Autore Padre Ariel

Babele e la neolingua: una Chiesa senza vocabolario da mezzo secolo [versión disponible en español]

BABELE E LA NEOLINGUA: UNA CHIESA SENZA VOCABOLARIO DA MEZZO SECOLO

 

Quando la Chiesa rinuncia ad un linguaggio comune, universale e preciso, tale è il linguaggio dogmatico, fisso e senza tempo, giacché suo compito è percorrere i tempi, a quel punto nasce la incomunicabilità e si rinnova il dramma della superbia di Babele. Insomma, urge correre ai ripari e prendere atto del dato drammatico: abbiamo perduto il linguaggio per comunicare i misteri della fede, che richiedono un lessico proprio e preciso, che prescinde dalla società e dai tempi; e questo linguaggio è il linguaggio metafisico […]

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Autore Padre Ariel

Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Anni addietro ho dedicato molto tempo alla riflessione ed allo studio di alcune particolari tematiche socio-ecclesiali,lupi falsi profeti fissando poi in alcuni miei libri — in particolare nell’opera E Satana si fece Trino — un concetto sul quale seguito sempre a ribattere: il principio di inversione del bene e del male che muta il male in bene ed il bene in male, sino alla “naturale” distruzione del concetto stesso di bene e di male, in un mondo ecclesiale e secolare dove la coscienza soggettiva è annullata e la coscienza oggettiva — quella che Carl Gustav Jung chiamerebbe a suo modo “inconscio collettivo” o “coscienza collettiva” — risulta spesso totalmente annichilita. Questo processo, di cui è sommo artefice il Demonio, passa inevitabilmente attraverso lo “svuotamento” delle parole, prima private di contenuto poi riempite d’altro, per esempio la carità senza verità, la misericordia senza giustizia …

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giustizia di Dio

misericordia e giudizio di Dio

Quando agli inizi dell’anno 2000 cominciai a percepire certe forme di buonismo filantropico all’epoca in fase di sviluppo ed oggi giunte all’apice della vera e propria perversione, nell’apertura di un mio libro edito poi nel 2007 scrissi: «La Carità senza Verità è zoppa, la Verità senza Carità è cieca. La Carità si compiace della Verità nella misura in cui la Verità si compiace della Carità» (1). Ed è proprio la carità che mi porta a definire il nostro Creatore come un Dio virile in quanto fonte originante del concetto stesso di quella virilità che prende forma fisica visibile e tangibile nel Verbo Incarnato, Cristo Signore, vero Dio e vero Uomo. Il tutto per dire che la carità — perlomeno quella cristiana — non ha nulla da spartire con certe melasse. La carità-amore è un vero e proprio “attributo” di Dio che come tale non è neppure concepibile senza la verità; allo stesso modo in cui la misericordia non è pensabile — perlomeno cristianamente — senza la verità e la giustizia. Se dunque vogliamo ridurre l’uomo alla vera impotenza del non essere per condannarlo al non divenire, prima è necessario svuotare le parole, alterarle e falsificarle, poi privarlo di un vocabolario, quindi di una lingua.

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Nel correre dell’ultimo mezzo secolo si è rinnovato all’interno della società ecclesiale ciò che i figli di Dio hanno già vissuto in passato, il tutto tramite le stesse modalità di fondo e con le stesse conseguenze finali. La nostra modernità è difatti racchiusa nel racconto vetero testamentario in cui si narra della costruzione della Torre di Babele, dall’ebraico מגדל בבל – migdol bavel :

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torre di babele 2

Torre di Babele

Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra (2).

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adamo ed eva

tentazione

Tra le numerose interpretazioni di questo racconto allegorico che oltre l’allegoria racchiude la radice della divina verità, amo da sempre prediligere l’immagine della punizione per un atto di umana superbia dell’uomo che non solo tenta di sfidare Dio, ma di sostituirsi a Dio. D’altronde, il cuore della grande tentazione alla quale Adamo ed Eva cedettero fu l’inganno del Demonio racchiuso in una espressione che percorre dall’alba dei tempi la storia dell’umanità: … se mangerete di questo frutto del quale vi è stato proibito di cibarvi, sarete simili a Dio. A questo modo il Tentatore altera e mette in dubbio la parola di Dio, appunto svuotandola e trasformandola in altro, insinuando il malevolo dubbio che quella proibizione nasce solo dalla gelosia di Dio, desideroso che Adamo ed Eva non fossero simili a lui.

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Nelle antiche esegesi fatte quando ancora possedevamo e conservavamo con cura un vocabolario che racchiudeva al proprio interno i significati reali delle parole ed una lingua comune universale, si soleva fare un collegamento tra l’episodio della Torre di Babele e la discesa dello Spirito Santo sul cenacolo degli apostoli a Pentecoste. Attraverso l’azione di grazia dello Spirito Santo gli Apostoli prendono a parlare lingue diverse divenendo così comprensibili agli uomini di tutti i popoli, sanando a questo modo la frattura originata in passato a Babele.

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dispute teologiche

dispute teologiche

Sono il primo a criticare i limiti della neoscolastica decadente, che della autentica scolastica è solo una parodia. Volendo possiamo anche muovere delle critiche scientifiche e pertinenti ad alcune parti dell’opera o ad alcuni degli stessi pensieri del Doctor Angelicus, che tratta verità dogmatiche — in maniera mirabile e sino ad oggi insuperata — ma il cui pensiero, non esente anch’esso da alcuni errori umani, non è dogma di fede. San Tommaso d’Aquino parla dei dogmi, ed in modo efficace li trasmette attraverso il metro della migliore metafisica, ma la Summa Teologica non è un dogma, lo sanno e lo affermano da sempre i tomisti per primi, alcuni anche in modo ilare affermando che «Dio non è uno, trino e … tomista», pur essendo la speculazione dell’Aquinate comprovata nei secoli per la preziosa efficacia con la quale ci guida a penetrare gli arcani misteri del Dio uno e Trino.

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Walter Kasper e Karl Lehmann

I Cardinali Walter Kasper e Karl Lehmann, discepoli del teologo tedesco Karl Rahner

Gli esponenti delle diverse scuole teologiche si sono affrontanti per secoli in profondi e talvolta anche furenti dibattiti teologici, tutti beneficiando del legittimo diritto di cittadinanza all’interno della Chiesa. Ciò avveniva nelle varie epoche di quel lungo spazio che fu il medioevo, definito tutt’oggi da certi irriducibili asini come “epoca dei secoli bui”,  espressione fatta propria anche da certi ecclesiastici e teologi, alcuni dei quali in cattedra nelle nostre università pontificie. La verità, è che in quella “terribile” stagione dei “secoli bui”, che segnò invece delle straordinarie esplosioni dell’umano intelletto attraverso le scienze, le arti, la filosofia e la teologia, non solo il confronto era possibile ma cercato, favorito e auspicato; al contrario di oggi, dove sopra le ceneri del linguaggio metafisico ormai de-costruito è stata originata una crisi del dogma senza precedenti, sino allo sprofondamento nel paradosso inteso nel più stretto senso etimologico della radice greca di παρά [contro] e δόξα [opinione]. Il perverso paradosso odierno è che si può mettere in discussione l’incarnazione del Verbo di Dio, si può leggere in chiave puramente allegorica la risurrezione del Cristo, si può ridurre la Santissima Eucaristia a mera simbologia di un banchetto gioioso, si può scempiare la sacra liturgia secondo gli arbitrî del bohèmienne Kiko Arguello e di Carmen Hernández, si può trascinare dentro la Chiesa l’animismo africano ed il pentecostalismo nordamericano attraverso la devastante opera di certi carismatici invasati, si può spacciare per ecclesiologia il più ambiguo politichese ciellino assiso di prassi sul carrieristico carro del vincitore, ma non si possono porre in discussione le perniciose teorie di Karl Rahner e di tutte le étoiles della Nouvelle Théologie; di tutti gli astri nati dal post concilio erettosi come una autentica Babele sopra le dottrine del Concilio Vaticano II, sulle quali si è celebrato il grande tradimento in un clima di feroce dittatura che non ammette alcuna sana discussione. O come disse in uno studio teologico dell’Italia Meridionale un docente ad un seminarista: «Quel che tu pensi a me non interessa. Ciò che voglio è che parola per parola tu mi porti all’esame la cristologia di Walter Kasper e di Karl Lehmann, se vuoi superare il mio esame, altrimenti …». E questi moderni “teologi” oggi in cattedra, che hanno studiato la patristica non sui testi greci ma su sunti di dispense tradotte, che hanno sostituito il parlare dogmatico col parlare sociologico; questi distruttori della metafisica e di ogni senso comune, spesso sono proprio coloro che ironizzano con stile da illuministi volteriani in odore di massoneria Settecentesca sui cosiddetti “secoli bui”; loro che hanno preso la lampada da sopra il tavolo e l’hanno nascosta sotto al moggio (3) consegnando infine la Sposa di Cristo ad una lunga notte di tenebre.

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Cardinale martini

il Cardinale Carlo Maria Martini durante una lectio magistralis

Una volta, uno dei diversi sacerdoti tirati su dentro i nostri pretifici — quelle odierne fabbriche di deformazione alle quali sono ormai ridotti certi seminari — ed allevato attraverso il meglio del peggio delle esegesi protestanti, baccalaureato, specializzato e infine dottorato presso la “scuola rabbinica” del Pontificio Istituto Biblico senza avere mai sfiorato ciò che in filosofia e in teologia è il pensiero veramente cattolico, sollevò lagnanze su di me, a suo dire colpevole di avere criticato il pensiero del “santissimo padre della Chiesa” Carlo Maria Martini. Il vescovo di questo  prete  mi esortò in modo amabile ad essere meno impetuoso. Risposi al vescovo: «Questo suo presbitero, non solo amoreggia con tutto ciò che non è cattolico, ma strizza gli occhi all’eutanasia, afferma in modo sibilino che il discorso sull’aborto andrebbe valutato “caso per caso”, che un giorno la Chiesa valuterà se non il sacerdozio femminile perlomeno il diaconato alla donne, che il discorso dei cattolici divorziati andrà valutato presto e bene. Preposto a curare un centro di formazione teologica, chiama a tenere conferenze esponenti della sinistra ideologica e sostenitori della cultura del gender … eppure ha persino l’impudenconversazioni notturne a gerusalemmeza di lamentare che io avrei proferito una sacrilega “bestemmia contro lo Spirito Santo”, ossia l’avere osato criticare il pensiero di un pensatore che temo abbia reso l’anima a Dio in piena crisi di fede. E badi bene, Venerabile Vescovo, non affermo questo perché oso giudicare la coscienza intima del Cardinale Martini, che solo Dio può scrutare e giudicare, ma perché ho analizzato certi suoi testi; e se pure lei vorrà leggere Conversazioni notturne a Gerusalemme, capirà il dramma interiore di quest’uomo al quale in giro per gli studi teologici italiani sono dedicati cicli di lezioni celebrative intitolate “La parola del Cardinale Martini”, il tutto mentre giorno dietro giorno si dimentica sempre di più la Parola di Dio, sostituita col verbo dei moderni idoli, ivi incluso tra di essi anche il Cardinale Martini. Non è però questo il problema ma altro: lei sa che questo suo presbitero critica in modo subliminale il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, lanciando su entrambi il martiniano “anatema” che la Chiesa sarebbe indietro di almeno 200 anni? Ebbene mi dica: si può forse mettere in discussione i capisaldi della morale cattolica, criticare il magistero della Chiesa e degli ultimi due Sommi Pontefici con modernistica altezzosità da biblisti filo-protestanti, ed al tempo stesso essere però impediti a porre in discussione, sul piano strettamente scientifico, teologico e pastorale, certe affermazioni infelici e palesemente errate pronunciate dal Cardinale Martini?». Replicò il vescovo: «Figliolo caro, che cosa ci posso fare?». Risposi: «Al posto suo saprei che cosa fare, ma il vescovo è lei, non io. In ogni caso: il primo passo per risolvere dei gravi problemi, è quello di ammettere anzitutto la loro esistenza, non certo negarla». Poi, in maniera molto delicata, ricordai al vescovo qual grave e devastante mancanza costituisce per i presbiteri che esercitano il sacerdozio in comunione con la pienezza del suo sacerdozio e per il Popolo di Dio a lui affidato, il grave peccato di omissione, la impotenza derivante dal non-agire, sport ormai molto praticato nel nostro episcopato ridotto sempre più ad una compagine di funzionari in carriera che non vogliono grane, che non amano discutere e meno che mai sono disposti a richiamare i figli ribelli, pur essendo però capaci a richiamare chi afferma l’ovvio: «Questo agire non è pastorale» e spesso non è neppure cattolico. Il tutto con buona pace del defuntBianchi-Martinio Cardinale Martini, che alla prova dei fatti non passibili di facile smentita ha trascorso la propria vita a piacere e ad essere celebrato in gloria da tutti i circoli intellettuali della sinistra, osannato dalla strampa anti-cattolica e massonica; il tutto mentre Giovanni Paolo II prima, Benedetto XVI dopo, dagli stessi circoli intellettuali e dagli stessi giornali erano fatti letteralmente a pezzi in modo metodico e spesso feroce. Ripeto, questi sono i fatti, con buona pace dei martinitt formatisi sul meglio del peggio delle esegesi protestanti e sulle eresie moderniste oggi al potere; e che in giro per gli studi teologici italiani organizzano seminari su “La parola del Cardinale Martini”, chiamando spesso a pontificare l’altro immacabile falso profeta e cattivo maestro: Enzo Bianchi.   

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Dopo la de-costruzione del dogma eretto sulla rivelazione e sul deposito della fede sancito dai grandi concili dogmatici della Chiesa, al suo posto si sono sostituite le dogmatizzazioni dei pensieri umani dei vari Rahner, che hanno creato anzitutto il loro nuovo vocabolario. Infatti, affinché il golpe potesse risultare davvero devastante, era necessario creare anzitutto due “miti” intangibili che potessero fungere da neo-dogmi: anzitutto una nuova èra con tutte le implicazioni messianiche del caso, si legga “ermeneutica della rottura e della discontinuità”, ossia la Chiesa intesa come entità nata dal post-concilio Vaticano II; quindi un nuovo lessico, ossia tutte le ambigue terminologie del nuovo vocabolario teologico rahneriano.

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vera e falsa teologia

l’opera di Antonio Livi, Vera e falsa teologia

Nell’opera Vera e falsa teologia il mio confratello anziano Antonio Livi tratta il fenomeno della de-dogmatizzazione spiegando con scientifico rigore in che modo la metafisica è indispensabile per l’interpretazione del dogma, poiché esprime in modo scientifico le certezze del senso comune. Data alle stampe all’apice della sua maturità filosofica e teologica, quest’opera si richiama alla produzione del domenicano francese Réginald Garrigou-Lagrange, in particolare ai suoi studi sur le sens commun ed alla philosophie de l’être et les formules dogmatiques, per seguire con l’enciclica Fides et Ratio di San Giovanni Paolo II, alla stesura della quale non è mancato anche il contributo di Antonio Livi.

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1984 George Orwell

l’opera di George Orwell, 1984

Per avvelenare la verità è necessario anzitutto avvelenare la lingua idonea ad esprimerla. Sicché, tutti questi seminatori di veleni e di distruzioni che hanno avvelenato la buona teologia e de-strutturato o distrutto il dogma, hanno finito col creare una lingua infarcita dei loro tipici e specifici neologismi, o come direbbe George Orwell nel suo profetico romanzo “1984″: una neolingua. E chi non parla questa neolingua finisce per essere dichiarato tabù, per dirla con un neologismo di quel Freud tanto caro a certi teologi ed ecclesiologi modernisti.

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Quando la Chiesa rinuncia ad un linguaggio comune, universale e preciso, tale è il linguaggio dogmatico, fisso e senza tempo, giacché suo scopo e compito è di percorrere i tempi, a quel punto nasce la incomunicabilità e si rinnova il dramma della superbia di Babele. Insomma, urge correre ai ripari e prendere atto del dato drammatico: abbiamo perduto il linguaggio per comunicare i misteri della fede, che richiedono un lessico proprio e preciso, che prescinde dalla società e dai tempi; e questo linguaggio è il linguaggio metafisico.

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Nella Chiesa cambiano – e devono cambiare – gli accidenti del linguaggio, non però le sostanze del linguaggio fondate sull’eterno immutabile. O per dirla con un aulico esempio chiarificatore: “Poscia, pria chi niuno favellasse Iddio fu “. Traducento dal linguaggio aulico a quello corrente la sostanza è: prima che l’uomo parlasse Dio già era. L’ accidente — ossia la lingua espressiva — può invece cambiare e, senza mutare di un solo iota la sostanza, oggi possiamo tranquillamente affermare la stessa cosa dicendo: “Prima che chicchessia parlasse Dio già era”.

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calice

prezioso calice

Dire: “Hoc est enim corpus meum o dire “Ecco questo è il mio corpo”, è la stessa cosa, con buona pace di certi lefebvriani che “adorano” più l’accidente esterno e mutevole del latinorum anziché la sostanza dell’Eucaristia che è il Cristo eterno e immutabile, presente vivo e vero, a prescindere dagli accidenti esterni che sono per loro stessa natura mutevoli. Dire invece “Ecco, questo rappresenta il mio corpo”, non sarebbe affatto una mutazione dell’accidente formale linguistico ma una mutazione della più delicata sostanza ontologica, legata appunto alla ontologia dell’essere divino increato, immutabile ed eterno. Da qui nasce ad esempio la discussione sul “pro multis” che per mezzo dell’accidente linguistico è invece divenuto “per tutti “, cosa sulla quale si potrebbero aprire profondi dibattiti teologici, che però non hanno motivo di essere perché Benedetto XVI ne dispose la correzione in “per molti ” nei messali tradotti nelle varie lingue, diversi dei quali già corretti e stampati. Per quanto mi riguarda dico da sempre “per molti ” sin dalla prima Messa celebrata; e ciò non per abuso arbitrario ma per aderente fedeltà ai testi originali, a partire naturalmente da quelli del Vangelo.

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messale

Messale di San Pio V

Sia chiaro: il Sacrificio del Cristo distrugge il peccato per l’uomo chiamato a suo modo a concorrere a questa distruzione per riedificare il Nuovo Adamo. L’Apostolo Paolo afferma con coerenza teologica che Cristo «è morto per tutti» e che la sua morte ha distrutto il peccato (4). In un diverso ma simile contesto l’Autore della Lettera agli Ebrei non fa riferimento a “tutti”, pro omnibus, ma a pro multis, a “molti”: «[…] i peccati di molti» (5). Esattamente quel pro vobis et pro multis effundetur che risuona nel testo originale latino della più antica Preghiera Eucaristica, tradotta poi nella gran parte delle lingue nazionali col termine “per tutti”. Nel testo originale greco viene usato oι πολλοι, che alla lettera significa “i più” ma non significa “tutti”, termine usato nei vangeli di San Marco e di San Matteo e proprio nella narrazione della istituzione dell’Eucaristia, nella quale gli Evangelisti non usano πάντες ἄνθρωποι [per tutti gli uomini]. Siamo allora dinanzi a una palese incoerenza? Come mai l’uso del termine “per tutti” e “per molti” in altri contesti pressoché analoghi? Non è un sofisma semantico se rapportiamo sul piano escalotologico e teologico “per molti” e “per tutti” al mistero del Sacerdozio regale di Cristo, che non nasce col carattere sacerdotale ma che lo assume; e siccome non lo assume per se stesso ma per noi, il quesito suona a dir poco legittimo: il Cristo si fa Sommo Sacerdote “per molti” o “per tutti”?

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Benedetto XVI in cattedra

dalla cattedra teologica alla Cattedra di Pietro

Nessuna contraddizione sussiste tra le diverse righe testé citate: la morte di Cristo, sebbene sia sufficiente per tutti e benché sia avvenuta per tutti non ha efficacia se non per coloro che devono essere salvati poiché vogliono essere salvati; altrettanto vale per il Sacerdozio Regale del Cristo che assume efficacia per i molti che vogliono parteciparvi per beneficiarne. Non tutti infatti si sottomettono a Lui nella fede e nelle opere attraverso quel piano di salvezza che viene offerto nell’amore e nella grazia dalla potenza divina; offerto a tutti ma non imposto. Dunque è l’uomo dotato di libertà e di libero arbitrio a rendere efficace o del tutto inefficace il Sacerdozio Regale del Cristo. Pertanto, la trascrizione di “pro multis” derivante dal greco oι πολλοι con la dicitura “per tutti”, non è affatto — come spiegò  Benedetto XVI in una sua lettera del 2012 al presidente della irrequieta Conferenza episcopale tedesca — una fedele traduzione «ma piuttosto una interpretazione» che potrebbe suonare, mi permetto di aggiungere io, anche non po’ arbitraria. Benedetto XVI, in sua veste di raffinato teologo, ci insegna a tutti che in teologia, prestare molta attenzione al significato delle parole ed al loro uso appropriato — in modo particolare nel delicato ambito della teologia dogmatica o nel caso specifico della dogmatica sacramentaria — non vuol dire muoversi sui sofismi giocati su questioni di lana caprina, ma tutelare la verità dal pericolo dell’errore facendo anzitutto uso della corretta parola, che è la Parola di Dio e soltanto la Parola di Dio.

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apprendista stregone

il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli suole definire Karl Rahner come il Grande Apprendista Stregone

La verità è annunciata attraverso le parole, perché il Verbo di Dio stesso si fece parola vivente; e la verità divina, per essere annunciata e trasmessa, non necessita di semplici parole appropriate, ma di sue parole specifiche. Chi si è preso cura di studiare bene ed a fondo i primi grandi concili dogmatici celebrati nel corso dei primi otto secoli di vita della Chiesa, sa bene che il primo problema che si pose ai Padri fu anzitutto quello di trovare parole idonee per esprimere il mistero, che non essendo però presenti nel vocabolario, furono modulate dal lessico filosofico greco. A partire dagli anni Sessanta del Novecento, questo “apparato” linguistico filosofico e teologico nato dai concili, dalla letteratura dei Padri e dalla speculazione dei più grandi dottori della Chiesa, è stato d’improvviso smantellato per correre dietro alle “parole nuove”, alla neolingua del Grande Apprendista Stregone, come ama indicare Karl Rahner il domenicano Giovanni Cavalcoli, anch’esso autore di un’opera che costituisce una pietra miliare nella critica al pensiero rahneriano [vedere qui], data alle stampe dopo tre decenni di ricerche e raccogliendo in essa anche molti preziosi spunti critici del Servo di Dio Tomas Tyn, già autore a suo tempo di uno studio nel quale confutava le ambiguità e gli errori insiti nel pensiero di questo celebre teologo tedesco.

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Presi quindi dall’euforia del grande “aggiornamento” e da una “nuova Pentecoste” mal compresa, abbiamo perduto la parola eterna ed immutabile di Dio ed il linguaggio idoneo e preciso attraverso il quale trasmetterla, ed oggi arranchiamo tentando di esprimerci con una neolingua infarcita di romanticismo tedesco decadente, scopo della quale è solo quello di falsificare la verità, in cattiva o in buonafede, dispersi ed a tratti impazziti sotto la torre di Babele all’ombra della quale risuonano le vuote o pericolose parole di mille filosofismi e sociologismi pseudo teologici.

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Il primo che di esternazione pubblico-privata in esternazione pubblico-privata pare che si stia mostrando privo di questo linguaggio metafisico e immutabile che si regge sul dogma, sembrerebbe proprio il Regnante Pontefice, mentre attorno a lui un nugulo di cortigiani si circonda sempre più di maestri «secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (6).

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in principio

prologo del Vangelo di San Giovanni Apostolo

All’ultimo Sinodo dei Vescovi, quanti erano i Padri Sinodali in grado di capire e di ascoltare, o solo di leggere — non dico nemmeno di tradurre, ma solo di leggere — un testo in lingua latina? È mai possibile che a Roma, quando presso molte case sacerdotali capita che trenta sacerdoti che parlano dieci lingue diverse debbano concelebrare l’Eucaristia, usino come lingua l’inglese, anziché il latino? Molti dovrebbero porsi delle domande, mentre Pietro, dal canto suo, dovrebbe affrettarsi a dare risposte ed a prendere seri provvedimenti, anziché giocare a compiacere i mass media giocando egli stesso con la neolingua [vedere qui]. A cosa serve infatti, mentre la casa in fiamme cade a pezzi, innaffiare le margherite del giardino affinché non appassiscano col calore sviluppato dal fuoco, vale a dire annunciare una riforma sempre più improbabile della curia romana? Forse allo scopo di piacere a quanti nutrono da sempre non desideri di riforma, bensì solo il grande e insopprimibile desiderio di distruggere Roma sede perenne della Cattedra di Pietro?

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Canti d’Avvento: Conditor alme siderum

Gli Autori dell’Isola di Patmos promuovono la tutela del patrimonio del canto e del latino liturgico

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NOTE

1. Cf. Ariel S. Levi di Gualdo: Erbe Amare, il secolo del Sionismo. Roma, 2007.

1.  Gen 11, 1-9.

2. Cf. II Cor: 5, 15.

3. Cf. Mt 5, 15.

4. Cf. Rm 1, 6-7.

5. Cf. Lettera agli Ebrei: 9, 28.

6. Cf. II Tm 4, 1-8.

9 commenti
  1. Riccardo dice:

    Padre Ariel
    mi vado sempre più convincendo che il problemissimo sia il CVII con i suoi documenti, anfibologici sotto ogni rispetto e funzionali alla loro successiva strumentalizzazione.
    Un altro problema è, per quanto mi pare di constatare, la teologia orizzontale o filosofia religiosa, vanesia, sciovinista ed autoreferenziale che ha barattato il suo lessico di cristallo avuto in dono da San Tommaso con la bigiotteria della farneticazione filosofica modernista.
    Sono altresì convinto che un altro problema sia l’inseguimento della terrestre onestà a scapito della soprannaturale santità, dimenticando che questa è inclusiva di quella, mentre non è vero il contrario.
    Pavida, omissiva, reticente, dimentica di sé, del suo compito e dell’esempio dei Martiri, la Chiesa ha abbandonando l’ambienza dogmatica, la sola capace di assicurare autorità al suo Magistero, Con amarezza, “sed spes contra spem”, vedo giacere tra le ortiche le chiavi di Pietro e lo staffile che percuote l’errore.

  2. ettore dice:

    Reverendi Padri, rivolgo a tutti e tre, queste domande per me e per molti angoscianti.
    Chiesa povera o povera chiesa? Sono conciliabili? Cosa deve fare il credente per appartenere a Gesù?
    Chiesa povera, per sempre più numerosi entusiasti zeloti, chiesa “democratica” , dei referendum come il nuovo questionario per il sinodo sui temi legati alla famiglia, chiesa in uscita!
    Povera chiesa – mi viene da dire – chiesa degli uomini, chiesa (irresponsabile?) che allontana da Dio!
    Col documento preparatorio, un’avvertenza chiede di “non annullare la svolta del Papa” di non “ripartire da zero” . Esortazione (propaganda di proselitismo) o intimidazione?
    Il “battage pubblicitario e il marketing” – espressioni proprie della “neo lingua” – orchestrato dagli zelanti organizzatori, la prematura soddisfazione, fanno loro ritenere già acquisito l’obiettivo.
    Tanti padri sinodali hanno espresso perplessità nel merito e nel metodo della scelta “auspicata” e manifestato dissenso. La battaglia non è perduta. Deve il credente – membro del popolo di Dio, secondo coscienza – far sentire la sua voce contraria? Come manifestarla da buon cristiano? Nella comunità, nella…

  3. vincenzodatorino dice:

    Il compianto Don Piero Ottaviano fondatore del Didaskaleion a Torino per l’evangelizzazione dei laici, già egli anni 70 diceva che nelle prediche il sacerdote dovesse sempre dare nozioni di catechismo per sopperire all’ignoranza cronica dei fedeli che non conoscono la loro fede. Li sta la presa di coscienza e la fonte intellettuale per una vita cristiana vera o no?

  4. Julian Munera dice:

    Padre muy buenos días, a pesar de escribir en italiano prefiero hacer mi pregunta en español para no generar malentendidos: usted habla de una nueva lengua impuesta en los últimos años en la iglesia, una visión que puede ser en si misma subjetiva ya que usted habla como los otros sacerdotes del lenguaje doctrinal únicamente como metafísico, y aunque hacen referencia a Tomas de Aquino, pero se les olvida que este lenguaje tuvo en la historia muy accidentada que termino con un nominalismo donde los conceptos fueron clasificados como voces vacías donde solo el hombre daba su poder y significado. Por otro lado los estudios sobre el lenguaje y la historia en los últimos siglos han dado una gran valoración al contexto, a los autores, a los personajes pero sobre todo a la validez del juicio de quien observa externamente. ¿Cómo se puede pensar a que en una sociedad eclesial como la actual un lenguaje de inmovilidad, de abstracción como era y es el lenguaje metafísico pueda dar respuesta y hablar y definir hoy es el dinamismo la principal característica lingüística? no es agarrarse a un pedazo de madera en medio de un mar en vez de nadar para buscar la salvación?

  5. federicofontanini dice:

    Ieri sera, nel corso di una riunione del gruppo liturgico zonale, ci sono stati alcuni interventi volti a stimolare il celebrante affinchè moltiplicasse spiegazioni e commenti durante la liturgia. Oggi si è perso (o quasi) il linguaggio chiaro ed universale della liturgia cattolica di sempre grazie al quale anche un bambino od una vecchietta analfabeta riuscivano ad entrare nel mistero del Santo Sacrificio. E’ veramente drammatico, non riusciamo più a comunicare e più apriamo bocca, più ci parliamo addosso senza niente risolvere.
    A proposito poi di alcune frasi modificate arbitrariamente nel Messale italiano, mi piace ricordare anche la traduzione “non son degno di partecipare alla tua mensa” per “non sum dignus ut intres sub tectum meum” che è ben altra cosa!

    • Padre Ariel
      Ariel S. Levi di Gualdo dice:

      Caro Federico,

      i redattori di questo sito sono rispettivamente: un romagnolo verace, il domenicano Giovanni Cavalcoli; e due toscani appartenenti come tali ad una nota razzaccia, Antonio Livi ed io.
      Mentre i miei due illustri confratelli, per sapienza ed anzianità, hanno più pudore di me, io ogni tanto il pudore lo lascio da qualche parte, come il sor Peppino che ogni tanto dimenticava la bicicletta, ma poi la ritrovava sempre in qualche angolo e su di essa tornava a casa. Non pago inoltre di scherzare coi fanti, mi metto pure a scherzare coi santi, cosa ch’era specializzato a fare anche un’altro toscano: San FIlippo Neri.
      Ciò premesso: mi perdoni se le dico che mi ha fatto ridere quando ha narrato: “ci sono stati alcuni interventi volti a stimolare il celebrante affinchè moltiplicasse spiegazioni e commenti durante la liturgia“.
      Mi è venuta in mente la liturgia del Natale e mi sono immaginato questa scena: la Beata Vergine Maria che durante il parto interrompe le doglie per spiegare che ciò che sta per venire alla luce non è un qualsiasi infante ma il Verbo di Dio fatto uomo. E dopo il parto, prima che il cordone ombelicale del Divino Infante sia reciso, Maria fa una pausa, lascia tutto sospeso, ed assieme a Giuseppe che l’assiste spiega alle persone frattanto accorse: “Perché vedete, miei cari, questo bimbo è il Verbo che era in principio, che era Dio e che era presso Dio”.
      Ecco, provi a domandare agli stimolatori di spiegazioni durante l’azione liturgica, se riescono ad immaginarsi nella propria mente un parto condotto con queste modalità, ed in specie il parto del Verbo di Dio fatto Uomo.
      L’azione liturgica è strutturata su sue precise parole che racchiudono e rinnovano il mistero del memoriale vivo e santo, dinanzi alle quali si adora genuflessi, non si danno inutili spiegazioni, perché il mistero si vive.

  6. Ettore dice:

    E buon terzo articolo, Padre Ariel, a corollario dei due articoli dei fratelli maggiori nella fede. Un intervento appassionato. Una perorazione veemente, come è nella sua indole.
    Babele di lingue certo, Ma ancora prima, povertà lessicale, povertà culturale.
    Effetto degenere della società che ci vuole tutti uguali, indistinti, normalizzati, anche nei ranghi della Chiesa è manifesta la carenza, l’inadeguatezza di ”preparazione, istruzione, formazione dottrinale, teologica, liturgica” dei seminaristi, dei presbiteri, dei parroci, dei vescovi, è palese il “deficit di competenza, consapevolezza, responsabilità, identità, ruolo, autorità”. Le differenze, le distanze, i gap formativi vengono enfatizzati dalle culture di origini, dalle provenienze, dalle esperienze, dai maestri.
    Un tempo madre Chiesa aveva una dottrina, una lingua, un insegnamento nei quali pastori e fedeli si riconoscevano, professando la stessa unica fede in Cristo, ora ognuno ha la sua via, segue il suo vangelo. Un tempo c’erano Dio, demonio e peccato; c’erano i sacramenti per vivere nella Grazia, per riconciliarci dopo le cadute.
    Dicono che il programma fosse obsoleto, che a breve uscirebbe la versione senza D. d. p.

    • Padre Ariel
      Ariel S. Levi di Gualdo dice:

      Caro Ettore,

      nella Chiesa è in atto da anni un parlare incentrato sul “bisogna ripartire da …”, ed ognuno dice la sua: dalla fede, dalla cultura, dalla dottrina, dalla liturgia, ecc … tutto giusto e tutti necessari e fondamentali punti di partenza, ma dato che la Chiesa non è un corpo astratto ma un corpo mistico concreto – non a caso a giorni celebreremo nel Natale la Incarnazione del Verbo di Dio – io credo che bisogna ripartire dai vescovi, per poter veramente ripartire a una ad una da tutte queste cose. Ebbene, salvo rarissime eccezioni mai, come in questi ultimi anni – e parlo dell’Italia – si era avuto un Collegio Episcopale di siffatta mediocrità, pare a volte quasi il teatrino degli amici degli amici degli amici … che una volta messi nelle diocesi e risultando spesso gravemente dannosi, vengono lasciati ai propri posti perché non si può far rimanere male gli amici degli amici che li hanno portati all’episcopato; la Chiesa si può distruggere, ma gli amici degli amici non si possono offendere.
      A volte passo giornate intere ad ascoltare fedeli e soprattutto confratelli sacerdoti che lamentano la mancanza pressoché totale di un vescovo minimamente adeguato.
      Ai vescovi, il bastone pastorale, non viene dato come gingillo liturgico, ma per dirigere il gregge; all’occorrenza per sbatterlo anche sulla schiena di certe pecore ribelli.
      Insomma: per tirare su le sorti delle famiglie italiane si può partire dal lavoro, dalla casa, dal reddito, dal sostegno per i figli, dal diritto allo studio … tutte cose giuste e molto importanti. Ma per tirare su le sorti della famiglia, bisogna ripartire comunque dal padre, dalla presenza di un padre e di una madre che siano in grado di crescere e di educare i figli.
      Così è per la Chiesa, ma purtroppo pare non vogliano capire l’ovvio, seguitando a moltiplicare dannosi amici degli amici, per tenere in piedi “equilibri” che stanno segnando il nostro inesorabile e terribile fallimento …

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