana post pasquale una delle manifestazioni più eloquenti della presenza del Risorto era costituita proprio dalle guarigioni – come ristabilimento fisico – e dalle liberazioni – come ristabilimento spirituale –.

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Stare nella Chiesa significa percepire chiaramente la presenza viva di Gesù che ci ricostituisce in salute affidandoci a una comunità che è resa dallo Spirito Santo capace di  custodirci dopo essere stati raccolti dal Signore.

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È l’immagine evocativa del buon Samaritano che Sant’Agostino riassume così:

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«Questa locanda sarà la casa dalla quale non migreremo finché, pienamente rifatti nella salute, non saremo giunti nel regno dei cieli» [cf. Sant’Agostino, Sermo, 131, 6, PL 38, 732].

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Sull’esempio del buon Pastore che lascia le novantanove pecore per cercare quella smarrita [cf. Lc 15,6], è necessario che tutta la Chiesa, nella sua componente laica e ministeriale, trovi e torni a cercare i malati con la freschezza e l’entusiasmo dei tempi apostolici.

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Una Chiesa veramente ospitale, dilata il suo grembo affinché i deboli, gli infermi e i denutriti possano ristabilirsi alla luce del Risorto. La Chiesa deve rispondere ad un imperativo divino: prendere per mano e accudire gli infermi in attesa di Cristo [cf. Lc 10,35].

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La Chiesa comunità ospitale e sanante, riunita attorno al Salvatore nella comunione ecclesiale, acquisisce uno stile pastorale che intende operare e interagire secondo la dignità del sacerdozio battesimale e ministeriale poiché

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«Nell’uno e nell’altro caso, il ministero si realizza come un carisma in stato di servizio, recepito dalla comunità: la ricchezza dei doni dello Spirito nel Corpo ecclesiale è tale che non soltanto la Chiesa intera viene a caratterizzarsi come una comunità ministeriale, ma le varie forme personali o anche comunitarie di ministerialità non esauriscono mai da sole le possibilità carismatiche di cui i credenti sono investiti da  colui che soffia dove vuole» [cf. Bruno Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione, pag. 304, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995].

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Il Cardinale Elio Sgreccia amplifica e definisce meglio queste parole, riferendole allo specifico della pastorale sanitaria:

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«È certamente più ecclesiale portare l’aiuto dell’evangelizzazione, della grazia sacramentale, della carità cristiana, del fatto redentivo ai pazienti attraverso sacerdoti, diaconi, religiosi/e, laici che non attraverso il solo cappellano. Al punto che, se anche i sacerdoti non mancassero, noi dovremmo preferire questa formula a quella che vede soltanto i cappellani operare nell’ospedale» [cf. Elio Sgreccia, La cappellania ospedaliera, un progetto di comunità pastorale, in Insieme per servire, 3 (1990), pag. 43]».

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Come all’interno della comunità cristiana nessuno – ma proprio nessuno – deve sentirsi in diritto di escludersi accudimento dei sofferenti: poiché questa esclusione apporterebbe una ferita mortale alla comunione, all’azione dello Spirito Santo, alla presenza reale di Cristo tra i suoi, all’anelito impellente di ogni uomo che – fin dai tempi di Abele – interpella la fede circa le ragioni della sofferenza, del sangue innocente, del dolore che ha il diritto di trovare un cuore accogliente e braccia spalancate.

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Cagliari, 25 maggio 2019

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Mignotte & Paraculi, la corretta etimologia delle parole. Quand’è che invece le parole corrette diventano insulti? Esempio: il proselitismo non è una parolaccia, ma un presupposto dell’evangelizzazione

— attualità ecclesiale —

MIGNOTTE  & PARACULI, LA CORRETTA ETIMOLOGIA DELLE PAROLE. QUAND’È CHE INVECE LE PAROLE CORRETTE DIVENTANO INSULTI? ESEMPIO: PROSELITISMO NON È UNA PAROLACCIA, MA UN PRESUPPOSTO DELL’EVANGELIZZAZIONE

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[…] il lemma mignotta, nasce da una deturpazione popolare del termine latino filius mater ignota, ossia figlio di madre ignota. Così erano infatti chiamati i bimbi partoriti negli ospedali e lì lasciati dalle madri, o più frequentemente lasciati dentro le chiese o all’interno delle ruote dei conventi e dei monasteri delle monache di clausura. Nel linguaggio popolare, questo termine latino fu poi storpiato in matrignotta, che appresso, ulteriormente storpiato, divenne infine mignotta.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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I maestri del cinema e del teatro italiano: Alberto Sordi [Roma 1920 – Roma 2003]  video QUI.

Proviamo a immaginare un gruppo di tre preti che si ritrovano assieme per un momento di fraternità e che sono rispettivamente: un teologo dogmatico sacramentario, un teologo morale e un canonista. Terminata la cena, non essendo ancora tarda ora e volendo i tre concludere con un altro momento di lieta fraternità, hanno quest’idea: «Perché non andiamo a donne?», dice il prete specializzato in teologia dogmatica, domandando il parere agli altri due.

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Lo specialista in teologia morale, grande devoto al Santo vescovo e dottore della Chiesa San’Alfonso Maria de’ Liguori, ci pensa un attimo e risponde: «Sì, sarebbe un’idea, però sto pensando a come potremmo fare una cosa simile senza violare le nostre sacre promesse».

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A quel punto corre in soccorso il prete specializzato in diritto canonico, offrendo la soluzione: «Cari confratelli, a pensarci bene, credo che non andremmo a violare alcuna sacra promessa. Quando infatti abbiamo ricevuto la sacra ordinazione, cosa ci ha chiesto il vescovo? Ci ha domandato se promettevamo di mantenerci celibi, mica ci ha chiesto di promettere di mantenerci casti. Ebbene, non siamo forse tutti e tre celibi, quindi rispettosi della promessa fatta?».

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Esultano i due preti specialisti in teologia dogmatica sacramentaria e in teologia morale: «Hai ragione. Non siamo mica religiosi che hanno professato i voti di povertà, castità e obbedienza! Noi abbiamo solo promesso solennemente di mantenerci celibi, nessuno ci ha chiesto la solenne promessa di mantenerci casti». E così poco dopo i tre incontrano tre splendide escort e si dirigono verso un luogo dove concludere la serata in bellezza.

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I maestri del cinema e del teatro italiano:  Elena Fabrizi, in arte Sora Lella [Roma 1915 – Roma 1993]: video QUI

Non occorre certo spiegare — ma con le teste che circolano a piede libero di questi tempi è bene farlo —, che il prete, pur non professando come il religioso i voti di povertà, castità e obbedienza, esprime in ogni caso due solenni promesse: mantenersi celibe, cosa questa che implicitamente comporta la castità; obbedire al Vescovo ed a tutti i suoi successori.

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In ambito dottrinale e pastorale, il problema del linguaggio è fondamentale, perché se alle parole, in particolare alle parole-concetto, noi attribuiamo dei significati diversi, svuotandole del loro autentico significato e riempiendole di altro, come ovvia e inevitabile conseguenza daremo vita a situazioni di autentico caos.

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Per spiegare questo genere di problema, più volte ho usato due termini tipici del romanesco, che sono rispettivamente: mignotta e paraculoRicordo sempre in modo indelebile quando oramai quasi cinquant’anni fa, da bambino di sei sette anni, ero portato ogni tanto a passeggio da mio nonno e da sua sorella nel parco romano di Villa Borghese. L’apice di quella passeggiata era costituito dalla visita alle scimmie dello zoo, alle quali mi divertivo a dare le arachidi preventivamente acquistate alla bancarella di un rivenditore. Un giorno accadde un fatto divertente: una signora alquanto popolana e per questo particolarmente simpatica, prese a chiamare il figlioletto, che come suol dirsi se ne fregava dei richiami della madre che lo invitava a tornare a casa. Chiama che ti chiama, a un certo punto la madre si scoccia e urla verso il figlio: «’a gran fijo de ‘na mignotta, ma te vόi da sbrigà, che dovemo tornà a casa?».

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In un italiano impeccabile questa frase suonerà così: «Grandissimo figlio di una puttana, ti vuoi sbrigare, che dobbiamo ritornare a casa?». Delle due cose, l’una esclude l’altra: o questa splendida popolana ha dichiarato dinanzi a tutti nel parco di Villa Borghese che lei, madre di quel figlio, era una puttana, o più semplicemente, l’espressione fijo de mignotta ha perduto il proprio etimo ed è usata sia come espressione per intercalare nel discorso, sia alle volte per indicare ‘na persona gajiarda e simpatica.

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I maestri del cinema e del teatro italiano: Gigi Proietti [Roma 1940], video QUI

Passiamo a un altro esempio prima delle spiegazioni che seguiranno. Tempo fa, il genitore di un giovane appena diciottenne mi narrò che suo figlio aveva acquistato delle scarpe da ginnastica di marca, dopodiché, dicendo che il colore non gli andava bene coi vestiti, chiese al padre se le voleva acquistare lui, perché egli ne avrebbe acquistate altre del colore più adatto. Il padre gli dette 120 euro con i quali il figlio, presso un negozio di articoli sportivi di marca, andò a comprarsi un altro paio di scarpe. Il tutto con un piccolo particolare non propriamente indifferente: le scarpe vendute al padre erano false, le aveva acquistate per 15 euro al mercato di Porta Portese, mentre lui, con i soldi della vendita fatta al padre, era andato ad acquistarsi quelle originali. Il padre lo scoprì tempo dopo e in seguito, ridendo con me mi narrò il tutto concludendo: «… hai capito, mi’ fijo, che grannissimo paraculo che è?».

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In un italiano impeccabile questa frase suonerà esattamente così: «… hai capito, mio figlio, che grandissimo omosessuale che è?»

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Senza bisogno di particolari spiegazioni, avrete già capito alla perfezione che oggi, il termine mignotta e il termine paraculo, pur avendo entrambi una accezione negativa come significato etimologico, essendo termini nati per indicare in modo dispregiativo certe persone, fatti o situazioni, nell’attuale romanesco sono lemmi usati in toni di simpatia, a volte persino per indicare una persona che, con la sua fantasiosa scaltrezza, ti ha data una clamorosa sóla, ossia fregatura, facendoti per essa ridere e divertire.

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I maestri del cinema e del teatro italiano: Anna Magnani [Roma 1908 – Roma 1973], video QUI

In breve: mignotta, nasce da una deturpazione popolare del termine latino filius mater ignota, ossia figlio di madre ignota. Così erano chiamati i bimbi partoriti e lasciati negli ospedali dalle madri, o più frequentemente dentro le chiese o all’interno delle ruote dei conventi e dei monasteri delle monache di clausura. Nel linguaggio popolare, il termine latino filius mater ignota è storpiato in matrignotta, poi lo fu ulteriormente divenendo mignotta, usato come sinonimo popolare di puttana, perdendo però di seguito questo significato attribuito, come abbiamo dimostrato con la madre che chiama il figlio nel parco di Villa Borghese.

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Nella Roma pontificia ottocentesca — dove a nessuno sarebbe mai passato per la mente che in futuro, l’orgia grottesca del Gay Pride, potesse sfilare tra le sue vie partendo dalla piazza della Cattedrale del Vescovo di Roma, San Giovanni in Laterano, per giungere in Piazza Esedra, oggi Piazza della Repubblica, davanti alla Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, luogo dove furono martirizzati dall’Imperatore Diocleziano molti cristiani —, dare del paraculo a un uomo, era un’offesa così grave e infamante, che si poteva rischiare la vita in due modi diversi. Se davi del paraculo a un popolano di Trastevere, quello probabilmente ti accoltellava, poi semmai, chiedendo aiuto a un paio di amici della vicina osteria, gettava il tuo cadavere nel Tevere; se invece davi del paraculo a un aristocratico, quello ti gettava un guanto in faccia e t’aspettava il mattino alle cinque fuori Porta San Giovanni per sfidarti a duello, nel corso del quale, o l’offeso o l’offensore sarebbe inevitabilmente morto.

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Paraculo, come significato etimologico ha in sé poco di simpatico, perché il suo etimo indica in modo dispregiativo un uomo che para, ossia che offre il proprio posteriore a un altro uomo per essere sodomizzato. Pertanto, i vocabolari della lingua italiana che oggi indicano questo termine come sinonimo di furbo o di soggetto che riesce a rivolgere le situazioni a suo proprio vantaggio, datando la sua nascita al periodo degli anni Sessanta del Novecento e collegandolo alla letteratura di Pier Paolo Pasolini e di Aldo Palazzeschi, sbagliano. A provarcelo è uno studio del Dott. Luca Lorenzetti, ricercatore dell’Università della Tuscia, che nella Biblioteca Casanatense di Roma individuò a fine anni Novanta il termine in un poemetto di 150 sonetti risalente al 1830, ed usato in quella prosa per indicare col paraculo il sodomita passivo [cf. QUI]. 

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Durante la celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, abbiamo avuto molti problemi che si sono sviluppati nel para … concilio mediatico e che poi si sono protratti con risultati spesso disastrosi nella stagione del post-concilio. Tutti questi problemi sono perlopiù nati da elementi di carattere puramente lessicale. Infatti, proprio là dove si parla in modo a tratti martellante e ossessivo di “unità della Chiesa”, se andiamo a vedere, coloro che hanno compromessa e che compromettono questa unità, sono stati e sono proprio coloro che seminano confusione e disunione attraverso l’uso errato e arbitrario delle parole.

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I maestri del cinema e del teatro italiano: Alberto Sordi:video QUI

Il problema dell’ultimo concilio sta quindi nel linguaggio. Come infatti ho più volte spiegato nel corso degli anni su queste colonne de L’Isola di Patmos, i Padri della Chiesa, per la prima volta hanno abbandonato il solido e preciso linguaggio metafisico nato dalle speculazioni della vera e grande scolastica — da non confondere con la neoscolastica decadente —, il tutto espresso attraverso precisi termini e frasi idiomatiche della lingua latina. Poco dopo il Concilio il latino, pur rimanendo la lingua ufficiale della Chiesa, fu abbandonato, anche perché già all’epoca, la maggior parte dei vescovi extra europei, non lo conosceva più. Essendo però stato il Concilio Vaticano II letteralmente egemonizzato dal filone tedesco e nord-europeo, lo stile del linguaggio espressivo usato risulta quello del romanticismo tedesco decadente, che cerca anzitutto di unire gli opposti ed i contrari, la tesi e l’antitesi, l’olio bollente con l’acqua fredda. E, si presti attenzione: in questa trappola ci sono caduti, involontari e in totale buona fede, anche tutti i teologi ortodossi, inclusi i Sommi Pontefici Giovanni Paolo II e, forse soprattutto e più di tutti, Benedetto XVI. È stato infatti con surreale spirito romantico che la Chiesa, anziché condannare l’errore, ha cominciato a dialogare con l’errore, il tutto con questa conseguenza: l’errore non è stato affatto corretto, anzi trovandosi a essere oggetto di dialogo si è rafforzato e radicato di più, ed a questo modo — convinti di poterlo correggere con amorevole dialogo — è stato fatto invece penetrare all’interno della Chiesa.

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Il primo documento approvato, la Sacrosanctum Concilium, quello sulla riforma liturgica, consente e forse approva gli abusi liturgici che oggi abbiamo sotto gli occhi nelle chiese? Con i neocatecumenali agguerriti che più scempiano la Santissima Eucaristia, più urlano come un mantra la filastrocca: «Siamo approvati, siamo approvati … i Pontefici ci hanno approvati … ci hanno approvati!»? [vedere mio recente studio, QUI].

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Come possiamo, a mezzo secolo da una riforma, ritrovarci oggi in uno stato di totale caos liturgico che rasenta non di rado il sacrilegio della Santissima Eucaristia? Semplice la risposta: la Sacrosanctum Concilium ha dettato delle “romantiche” linee generali e molto generiche, per improntare una necessaria riforma liturgica; necessaria soprattutto sul piano pastorale e su quello della nuova evangelizzazione dei popoli. Quando però, in certe materie molto delicate, a partire dalla liturgia e dalla relativa disciplina dei Sacramenti che la regge, non si danno delle indicazioni rigorose, tassative, precise e non passibile di alcuna diversa interpretazione, avverrà inevitabilmente ciò che oggi abbiamo sotto gli occhi: ciascuno si è creato la propria liturgia, la propria disciplina dei Sacramenti, la propria dottrina e, infine, le proprie leggi. Con i neocatecumenali che, sbandierando un riconoscimento di carattere puramente amministrativo a loro concesso dal Pontificio consiglio per i laici [cf. QUI, QUI], non certo dalla Congregazione per la dottrina della fede né dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, non esitano a mentire sapendo di mentire dichiarando ai propri adepti ed a chicchessia che le “loro” liturgie sono pienamente approvate dalla Santa Sede. Se poi andiamo a dire a queste persone che ciò non è affatto vero e che loro non hanno diritto di disporre e di abusare della sacra liturgia, che i Sacramenti non sono beni disponibili di loro proprietà e che della dottrina non sono liberi interpreti o peggio creatori, costoro replicheranno ribadendo che «nella Chiesa c’è stato un Concilio» e che tu, ragionando a questo modo, sei «un povero tridentino nostalgico». E con ciò, è presto detto che oggi, nella Chiesa della romantica e ambigua vaghezza, che con l’errore ha dialogato anziché condannarlo, dare ad una persona del «tridentino», suona più o meno come … daije de er fijo de mignotta in modo affatto simpatico, ma proprio per ciò che l’espressione significa etimologicamente, non nel modo amabile e scherzoso come la simpatica popolana di cui narravo prima.

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I maestri del cinema e del teatro italiano: Alvaro Vitali [Roma 1950], video QUI

Mentre il grande Concilio di Trento, che riformò radicalmente la Chiesa e che la spinse verso una straordinaria opera missionaria, è usato oggi come un vero e proprio insulto, per altro verso, non il Concilio Vaticano II, ma il para-concilio che raggiunge il proprio pervertimento massimo nel post-concilio, è però considerato e presentato come una sorta di dogma dei dogmi da coloro che, per paradosso, de-costruiscono da mezzo secolo l’intero impianto dogmatico della Chiesa (!?). E quando al moderno insulto di fijo de ‘na mignotta, ossia di «tridentino», vogliono aggiungere anche l’insulto di paraculo, in questo secondo caso ti dicono: «Sei un vecchio dogmatico legato a dogmatismi ottusi e obsoleti». Quindi, se tridentino equivale oggi a fijo de ‘na mignotta, il termine dogma e dogmatico, equivale più o meno a quello di paraculo.

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Senza ripetermi inutilmente, rimando i lettori ad un mio vecchio articolo del 2014: «Babele e la neolingua: una Chiesa senza vocabolario da mezzo secolo» [vedere QUI], al quale fece seguito nel 2016 Una mia lectio magistralis disponibile in video [vedere QUI].

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La lingua non è un elemento sostanziale, ma accidentale. Esempio: celebrare la Santa Messa nelle lingue nazionali, non intacca affatto in alcun modo la sostanza mistagogica del Sacrificio Eucaristico. Però, se facendo uso dell’elemento accidentale esterno, ossia la lingua, sono alterate attraverso traduzioni non corrette le parole che da due millenni racchiudono e blindano la sostanza, in quel caso possiamo dire che, attraverso l’elemento accidentale esterno della lingua, si rischia di colpire e di alterare gravemente la sostanza. Esattamente come avviene oggi: non si tocca la sostanza della dottrina, che rimane tale e quale, però si cerca di disattendere dei precetti sostanziali della dottrina attraverso una nuova prassi pastorale.

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In questi giorni qualcuno — non ricordo bene chi, né ricordo il nome, ma ciò poco importa — è tornato a parlare del proselitismo in modo severo e dispregiativo, dando a questo termine una connotazione negativa, proprio come alcuni danno oggi una connotazione negativa a “tridentino” e “dogmatico”.

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Vediamo cosa significa e com’è indicato dai vocabolari il termine proselitismo, partendo dall’etimo greco composto da πρός pros ed ερχομαι erchomai, che significa “venire” o “andare verso”. Il termine proselitismo significa alla lettera: svolgere una attività, nel caso del Cristianesimo di evangelizzazione, per convertire e per acquisire nuovi fedeli.

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I maestri del cinema e del teatro italiano: Tomas Milian [Avana 1933- Roma 2017] e Franco Lechner in arte Bombolo [Roma 1931-Roma 1987], video QUI

L’invito a far proseliti non nasce dai “cattivi” domenicani del XVI secolo, che secondo clamorosi falsi storici giunsero con spade e croci per sterminare gli aztechi di quel delicato uomo di Montezuma e convertirli a forza al Cristianesimo. I “cattivi” domenicani del XVI secolo, giunti nel Messico rimasero scioccati dal fatto che il gran popolo autoctono degli aztechi, peraltro in stato di totale decadenza, compiva sempre sacrifici umani, assieme a varie forme di cannibalismo rituale, che furono impediti dai “crudeli” colonizzatori. Ciò con buona pace di chi oggi accusa, gli uni e gli altri, di avere distrutto delle antiche e gloriose civiltà che nel XVI secolo, all’arrivo degli spagnoli, versavano invece nel loro stato di più profondo declino e degrado umano e morale.

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A fare proseliti, ci invita Nostro Signore Gesù Cristo, rivolgendo agli Apostoli un preciso comando, per di più nello spazio temporale che va’ dalla sua risurrezione alla sua ascensione al cielo. È l’ultimo comando che Cristo Dio rivolge agli Apostoli prima di tornare alla destra di Dio Padre:

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«Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno. Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» [cf. Mc 16, 1-20].

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È Cristo Dio che ci invita a fare proseliti, perché questo è lo scopo dell’annuncio e della predicazione: la redenzione. Inutile dire che il mistero della redenzione è ben diverso dal concetto del «una religione vale l’altra», oppure «poco importa che sia Gesù Cristo, Budda o Maometto». Se infatti così fosse il Redentore, che è uno, non molteplici, non si sarebbe posto come elemento di unicità e assolutezza affermando: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto» [cf. Gv 14, 6-7].

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I maestri del cinema e del teatro italiano: Nino Manfredi [Castro dei Volsci 1922 – Roma 2004], video, QUI

Il proselitismo non è nulla di negativo e spaventoso. Certo, anche le cose più buone e sante, possono essere trasformate in cattive e dannose. Certe droghe o certi veleni mortali, se usati in giuste dosi possono essere ingredienti indispensabili per la preparazione di particolari medicinali — per esempio certi forti antidolorifici —, in assenza dei quali, gli affetti da certi mali in fase acuta, potrebbero essere straziati dal dolore fisico. Allo stesso modo possiamo dire per le armi da fuoco, che se date in uso a soldati che combattono una giusta guerra difensiva, sono indispensabili per difendere dall’aggressione di un gruppo di feroci integralisti islamisti un villaggio nel quale sono raccolti donne, bambini e anziani di religione cristiana e potenziale oggetto delle loro stragi. A chi poi dovesse replicare a quest’esempio affermando che non esistono guerre giuste e che non è mai lecito uccidere per alcuna ragione e motivo, provate semmai a chiedere: in quante zone di guerra ti sei ritrovato a vivere? Oppure: quanti cadaveri di bimbi uccisi, mutilati, fatti in pezzi o bruciati, hai avuto occasione di vedere, o pia anima bella della sinistra radical chic dell’Europa pacifondista, dove l’ultima disastrosa guerra si è conclusa settantaquattro anni fa, mentre gli abitanti di altre regioni e paesi del mondo sono nati, vissuti e giunti all’età di settantaquattro anni senza mai avere conosciuto nel corso della loro esistenza un solo giorno di pace, ma passando di conflitto in conflitto, di dittatore in dittatore, di guerra civile in guerra civile? [cf. QUI].

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La Santissima Eucaristia, se ricevuta in stato di grazia, è sostegno e conforto per la vita eterna. La stessa Santissima Eucaristia, se ricevuta però da una persona che non vive in stato di grazia, che non ci vuole vivere e che anzi rivendica pure il pieno riconoscimento del suo diritto a vivere al di fuori della grazia, non è nutrimento per la vita eterna, ma diviene invece veleno per l’anima, ce lo spiega il Beato Apostolo Paolo:

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«Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» [cf. I Cor 23, 28-29].

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Anche il proselitismo, può essere mutato in qualche cosa di negativo, se a farlo sono certe aggressive e coercitive sétte evangeliche e pentecostali che sono abituate a giocare sulle paure e sulle fragilità umane, a riguardo delle quali, da quella persona di cui non ricordo il nome, non ho però mai udite parole di rimprovero e di condanna, meno che mai per le conversioni forzate fatte dall’Islam, sotto minaccia di morte o di privazione dei diritti civili, quantunque oggi addirittura presentato come religione di pace e di amore, che equivale a presentare Messalina come se fosse la martire della purezza Santa Maria Goretti.

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Dare alla parola proselitismo una connotazione negativa, è come dare una connotazione negativa alla parola Eucaristia. Semmai sostenendo che, il concetto di transustanziazione e di reale presenza di Cristo nelle sacre specie in anima, corpo e divinità, potrebbe recare grave offesa alla sensibilità di tutti gli appartenenti alle correnti ereticali distaccatesi del nucleo cristiano cattolico, le quali considerano l’Eucaristia solo un memoriale puramente simbolico in ricordo dell’ultima cena di Cristo Signore.

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Tanti sono dunque i concetti e le parole che potrebbero recare offesa ad altri, per esempio: incarnazione del Verbo di Dio, Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, la Immacolata concezione della Beata Vergine Maria, la Risurrezione di Cristo, la sua assunzione al cielo e via dicendo. Per adesso, pur di piacere al mondo e di non offendere il mondo, abbiamo cominciato dal proselitismo e da varie altre cose per così dire minori, il tutto nell’attesa che il meglio del peggio giunga tutto quanto dopo …

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Una preghiera per i nostri grandi maestri italiani di cinema e di teatro, per i defunti e per i viventi: possa Dio rendergli merito per averci edificati e sostenuti con la loro profonda serietà.

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dall’Isola di Patmos, 22 maggio 2019

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UN SAPIENTE COMMENTO ALL’ARTICOLO IN EVIDENZA

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Caro Confratello,

non sono solito commentare sui siti elettronici, ma stavolta il tuo breve saggio, linguisticamente scritto con “l’odore delle pecore” per giunta borgatare, mi ha alquanto intrigato e divertito.

Approvo il tuo approccio: è efficace nel catturare l’interesse del lettore navigante nel mare magnum della rete elettronica; ci aiuta a non cedere allo scoraggiamento e alla tetraggine nel considerare lo sbandamento generale della navicella di san Pietro e a reagirvi con spirito toscano, alla san Filippo Neri; è un preclaro esempio di applicazione dell’aurea massima: «Non prendeteli sul serio, prendeteli per il culo» [N.d.R. vedere QUI] che anch’io ormai pratico nel mio piccolo (cercando nel contempo di respingere la tentazione dell’autocompiacimento).

A proposito di “odore delle pecore”: mi pare nient’altro che una delle tante parole d’ordine, inconsistenti e “fantasiose” (nel senso sessantottino del termine), mediante le quali siamo afflitti e sviati in questa sciagurata epoca ecclesiale. Non conosco alcuna base biblica e patristica per una pseudoteologia “cacosmetica” (κακὴ ὀσμή = puzza); anche Gesù Cristo, nel capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni, non si sogna neppure lontanamente di avventurarsi in tale linguaggio, considerato che le pecore – quando sono racchiuse negli ovili – non emanano propriamente un gradevole odore; ma evidentemente certi “pastori” odierni hanno visto solo le pecorelle inodori di qualche presepe natalizio. Al contrario, il beato apostolo Paolo scrive: “Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono; per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita” (2Cor 2, 15 – 16). Di questo passo, certi “fantasiosi” episcopi faranno gli “aggiornati” confezionando il sacro Crisma non con un gradevole balsamo (secondo la tradizione), ma con “Eau de mouton – brebis galeuse = profumo di montone – pecora nera”, per avere nuovi vescovi, nuovi preti e cresimati sempre più “caproni”.

Piuttosto che concionar di “odore delle pecore”, dovrebbero preoccuparsi per molti olezzanti pretini, i quali sprecano fior di quattrini in profumi per il proprio azzimato personalino sempre costosamente vestito alla moda secolare e lasciano al loro passaggio un forte odor di paraculo (nel senso originario del termine), con quale edificazione spirituale del gregge cattolico si può immaginare.

Riguardo al proselitismo, a modo di grido di allarme, abbozzo un’osservazione che meriterebbe di essere maggiormente circostanziata. Mi pare che proprio il beato apostolo Paolo sia una delle principali vittime del modernismo imperante. La mera lettura degli Atti degli Apostoli illustra il fatto che egli si dedicava nient’altro che a “ammaestrare”, “insegnare”, “predicare” che Gesù è il Cristo e l’unico Salvatore di tutti, secondo la missione affidata dal Risorto alla sua Chiesa (cf Mt 28, 19 – 20; 16, 15. 20; Lc 24 46 – 48). Entrato in una Città, non impiantava nessuna mensa o ospedale, non attendeva silenzioso che una sua filantropica attività suscitasse domande negli altri per poi presentarsi come cristiano, ma sùbito predicava nelle Sinagoghe e nelle piazze, chiamando esplicitamente alla fede e pagando di persona per le persecuzioni che i Giudei gli scatenavano contro. Oggi i vertici ecclesiastici lo censurerebbero, accusandolo di deprecabile proselitismo e di azione divisiva! Ma questo come si concilia con il dogma della apostolicità della Santa Chiesa?

Del resto, tra le innumerabili scempiaggini eretiche fin qui udite, ultimamente abbiamo dovuto pure annoverarne la seguente (sbandierata senza vergogna sulle rive torinesi del Po, con la complicità dell’arcivescovo metropolita competente): se avesse conosciuto coppie omo-affettive (?!), san Paolo non avrebbe scritto Rm 1, 24 – 32; il che equivale a negare che l’Apostolo sia un Dottore ispirato dallo Spirito Santo, ma bensì un povero sprovveduto non aggiornato! Stiano attenti da quelle parti, perché l’Apostolo delle Genti ha come attributo iconografico una spada in mano; visto il caratterino che lo contraddistingueva, se si decidesse ad usarla, qualche testa bacata episcopal-presbiterale cadrà …

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24 maggio 2019

Giovanni Zanchi – Sansepolcro (Arezzo)

 

 

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

L’intima amicizia del Pastore con le sue pecore: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco, ed esse mi seguono»

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

L’INTIMA AMICIZIA DEL PASTORE CON LE SUE PECORE: «LE MIE PECORE ASCOLTANO LA MIA VOCE E IO LE CONOSCO, ED ESSE MI SEGUONO»

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Proprio come in un cammino di transumanza, ognuno di noi è chiamato ad essere pecora del gregge di Gesù, vale a dire che siamo chiamati a vivere da credenti nella Chiesa di Gesù. In quanto credenti, innanzitutto noi ascoltiamo la Sua Voce: Gesù ci parla nella Parola di Dio e tramite i pastori, in particolare oggi lo fa attraverso l’insegnamento ufficiale cattolico della Chiesa espresso dal Successore di Pietro e dal Collegio degli Apostoli, chiamati a custodire integro e quindi diffondere il deposito della fede.

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Pastore sardo, opera del pittore Antonio Piras

molto probabilmente tutti conosciamo la poesia I Pastori di G. D’Annunzio:

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«Settembre, andiamo. È tempo di migrare / Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare / scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti».

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Un’immagine di pastorizia, la transumanza, cioè il cammino verso territori selvaggi e verso alture che danno serenità, riposo e senso di completezza.

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Questa immagine verso una pace tanto cercata, forse l’abbiamo persa: un po’ perché viviamo in città con luci e suoni che ci distraggono, un po’ perché non capiamo più l’idea di un cammino che, dopo tante fatiche, può darci invece molte soddisfazioni. Però, questa immagine di pastorizia, può farci addentrare nelle letture di questa domenica.

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Negli Atti degli Apostoli [cf. 13, 46] leggiamo come Paolo e Barnaba si rivolgono agli ebrei:

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«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani».

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I due Apostoli rivolgono l’annuncio della vita eterna superando la presenza ebraica e ponendo l’attenzione ai pagani, che erano romani e greci, con una cultura intrisa di filosofia ellenistica. Il messaggio di Cristo allora esce dallo “steccato” giudaico, mostrando come l’annuncio cristiano non è legato un singolo popolo o nazione. Il messaggio di Gesù è universale: tutti siamo chiamati alla vita eterna. Questo implica entrare in un amore più grande, quello del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per l’eternità.

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La chiamata alla vita eterna attende una risposta da noi. Il Signore ci lascia liberi anche di rifiutarla, come fecero gli ebrei nel testo degli Atti che abbiamo ascoltato. Ma se invece rispondiamo positivamente, possiamo ora capire in che modo arrivare alla vita eterna.

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Il Vangelo ci dà una risposta chiara sul cammino da percorrere verso questo traguardo. Leggiamo infatti in San Giovanni:

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«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» [cf. 10, 27].

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Proprio come in un cammino di transumanza, ognuno di noi è chiamato ad essere pecora del gregge di Gesù, vale a dire che siamo chiamati a vivere da credenti nella Chiesa di Gesù. In quanto credenti, innanzitutto noi ascoltiamo la Sua Voce: Gesù ci parla nella Parola di Dio e tramite i pastori, in particolare oggi lo fa attraverso l’insegnamento ufficiale cattolico della Chiesa espresso dal Successore di Pietro e dal Collegio degli Apostoli, chiamati a custodire integro e quindi diffondere il deposito della fede.

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Ascoltiamo la voce di Gesù quando facciamo intimamente nostri gli insegnamenti cattolici: credere nelle verità di fede, vivere i precetti della morale o impegnarsi in momenti di preghiera diverrà un ascolto che aprirà il cuore verso il Suo Grande Amore. Dio entrerà nella nostra anima e insieme con Lui ogni momento della vita quotidiana diventerà una gioia.

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In secondo luogo, come credenti noi seguiamo Gesù: soprattutto lo seguiamo nei momenti di fatica della nostra vita, sapendo che il primo ad aver faticato per noi portando la Croce sul Golgota. Seguire Gesù è sapere che anche quando le miserie della vita sembrano sprofondarci sulle spalle, Lui sarà a sorreggerci.

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Dall’ascolto e dal seguire Gesù, viene che il fatto che Lui ci conoscerà: questo verbo nel linguaggio originario indica un’intimità profonda, quasi corpo a corpo con Dio. Questo contatto intimo corpo a corpo noi lo viviamo ogni volta che viviamo l’Eucarestia, che infatti è un anticipo della vita eterna, una grandissima amicizia con Dio. E proprio riguardo l’amicizia scriveva Susanna Tammaro:

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«L’amicizia è uno dei sentimenti più belli da vivere. Ad un tratto ci si vede, ci si sceglie, si costruisce una sorta di intimità».

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Il Signore ci doni la sua amicizia di entrare nella vita eterna, in una intimità che dona gioia senza fine e capacità di cogliere il senso profondo di ogni giorno.

Così sia.

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Roma, 12 maggio 2019

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Avviso della Redazione ai Lettori

In questi giorni stiamo ultimando la lavorazione delle bozze di stampa dei primi libri che a breve saranno stampati e distribuiti dalle Edizioni L’Isola di Patmos. Essendo assorbiti da questo lavoro, nel corso delle ultime tre settimane abbiamo dovuto rallentare solo momentaneamente la pubblicazione degli articoli sulla rivista L’Isola di Patmos

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I blog personali dei Padri de L’Isola di Patmos

Club Theologicum

il blog di Padre Gabriele

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In difesa della sovranità dello Stato: abbiamo un Cardinale-elettricista che non conosce il Codice Penale della Repubblica Italiana, assieme a chi lo ha mandato …

IN DIFESA DELLA SOVRANITÀ DELLO STATO: ABBIAMO UN CARDINALE-ELETTRICISTA CHE NON CONOSCE IL CODICE PENALE, ASSIEME A CHI L’HA MANDATO …

Di una cosa, il Cardinale-elettricista e chi per lui può essere ben certo: con questa operazione hanno regalato a qualcuno almeno un milione di voti, senza che debba impiegare tempo ed energie per fare estenuanti e dispendiose campagne elettorali. E questa potete anche chiamarla: lungimiranza della Chiesa del nuovo corsoInfatti, le famiglie italiane disagiate che spesso pagano con dignitoso sacrificio le forniture, semmai chiedendo in certi momenti la rateizzazione degli importi dovuti alle aziende fornitrici, agli amici del Tarzan Okkupatore ed a chi lo appoggia, il voto non glielo daranno neppure a morire. O per dirla proprio chiara a chi fosse duro nel capire: Matteo Salvini, il terribile ragazzaccio del cosiddetto populismo, ringrazia la Santa Sede dal profondo del cuore!

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Chiesero i farisei: «Dicci dunque il tuo parere: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»

[Vangelo di San Matteo: 22, 17-21]

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fotomontaggio a cura di Tea63

Solitamente scriviamo su cose serie, ma ogni tanto può accadere di occuparci di cose in bilico tra il tragico e il comico.

Il fatto: Konrad Krajewski polacco di nascita, di anni 55, cittadino dello Stato della Città del Vaticano e ivi residente, di professione cardinale e elemosiniere pontificio, l’11 maggio ha commesso un reato sul territorio della Repubblica Italiana: manomissione di sigilli apposti dalla azienda fornitrice ai contatori della luce di un intero stabile romano, il tutto dopo che gli utenti avevano accumulato circa 300.000 euro di debito per forniture non pagate.

Lo stabile non è di proprietà del patrimonio ecclesiastico [vedere QUI, QUI] ma dell’I.N.P.D.A.P (Istituto Nazionale Previdenza e Assistenza Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica), ed è stato occupato nel corso del 2013 su progetto e istigazione di soggetti che risultano essere dei professionisti dell’occupazione. A capo di questo comitato non c’è San Filippo Neri ma l’anarcoide anti-sistema Andrea Alzetta, detto Tarzan, denunciato numerose volte per reato di violazione di domicilio, per seguire con i reati di devastazione di edificio e di resistenza a pubblico ufficiale [vedere, QUI].

Il fatto è narrato nei dettagli dall’ormai organo ufficioso della Santa Sede, La Repubblica. Vi invitiamo pertanto a leggere il resoconto dettagliato di questo quotidiano, la cui attendibilità è tal quale, se non addirittura superiore, a quella de L’Osservatore Romano [vedere QUI].

Sul territorio della Repubblica Italiana governata da uno Stato sovrano, compresa Roma sua capitale, che non è più la capitale dello Stato Pontificio governata da er Cardenal Nepote — avente come solo merito quello d’esser nipote del Sommo Pontefice —, bensì da un’amministrazione comunale eletta dai cittadini, si applica la seguente legge contemplata dal dettato dell’articolo n. 624 del Codice Penale:

«Chiunque s’impossessa della cosa mobile [c.p. 631] altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516 [c.p. 29] (3). Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico [c.c. 814c.p. 625626646647649; c.n. 510, 593, 1146] (4). Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanze di cui agli articoli 61, numero 7), e 625 (5) (6)»

Attendiamo quindi di sapere se la Procura della Repubblica di Roma, dopo avere appresa da tutti i giornali la notizia di reato, aprirà un fascicolo a carico di Konrad Krajewski, cittadino dello Stato della Città del Vaticano, chiedendo all’occorrenza per rogatoria internazionale la sua estradizione in Italia per rispondere del reato commesso.

In caso contrario, in questo nostro ameno Paese dove quasi sempre a sproposito e per questioni a dir poco futili si urla alla laicità, vuol dire che siamo tornati alla Roma governata da er Cardenal Nepote, ma soprattutto, a partire da oggi, tutti i morosi in analoghe situazioni potranno rompere i sigilli ed infrangere in tal modo la Legge, senza che la Procura della Repubblica possa procedere a loro carico, il tutto sulla base del distruttivo princípio che Cesare da parte sua deve tutto, mentre a Cesare, da parte dei consociati che formano il corpo dei cittadini, non è dovuto invece niente.

Di una cosa, il Cardinale-elettricista e chi per lui può essere ben certo: con questa operazione hanno regalato a qualcuno almeno un milione di voti, senza che debba impiegare tempo ed energie per fare estenuanti e dispendiose campagne elettorali. E questa potete anche chiamarla: lungimiranza della Chiesa del nuovo corso.

Infatti, le famiglie italiane disagiate che spesso pagano con dignitoso sacrificio le forniture, semmai chiedendo in certi momenti la rateizzazione degli importi dovuti alle aziende fornitrici, agli amici del Tarzan Okkupatore ed a chi lo appoggia, il voto non glielo daranno neppure a morire. O per dirla chiara a chi fosse proprio duro nel capire: Matteo Salvini, il terribile ragazzaccio del cosiddetto populismo, ringrazia la Santa Sede dal profondo del cuore!

Per uscire da questa ennesima brutta figura, la Santa Sede ha una sola soluzione: mettersi le mani in tasca e pagare a Cesare circa 300.000 euro di bollette arretrate da parte di chi a Cesare ritiene di non dovere niente, oppure, in caso contrario, regalare gratis un milione di voti a Matteo Salvini.

Insomma: a Cesare, se non dai ciò che gli è dovuto, lui se lo riprende, sempre e di rigore con gli interessi.

dall’Isola di Patmos, 12 maggio 2019

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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