La Comunione ai divorziati risposati: lectio magistralis di Giovanni Cavalcoli a Corrado Gnerre & C.
LA COMUNIONE AI DIVORZIATI RISPOSATI: LECTIO MAGISTRALIS DI GIOVANNI CAVALCOLI A CORRADO GNERRE & C
L’impressione che a volte il Papa non si attenga al dato rivelato trasmesso dalla Sacra Tradizione, è sempre un’impressione falsa, che deve farci comprendere che con simile atteggiamento mentale si finisce col cadere sotto il rimprovero del Signore, fatto ai farisei di non ascoltare la Parola del Dio eterno, che non passa e non muta, ma di farsi schiavi di caduche e vane “tradizioni di uomini”
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Rispondo alle recenti critiche a me rivolte dal Prof. Corrado Gnerre e pubblicate nei siti Corrispondenza Romana [cf. QUI], Riscossa cristiana [cf. QUI], Chiesa e Postconcilio [cf. QUI] e altri. Il lettore potrà leggere le critiche in tre punti nei suddetti siti. Qui pubblico le mie risposte punto per punto.
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Primo punto – Peccato e situazione di peccato
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I divorziati risposati, nel giudizio della Chiesa, sono in una posizione “irregolare” e per questo sono esclusi dai sacramenti. Ma il sostenere che con ciò siano in uno “stato di peccato grave” è un giudizio temerario, che non tiene conto di che cosa è il peccato e qual è il suo dinamismo nel concreto delle coscienze. Essi infatti possono in qualunque momento, con la grazia di Dio, pentirsi ed ottenere il perdono di Dio, anche senza il sacramento della penitenza.
Per chiarire la discussione, ritengo utile fare alcune premesse di teologia morale. Comincio allora col dire che la condotta umana cosciente è costituita da una successione di atti della volontà, ora buoni, ed abbiamo la buona azione, connessa alla virtù; ora cattivi, ed abbiamo la cattiva azione, ossia il peccato, connesso col vizio.
È in potere del nostro libero arbitrio operare un’alternanza, nel tempo, di buone azioni e di peccati. In questo dinamismo del nostro volere gioca l’azione della grazia divina, la quale ci sollecita al bene, ci sostiene nel compierlo e, quando commettiamo il male, ci muove a pentirci e a chiedere perdono a Dio, col proposito di non più peccare e di evitare le prossime occasioni del peccato. Infine, sulla base di questi presupposti, Dio ci perdona e ci ridona la grazia, nel caso l’avessimo perduta col peccato mortale.
Per avere un quadro completo dell’agire umano e del suo funzionamento, e poter quindi dare un giudizio o una valutazione circa la grave questione che stiamo trattando, dobbiamo tener conto anche di altri fattori, che concorrono, seppur in modo accidentale e occasionale alla formazione dell’atto umano o morale, buono o cattivo che sia. Si tratta di motivazioni, incentivi, spinte, stimoli, sollecitazioni o pressioni più o meno forti o persistenti, favorevoli o sfavorevoli all’atto buono o cattivo, che possono provenire o dall’interno o dall’esterno del soggetto agente, e che possono essere o non essere favoriti o causati dalla volontà dello stesso soggetto agente.
Stimoli interni sono i progetti, gli intenti, le idee, i desideri, l’immaginazione, le tendenze, le abitudini, gli interessi, le disposizioni e le passioni del soggetto. Stimoli esterni sono l’ambiente umano e fisico, gli stimoli e influssi ricevuti dagli altri, le occasioni di operare il bene o il male, che si presentano, cercate o non cercate, previste o non previste.
In particolare, per quanto riguarda il peccato, esistono le tentazioni, che vengono o dall’intimo o da incontri o frequentazioni o esperienze pericolose o dannose, da cattivi esempi o dalle seduzioni di peccatori, persone tentatrici, con le quali si convive o si deve o si è obbligati o costretti a convivere.
Se le occasioni di peccare sono frequenti ed inevitabili, la caduta che consegue è meno imputabile, considerando da una parte la spinta della passione e dall’altra la pressione esercitata sulla volontà dall’occasione di peccato. La nostra volontà ha una forza limitata. Il peccato si verifica solo quando, potendo resistere alla tentazione, non lo facciamo. Ma se la tentazione è troppo forte e la volontà non riesce a vincere la concupiscenza, la colpa diminuisce, perché diminuisce il volontario, che è fattore essenziale dell’atto morale, sia buono che cattivo. In questo caso non si pecca perché si è deliberatamente voluto peccare, ma perché le forze di resistenza, colte a volte alla sprovvista, non sono state sufficienti. Se qualcuno mi dà uno spintone e io casco per terra, mi si darà una colpa se son caduto a terra? L’istinto sessuale, soprattutto nei giovani ― dovremmo saperlo tutti ―, è una forza travolgente, alla quale in certi casi è impossibile resistere. Nemo ad impossibilia tenetur. Non possiamo essere incolpati di atti che abbiamo commesso per causa di forza maggiore.
Ricordiamoci anche di distinguere il peccato in senso oggettivo, ossia l’azione cattiva in se stessa, dalla condizione soggettiva dell’agente, nel cui atto può mancare la piena avvertenza o il deliberato consenso, sicché la sua coscienza, benché egli oggettivamente abbia fatto del male o un danno a terzi, potrebbe essere in parte o del tutto scusata.
A ciò si riferiva il Papa con quella famosa frase «Chi sono io per giudicare?». Sarebbe assurdo credere, come hanno fatto stoltamente alcuni, che con ciò il Papa abbia voluto relativizzare la legge morale; ma semplicemente si riferiva ad un caso particolare, da sempre noto ai moralisti.
Tutte queste premesse devono portarci a un’importante distinzione, che gioca immediatamente nella nostra discussione e cioè quella tra il peccato come atto volontario, protraibile o interrompibile nel tempo a volontà; e certe situazioni o condizioni pericolose, interiori o esterne, soggettive od oggettive, che spingono più o meno fortemente al peccato, ma non sono ancora peccato, perché la volontà, per quanto sollecitata, resta libera di decidere. Possiamo tuttavia chiamare “stato di peccato” un peccato o una colpa volontariamente protratta nel tempo, quello stato psichico e morale colpevole che chiamiamo “ostinazione” e la Bibbia chiama “cuore indurito”. Anche in tal caso, però, la volontà, mossa dalla grazia, può sempre, in linea di principio, interrompere questo stato, spezzare queste catene e tornare al bene, come avviene per esempio nelle conversioni.
Ciò che accade nel caso dei conviventi, è una cosa che si può verificare in tanti altri casi della vita, nei quali occorre distinguere il peccato dall’occasione di peccare. Il peccato possiamo toglierlo subito; l’occasione può restare, anche se non vogliamo.
Facciamo alcuni esempi. Un seminarista che abbia un insegnante rahneriano, è bene che resti in seminario, anche se è tentato di cadere nell’eresia; e si noti che l’eresia è un peccato mortale, peggio dell’adulterio [cf. Ariel S. Levi di Gualdo, QUI]. Un operaio che abbia un padrone sfruttatore, dovrà tenerselo, data la difficoltà di cambiare lavoro, anche se è tentato di bastonarlo. Un cittadino, vittima di un regime dittatoriale, sarebbe tentato di fare un attentato, giacché difficilmente è possibile emigrare all’estero. E così via.
Ma in tutti questi casi occorre resistere, anche se la tentazione al peccato è forte. E se si cede, ci sono delle scusanti o delle attenuanti. Quando uno non ne può più, cede. Questo avviene nel sesso, ma anche in molti altri casi. E che facciamo? Li mandiamo all’inferno? O forse che la grazia di Dio può qualcosa? O forse che il Sinodo può darci qualche consiglio?
In questi casi e in questo senso non sarei del tutto contrario a parlare di “situazione peccaminosa”, a patto però che si distingua sempre da una parte lo stato volontario di peccato, che è possibile, benché non necessario e che quindi può essere sempre interrotto in qualunque momento e, dall’altra, da un contesto o da una situazione oggettiva durevole, insuperabile o di forza maggiore, dalla quale il soggetto, almeno al momento, non riesce a liberarsi, anche volendo.
La cosa da tener presente è che, anche in un’unione illegittima, non è affatto detto che i due siano sempre e necessariamente in uno stato di peccato mortale (“situazione peccaminosa” o “condizione di peccato”) e non possano essere toccati dalla grazia, come a dire che di per sé non possano essere atti a ricevere la Comunione, senza commettere sacrilegio.
Credere che la semplice occasione di peccare porti di necessità al peccato, è un errore gravissimo, offensivo della dignità umana dello stesso peccatore, il quale conserva il libero arbitrio, benché indebolito dal peccato originale. Se allora per “situazione peccaminosa” si intende la suddetta tesi, ebbene, come ho già detto, non esiste una “situazione peccaminosa”, perchè invece il peccato è la messa in pratica di un libero giudizio, questo sì peccaminoso; è un atto categoriale volontario e cosciente, ripetibile, anzi ripetitivo e, per quanto grave, sempre perdonabile o cancellabile da Dio, quale che sia la situazione nella quale si pecca.
La situazione, che è una circostanza dell’atto, non costituisce l’atto come tale nella sua sostanza, ma è solo una modalità accidentale o un’occasione dell’azione umana, buona o cattiva che sia. Ma non è la vera causa, che è solo la cattiva volontà. Quindi la sostanza del peccato, cioè la cosa che oggettivamente e sostanzialmente vien fatta, è indipendente dalle situazioni e dalle occasioni. Si può compiere un peccato in situazioni che inducono al bene; e si può compiere un atto di virtù, laddove la situazione ci spingerebbe a peccare. Che io compia un gesto di carità in uno stato d’animo di gioia, perchè ho superato un esame, o di sofferenza, perché è morta mia madre, il valore morale del gesto è sempre lo stesso.
Una delle eresie di Lutero condannate dal Concilio di Trento, fu proprio quella di credere che la concupiscenza, che è l’inevitabile ed invincibile tendenza permanente a peccare, presente in tutti noi, coincidesse con un inesistente stato permanente ed inevitabile di peccato.
La concezione del peccato come “situazione” è de-responsabilizzante. Salvo i nostri stati interiori, le situazioni nelle quali agiamo, solitamente non le determiniamo noi, ma ci sono date e non possiamo cambiarle. Qui siamo in una visione sul tipo di quella di Rousseau, che scarica le nostre colpe sulla società. Oltre a ciò, la detta concezione sembra riflettere la visione rahneriana, che rifiuta di considerare il peccato come atto categoriale, sostituendolo con una inesistente ed insostenibile “opzione fondamentale atematica”. Ma queste idee sono state condannate da San Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis Splendor.
Se la Chiesa esclude attualmente i conviventi dalla Santa Comunione, non è perché essa supponga che essi sono sempre in peccato, ma solo per una misura pastorale, che vuol essere: primo, un richiamo alla loro coscienza; secondo, il rispetto dovuto ai sacramenti; terzo, evitare lo scandalo e il turbamento dei fedeli. Ma di per sé non è impossibile che essi si accostino alla Comunione in stato di grazia. Il che è come dire che, nonostante la situazione sia irregolare, essi possono vivere in grazia, benché ciò sia certo per loro difficile.
Se quindi la Chiesa un domani dovesse concedere loro la Santa Comunione, ciò non vorrebbe affatto dire che la Chiesa – cosa impensabile – compia un attentato contro la sostanza dei sacramenti, ma semplicemente che usa della sua facoltà di legiferare e mutar leggi per una migliore recezione dei sacramenti. La Chiesa tiene provvidamente a che anche i divorziati risposati vivano in grazia di Dio, nonostante la loro situazione. D’altra parte, se la disciplina attuale resta immutata, io non avrei problemi, perché nella mia lunga esperienza di confessore e guida delle anime, sono sempre riuscito a rasserenare queste persone, semplicemente ricordando loro che comunque esse possono percorrere un personale cammino penitenziale ed essere quindi in grazia, anche se non possono accedere ai sacramenti.
C’è oggi una fissazione eccessiva e superstiziosa sul voler fare per forza la Comunione, come se si trattasse di una rivendicazione sindacale, magari trascurando la confessione, mentre la Chiesa da tempo ha prescritto per queste coppie che possono fare la Comunione spirituale alla Santa Messa.
D’altra parte, se la disciplina attuale dovesse essere allargata o mitigata, non vedo proprio perché, come temono alcuni, che non sanno distinguere il dogma dalla pastorale, ciò dovrebbe costituire un attentato ai Sacramenti. La pastorale mette in pratica il dogma e non lo contraddice. Tra dogma e pastorale c’è un rapporto simile a quello che esiste tra il ritmo biologico dell’organismo e due differenti metodi di cura della salute. Il medico non può fissare la cura senza compromettere la salute del paziente?
La Chiesa fa discendere la pastorale dal dogma, in quanto nel dogma vi sono leggi divine intangibili e immutabili, che devono essere applicate nella vita. Molti e mutevoli sono i modi con i quali le leggi divine possono essere applicate dalla Chiesa, la quale invece interpreta e rispetta sempre ed infallibilmente l’immutabilità del dogma.
Quindi è assurdo credere o temere, come fanno i lefevriani, vittime di un rigido legalismo, che la Chiesa o il Papa, quando emana o cambia una legge, possa disattendere o mutare il dogma. Questa sarebbe invece la speranza dei modernisti, che, col pretesto della “misericordia” più per sé che per gli altri, vogliono scuotere il giogo di Cristo, ma essi si illudono, perché dimenticano le parole di Cristo: «cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» [cf. Mt 24, 32-35].
Se poi il convivente, per cattive abitudini o scelte sbagliate precedenti o per vari gravi motivi od ostacoli indipendenti dalla sua volontà, prigioniero del vizio, non riesce a liberarsi dalla situazione nella quale si trova e a venirne fuori, se pecca di lussuria, è in parte scusato e la colpa diminuisce. In questi soggetti la coscienza può ottundersi, cosicché essi non trovano più la forza di rialzarsi e di correggersi, facilmente adagiandosi in una perversa e fatalistica rassegnazione. Eppure la Chiesa, madre premurosa di condurre tutti alla salvezza, non si arrende, ma può e deve curarsi anche di questi casi difficili e quasi disperati. Ecco il lavoro del Sinodo.
La Chiesa sa quello che fa soprattutto in questa delicata materia della disciplina dei sacramenti. Essa sa come guarire le anime dal peccato e mantenerle in salute. Spetta dunque a lei di stabilire le norme per la conservazione e il rispetto di quelle meravigliose medicine dello spirito, che sono i sacramenti, nonché per loro degna e fruttuosa celebrazione, amministrazione e recezione, ordinando la condotta del ministro e quella del fedele, secondo i tempi, i luoghi e le circostanze, affnchè detta condotta sia conforme a una degna prassi sacramentale.
Dobbiamo fidarci delle disposizioni giuridiche, liturgiche e pastorali della Chiesa, nella certezza che la Sposa di Cristo, pur tra i suoi limiti umani, non potrà mai venir meno alla fedeltà al suo Sposo e ai suoi comandamenti, per quanto diverse ed anche in contrasto tra di loro, nel tempo e nello spazio, possano essere le sue leggi, che comunque interpreteranno ed applicheranno sempre la volontà del Signore.
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Secondo punto – Difficoltà relative all’interruzione del rapporto
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È chiaro che stiamo parlando di una convivenza illegittima. Io però ho parlato di “situazioni peccaminose” e non di “condizioni di peccato”, le quali non sono la stessa cosa. Come ho respinto la prima espressione nel senso che ho precisato, sarei disposto invece ad accettare la seconda, nel senso di “condizioni di vita che inducono al peccato”. Ma allora anche qui non c’è ancora in gioco il peccato. Come ho detto per la situazione, così devo dire per la condizione: esse non possono essere qualificate come “peccaminose”, perché non sono peccati, ma sono circostanze del peccato, come ho spiegato sopra.
Non costituiscono la sostanza del peccato ma una proprietà aggiunta accidentale, che può mancare, senza che la specie del peccato muti. Anche due legittimi sposi possono commettere un peccato di lussuria. Così, per tornare al nostro caso, l’unione illegittima non conduce necessariamente di per sé all’atto del peccato, pur costituendo una situazione o condizione, che induce a peccare ed è sorta dal peccato.
Certo, allora, che convivere è un atto di volontà. Ma il peccare dei conviventi, per quanto pecchino, non è necessariamente coestensivo al loro convivere. Non è che tutto il loro vivere sia peccato. Possono benissimo possedere buone qualità per altri versi, qualità che essi possono e debbono valorizzare, senza per questo peccare nel merito. Se lui è ingegnere e lei è infermiera, non possono forse far del bene sotto questi aspetti? È vero che le opere buone fatte in stato di peccato mortale non valgono per la salvezza. Ma sarebbe giudizio gravemente temerario e crudele pensare che questi esseri umani, redenti dal sangue di Cristo, siano in un continuo ed irrimediabile stato di peccato mortale, a meno che non si lascino. E la grazia divina che ci sta a fare?
Il loro convivere, infatti, nonostante l’oggettiva irregolarità della loro posizione, può comportare anche, almeno in certi momenti, l’intervento e la presenza della grazia. Dipende dai due peccare o non peccare, in forza del libero arbitrio. Solo i dannati dell’inferno sono in uno stato continuo ed irrimediabile di peccato. Supponendo quindi quanto ho detto, non è detto che i due vivano necessariamente e in continuazione nel peccato, quasi fossero anime dannate, per il semplice fatto che la loro è un’unione illegittima.
Questa unione peccaminosa, certo, è la loro situazione o condizione di vita. Ma la situazione non fa da sé ancora il peccato, il quale non nasce dalla situazione, ma dalla volontà, volontà che può cambiare, mentre la situazione può restare la stessa. Il permanere di una situazione o condizione di vita, dalla quale, per ipotesi, non si può uscire e che comporta una continua tentazione al peccato, non vuol dire che in molti casi i due non possano, con la grazia di Dio, vincere la tentazione o, sempre con la grazia d Dio, risorgere dal peccato.
Interrompere la relazione sarebbe certo cosa buona e doverosa, ma cs non è sempre possibile a causa di ostacoli e di situazioni oggettivi di vario genere, ai quali ho già accennato nell’intervista [cf. QUI]. Ma è chiaro che se la cosa è possibile, va fatta.
Per quanto riguarda poi la questione dell’educazione dei figli, sollevata da Gnerre, è evidente che la nuova coppia ha un dovere primario nei confronti dei figli, eventualmente nati dalla nuova unione, mentre la nuova coppia dovrà interessarsi, per quanto è possibile e conveniente, stando alle disposizioni della legge civile e possibilmente sotto una guida spirituale, anche di eventuali figli nati nel precedente matrimonio e di altri avuti da un nuovo eventuale legame contratto con altri dal coniuge precedente.
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Terzo punto – Il Papa, custode della Tradizione
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Ripeto che la voce autentica ed ufficiale della Tradizione apostolica non è altro che il Magistero vivente della Chiesa di oggi, erede, custode e depositaria della Tradizione degli apostoli. Il Magistero della Chiesa lungo i secoli, a cominciare dai Santi Padri, specialmente nei Concili ecumenici, è sempre testimone autentico della Tradizione. Papa Francesco è quindi oggi il testimone guida della Tradizione, ne é l’interprete definitivo ed autentico.
Certamente che nei secoli la Tradizione è stata messa per iscritto. E la stessa Sacra Scrittura, in fondo, non è altro che Tradizione orale, predicazione messa per scritto. In tal senso la Tradizione, nata dall’aver udito la stessa parola uscita dalle labbra del Salvatore, è più importante della Scrittura. Cristo non ha detto agli apostoli “scrivete”, ma “predicate”, benché nel mettere per iscritto abbiano avuto un’ottima idea.
È chiaro infatti che la Bibbia è un libro sacro. Ma esso è interpretato dalla Chiesa, depositaria della Tradizione apostolica. Lutero, allora, con la sua ribellione al Papa e col suo attaccamento feticistico e presuntuoso a un libro stampato da Guttenberg, ha perduto di vista la vera origine della Parola di Dio.
Ma resta sempre che la Sacra Tradizione, per sua essenza è orale, è il Magistero apostolico vivente; ed in ciò si differenzia dalla Scrittura. La voce attuale dei nostri pastori, sotto la guida del Papa, è la voce della Tradizione, che poi viene regolarmente messa per iscritto negli Atti della Sede Apostolica.
Certamente il Papa nel suo insegnamento sulle verità di fede si basa sulla Tradizione, la quale, in questo senso, è la regola dello stesso insegnamento pontificio. Ma il giudicare o il sapere in ultima istanza se il Papa si attiene o no alla Tradizione, spetta solamente al Papa stesso. Cristo non ha affidato ad altri che agli apostoli la sua parola, ordinando loro di insegnare al mondo fino alla fine dei secoli ciò che aveva insegnato a loro.
Nessun altro dunque al di fuori del Successore di Pietro è il custode supremo ed infallibile della Tradizione. Ribadisco quindi che la pretesa di alcuni cattolici di conoscere la Tradizione meglio del Papa, così da poterlo cogliere in fallo quando sbaglia, non ha nessun senso, ma assomiglia piuttosto all’atteggiamento di quei farisei che volevano cogliere in fallo il Signore nei suoi discorsi.
Noi possiamo discernere quando il Papa parla in nome della Tradizione e quando no. Certo anche a noi è possibile conoscere i documenti della Tradizione e verificare la fedeltà del Papa ad essi. Ma anche quando il Papa parla al di fuori della Tradizione, non parla mai contro di essa.
L’impressione che a volte il Papa non si attenga al dato rivelato trasmesso dalla Sacra Tradizione, è sempre un’impressione falsa, che deve farci comprendere che con simile atteggiamento mentale si finisce col cadere sotto il rimprovero del Signore, fatto ai farisei di non ascoltare la Parola del Dio eterno, che non passa e non muta, ma di farsi schiavi di caduche e vane “tradizioni di uomini”:
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[…] così avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione. Ipocriti! Bene ha profetato di voi Isaia, dicendo: «Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» [cf. Is 29,13]. Poi riunita la folla disse: «Ascoltate e intendete! Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!». Allora i discepoli gli si accostarono per dirgli: «Sai che i farisei si sono scandalizzati nel sentire queste parole?». Ed egli rispose: «Ogni pianta che non è stata piantata dal mio Padre celeste sarà sradicata. Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!» [Mt. 15, 7-14].
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Varazze, 18 ottobre 2015
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