Salvezza e perdizione. La Placuit Deo è la Pascendi Dominici Gregis del Sommo Pontefice Francesco I

SALVEZZA E PERDIZIONE. LA PLACUIT DEO È LA PASCENDI DOMINICI GREGIS DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO I

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Non sembri incongruo o azzardato paragonare la Placuit Deo alla Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X. Uno potrebbe osservare che esse si differenziano profondamente, perché la seconda è severa, mentre la prima è indulgente. Eppure, al di là del mutato clima storico, tra i due documenti c’è una continuità: Pio X dovette affrontare il problema modernistico. Il Pontefice regnante ha dovuto riprendere in mano la questione, perché il modernismo dei tempi del suo predecessore Pio X è, come disse il Maritain nel 1966, un «modesto raffreddore da fieno rispetto alla febbre neo-modernista» dei nostri giorni.

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Autori
Giovanni Cavalcoli, O.P – Ariel S. Levi di Gualdo

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il Sommo Pontefice Francesco I sulla cattedra episcopale di San Giovanni in Laterano

La Lettera Placuit Deo della Congregazione per la Dottrina della Fede [vedere testo QUI], tratta di un tema di estrema importanza, considerando che in questi ultimi decenni ― più precisamente dalla fine del Concilio Vaticano II ―, sono venute alla luce nuove teorie, ma anche molte eresie, non ancora vinte, per cui, questo intervento della Chiesa, è veramente provvidenziale, illuminante, confortante e consolante per tutti i cattolici desiderosi di veder trionfare la sana dottrina e liberate le anime dall’insidia dell’errore, che è di ostacolo sulla via della salvezza.

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Questo testo va letto in linea di continuità con un altro importante documento risalente a diciotto anni fa, la Dichiarazione Dominus Jesus [vedere testo QUI], voluta dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II e firmata all’epoca dall’allora prefetto di quella stessa Congregazione, Cardinale Joseph Ratzinger. Cominciamo allora col dire che la salvezza, in generale, è la condizione di felicità di chi ha scampato un pericolo, soprattutto se pericolo di morte; ed è l’atto col quale il salvatore sottrae al pericolo colui al quale dà salvezza. Possiamo salvarci da soli, se la difficoltà non è eccessiva; ma nelle difficoltà più gravi abbiamo bisogno di qualcuno più capace di noi, che ci salvi, facendo noi eventualmente, dietro suoi ordini, se ne abbiamo le forze, ciò che possiamo e dobbiamo fare per collaborare all’azione del salvatore o soccorritore. La dinamica della salvezza che ci viene dagli uomini è figura e immagine di quella che ci viene da Dio.

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Nelle religioni l’uomo ha coscienza di trovarsi in una condizione di pericolo, di miseria, di schiavitù, di sofferenza, di peccaminosità, di inimicizia con Dio, che gli fa desiderare che Dio, suo benevolo Signore, abbia pietà di lui e lo soccorra. Si sente però in debito con Dio per le colpe commesse. Ha così con Dio un conto aperto.  Considera le pene della vita come castigo di tali colpe ed offre a Dio sacrifici in espiazione e riparazione, sperando di placarLo, di ottenere perdono e misericordia e di essere sollevato e salvato dalle proprie miserie, financo dalla morte.

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Le religioni hanno consapevolezza che, per ottenere il conseguimento delle massime aspirazioni – unione con Dio, santità, libertà dal peccato e dalla morte vita e felicità eterna – l’uomo deve bensì obbedire a Dio, ma soprattutto deve implorare da Dio questa salvezza. Tutti, salvo che non siano dei perfetti superbi, sentono in vari modi il bisogno della salvezza, ma non tutti sanno in che consiste e come si ottiene. Molti, come nota questa Lettera, per salvezza intendono soltanto salvezza dai mali fisici o dalla miseria materiale o tutt’al più essere liberati da un tirannide politica o sociale. Non si rendono conto, o non vogliono saperne che per raggiungere la vera felicità, hanno bisogno, ed hanno se lo vogliono la possibilità di essere liberati per opera di Dio dal peccato, dalla schiavitù del demonio e della morte.

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Questo testo, più breve della Dominus Jesus che l’ha preceduto,  colpisce per il modo in cui allude a molte eresie di oggi, od a quella che potremmo definire come le stagione del ritorno delle grandi eresie. Non sono fatti i nomi, ma chiunque voglia intendere, coglierà sin dalle prime righe a chi viene fatto riferimento. Tentiamo allora, considerando le idee esposte, di comprendere a quali correnti, tendenze, scuole o autori il documento può far riferimento, soprattutto a quegli autori che sono già stati censurati dalla Chiesa o dai migliori teologi in tempi antichi o recenti.

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TEMI GIÀ TRATTATI DAL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO I

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La Placuit Deo si riferisce, senza citarlo per esteso, al discorso tenuto dal Sommo Pontefice a Firenze ai rappresentanti del V° Convegno nazionale della Chiesa italiana, il 10 novembre 2015. Un discorso che conviene ricordare in questo contesto e nel quale sono presentate due tendenze come tentazioni all’interno della Chiesa. Una, è la tentazione pelagiana, che

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«ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo. La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività».

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Rimedio proposto dal Sommo Pontefice a questa mentalità rigida e chiusa è il «radicarsi in Cristo» e lasciarsi condurre dalla «leggerezza del soffio dello Spirito», quello Spirito che «rinnova la faccia della terra». Questo Spirito ci impedisce di essere troppo sicuri delle nostre idee e troppo coscienti della nostra forza. Rende la nostra fedeltà creativa e ci dona le ali che ci sollevano al di sopra le misure e i calcoli umani, per farci spaziare e volare negli orizzonti illimitati della santità. E in questi passi, chiunque presta profonda attenzione coglierà il respiro di alcuni degli elementi fondamentali della Enciclica Fides et ratio del Santo Pontefice Giovanni Paolo II. Così come non è difficile riconoscere nelle parole del Sommo Pontefice il problema del lefebvrismo, con il suo unilaterale richiamo alla Sacra Tradizione, legato a una forma mentis indubbiamente e giustamente preoccupata dell’immutabilità e della certezza del dogma, ma chiusa al progresso dottrinale compiuto dal Concilio Vaticano II e per conseguenza al Magistero dei Pontefici seguenti fino all’attuale, che essa accusa di eresia modernistica. Che il post-concilio trabocchi purtroppo Modernismo, è un fatto non facilmente passibile di smentita, ma questo problema oggettivo, come noi Padri de L’Isola di Patmos abbiamo messo sempre in luce, non deve indurre a un errore davvero venefico, che poi è il seguente: affermare che le molte derive eterodosse di stampo perlopiù modernistico, del post-concilio, sia una conseguenza “ovvia” e del tutto “naturale” del Concilio Vaticano II. Infatti, affermare questo, oltre che falso, è invero empio.

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Nella mente del lefebvriano il processo della deduzione dogmatica si è bloccato al Magistero del Venerabile Pontefice Pio XII, per cui ha cessato di avanzare in nome di una fedeltà alla Tradizione e della conservazione del deposito della fede, delle quali la prima, agli occhi del lefebvriano, sarebbe stata alterata, mentre la seconda sarebbe stata dismessa. Ciò equivale a dire che nel passaggio dall’insegnamento dogmatico di Pio XII a quello del Concilio, questo non sarebbe stato in continuità, ma avrebbe rotto con quello, in altre parole lo avrebbe smentito o falsificato.

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Il lefebvrismo distingue certamente la natura dalla grazia, ma punta eccessivamente sulle opere, sui meriti e sulla forza della ragione e della volontà, correndo il rischio del formalismo, del legalismo, del ritualismo, dell’autocompiacimento farisaico e del rigorismo morale, quasi volendo disciplinare con dovizia l’opera stessa della grazia e lasciando poco spazio all’iniziativa dello Spirito. Il suo conservatorismo conserva ciò che è superato e respinge come falsità la novità evangelica dello Spirito, scambiando il rinnovamento per infedeltà; sa che la grazia completa la natura, ma non sa che la natura è anticipata dalla grazia. Ora un’idea di questo genere suppone e ammette la possibilità che il Magistero pontificio e conciliare cada nell’eresia, il che è con ciò stesso eretico, perché significherebbe negar fede alla promessa di Cristo fatta a Pietro che le “porte dell’inferno”, ossia il potere delle tenebre non potrà distruggere la Chiesa. Ma negar fede alle promesse di Cristo è eretico. Dunque, il credere che il Concilio sia caduto nell’eresia è a sua volta eresia.

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PELAGIANI E GNOSTICI

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La Placuit Deo denuncia coloro che credono di poter raggiungere una condizione divina con le proprie forze, come se l’uomo disponesse da sé in modo innato di un potere divino o perché credono che la grazia divina sia premio dei loro sforzi ― i pelagiani ― o perchè credono di possedere da sé un sapere assoluto e sovrumano, tale ― gli gnostici ―, da conoscere dà sé la via di una salvezza sublime, che consenta loro di conseguire  un potere e una libertà divini. Per costoro il loro corpo e la natura umana sono manipolabili o plasmabili a loro piacimento, in un continuo divenire storico, senza che abbiano alcun obbligo di sottostare ad una legge morale immutabile stabilita da un Dio trascendente e personale, giacché Dio, per loro, è solo il  fondo assoluto del loro io. Ciò che conta, per loro, è la loro libera volontà; essa sola è buona e divina; il corpo e la materia sono apparenze effimere; le loro leggi sono viste come ostacoli alla libertà, per cui il soggetto si sente libero di operare sul corpo e sull’uomo secondo il principio epicureo del piacere o quello nietzschiano del dominio.

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La Placuit Deo nota che questa divisione degli eretici in pelagiani e gnostici, propria di queste antiche eresie, risponde a deviazioni ricorrenti del Cristianesimo, per cui ha anche oggi un riscontro nelle eresie moderne, senza ovviamente coincidere pienamente con esse. Pensiamo per esempio a fenomeni come il luteranesimo, il modernismo, il rahnerismo, il lefebvrismo e la Teologia della Liberazione. I primi quattro possono esser ricondotti allo gnosticismo; l’ultimo al pelagianesimo. Ciò risulta chiaro, se facciamo riferimento alle parole usate dalla Placuit Deo per descrivere il pelagianesimo e lo gnosticismo contemporanei.

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Dice essa infatti:

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«Da una parte, l’individualismo centrato sul soggetto autonomo tende a vedere l’uomo come essere, la cui realizzazione dipende dalle sole sue forze. In questa visione, la figura di Cristo corrisponde più ad un modello che ispira azioni generose, con le sue parole e i suoi gesti, che non a Colui che trasforma la condizione umana, incorporandoci in una nuova esistenza riconciliata con il Padre e tra noi mediante lo Spirito [cf. 2 Cor 5,19; Ef 2,18]. L’individualismo centrato sul soggetto autonomo tende a vedere l’uomo come essere la cui realizzazione dipende dalle sole sue forze».

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Questo è il principio della gnoseologia cartesiana del cogito, che nei secoli seguenti porterà a Kant e all’idealismo tedesco, dal quale sorge, per reazione, il materialismo marxista e quello evoluzionista del XIX secolo. Qui riconosciamo l’impostazione della teologia della liberazione, influenzata da Marx, o l’evoluzionismo antropologico materialista di Teilhard de Chardin influenzato da Darwin, nei quali l’uomo, collettivamente o personalmente, sale sulla scala dell’evoluzione fino a Cristo, il quale però non appare come Redentore, ma solo come liberatore, modello di somma perfezione umana personale e sociale.

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Continua la Placuit Deo:

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«D’altra parte, si diffonde la visione di una salvezza meramente interiore, la quale suscita magari una forte convinzione personale, oppure un intenso sentimento, di essere uniti a Dio, ma senza assumere, guarire e rinnovare le nostre relazioni con gli altri e con il mondo creato. Con questa prospettiva diviene difficile cogliere il senso dell’Incarnazione del Verbo, per cui Egli si è fatto membro della famiglia umana, assumendo la nostra carne e la nostra storia, per noi uomini e per la nostra salvezza».

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Osserviamo che la prospettiva di una salvezza «meramente interiore» è quella luterana, la quale, congiunta col cogito cartesiano, produrrà nel XIX secolo l’idealismo soggettivistico e panteista tedesco. Si tratta infatti del soggetto che, ritenendosi già illuminato da Dio, respinge la mediazione dei sensi ― Cartesio ― o della Chiesa ― Lutero ―. La Lettera vien poi meglio compresa alla luce di quanto il Sommo Pontefice ha detto a Firenze sullo gnosticismo, vale a dire che esso

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«porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» [Evangelii gaudium, 94]. La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’Incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo».

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La Placuit Deo spiega così le parole del Sommo Pontefice:

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«Si pretende così di liberare la persona dal corpo e dal cosmo materiale, nei quali non si scoprono più le tracce della mano provvidente del Creatore, ma si vede solo una realtà priva di senso, aliena dall’identità ultima della persona, e manipolabile secondo gli interessi dell’uomo» [n.3].

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Lo gnosticismo, per il Sommo Pontefice Francesco I, per quanto affermi un’interiorità anche profonda, è un pensare chiuso su se stesso e quindi sterile. È il pensare dell’idealista. «Dice e non fa» [Mt 23,3], come Cristo ci avverte dei farisei. Ma l’idealista ― qui lo gnostico ― non produce buoni frutti, non tanto perché non agisca o non si dia da fare o si adagi nella pigrizia in una specie di quietismo,tutt’altro, egli, senza che abbracci l’idealismo etico di Fichte, è attivissimo, ma solo per i suoi interessi.

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Se un Giovanni Gentile dice che tutto è pensiero, non nega l’azione, anzi le dà tale importanza, che il soggetto pone se stesso nell’essere [autoctisi]. Rahner arriva a dire che il soggetto determina con la sua volontà la sua propria essenza o la sua propria natura. Ma proprio questo agire staccato dall’attenzione limpida ed onesta alla realtà divina, alla realtà della natura umana e della legge morale oggettiva, è alla fine è un non-agire, o un agire insensato, e comunque un disobbedire alla legge divina. Così l’idealista, alla fine, non afferra la realtà, la «cosa in sé» ― lo dice egli stesso con Kant ―; non afferra, direbbe il Beato Antonio Rosmini «né l’essere reale, né l’essere morale» e neppure il vero «essere ideale», ma solo le sue false idee ed immaginazioni, ma, come nota il Sommo Pontefice, resta staccato dal reale, col rischio di cadere nel nichilismo o nel solipsismo.

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La pretesa esorbitante dello gnostico, quella che il reale si identifichi con la sua idea infallibile del reale e che l’essere, anche quello divino, coincida col suo pensiero, è punita col distacco dalla realtà, un distacco a volte davvero tragico [1]. Dice infatti il Sommo Pontefice:

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«l’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento» [2].

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La realtà, per l’idealista ― vedi per esempio qui Husserl ―, non ha senso in sé, da sé e di per sé, un senso preciso ed intellegibile, dato dal Creatore, un senso indipendente dall’uomo e che l’uomo deve scoprire, rispettare e, se si tratta della legge morale, mettere in pratica; ma l’uomo pretende, con le sue categorie a priori, di esser lui a dar senso ad una realtà priva di senso. E qui si vede il disprezzo gnostico per il corpo e per il reale in generale. Il corpo, per lo gnostico, non è buono in sé, ma sta a lui, con la sua libera volontà, in forza della sua divina interiorità, determinare a suo piacimento il bene e il male riguardo alla vita fisica e sessuale, sostituendosi a Dio nel legiferare sulla condotta da tenere e sostituendo, con la sua violenza e la sua libidine, le sagge inclinazioni e leggi poste dal Creatore nella natura umana.

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UNA PROVVIDENZIALE NOVITÀ NELLA STORIA DEL MAGISTERO PONTIFICIO

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La cosa notevole in queste parole, un fatto nuovo che non esitiamo a considerare di portata storica nella storia del Magistero pontificio, è che per la prima volta un Sommo Pontefice condanna senza mezzi termini lo gnosticismo chiamandolo col suo nome; con quel nome che da tempo era stato chiamato dagli studiosi, i quali ne avevano segnalato il ritorno pericoloso, ma senza incontrare rispondenza nel Magistero pontificio. Categorie usate dai Papi precedenti a partire dal XIX secolo, che maggiormente possono essere avvicinate allo gnosticismo, erano solo quelle di razionalismo, idealismo e panteismo. I Pontefici dei tempi dello gnosticismo storico certo si accorsero del pericolo e i primi teologi lo combatterono, pur senza lasciarci espliciti documenti di condanna, limitandosi a qualificarlo nel suo complesso come effetto della superbia intellettuale, il che poi costituisce la sostanza o lo spirito dello gnosticismo, il quale appare certamente come cedimento alla tentazione diabolica genesiaca di voler «essere come Dio». Così, il Santo Pontefice Pio X, nella sua Pascendi Dominici Gregis qualificherà come effetto della superbia il Modernismo, che può considerarsi senza dubbio come il rinato gnosticismo dei nostri tempi, se mai lo gnosticismo ha cessato di agire più o meno apertamente nella storia del pensiero e delle eresie. Che cosa è infatti l’eresia, se non l’effetto della superbia e, in tal senso, dello gnosticismo? E chi è l’eretico, se non colui che, credendo di possedere il sapere supremo, è convinto di conoscere Cristo meglio del Papa o contro il Papa? O di conoscere Dio meglio di Gesù Cristo, come Severino ed Heidegger? O come Maometto?

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Esistono molte forme di gnosticismo, dove lo gnostico si erige a giudice del testo sacro della propria religione. Così esiste uno gnosticismo ebraico [3] e l’ebreo Spinoza o la Kabbalà pretesero di conoscere Dio meglio della Bibbia; Averroè pretese di conoscere Dio meglio del Corano; Budda pretese di conoscere il Nirvana meglio dei testi sacri del brahmanesimo; Giordano Bruno [4] volle andare dal Romano Pontefice per convincerlo che la sua dottrina magico-ermetica era migliore del cristianesimo per la salvezza dell’uomo, ma, come sappiamo, gli andò male; la massoneria pretende di possedere il sapere supremo meglio di tutte le religioni [5], la teosofa Helena Blavatsky, ispiratrice delle dottrine esoteriche del nazismo [6], dette ad intendere a milioni persone di poter insegnare lei, con la teosofia [7], la via della salvezza eterna meglio di quanto aveva potuto  fare Gesù Cristo.

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I CARATTERI DELLO GNOSTICISMO

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Lo gnosticismo, infatti, è la pretesa di conoscere Dio più e meglio di quanto all’uomo sia concesso di conoscere e, in campo cristiano, è la pretesa di conoscere Cristo più e meglio di quanto ci è insegnato dal Magistero della Chiesa. A esso si contrappone, quasi opposto estremismo, l’agnosticismo, il quale, sotto pretesto della debolezza dell’umana ragione e coprendosi della veste di una falsa umiltà, si  rifiuta di accogliere quanto la ragione da sé può conoscere su Dio e quanto su Dio ci è rivelato da Cristo mediante il Magistero della Chiesa. Lo gnostico non ha bisogno di pervenire a sapere che Dio esiste e chi è Dio e come opera partendo dall’esperienza delle cose o perché istruito da un magistero umano o ecclesiastico, perché egli ritiene di sapere già da sé tutto ciò, a priori, partendo dalla sua semplice autocoscienza, giacché egli crede che Dio non esiste indipendentemente da questa autocoscienza, ma è precisamente posto da essa a-prioricamente. Per questo, lo gnostico, ritenendosi da sé e per conto proprio in possesso del sapere supremo o della Scienza assoluta — appunto la Gnosi —, eventualmente per mezzo del concetto — Hegel — [8], si considera autorizzato e capace di giudicare o censurare qualunque dottrina su Dio, compresa quella della Chiesa, e quindi di respingerla come falsa, se non corrisponde alla sua idea di Dio.

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La questione dello gnosticismo antico ha avuto un forte incremento nel secolo scorso, allorché furono scoperti documenti gnostici. Si è allora molto discusso su cosa si dovesse intendere per ”gnosticismo”, un termine che deriva dal greco gnosis=scienza o conoscenza. Furono chiamati ― o chiamavano se stessi ― “gnostici” [gnostikòi] un gruppo di teologi del II-III secolo, i quali, imbevuti di dottrine pagane, soprattutto platoniche e di mitologia religiosa, erano particolarmente interessati al problema della salvezza, che interpretavano come esperienza interiore di un Dio ineffabile, mentre l’azione e il mondo esterno materiale appariva a loro come principio  del male e quindi estraneo all’esperienza salvifica come esperienza mistica di Dio e conoscenza suprema ― gnosis ―, segreta ed esoterica, per pochi eletti, della verità. Secondo loro l’etica e quindi la salvezza si esauriva nell’orizzonte di questa esperienza interiore soggettiva come autocoscienza gnostica, di uno spirito estraneo ed ostile alla materia. Sicché per loro non esisteva un’etica vincolante, comandata da Dio, nei confronti del corpo, della società e del mondo, vane  apparenze rimesse alla loro  libera scelta, tanto più che in fin dei conti la libertà per loro era solo quella intima dello spirito pervaso da Dio, liberi dalle pastoie del corpo. Certo non disdegnavano le dissolutezze della carne, convinti che al riguardo del corpo non vi fossero comandi divini, anche se accadeva che passassero all’eccesso contrario del rigorismo, poiché vedevano il corpo come il  principio del male. Questa specie di gnosticismo ricomparve nel sud della Francia con l’eresia dei Catari nel XIII secolo [9].

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I primi teologi cristiani si accorsero dell’importanza della conoscenza di Dio nella vita cristiana, cosa così legata al valore della verità, ma lo fecero senza esagerare la potenza e la portata della conoscenza, collegata sapientemente con i doveri della vita cristiana ed inquadrata nel superiore ambito della carità, in comunione con la Chiesa. La vera gnosi poteva e doveva essere accettata e stimata, ma doveva essere respinta quella falsa. Fu così che mentre Clemente Alessandrino poteva definire il cristiano come uno ”gnostico”, Sant’Ireneo di Lione si dedicava alla confutazione della falsa gnosi. Tuttavia, di là da questa categorizzazione storica, che denomina come gnosticismo un fenomeno circoscritto nel tempo, la Lettera suggerisce anche un senso più ampio come perenne atteggiamento dello spirito, che si riassume in sostanza nella superbia intellettuale, sicché può esistere tanto uno gnosticismo spiritualistico quanto uno materialistico, tanto uno dualistico manicheo, quanto uno monistico panteista, tanto uno lassista, quanto uno rigorista.

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Merito di una rimessa in luce della questione dello gnosticismo in rapporto alla modernità, va nel secolo scorso al tedesco Hans Jonas [10]. Altri, come Giovanni Filoramo, hanno evidenziato la tendenza panteistica della gnosi [11]. Emanuele Samek Lodovici ha mostrato l’azione dissolvente dello gnosticismo nel pensiero contemporaneo. Gli Atti del convegno Phénoménlogie, gnose, métaphyique, tenutosi alla Sorbona nel 1997, curati da Natalie Depraz e Jean-François Marquet [12], mostrano lo gnosticismo di Schelling e di Husserl.

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LO GNOSTICISMO CONTEMPORANEO

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Per comprendere la sostanza di queste parole del Sommo Pontefice, occorre focalizzare e congiungere le sue seguenti espressioni:

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«Un certo neo-gnosticismo, dal canto suo, presenta una salvezza meramente interiore, rinchiusa nel soggettivismo» [n.3] e «una fede rinchiusa nel soggettivismo, … dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» [Evangelii Gaudium, n. 94].

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Qui la Placuit Deo si riferisce al ritorno di modernismo idealista-panteista originato da Hegel, che trova una notevole espressione nella teologia di Karl Rahner, per il quale l’essere è l’essere pensato, per cui tutto il reale, compreso Dio, è un pensato immanente nell’autocoscienza di origine cartesiana. Tutto è nell’io, tutto è dall’io e niente fuori dell’io. Alla concezione idealistica della conoscenza e della coscienza, che comporta il primato del pensiero e dell’idea, ossia del soggetto, sull’essere e sul reale, ossia sull’oggetto, il Pontefice nella Evangelii gaudium contrappone la concezione realistica biblico-tomista del «primato della realtà sull’idea» [n. 231], che comporta la adaequatio intellectus et rei e quindi la soggezione del pensiero umano all’essere divino. Ciò assicura una corretta antropologia e una sana morale, fondata sulla legge naturale universale ed immutabile.

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La Placuit Deo viene quindi a condannare la gnoseologia storicistica del Cardinale Walter Kasper[13], per il quale il soggetto, nella sua storicità, determina l’oggetto, che per conseguenza muta col mutare del soggetto. In tal modo il mutamento tocca, come già in Hegel, l’essenza della verità, del dogma, della legge naturale e della natura divina; e queste tesi, lo ricordiamo, sono già state condannate dalla Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X. E colpisce qui altresì la concezione soggettivistica ed idealista della coscienza del Padre Arturo Sosa, che abbiamo già confutato su L’Isola di Patmos [cf. QUI]. In conformità a tale concezione la coscienza, ovvero l’idea, non ha l’obbligo di adeguarsi al reale, in modo assoluto e in ogni caso; e quindi per esempio ad una legge morale precisa, oggettiva, universale, immutabile, ma si regola su se stessa.

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Tornando al testo della Placuit Deo, si afferma che

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 «sia l’individualismo neo-pelagiano che il disprezzo neo-gnostico del corpo sfigurano la confessione di fede in Cristo, Salvatore unico e universale» [n.4] e «contraddicono anche l’economia sacramentale tramite la quale Dio ha voluto salvare la persona umana» [n.13]. «Il luogo dove riceviamo la salvezza portata da Gesù è la Chiesa» [n.12]: comprendere «questa mediazione salvifica della Chiesa è un aiuto essenziale per superare ogni tendenza riduzionista». [ibidem].  La salvezza «non si ottiene con le sole forze individuali, come vorrebbe il neo-pelagianesimo, ma attraverso i rapporti che nascono dal Figlio di Dio incarnato e che formano la comunione della Chiesa» [ibidem]. Inoltre, contrariamente alla visione neo-gnostica di «una salvezza meramente interiore»,  la Chiesa «è una comunità visibile: in essa tocchiamo la carne di Gesù, in modo singolare nei fratelli più poveri e sofferenti» [ibidem] attraverso «le opere di misericordia corporali e spirituali» [n.14].

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 C’È ANCHE L’AGNOSTICISMO

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Esiste però anche una forma di gnosticismo agnostico. Non sembri, questa, una contraddizione, quindi spieghiamo in tal senso che si tratta della pretesa di possedere un’esperienza immediata di Dio in modo atematico, preconcettuale, autocoscienziale ed apriorico prima ed indipendentemente dall’esperienza delle cose e dalla conoscenza concettuale di Dio, sia quella filosofica che quella dogmatica, trasmessa dalla Chiesa, la quale esperienza non esprime intellettualmente il contenuto della stessa esperienza originaria di Dio, ma ne è un derivato nell’ambito dell’immaginazione o simbologia emotiva e creativa. Pertanto non si ha qui una conoscenza di Dio concettuale vera, oggettiva, universale, certa ed immutabile, che produca una fides, una sola verità salvifica uguale per tutti e per sempre, ma una molteplicità di ”fedi”, ossia di opinioni soggettive su Dio, relative e mutevoli, tutte ugualmente vere, anche se in contraddizione fra loro, perché la verità non è ciò che è in sé, indipendentemente da me, non è universale, è ma ciò che appare a me e che decido io. Inutile dire che questa è una ereticale vanificazione del fondamento di fede «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» [cf. Ef 4, 4-6]. E questo poco prima descritto è lo gnosticismo rahneriano, gnostico e ad un tempo agnostico.  Gnosticismo, per la pretesa dell’esperienza apriorica “trascendentale” di Dio, per la quale Dio appare addirittura come «orizzonte ultimo della auto-trascendenza umana». Altro che pelagianesimo: qui siamo proprio nel panteismo!

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Agnostico, perché la verità su Dio non si coglie nel concetto, anche se metafisico, analogico o trascendentale, e quindi nel dogma, ma solo in quell’esperienza di per sé ineffabile e quindi inesprimibile. Dio, quindi, per Rahner, è “Mistero assoluto”, non relativo a ciò che per noi di Dio è ignoto e trascende la finitezza della nostra comprensione, giacché è chiaro che Dio, in quanto ci è rivelato da Cristo per il tramite della Chiesa, non ci è ignoto, non ci è misterioso, ma Lo conosciamo nei concetti e nelle formule dogmatiche.

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Per Rahner, invece, noi non possiamo distinguere in Dio ciò che ci è noto ― per Rivelazione ― da ciò che ci è ignoto e ci trascende per l’infinità dell’Essenza divina. Ma Dio è assolutamente ignoto al concetto, proprio come l’Agnoston degli gnostici antichi; quell’agnosticismo, che il Santo Pontefice Pio X, nella Pascendi Dominici Gregis condanna riferendolo al «Inconoscibile».

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Il pelagianesimo è invece quella concezione del rapporto tra le opere umane e la grazia, per la quale la grazia è semplicemente l’aiuto che Dio dà all’uomo per il compimento del bene, ed è il perfezionamento finale, certo, soprannaturale, concesso da Dio, agli sforzi ed alle opere della ragione e della volontà umane. Insomma la grazia, per il pelagianesimo, è il compimento finale della autotrascendenza umana, la quale che perviene al culmine delle sue possibilità. Questa idea si trova anche in Rahner, il quale, pertanto, sotto questo aspetto, si può considerare pelagiano. Nel pelagianesimo, quindi, come è noto, l’iniziativa e l’inizio della salvezza non viene da Dio, ma dall’uomo e per merito umano. La grazia completa e premia  l’opera dell’uomo. Abbiamo dunque la grazia conseguente, ma non la grazia preveniente. C’è la grazia cooperante con l’opera dell’uomo, ma non la grazia operante, che muove l’uomo alla salvezza e lo salva.

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Il Sommo Pontefice, nella Evangelii gaudium, così descrive il neo-pelagianesimo, indicandolo come

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«autoreferenziale di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri, perché osservano determinate norme o perché irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. E’ una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare, che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri e invece di facilitare l’accesso alla grazia, si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi» ― ossia neognosticismo e neopelagianesimo ― «sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico» [n.94].

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Non è difficile rintracciare in questa descrizione i lefebvriani. Tuttavia, non esiste solo un pelagianesimo lefebvriano, ma ce n’è anche uno modernista, come per esempio quello di Rahner. Infatti, come abbiamo visto, caratteristica generale del pelagianismo è l’eccessivo affidamento sulle proprie forze, che porta ad intendere  la grazia non come aggiunta perfettiva alla natura e superamento gratuito dei limiti della natura, ma come termine ultimo, dovuto alla natura, dello sviluppo inarrestabile dell’orientamento necessario, esistenziale ed essenziale a Dio, proprio di ogni uomo. Il lefebvriano si irrigidisce nel conservare; il rahneriano si irrigidisce nel cambiare. L’uno e l’altro sono certi delle proprie idee più di quanto Cristo fosse certo delle sue.

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Rahner, in particolare, concepisce il rapporto natura-grazia come  trascendimento o sviluppo storico necessario di ogni agire umano, fino a giungere alla vita di grazia, senza soluzione di continuità. Siccome per Rahner la natura umana è illimitata, le è facile passare il limite e vivere in grazia. Confonde la disponibilità della natura alla grazia ― potentia oboedientialis ― con il potere attivo dell’uomo di realizzare se stesso, e con la passività o plasmabilità della natura corporea nei confronti della sua volontà [14].

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Al polo opposto del pelagianesimo [sola natura], sta lo gnosticismo, nel quale la natura è assorbita dalla grazia [sola gratia]. Qui la Lettera sottende evidentemente l’eresia opposta a quella razionalista di Pelagio, ossia quella fideista di Lutero, il quale ammette bensì la grazia preveniente ed operante, ma non quella conseguente e cooperante. Pelagio esagera il merito, Lutero lo nega. Lutero, infatti, come è noto, esclude giustamente che la grazia possa essere meritata dal figlio di Adamo, ma trascura l’esistenza del merito soprannaturale, che dipende dalle opere fatte in grazia, le quali collaborano con la grazia e meritano quindi la salvezza e il premio celeste, per cui la salvezza è condizionata dal compimento delle buone opere fatte i grazia. E qui, Pelagio, ha ragione.

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LE VARIE FUNZIONI DELLA GRAZIA

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Ottima idea quella della Placuit Deo, sempre in tema di grazia, di ricordare la distinzione fra grazia sanante e grazia elevante ― ossia fra quella grazia che rimette i peccati e salva la nostra umanità, riconducendola all’innocenza ― e quella grazia ancora più gratuita, per la quale l’uomo è elevato alla condizione di figlio di Dio, ad immagine del Figlio, mosso dallo Spirito Santo.  Infatti è oggi spesso l’idea cristiana e neotestamentaria della figliolanza è  banalizzata e degradata, a causa di una fraternité di sapore illuministico, sicché ogni uomo per il semplice fatto di essere uomo, appare come ”fratello” e ”figlio di Dio”. Questo vuol dire confondere quella che è la chiamata evangelica universale alla salvezza e a vivere la vita di figli di Dio nella Chiesa cattolica, con la supposizione falsa e infondata ― ecco il cristianesimo anonimo di Rahner [15] ― che tutti gli uomini, magari inconsapevolmente, siano di fatto figli di Dio, in grazia, immancabilmente ed irresistibilmente tendenti alla salvezza. Il che contrasta evidentemente con l’insegnamento di Cristo[16] e col dogma cattolico che «non tutti si salvano» [17], ossia col dogma dell’inferno, che non è una pena correttiva, ma afflittiva, perché il dannato si trova per sempre ed irrimediabilmente nella condizione di aver scelto definitivamente di opporsi a Dio, il che non gli consente ― e neppure lui lo vuole ― di pentirsi e di ravvedersi, finalità, che sono perseguite dalle pene correttive.

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Questa proprietà della pena infernale è la ragione della condanna nel 1998 da parte della Congregazione per la dottrina della fede della tesi del prof. Luigi Lombardi Vallauri, docente all’Università Cattolica di Milano, il quale sosteneva che il dogma dell’inferno è una credenza « incostituzionale [in quanto] nessun atto per quanto grave può meritare una pena eterna [e perché] è contraria ai princìpi più avanzati del diritto, e specificamente del diritto influenzato dal cristianesimo, una pena che in nessun modo tenda alla rieducazione e riabilitazione del condannato». Invece, nella falsa credenza, sostenuta da Rahner e da altri, che, comunque vadano le cose, tutti si salvano, si eleva indebitamente, in sostanza, una semplice facoltà appartenente a tutti – quella di scegliere o per Dio o contro Dio – a effettiva scelta per Dio da parte di tutti. Si abbassa la dignità incomparabile di un dono divino gratuito, soprannaturale e libero, il cui conferimento è condizionato dalla libera risposta di ciascuno, alle dimensioni della struttura essenziale e necessaria della natura umana, comune a tutti, santi e delinquenti. Il messaggio della salvezza non è più: “Potete salvarvi per grazia, se obbedite alla legge divina”, ma ”siete tutti salvi per sola grazia e per sola fede, indipendentemente dalle opere della fede”. Il che poi non è altro che l’eresia di Lutero.

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CRISTO, UNICO SALVATORE DEL MONDO

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La Placuit Deo ripropone l’insegnamento cristiano fondamentale circa la natura, le vie e i mezzi della salvezza, secondo il quale insegnamento noi otteniamo la salvezza obbedendo ed unendoci a Cristo, unico Salvatore del mondo[18] ed incorporandoci quindi nella Chiesa, Corpo di Cristo. La Lettera ricorda infatti al n°2 che

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«la confessione di fede cristiana, che proclama Gesù unico Salvatore di tutto l’uomo e dell’umanità intera [cf. At 4,12; Rom 3,23-24; 1 Tm 2,4-5; Tit 2,11-15].

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Questo testo si ricongiunge col dogma del Concilio di Firenze del 1442 [19], secondo il quale, per salvarsi, occorre appartenere alla Chiesa. Il Concilio Vaticano II, riprendendo l’insegnamento del Beato Pontefice Pio IX, ha chiarito che questa appartenenza non è necessariamente quella alla Chiesa visibile, benché essa rientri nel piano ordinario della salvezza, ma che la salvezza ― e quindi l’appartenenza alla Chiesa ― è possibile anche per coloro che senza colpa e in buona fede non conoscono il Vangelo, e addirittura per «coloro che, senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati ad una conoscenza esplicita (expressam) di Dio» [20]. Per questo, queste persone si salvano sempre nella Chiesa, ma appartenendo alla Chiesa invisibile o appartenendo alla Chiesa invisibilmente o in modo inconscio [21]. Qui naturalmente è esclusa l’interpretazione rahneriana, secondo la quale anche gli atei potrebbero salvarsi, giacché una conoscenza implicita di Dio, per quanto implicita, è pur sempre conoscenza di Dio e non è ateismo.

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In tal senso la Placuit Deo può affermare:

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«Il luogo dove riceviamo la salvezza portata da Gesù è la Chiesa, comunità di coloro che, essendo stati incorporati al nuovo ordine di relazioni inaugurato da Cristo, possono ricevere la pienezza dello Spirito di Cristo (cf. Rom 8,9). Comprendere questa mediazione salvifica della Chiesa è un aiuto essenziale per superare ogni tendenza riduzionista. La salvezza che Dio ci offre, infatti, non si ottiene con le sole forze individuali, come vorrebbe il neo-pelagianesimo, ma attraverso i rapporti che nascono dal Figlio di Dio incarnato e che formano la comunione della Chiesa […] Dato che la grazia che Cristo ci dona non è, come pretende la visione neo-gnostica, una salvezza meramente interiore, ma che ci introduce nelle relazioni concrete che Lui stesso ha vissuto, la Chiesa è una comunità visibile: in essa tocchiamo la carne di Gesù, in modo singolare nei fratelli più poveri e sofferenti. Insomma, la mediazione salvifica della Chiesa, «sacramento universale di salvezza», ci assicura che la salvezza non consiste nell’auto-realizzazione dell’individuo isolato, e neppure nella sua fusione interiore con il divino, ma nell’incorporazione in una comunione di persone, che partecipa alla comunione della Trinità» [n. 12].

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La Placuit Deo ribadisce implicitamente la condanna della cristologia sincretista del Padre Jacques Dupuis, pronunciata nel 2001 dalla Congregazione per la dottrina della fede, secondo il quale tutte le religioni sono vie di salvezza, sicché ognuno può scegliere quella che preferisce [22], ed implicitamente condanna la tesi del Cardinale Carlo Maria Martini, secondo il quale per salvarsi non occorre necessariamente la mediazione della Chiesa, ma basta seguire l’ispirazione dello Spirito Santo, o la tesi di Edward Schillebeeckx, per il quale la religione perfetta e completa è la somma e l’insieme di tutte le religioni [23].

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SALVEZZA DEL CORPO E DELL’ANIMA

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Molto opportuna è stata anche l’idea di ricordare che la salvezza eterna dell’uomo concerne e l’anima e il corpo. Dice infatti la Placuit Deo:

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«La salvezza che la fede ci annuncia non riguarda soltanto la nostra interiorità, ma il nostro essere integrale. È tutta la persona, infatti, in corpo e anima, che è stata creata dall’amore di Dio a sua immagine e somiglianza, ed è chiamata a vivere in comunione con Lui» [n.7].

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È la salvezza di tutto l’uomo, nel quale gli interessi dell’anima ― la vita spirituale ― devono prevalere, per la loro importanza decisiva, su quelli del corpo ― vita fisica ―, essi pure, tuttavia, essenziali alla salvezza. Ma se gli interessi del corpo ostacolano quelli dell’anima, il cristiano dev’esser pronto a rinunciare ai primi, sapendo che alla resurrezione futura gli sarà restituito ciò a cui per amore di Cristo, ossia per salvare l’anima, ha rinunciato in questa vita. Invece Rahner, male interpretando la concezione biblica dell’unità psicofisica della persona, respinge la distinzione reale tra anima e corpo[24], dogma del Concilio Lateranense IV del 1215 [25], addebitandola al «dualismo greco» ed intende l’individuo umano come un tutt’uno indivisibile, per cui respinge il dogma dell’anima forma sostanziale del corpo, definito dal Concilio di Viennes nel 1312 [26], ed afferma che l’anima è inseparabile dal corpo, così come due diversi modi di essere e di manifestarsi di un unico soggetto non vanno intesi come fossero due parti dello stesso soggetto.

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La riduzione rahneriana dell’anima al corpo o viceversa l’assorbimento del corpo nell’anima produce in modo evidente e inevitabile due etiche opposte, ma che si richiamano a vicenda perché entrambe caratterizzate dalla fusione dei due termini: la prima, il pelagianismo materialista, secolarista e terreno; la seconda, lo gnosticismo spiritualista, idealista, panteista dell’interiorità assoluta. Accade allora che Rahner non concepisce la morte come il separarsi dell’anima dal corpo e la sopravvivenza dell’anima alla morte del corpo, per cui l’anima, separata dal corpo, che è nel sepolcro, continua a vivere da sola dopo la morte del corpo, ma per lui il momento della morte è il momento supremo della libertà, tutto l’uomo muore e nel contempo tutto risorge immerso in Dio. Ciò comporta che Rahner rifiuta il dogma dell’immortalità dell’anima definito dal Concilio Lateranense V nel 1513 [27] e quindi non ammette un intervallo di durata eviterna fra il giudizio particolare e quello universale, eresia condannata dalla “Lettera su alcune questioni concernenti l’escatologia” della Congregazione per la dottrina della fede del 1979. Nello stesso tempo, in questa visuale la salma che riposa nel sepolcro non è destinata a risorgere, contro quanto insegna il Concilio Lateranense IV del 1215 [28], ma si dissolve nella materia circostante. Ne viene la conseguenza che i racconti evangelici circa la tomba vuota di Cristo risorto  non possono essere addotti come prova della sua risurrezione, perché la resurrezione di Cristo, per Rahner, non è il fatto che la salma di Gesù abbia ripreso vita, ma il fatto che Cristo con la morte è «stato accolto da Dio». Inoltre  Rahner, con questa sua teoria della resurrezione immediata, nega il dogma del purgatorio, definito dal Concilio di Trento [29]. Infine, la teoria della resurrezione immediata costituisce un attentato al dogma della Assunzione della Beata Vergine Maria al cielo, perché per esplicita  dichiarazione di Rahner, non solo la Mater Dei, ma ogni uomo con la morte è assunto in cielo.

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Molto opportune, pertanto, sono le parole conclusive della Lettera:

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«Mentre si dedica con tutte le sue forze all’evangelizzazione, la Chiesa continua ad invocare la venuta definitiva del Salvatore, poiché «nella speranza siamo stati salvati» (Rom 8,24). La salvezza dell’uomo sarà compiuta solo quando, dopo aver vinto l’ultimo nemico, la morte (cf. 1 Cor 15,26), parteciperemo compiutamente alla gloria di Gesù risorto, che porterà a pienezza la nostra relazione con Dio, con i fratelli e con tutto il creato. La salvezza integrale, dell’anima e del corpo, è il destino finale al quale Dio chiama tutti gli uomini» [n. 15].

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LA SCELTA INEVITABILE: O PER DIO O CONTRO DIO. UNA LACUNA DELLA PLACUIT DEO

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E noi pure, a questo punto, chiediamo, a modo di conclusione, che ci sia concessa un’osservazione. La questione gravissima e sempre attuale della salvezza non può essere dissociata da quella altrettanto seria ed urgente della perdizione. Ebbene, ci pare di notare nella Placuit Deo, una grave lacuna: quella di non aver trattato, se non per fugaci accenni e allusioni implicite, di questo tema altrettanto importante ed urgente, circa il quale sono diffuse le eresie, le reticenze e le false interpretazioni. Non si può infatti parlare della salute senza parlare della malattia. Non si può parlare della vita senza parlare della morte. Non si può parlare del bene senza parlare del male. Certo, è evidente che chi accetta il pelagianesimo o lo gnosticismo non può salvarsi. Tuttavia non sarebbe stato male ricordare che è eretico credere che Dio non castighi. E questo proprio perché non si capirebbero il senso e le ragioni della salvezza, se si rifiutasse quella verità. Si pensa che chi sostiene che Dio castighi non apprezza la sua misericordia. E invece è proprio vero il contrario. E’ impossibile capire che cosa è la salvezza, senza partire dalla considerazione del castigo del peccato, a cominciare dal peccato originale, per arrivare ai nostri peccati personali e passando attraverso l’espiazione dolorosa del peccato, che avviene grazie alla partecipazione alla Croce di Cristo.

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Riguardo al peccato originale, la Placuit Deo evidentemente esclude in modo implicito la tesi secondo la quale il racconto genesiaco, come sostiene per esempio il Cardinale Gianfranco Ravasi, sarebbe un semplice mito «eziologico» per spiegare l’esistenza e peccato e del male. A quel punto si può comprendere che il dono che il Padre ci ha fatto del suo Figlio è opera di misericordia, perché, come dice il profeta Isaia: «il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui» [Is 53,5]. Opera divina è l’opera che Dio compie per trasformare il castigo in salvezza. Ecco perchè nell’inno dell’ufficio di Lodi della Quaresima si canta: «Dall’ira del giudizio, liberaci o Padre buono».

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Dio ci libera, mediante la Croce riparatrice di Cristo, dalle miserie nelle quali siamo precipitati e ci ridona col Battesimo la grazia perduta. La colpa del peccato originale, trasmessa per generazione a ciascun uomo dalla coppia dei nostri progenitori [30], viene cancellata dal Battesimo, anche se resta la concupiscenza, ossia l’inclinazione a peccare, che occorre contrastare e frenare per tutta la vita con le opere ascetiche e la pratica del sacramento della penitenza.

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Precisa allora la Placuit Deo al n. 13:

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«Così, purificati dal peccato originale e da ogni peccato, siamo chiamati ad una nuova esistenza conforme a Cristo [cf. Rom 6,4]».

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Col diventare figli di Dio, ci è aperta la porta dell’eterna salvezza e l’ingresso, come membri della Chiesa, nel regno dei cieli. Certo, non si tratta di affermare che Dio può essere punitore e misericordioso nello stesso momento con la stessa persona, il che sarebbe contradditorio, perché severità e misericordia sono effettivamente due virtù che si escludono a vicenda. La severità infligge una pena; la misericordia la toglie. Se c’è l’una, non ci può essere l’altra. Tuttavia a volte si richiamano e condizionano a vicenda: la misericordia che Dio usò verso Israele che attraversava il mar Rosso, fu resa possibile dalla severità che usò contro gli Egiziani.

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CONCLUSIONE

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Non sembri incongruo o azzardato paragonare la Deo Placuit alla Pascendi Dominici Gregis del Santo Pontefice Pio X. Uno potrebbe osservare che esse si differenziano profondamente, perchè la seconda è severa, mentre la prima è indulgente. Eppure, di là del mutato clima storico, tra i due documenti c’è una continuità: Pio X dovette affrontare il problema modernistico. Il Pontefice regnante ha dovuto riprendere in mano la questione, perché il modernismo dei tempi del suo predecessore Pio X è, come disse il Maritain nel 1966 [31], un «modesto raffreddore da fieno rispetto alla febbre neo-modernista» dei nostri giorni. Dai tempi di Maritain la febbre non accenna ad diminuire, anzi, è giunta a temperature che rischiano di superare i 40 gradi di calore. E poi ricordiamo che il Santo Pontefice Pio X definì il modernismo dei suoi tempi come la «somma di tutte le eresie». Da qui possiamo farci un’idea del modernismo di oggi. Ma il Sommo Pontefice Francesco I non sembra purtroppo turbarsi più di tanto. Non è che non si renda conto di cosa sta succedendo, chissà, forse vuole evitare il panico?

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Abbiamo avuto in mezzo il Concilio Vaticano II che ha accolto quanto di valido c’era nelle istanze moderniste, ma ha evitato gli errori modernisti, entrati però poi nella Chiesa, in modo prepotente e decisivo, durante la stagione del post-concilio. Il Concilio Vaticano II, accogliendo quelle istanze, ha quindi aggiunto quanto mancava alla Pascendi Dominici Gregis. Ma non ne ha mai dimenticati gli avvertimenti, ancor oggi più che mai validi; anche se ovviamente il modernismo di oggi è diverso da quello di allora. Al Pontefice regnante si profilano dunque i seguenti compiti:

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  1. Mantenere le conquiste del Concilio, portarle avanti e difenderle; e correggere una certa tendenza troppo ottimista o buonista, come per esempio quanto riportato al n. 40 della Gaudium et spes, dal quale si evince che la Chiesa non ha che da dialogare col mondo, in un rapporto di reciprocità alla pari mondo-Chiesa. E di questa tendenza, è urgente correggere tutte quante le false interpretazioni del post-concilio.

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  1. Purificare i modernisti dallo gnosticismo, accogliere il loro dinamismo rinnovatore e progressista, proibir loro di strumentalizzare il Concilio.

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  1. Purificare i lefebvriani dal pelagianesimo, approvare ed appoggiare la loro fedeltà alla tradizione, persuaderli ad accettare il Concilio.

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  1. Fare opera di mediazione fra lefebvriani e modernisti al fine di una reciproca riconciliazione, congiungendo tradizione e conservazione con progresso e rinnovamento.

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Si tratta di un compito enorme, volendo abnorme. Ma, d’altronde, dentro la Cappella Sistina è stato l’uomo Jorge Mario Bergoglio a rispondere alla chiamata all’elezione al sacro soglio dicendo «accepto» e divenendo poco dopo Francesco I. E per quella risposta affermativa «accepto», deve assumersi tutte le responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini. E, certe gravose responsabilità, non ci si assumo né evitando di dare risposte chiare e sicure, né dicendo che potrebbe essere sì, ma volendo anche no, o come dire … non so, fate voi!

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Noi siamo dinanzi a Dio il profumo di Cristo tra quelli che si salvano e quelli che si perdono [I Cor 2,15]

Scientia inflat, caritas vero aedificat [I Cor 8,1]

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Dall’Isola di Patmos, 13  marzo 2018

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 NOTE

[1] Vedi il caso Nietzsche.

[2] Evangelii gaudium, n.222. Cf il mio studio La dipendenza dell’idea dalla realtà nella Evangelii gaudium di papa Francesco, in PATH, Libreria Editrice Vaticana, 2014/2, pp.237-316.

[3] Cf. Julio Meinvielle, Influsso dello gnosticismo ebraico un ambiente cristiano, a cura di E. Innocenti, Edizioni della Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 1898.

[4] Cf.  Frances A.Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Editori Laterza, Bari 1992.

[5] Léon de Poncins, Freemasonry and the Vatican, Britons Publishing Company, London 1968.

[6] Ne parla a lungo E.Kurlander nel suo libro I mostri di Hitler, Mondadori Editore, Milano 2018.

[7] Introduzione alla Teosofia, Fratelli Bocca Editori,Torino 1911.

[8] J.Maritain giustamente parla di una ”gnosi hegeliana”, in La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia 1971, c.IX.

[9] Anne Brenon, I Catari. Storia e destino dei veri credenti, Convivio-Nardini Editore, Firenze 1990; Liber de duobus principiis, un traité néo-manichéen de XIIIe siècle, a cura di A.Dondaine,OP, Istituto Storico Domenicano di S.Sabina, Roma 1939.

[10] Lo gnosticismo, SEI, Torino, 2002.

[11] Il risveglio della gnosi ovvero diventare Dio, Laterza, Bari 1990.

[12] Les Editions du Cerf, Paris 2000.

[13] Cf il mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004, pp.318-329.

[14] Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, c.V – La grazia.

[15] Cf .il mio saggio La radice teoretica della dottrna rahneriana del cristianesimo anonimo, in Karl Rahner. Un’analisi critica, a cura di S.Lanzetta, Atti del Convegno dia Firenze del 23-al 23 novembre 2007, organizzato dai Francescani dell’Immacolata, Edizioni Cantagalli, Firenze 2009, pp.51-71.

[16] La Lettera cita il c.25, 31-46 di Matteo.

[17] Concilio di Quierzy dell’853 (Denz.623). Cf. il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.

[18] Cf. la Dichiarazione Christus Dominus della CDF  del 6 agosto 2000.

[19] Denz.1351

[20] Lumen Gentium, 16.

[21] Cf. la spiegazione di questo fatto data dal Maritain in L’Eglise du Christ. La personne de l’Eglise et son personnel, Descleée de Brouwer, Bruges 1870, c.X, III.

[22] Notificazione “In seguito” del Il 24 gennaio 2001. Cf. la sua Introduzione alla cristolgia, PIEMME 1993.

[23] Umanità. Storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992, pp.219-220.

[24] Sulla dottrina rahneriana del rapporto anima-corpo, vedi il mio citato libro Karl Rahner, il Concilio tradito, c.III.

[25] Denz.800.

[26] Denz.902.

[27] Denz.1440-1441.

[28] Denz.801.

[29] Denz.1820.

[30] Concilio di Trento, Denz.1512-1513.

[31] Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, Bruges 1966, p.16.

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1 commento
  1. orenzo
    orenzo dice:

    È innegabile che alla 231 di “Evangelii gaudium” si legga “la realtà è superiore all’idea”, tuttavia, leggendo le 303 e 304 di “Amoris laetitia”, ho quasi l’impressione che la gnoseologia storicistica del Cardinale Walter Kasper sia quasi adombrata in non pochi passaggi: è solo una mia errata interpretazione?

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