Antonio Livi ( 1938-2020 )
Presbitero e Teologo


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Padre Antonio

All’irrazionalismo intollerante degli islamici l’Occidente oppone soltanto l’irrazionalismo tollerante degli atei

ALL’IRRAZIONALISMO INTOLLERANTE DEGLI ISLAMICI L’OCCIDENTE OPPONE SOLTANTO L’IRRAZIONALISMO TOLLERANTE DEGLI ATEI

 

 [ RIPRODOTTO IN VERSIONE FRANCESE DALLA RIVISTA TELEMATICA BENOIT ET MOI ]

QUI

 

Così l’Occidente non può opporre all’irrazionalismo di una morale ricavata dal Corano senza alcuna mediazione teologica e tanto meno filosofica — quindi ignorando il diritto naturale — un altro tipo di irrazionalismo, quello di una legislazione “laica” senza Dio e senza il diritto naturale, che è appunto la lex Dei aeterna.

 

Autore Antonio Livi

Autore
Antonio Livi

 

Intervengo anch’io sui tristi eventi del gennaio 2015 a Parigi (la violenza assassina dei fanatici islamici e la grande manifestazione di solidarietà ai redattori di Charlie Hebdo per esprimere un’opinione diversa da quella degli altri redattori de L’Isola di Patmos. I lettori di questa rivista telematica non si sorprenderanno e tanto meno si scandalizzeranno di questa differenza di opinioni, perché noi abbiamo sempre detto che volevamo riportare ogni problema di attualità teologica ai principi della vera dottrina della Chiesa, ossia al dogma, illustrandolo però con commenti e applicazioni che per loro natura appartengono al campo dell’opinabile, lì dove nessuna opinione richiede necessariamente l’unanimità dei consensi. Ho ricordato in qualche occasione il vecchio motto patristico: “In necessariis, unitas; in dubiis, libertas; in omnibus, caritas”.

Dunque, senza voler mancare alla carità, esprimo con tutta libertà la mia opinione. Per essere il più possibile chiaro e preciso, enuncerò in tre punti:

1) Innanzitutto, io considero “tristi eventi” tanto la violenza assassina da parte dei fanatici islamici quanto la grande manifestazione di solidarietà ai redattori di Charlie Hebdo da parte dei capi politici francesi e di molti altri Paesi dell’area occidentale. Ambedue questi fatti — quello militare e quello ideologico — li giudico di enorme gravità morale, ma non tanto quanto lo è un terzo fatto, quello che ha dato origine agli altri due, ossia la pertinace pubblicazione la divulgazione di vignette oscene e pesantemente irriverenti contro l’Islam (con la caricatura del profeta Maometto) e contro il cristianesimo (con la rappresentazione blasfema della Santissima Trinità, di nostro Signore Gesù Cristo e della sua Madre Immacolata).

2) La reazione a queste vignette è stata, da parte degli islamisti, di furiosa indignazione, soprattutto per le caricature del profeta Maometto, che essi ritengono non debba essere rappresentato mai da alcuno; i più aggressivi hanno fatto ricorso al terrorismo in Francia e a nuove ondate di persecuzione violenta dei cristiani (considerati tutti indistintamente complici del “grande Satana”, cioè l’Occidente) in Medio Oriente e in Africa, e sempre più esplicita è la minaccia di estendere la “guerra santa” a tutto l’Occidente, minacciando anche Roma, centro della cristianità.

3) La reazione all’aggressività degli islamisti, da parte degli occidentali, è stata l’esaltazione indiscriminata della pretesa libertà di satira antireligiosa, fino al punto che le vignette irriverenti sono state diffuse in tutti i Paesi, non solo con le edizioni straordinarie di Charlie Hebdo (recentemente in sette milioni di copie, distribuite anche fuori della Francia, in Italia con Il Fatto quotidiano) ma anche con l’incauta riproduzione da parte di organi informativi cattolici, i quali oltre tutto hanno preferito selezionare le vignette contro il cristianesimo piuttosto che quelle contro l’Islam che avevano provocato la strage di Parigi. La rivista politico-culturale Etudes, diretta da religiosi gesuiti, le ha offerte ai suo lettori con l’assurdo pretesto di voler dimostrare come i cattolici non siano “integralisti” e sappiano anche loro rispettare la “libertà di satira”, ridendo volentieri anche delle proprie istituzioni e dei loro rappresentanti. Persino L’Isola di Patmos, senza che io fossi consultato al riguardo, ha pensato di dover riprodurre tali orrende vignette anticristiane a corredo di un ottimo articolo sull’argomento firmato da Padre Giovanni Cavalcoli. Io considero questa scelta giornalistica – malgrado le ottime intenzioni, tra le quali quella di documentare la gravità dei fatti dei quali si parla – una scelta sbagliata, perché materialmente costituisce una “cooperatio ad malum”, un’involontaria complicità con il peccato altrui, che in questo caso — l’offesa al Nome di Dio — è addirittura il peccato più grave.

libertà di parolaFar osservare che il problema di come conciliare la libertà di opinione con il rispetto delle istituzioni religiose e dei loro simboli è una questione del tutto secondaria rispetto all’enormità della bestemmia come atto intrinsecamente immorale, come offesa di Dio. Di fronte ai fatti dei quali stiamo parlando, una persona di retto criterio, e ancor più un teologo, non dovrebbe accumulare tante considerazioni socio-culturali ma rilevare ciò che è incommensurabilmente più grave di tutto il resto: che quelle famigerate vignette di Charlie Hebdo contengono, tra tante sconcezze e offese dissacranti — tutte cose deprecabili — anche bestemmie in senso proprio, ossia profanazione del santo Nome di Dio, e questo costituisce di per sé e direttamente la “materia” di quel gravissimo peccato dal quale Dio stesso mette in guardia tutti gli uomini con il secondo comandamento del Decalogo.

Per spiegarmi meglio, devo ricordare che “blasfemia”, etimologicamente, vuol dire genericamente “ingiuria”. Ora, quando la vittima dell’ingiuria è solo un essere umano, si va contro il quarto e il quinto comandamento, e la colpa più o meno grave, a seconda della dignità della persona offesa; invece, quando l’ingiuria è rivolta direttamente a Dio è bestemmia in senso proprio.

Gli islamici parlano di “blasfemia” anche solo quando si rappresenta Maometto, che nemmeno loro considerano Dio ma solo il suo Profeta. E così non è propriamente blasfemia, quanto al cristianesimo, l’irrisione dei rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, Papa compreso. Non che siano atti tollerabili: sono azioni dissacratorie contro istituzioni e persone che rappresentano la vera religione, istituita da Cristo stesso. Ma – ripeto ancora – la gravità di questi peccati non è assolutamente comparabile con la gravità del peccato di blasfemia, che è la colpa di chi offende il Padre, il figlio Gesù Cristo e lo Spirito Santo (e ricordo che, in virtù dell’unione ipostatica, anche l’offesa alla Santissima Vergine Maria, Madre Dio, costituisce una vera e propria bestemmia).

Io, fin da bambino, ho tanto sofferto per le bestemmie che sentivo in giro — e siccome sono toscano ne sentivo parecchie —, e qualche volta reagivo redarguendo con una certa animosità i bestemmiatori. Poi, da sacerdote, ho dovuto assumere un contengo più pacato, imitando la mansuetudine di Gesù. Ma l’offesa a Dio fatta in pubblico profanando il suo Nome e quello della sua Madre santissima mi ha sempre recato un dolore profondo e dalla Chiesa ho imparato a fare personalmente tanti atti di riparazione, oltre alle preghiere in riparazione delle bestemmie che si recitano durante l’esposizione eucaristica. La reazione nei confronti dei bestemmiatori è passata ben presto in secondo piano, anzi poi nemmeno c’è più stata. Anche loro sono oggetto della preghiera, chiedendo a Dio stesso di non tener conto del loro peccato, “perché non sanno quello che fanno”. Insomma, di fronte alla bestemmia, una persona di retta coscienza soffre per la bestemmia perché sa bene che Dio merita non solo rispetto ma anche atti costanti di adorazione e di ringraziamento da parte di tutti gli uomini. Poco importa, a un cristiano che sia dotato di buon senso prima ancora che di fede, il fatto che la bestemmia ferisca il suo amor proprio e che egli si senta personalmente offeso nella sua appartenenza a una religione. Quello che veramente conta, quando si tratta della bestemmia, non è l’aspetto soggettivo e sentimentale ma quello oggettivo e morale. Perché la bestemmia è innanzitutto un peccato, uno dei più gravi, perché va direttamente contro il secondo comandamento del Decalogo, così banalizzato da Roberto Benigni, che è pratese come me e fa quello che può, poverino, ma gli danno troppo ascolto e troppi soldi anche quando vuol far ridere con argomenti presi dalla teologia.

Questo non è un discorso astratto e ozioso: serve a far capire che quasi tutti i commentatori cattolici hanno reagito in modo inadeguato ai fatti incresciosi legati alle “vignette blasfeme”, perché hanno parlato sempre e soltanto del rispetto per le religioni, per i loro adepti e per i loro simboli. Ad esempio, il vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti, in un articolo pubblicato sul settimanale diocesano, Verona fedele, intitolato “Come si concilia la blasfemia con la laicità democratica?”, depreca semplicemente «il clima culturale» che ha reso possibile la pubblicazione delle “vignette blasfeme”: un clima, specifica il presule, che è «quello della barbarie, nella quale non c’è diritto di cittadinanza per il rispetto delle persone e della loro sensibilità umana e religiosa» [vedere qui]. Un altro vescovo, il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, parlando agli ebrei ha detto: «Ci sono temi che non possono essere trattati con generi letterari come l’ironia, soprattutto quando questa è feroce: quando la responsabilità è pubblica, le nostre parole sono più pesanti delle pietre» [vedere qui]. Troppo poco, dico io. Più grave dei qualsiasi mancanza di «rispetto delle persone e della loro sensibilità umana e religiosa», e più grave anche delle offese ai ministri di Dio, è l’offesa a Dio stesso, a Dio come realtà persona e non come idea di qualcuno o simbolo di qualcos’altro.

Nemmeno Padre Giovanni Cavalcoli, nel commento ai fatti di Charlie Hebdo, sembra prendere nella dovuta considerazione il tremendo fatto della blasfemia ripetuta dappertutto in milioni di copie, ma preferisce raccomandare un maggior dialogo tra il cristianesimo e l’Islam, partendo dalla comune fede nel Dio di Abramo e praticando il reciproco rispetto. Perfino il Santo Padre, nell’intervenire sull’argomento, ha parlato dell’inevitabile reazione — che egli definisce ingiusta ma umanamente comprensibile — che ci si può aspettare quando si arreca offesa a una persona, per esempio parlando male di sua madre [vedere qui]. Ma, ripeto, qui non sono in gioco i rapporti “orizzontali” tra gli uomini nella società umana, ma il rapporto “verticale” degli uomini con Dio. Se si rimane nella linea “orizzontali” e ci si preoccupa solo di stabilire il modo e la maniera di tutelare l’onore e i diritti di qualche soggetto sociale, ci si uniforma, anche in Occidente, alla mentalità tipica dell’Islam, dove tutto è politica, e non c’è il diritto naturale ma solo il diritto positivo stabilito arbitrariamente dagli Stati.

Così l’Occidente non può opporre all’irrazionalismo di una morale ricavata dal Corano senza alcuna mediazione teologica e tanto meno filosofica — quindi ignorando il diritto naturale — un altro tipo di irrazionalismo, quello di una legislazione “laica” senza Dio e senza il diritto naturale, che è appunto la lex Dei aeterna. In Occidente, dopo tutta la retorica indifesa della libertà di opinione e anche di satira, si è voluto reagire alla violenza militare degli islamisti giustificando la violenza ideologica del giornale satirico — tutti hanno detto: “Je suis Charlie” —. Poi, dal fatto contingente si è passati a teorizzare il “diritto” a ingiuriare ogni religione — ma soprattutto il cristianesimo, oltre naturalmente all’Islam —, proclamando il “diritto alla bestemmia” o «diritto di blasfemia», che il presidente francese Holland ha incluso tra i diritti civili e le conquiste di libertà che l’Occidente ha ereditato dalla Rivoluzione Francese. Certo, da un punto di vista meramente storico-culturale, Holland ha ragione: il guaio è cominciato proprio con l’Illuminismo anticattolico, i cui rappresentanti però non erano propriamente atei (non lo era nemmeno Voltaire). Quello che fece l’Illuminismo massonico — preponderante rispetto all’Illuminismo cattolico, che ebbe tra i suoi rappresentanti due intellettuali napoletani, Giambattista Vico e sant’Alfonso Maria de’ Liguori — fu di sostituire il culto di Dio con il culto del Potere politico. Così, in Francia i giacobini idearono la solenne intronizzazione di un’immagine della Dea Ragione nella basilica di Notre Dame a Parigi, non più casa di Dio ma esaltazione del pensiero rivoluzionario. Così, negli Stati Uniti, i Padri pellegrini fecero di Dio la bandiera delle aspirazioni all’indipendenza dalla Chiesa anglicana, governata dal re d’Inghilterra, e nella banconota da un dollaro scrissero “In God we trust”. Due secoli dopo, i nazisti combattevano la loro battaglia neopagana mantenendo il motto degli imperatori tedeschi: “Gott mit uns!”… Insomma, la storia ci mostra la rapida evoluzione di un’operazione ideologica di secolarizzazione, al culmine della quale non solo Dio non è più riconosciuto come il fondamento della legge naturale e il logico detentore del diritto all’adorazione da parte di tutti gli uomini, ma è addirittura negato nella sua stessa realtà. Per operare questa sostituzione, siccome l’evidenza di un Assoluto è insita nella ragione umana, l’Illuminismo moderno e contemporaneo ha operato una grottesca regressione culturale, tornando all’idolatria, alla divinizzazione degli «elementi di questo mondo» come li chiama san Paolo.

Prima che si istituisse la societas christiana la storia registra società che praticavano il culto degli idoli della nazione (antico Oriente) oppure il culto del capo militare (il divus Caesar dell’Impero Romano, al quale i cristiani si rifiutavano di offrire sacrifici). Modernamente, l’ideologia laicista ha voluto di nuovo divinizzare il Potere politico (lo “Stato”, la “Nazione” o il “Popolo”). Per imporre questa divinizzazione il laicismo mutua dal cristianesimo il linguaggio del sacro, che di per sé ha senso solo se riferito a Dio: ecco la «religione civile» teorizzata da Jean-Jacques Rousseau; ecco l’altare della Patria voluto dai Savoia dopo la presa di Roma; ecco «i sacri confini» della Patria; ecco il culto della memoria dei martiri (nel Ventennio si parlò dei «martiri fascisti», subito dopo dei «martiri della Resistenza»); ecco «l’apostolo della libertà» (Giuseppe Mazzini); ecco i «pellegrinaggi» al mausoleo di Lenin eccetera. Il senso del sacro è passato tutto nella retorica politica: il Sacro autentico, il Sacro per antonomasia, cioè Dio, non ha più alcun riconoscimento pubblico come realtà in sé. Se vien evocato, è solo per descrivere «il sentimento religioso» di qualche gruppo di cittadini, ai quali lo Stato può benignamente concedere una qualche libertà di culto.

Stando così le cose, è troppo poco, dicevo, limitarsi a perorare, contro la satira blasfema dei giornali occidentali, il rispetto dei diritti soggettivi delle persone che credono in Dio, e ciò al solo scopo di garantire la pace sociale. Ad esempio, sulla Bussola Quotidiana del 18 gennaio ho letto un articolo di Ettore Malnati intitolato “L’offesa al sentimento religioso non aiuta la convivenza” [vedere qui]. Ripeto ancora: troppo poco! Qui si tratta del rispetto dovuto a Dio, che indubbiamente esiste anche se lo Stato laicista dice che non è vero, che “non gli risulta”. Per lo Stato laicista la satira antireligiosa, compresa la blasfemia, è solo una maniera lecita di esprimere la critica razionale di un sentimento soggettivo irrazionale. E invece la verità è che la bestemmia costituisce un’ingiustizia, un disordine morale (cioè un peccato) di gravità assoluta, perché ciò che viene violato, innanzitutto, è il diritto primario che ha Dio al rispetto, all’onore e all’adorazione. Proporre, come è stato fatto, che lo Stato sancisca l’esistenza di un «diritto di blasfemia” equivale a formalizzare l’implicita premessa ateistica dello Stato laicista, la sua “Costituzione materiale”: si pretende che lo Stato affermi esplicitamente – senza averne alcuna autorità, né logica né morale – che Dio non esiste, che ciò che alcuni chiamano “Dio” è solo un’idea soggettiva tollerabile nel privato ma non meritevole di tutela pubblica. Mentre lo sono altre idee, ad esempio l’idea di essere degni di rispetto e di stima in quanto gay. Per questo motivo non si possono assolutamente offendere e nemmeno criticare i gay (è il reato di “omofobia”) ma si può offendere Dio, perché Dio non esiste. Invece, offendere un capo di Stato è reato di vilipendio, perché il capo di Stato esiste, e ovviamente lo Stato lo sa. Questa è la logica del discorso, se di logica si tratta. In realtà non si tratta di logica ma di mera prepotenza da parte di chi, per mantenere il potere, deve continuare a imporre la sua egemonia culturale e ideologica. Lo Stato si è costituito arbitrariamente di un’autorità assoluta, tanto da considerarsi esplicitamente fonte di ogni verità metafisica e morale, e quindi giuridica (chi esiste e ha diritto al rispetto e chi no).

La legge positiva ha legittimità solo se presuppone e rispetta la legge morale naturale, che parte dalla certezza che c’è Dio come prima Causa e ultimo Fine di tutto, e pertanto come Legislatore universale. Prima, a proposito dell’offesa al santo nome di Dio, parlavo del primo e del secondo Comandamento. Questo e tutti gli altri costituiscono il Decalogo, che altro non è se non la codificazione veterotestamentaria della legge morale naturale. Essa contiene in modo pienamente intellegibile le norme morali fondamentali che ogni uomo spontaneamente conosce ed è obbligato a osservare fedelmente, come insegna la grande tradizione filosofica e anche la Sacra Scrittura. Non c’è bisogno di conoscere la Legge di Mosè, dice san Paolo nella Lettera ai Romani, per onorare e amare Dio come creatore e legislatore. Così, oggi, dobbiamo dire che non c’è bisogno di una legge positiva della società civile per non bestemmiare. Certo, uno Stato moderno occidentale, che si vanta di essere “laico”, non solo non manterrà le leggi contro la blasfemia che prima erano state in vario modo formulate, ma addirittura imporrà una legge a favore del “diritto di blasfemia”.

Bisogna reagire all’ideologia statalistica, che è uno dei frutti più amari dell’idealismo e ricordare che è piuttosto lo Stato che non esiste: esistono invece uomini e donne che formano la società civile, uomini e donne che in quanto cittadini di una nazione si sono dati o hanno ricevuto una determinata forma giuridica per le istituzioni pubbliche (governo, giustizia, difesa, fisco eccetera), e ci sono tra questi cittadini alcuni che esercitano funzioni pubbliche. Gli uni e gli altri (privati cittadini e funzionari pubblici) hanno un intelletto e una coscienza, e sanno bene qual è la realtà evidente per tutti, e a partire da questa conoscenza di base (che in filosofia si chiama il “senso comune”) si formano le loro opinioni, in libertà, sulle questioni contingenti. Dal consenso di tutti sulle evidenze del senso comune si viene formando in tanti diversi modi il diritto positivo, valido se in sintonia con la volontà popolare ma soprattutto e innanzitutto con la legge morale naturale.

Chi ha ancora la facoltà di pensare con la propria testa sa che la verità metafisica e morale è una conquista che la ragione umana ottiene quando si basa sull’esperienza immediata e universale e poi anche sulla riflessione critica (la filosofia), che sono le premesse razionali di un eventuale accoglimento della rivelazione divina. Di fronte all’indottrinamento dello Stato ateistico bisogna tornare all’evidenza che Dio esiste, anche se chi governa lo Stato non vuole riconoscerlo. Lo riconosce il senso comune e la filosofia: nessun vero filosofo ha professato l’ateismo (lo ha dimostrato Etienne Gilson con il suo libro L’ateismo difficile), e nessuno scienziato ha mai potuto dimostrare con i suoi strumenti di indagine che Dio non c’è. Un autorevole filosofo italiano, in un’opera degli anni Sessanta del secolo scorso, ha scritto:

«L’itinerario dell’uomo a Dio si presenta come il più arduo e il più pressante. Senza il riferimento all’Assoluto infatti tutti i valori restano sospesi e l’uomo è esposto al continuo rischio di essere travolto dalla temporalità e di smarrirsi nei trabocchetti della contingenza. I vari tentativi di evadere il problema di Dio dell’ateismo nelle sue forme poliedriche fino alle contemporanee forme della cosiddetta “teologia della morte di Dio”, mostrano la dialettica mai risolta del dramma sconcertante dell’uomo che quaggiù non può attingere e possedere Dio, mentre avverte sempre in qualche modo di non poter stare senza Dio» (Cornelio Fabro, L’uomo e il rischio di Dio).

L’ateismo di Stato, come quello che si è imposto in Occidente, è concepibile solo in un orizzonte meramente politico: ma non di politica come esercizio del potere regolato da criteri di giustizia per in vista del bene comune, bensì di politica come conflitto di interessi per la conquista o il mantenimento del potere da parte di una forza ideologica, economica e militare. Una politica del genere cerca il consenso popolare con discorsi demagogici, rivolti al sentimento e non alla coscienza dei cittadini; e, quando raggiunge i suoi fini, ecco che l’ordine sociale è radicalmente compromesso a causa di leggi prive di qualsiasi connessione con il diritto naturale. Ma le leggi contrarie al diritto naturale non sono vere leggi, non hanno valore morale, ma si riducono a prepotenza, a tirannide, a dispotismo. Poco importa, da questo punto di vista, che la forma di governo sia totalitaria o democratica: in entrambi i casi si deve riconoscere che una gestione del potere (magistratura, governo, parlamenti) che ignori il diritto naturale fa sì che la classe politica si riduca a un’associazione per delinquere (magnum latrocinium), come diceva sant’Agostino già ai tempi della transizione tra l’Impero romano e i regni barbarici.

Ora, la coscienza di un uomo dotato, appunto, di coscienza, lo indurrà a comportarsi bene con Dio, sia nella vita privata che in pubblico, senza bisogno di costrizioni legali in un senso o nell’altro. Dal punto di vista della coscienza personale non c’è alcun problema. Il problema sorge quando la coscienza personale spinge a interessarsi della cosa pubblica e a prendere posizione di fronte alle leggi ingiuste. Tanti sono infatti i modi di prendere posizione: con il proprio attivo intervenento nella formazione dell’opinione pubblica, con diversità di forma e di critica sociale (l’insegnamento, l’uso dei mass media), con l’esempio personale che è giusto o no osservare e, esercitando il diritto di voto quando le circostanze lo consentono, contribuire a far sì che non sia approvate o se già approvate possano essere abolite. Tanti lo hanno fatto e lo stanno facendo, ad esempio per quanto riguarda l’aborto, (questione de iure condito) o il riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali (questione de iure condendo).
Ma gli aspetti paradossali di questa opposizione dello “Stato laico” è che l’Assoluto, cioè Dio, non è considerato reale, mentre lo Stato, che è relativo a un’idea della società, è considerato reale. Il relativismo, nega ogni assoluto – il che è impossibile per le leggi fondamentali della logica – e finisce così per rinchiudersi nel solipsismo irrazionalistico. Tipico dell’irrazionalismo è fare discorsi che cadono continuamente nella contraddizione (il self-denying discourse), e pertanto più che sbagliati sono propriamente insensati, sono autentici nonsenses. Lo “Stato laico” professa l’irrazionalismo tanto quanto lo “Stato islamico”, ossia l’ideologia politico-religiosa dell’Islam denunciata da Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona.