Sui “divorziati risposati”. L’Eucaristia, il peccato e la coscienza. Risposta a Padre Riccardo Barile

Padre Giovanni

SUI “DIVORZIATI RISPOSATI “. L’EUCARISTIA, IL PECCATO E LA COSCIENZA. RISPOSTA A PADRE RICCARDO BARILE

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Il noto liturgista domenicano Padre Riccardo Barile ha pubblicato il 29 ottobre scorso sulla rivista telematica La Nuova Bussola Quotidiana [cf. QUI] un articolo con questo stesso titolo, nel quale mi rivolge alcune critiche, alle quali rispondo di seguito. Le sue obiezioni sono un corsivo. Le mie risposte e i miei passi che egli cita sono in tondo.

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Autore Giovanni Cavalcoli OP

Autore
Giovanni Cavalcoli OP

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Il noto liturgista domenicano Padre Riccardo Barile ha pubblicato il 29 ottobre scorso sulla rivista telematica La Nuova Bussola Quotidiana [cf. QUI] un articolo con questo stesso titolo, nel quale mi rivolge alcune critiche, alle quali rispondo di seguito. Le sue obiezioni sono un corsivo. Le mie risposte e i miei passi che egli cita sono in tondo.

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1. «Per un cattolico è assolutamente impensabile che un Sinodo sotto la presidenza del Papa possa compiere un attentato alla sostanza di qualunque sacramento» (nel nostro caso del Matrimonio e dell’Eucaristia concedendo la comunione ai divorziati risposati). No, è pensabile perché il Sinodo non è infallibile: deve solo dare consigli al Papa. D’altra parte ci furono oscillazioni dottrinali nei papi Liberio († 366), Onorio I († 638), Giovanni XXII († 1334), peraltro rientrate presto attraverso il successivo Magistero della Chiesa, che è la «casa di Dio, colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). Certo, il presupposto è che ciò capiti rarissimamente ― di fatto con il Sinodo non è capitato! ―, ma non è “assolutamente impensabile”.

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È impensabile che un intero Sinodo mondiale dei Vescovi, sotto la presidenza del Romano Pontefice possa cadere nell’eresia. Questo potrà accadere per qualche vescovo o qualche cardinale, ma non per il Sinodo come tale, rappresentante dell’intera Chiesa, che, come tale, non può errare nella fede.

Lo sanno tutti che il Sinodo ha il compito di consigliare il Papa, ma questo non vuol dir niente. Lo consiglia non contro il dogma, ma sulla base del dogma e per applicare il dogma nella pastorale, nella formazione di nuove leggi e nell’amministrazione dei sacramenti. Potrà dare consigli sbagliati, che starà al Papa correggere. Ma non può errare nel dogma.

Quanto all’esempio dei tre Papi, in un serio trattato di apologetica si trova la soluzione di questi casi effettivamente non facili. Qui possiamo dire brevemente che questi Papi hanno effettivamente avuto qualche espressione ambigua o eterodossa. Ma risulta dalla storia che essi in quelle circostanze non esercitarono o liberamente (Liberio) o convenientemente (Onorio) o intenzionalmente (Giovanni XXII) il ministero petrino di maestri della fede. Il primo, perché abbattuto da una prostrazione morale, il secondo per trascuratezza, il terzo agì come dottore privato. I Papi posteriori chiarirono l’avvenuto e proclamarono la retta dottrina.

Ereticale può essere un conciliabolo contro il Papa e comunque un sinodo da lui non autorizzato, come fu per esempio il famoso sinodo di Pistoia del 1786, quasi a preludere la tempesta che si sarebbe scatenata contro la Chiesa e il Papa pochi anni dopo con la Rivoluzione Francese.

Di non piena ortodossia sono i sinodi delle Chiese ortodosse separate da Roma. Non danno piena garanzia di ortodossia i sinodi della Chiesa anglicana, indetti indipendentemente dal Sommo Pontefice. Possono essere ereticali le assemblee dei luterani, dei valdesi e di tutte le sette protestanti, non soggette alla guida del Successore di Pietro.

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2. «La disciplina dei sacramenti è un potere legislativo che Cristo ha affidato alla Chiesa», per cui «il concedere o non concedere la comunione entra nel potere della pastorale della Chiesa e nelle norme della liturgia». Dunque se «la Chiesa non può mutare la legge divina che istituisce e regola la sostanza dei sacramenti, può mutare le leggi da lei emanate», nel nostro caso «l’attuale regolamento sui divorziati risposati». Naturalmente bisognerà spiegare a tanti poveretti e poverette che per secoli e con sacrificio e sino a oggi hanno obbedito a queste norme, che si è trattato solo di determinazioni transitorie, le quali ora cambiano. Cioè bisognerà prenderli in giro. Ma per fortuna non è così. Infatti, se è vero che vi sono nei sacramenti determinazioni di consuetudine ecclesiastica di per sé modificabili, il Magistero soprattutto recente ha legato la norma della non comunione ai divorziati.

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Non si tratta di prendere in giro nessuno, ma di spiegare ai fedeli la differenza tra la legge divina e la legge ecclesiastica. Ripeto che non esiste nessun legame necessario o dogmatico, ma solo di convenienza, quindi solubile, tra il sacramento dell’Eucaristia e il divieto della Comunione ai divorziati risposati, benché si tratti di una tradizione millenaria. Non è Sacra Tradizione, ma è appunto soltanto una “consuetudine ecclesiastica”, come tale mutevole.

Il fatto stesso che al Sinodo sia emersa questa proposta, vuol dire che è ammissibile, altrimenti il Papa l’avrebbe esclusa. Come mai non è emersa una proposta ispirata all’Islamismo, magari in nome del dialogo interreligioso, di concedere quattro mogli?

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3. Seguendo il n. 84 della Familiaris consortio (22.11.1981) di Giovanni Paolo II, l’esortazione post sinodale Sacramentum caritatis (22.2.2007) ha confermato che la prassi di non ammettere alla comunione i conviventi e i divorziati risposati praticanti una attiva vita sessuale è «fondata sulla Sacra Scrittura (cf Mc 10,2.12)» e motivata dal fatto che «il vincolo coniugale è intrinsecamente connesso all’unità eucaristica tra Cristo sposo e la Chiesa sposa (cf Ef 5,31-32)», per cui la condizione dei divorziati risposati contraddice oggettivamente «quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata ed attuata nell’Eucaristia» (nn. 27, 29). Dunque, dato il fondamento nella Scrittura e data la motivazione simbolica determinante, come si fa a parlare di una legge solo ecclesiastica e liturgica modificabile? E poi, se si trattasse solo di una legge ecclesiastica, perché fermarsi ai divorziati risposati? Perché non ammettere all’Eucaristia ortodossi e protestanti?

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Non c’è dubbio che la prassi attuale sia fondata sulla Scrittura, ma non come una deduzione dottrinale o dogmatica o teologica è fondata sul dato rivelato, bensì solo come lo è una prassi liturgica o sacramentale stabilita dal potere delle chiavi, ossia dal potere legislativo o giurisdizionale della Chiesa. Invece, una deduzione o esplicitazione dogmatica fatta dal Magistero della Chiesa, è fatta con procedimento logico rigoroso e necessario, e quindi con un nesso indissolubile, sulla base della Parola di Dio o partendo da premesse rivelate o da un dogma più fondamentale. Il negare questo nesso andrebbe contro il principio di non-contraddizione, cosa che non accade affatto quando la Chiesa muta una sua legge. Tutt’al più potrà essere una decisione imprudente.

Per esempio, il Concilio Lateranense del 649 deduce il dogma delle due volontà in Cristo dal dogma delle due nature di Cristo definite nel Concilio di Calcedonia del 451. Non sono possibili conclusioni diverse da quella tratta dal Concilio Lateranense. Infatti, le deduzioni dogmatiche partono bensì da premesse di fede; ma per giungere alla conclusione, seguono le regole della logica, per la quale da una sola premessa speculativa non può che seguire una sola conclusione parimenti speculativa, perché qui siamo nell’ordine delle essenze, le quali non possono essere diverse da quello che sono, ossia non possono perdere i lori caratteri essenziali, senza annullare se stesse.

Invece, quando la Chiesa entra nel campo della pastorale, abbandona la considerazione astratta, per quanto sacrosanta, delle essenze speculative dogmatiche immutabili, per entrare, sempre alla luce del dogma, nel campo complesso del concreto e del variare delle circostanze, dove non si tratta di dare delle definizioni, come avviene in campo dottrinale, ma di prendere delle decisioni pratiche.

Così, le deduzioni o applicazioni pratiche, sulla base della libera scelta, ammettono una molteplicità di conclusioni diverse, derivanti da un unico principio, che resta il medesimo. E questo perché, mentre la teoria, partendo da una premessa formale ed astratta, procede inflessibilmente per determinismo logico su di un unico binario, la prassi, scendendo da un unico principio attivo, che è la volontà, si apre a ventaglio su di una molteplicità di scelte. E mentre le conclusioni speculative e dogmatiche, una volta che sono fissate e ben fondate, come case costruite sulla roccia, non possono cambiare, quelle pratiche, invece, per il verificarsi di situazioni nuove, possono e devono mutare, sempre secondo quanto il principio dogmatico richiede.

La Chiesa non può mutare la sostanza o essenza dei sacramenti. Qui si esercita la sua funzione magisteriale infallibile. Essa però ha anche il compito di amministrare i sacramenti e di farli fruttare con saggezza, in modo tale, che essi producano il massimo di grazia possibile in ordine alla salvezza delle anime. Un conto è il sacramento come tale, istituito da Cristo: questo è legge divina e mistero di fede, immutabile e intangibile, assolutamente obbligatorio, pena la dannazione eterna. E un conto è l’uso dei sacramenti, ossia la pastorale sacramentaria, affidata da Cristo alla Chiesa. L’essenza dei sacramenti è oggetto della dogmatica e della teologia speculativa. L’uso dei sacramenti è regolato dalle leggi della Chiesa, dalla liturgia, dalla pastorale e del diritto canonico. Qui esiste il cambiamento, il miglioramento, la riforma e il rinnovamento. La Chiesa può curare la salvezza delle anime sia concedendo che negando il sacramento. Non ci si deve fissare su di una sola possibilità e vedere invece quale possibilità serve meglio, in una data situazione, alla salvezza.

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4. Se si trattasse solo di una legge ecclesiastica, perché fermarsi ai divorziati risposati? Perché non ammettere all’Eucaristia ortodossi e protestanti?

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Si suppone che i divorziati risposati siano cattolici e quindi credano nel valore sacramentale del matrimonio e dell’Eucaristia, condizione indispensabile per poterne fruire. Ora, è noto che i protestanti non credono al valore di questi due sacramenti. Per cui è incongruo paragonare la loro posizione in merito a quella dei divorziati risposati cattolici. Quanto agli ortodossi, che invece accettano i sacramenti, la Chiesa potrebbe stabilire una convenzione con loro nei matrimoni misti per risolvere la questione.

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5. «Non esistono “condizioni peccaminose”, perché il peccato è un atto, non è una condizione, né è uno stato permanente». Certo il peccato è un atto e non si prolunga indefinitamente nel tempo — per fortuna! —; esiste però un «comportamento esterno gravemente, manifestamente e “stabilmente” contrario alla norma morale», di fronte al quale la Chiesa «non può non sentirsi chiamata in causa», interdicendo la partecipazione ai sacramenti (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia /17.4.2003/, n. 37; cf anche Can. 915). Così è per le persone delle quali si parla, ovviamente senza con ciò escluderle dalla partecipazione alla vita della Chiesa, anzi. Ma il nostro teologo sembra ignorare questa dimensione.

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È vero che il comportamento dei divorziati risposati, per quanto riguarda la loro convivenza, è un «comportamento esterno gravemente, manifestamente e “stabilmente” contrario alla norma morale». Certamente la Chiesa è fortemente preoccupata e dispiaciuta per tale comportamento, che mette in pericolo le anime dei conviventi e crea scandalo tra i fedeli. Ma essa è soprattutto preoccupata di indicar loro, se non possono interrompere la convivenza, come e con quali mezzi, umani e divini, giuridici o morali, possono mantenersi in grazia, nonostante il peccato, eventualmente o probabilmente frequente. La proposta emersa al Sinodo, presso alcuni Padri, di concedere la Comunione, va inquadrata in questo ambito di considerazioni.

Inoltre, la Chiesa è più preoccupata della situazione interiore delle anime, che del comportamento esterno, per quanto esso sia socialmente importante in foro esterno. Se non desse questo primato all’interiorità, cadrebbe nel farisaismo. È vero che la condotta esterna, in linea di massima, manifesta quella interna. Dai frutti si giudica l’albero. Ma non è sempre facile sapere se un atto oggettivamente cattivo o peccaminoso suppone la colpa nell’anima di chi lo ha commesso, o giudicare, come si dice, delle intenzioni.

È però possibile compiere un atto esterno in sè buono per il suo oggetto, ma con la malizia nel cuore o senza sincerità. Giuda ha dato un bacio a Cristo: ma con quale animo? Come pure è possibile che uno compia un atto oggettivamente cattivo, ma senza saperlo, e quindi egli resta privo di colpa davanti a Dio. Inoltre, occorre dare una valutazione complessiva della situazione della coppia, in tutti i suoi aspetti e non solo circa la sfera sessuale. Se infatti qui può esistere il peccato, in altri ambiti del loro vivere, i due possono avere buone qualità umane, civiche, educative, morali, lavorative, psicologiche, culturali, spirituali e religiose, delle quali si deve tener conto e sulle quali occorre far leva, per sopperire ai difetti morali della sfera sessuale.

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6. Un’annotazione sulla coscienza raschia però il fondo del barile: «Spesso mi vengono a trovare persone divorziate e risposate. La richiesta è sempre la stessa: perché non posso fare la comunione? Allora io invito questi fedeli a guardarsi dentro, a verificare la serenità della propria coscienza. Se in buona fede avvertono di essere in pace con se stesse, con le persone a cui vogliono bene e con Dio, dico loro di stare tranquille: hanno raggiunto, anche senza sacramenti, lo stato di grazia. Questo è un mistero bellissimo». Certo che, avendo il nostro teologo spiegato che «il problema dei divorziati risposati è che l’adulterio, con l’aggravante del concubinato, è peccato mortale», con premesse del genere non è tanto facile sentirsi la coscienza tranquilla …

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Io invito queste persone, a seconda delle loro diverse possibilità, a fare un cammino penitenziale, a chiedere perdono a Dio ogni volta che peccano, a chiedere l’aiuto divino, a rinnovare dopo ogni caduta il proposito di non più peccare, a cercare di evitare le occasioni, a lottare contro la tentazione, a non arrendersi né rassegnarsi alla sua forza, a controllare la fantasia, a custodire i sensi, ad aver chiarezza di idee sulla vera dignità del sesso e della famiglia, a esercitarsi nel dominio della passione e nella rinuncia necessaria, a tenersi in contatto con una guida spirituale, a frequentare la Chiesa e la Messa, a leggere la Scrittura e i buoni libri, a coltivare buone compagnie, a seguire gli insegnamenti della Chiesa, a darsi alle opere buone ed all’educazione dei figli, a dirottare l’attenzione e l’interesse verso obbiettivi leciti ed attraenti, a non perder la fiducia di potersi correggere e migliorare, a sopportarsi nella loro debolezza, a non perder la speranza di liberarsi dal peccato.
In sostanza, le informo che Dio può dare la grazia anche senza i sacramenti, per cui io non ho difficoltà ad applicare la normativa attuale, perchè vedo, che sapendo presentarla con carità e prudenza, queste persone si tranquillizzano, trovano pace e sono soddisfatte.

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7. Qui comunque casca l’asino, perché il Concilio di Trento, nel Decreto sulla giustificazione (13.1.1547), al capitolo IX scrive che: «Come nessun uomo religioso deve dubitare della misericordia di Dio, dei meriti di Cristo, del valore e dell’efficacia dei sacramenti, così ciascuno, riflettendo su se stesso, sulla propria debolezza e disordine, ha motivo di temere e paventare del suo stato di grazia (de sua gratia formidare et timere potest); infatti nessuno può sapere con certezza di fede, libera da ogni possibilità di errore, di avere ottenuto la grazia di Dio (cum nullus scire valeat … se gratiam Dei esse consecutum)» (D 1534).

Dunque, la valutazione di essere in grazia sarà una prudente e saggia probabilità che non può essere affidata alla sola riflessione della coscienza così come è descritto sopra. Perché se è vero che «il giudizio sullo stato di grazia … spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza» (Ecclesia de Eucharistia, n. 37), vige il dovere non solo di consultare la propria coscienza, ma di formarla. Giovanni Paolo II nella Veritatis splendor (6.8.1993) legge nelle parole di Gesù sull’occhio lucerna del corpo «un invito a formare la coscienza, a renderla oggetto di continua conversione alla verità e al bene … Un grande aiuto per la formazione della coscienza i cristiani l’hanno nella Chiesa e nel suo Magistero … la libertà della coscienza non è mai libertà “dalla” verità … il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità ad essa estranee, bensì manifesta le verità che dovrebbe già possedere sviluppandole a partire dall’atto originario della fede» (n. 64).

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Non vedo perché debba cadere l’asino, dato che su tutto ciò sono d’accordo. Forse Padre Riccardo Barile mi hai frainteso.

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8. Se poi un prete incontra dei divorziati risposati che gli pongono delle domande, non può accontentarsi di rispondere: «Guardatevi dentro. La vostra coscienza è a posto? Allora siete a posto anche di fronte a Dio!». Un prete — un teologo emerito! — deve illuminare la coscienza e senza il timore di “entrare in camera da letto”. Nel Nuovo Testamento il Battista ha rimproverato Erode per ragioni matrimoniali (Mt 14,3-12; Mc 6,17-19; Lc 3,19-20); Gesù è intervenuto su matrimonio, divorzio e continenza (Mt 5,32; 19,1-12; Mc 10,1-12; Lc 16,18); gli scritti apostolici sono intervenuti su incesto (1Cor 5,1ss.), santità del matrimonio (Eb 3,4), relazioni anche intime tra i coniugi e morale domestica (1Cor 7,1-16; Ef 5,21-33; Fil 3,18-21; 1Pt 3,1-7), condizione delle vergini (1Cor 7,25ss.) e delle vedove (1Tm 5,11-14), proponendo non solo la parola autorevole del Signore, ma «un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» o un «mio parere» perché «credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio» (1Cor 7,25.40). Dopo aver ricevuto simili parole attualizzate all’oggi, la coscienza di conviventi “irregolari” non potrà sentirsi tranquilla e “in grazia”: piuttosto comincerà a sentirsi “nella verità”.

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Certamente si tratta di situazioni scabrose e pericolose, dove può esser facile peccare spesso e gravemente. Tuttavia, dato che Dio offre a tutti la grazia, dobbiamo pensare che anche per costoro ci sia la possibilità almeno intermittente di essere in grazia.

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9. Le proposte del teologo intervistato sembrano strade poco percorribili. Alla fine però, se possono sembrare normali evoluzioni e svolte del suo pensiero, è meno comprensibile come mai affermazioni del genere abbiano trovato ospitalità generosa e acritica su Avvenire. Non si può pensare a una distrazione, perché durante il Sinodo ciò che un giornale come Avvenire pubblica in argomento non può che essere attentamente vagliato. Bisogna dunque pensare a uno stile e a una scelta di parte abbastanza determinata, comportante disinvolte revisioni di un Magistero non solo antico, ma recente. Presupponendo poi una normale dose di prudenza (umana) per cui in genere non si rischia a vuoto, bisogna concludere che per ora chi opera tali scelte ha le spalle coperte. E a questo punto, sulle coperture e su quelli che ti aspettano per “farti fuori” quando qualcosa cambierà, viene in mente il consiglio dell’Imitazione di Cristo: «Non fare gran caso se uno è per te o contro di te, ma preoccupati piuttosto che Dio sia con te in tutto quel che fai» (II,2,1). Vero. Ma qui Dio da che parte sta?

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L’Avvenire, come è noto, è il quotidiano della CEI, supervisionato dalla Segreteria di Stato. La risposta alle perplessità di Padre Riccardo Barile è molto semplice: quanto sostengo non comporta nessuna “disinvolta revisione di un Magistero non solo antico, ma recente”, ma semplicemente presenta alcuni chiarimenti di teologia morale tradizionale, sulla quale mi sono basato per esporre alcune mie legittime opinioni, in piena sottomissione a quanto il Santo Padre deciderà per il bene della Chiesa.

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Varazze, 31 ottobre 2015

1 commento
  1. Elita dice:

    Gent.mo Padre,
    ho letto questo Suo articolo e mi ha commosso. Non sono molto istruita e mi sono iscritta solo per dirLe che mi ha veramente commosso perché ci leggo una attenzione e una cura per le persone, per ogni persona, che mi ha fatto pensare a quanto è grande la nostra Chiesa, a come è buono Dio con noi. A volte mi sembra che vogliamo insegnare a Dio come si fa a fare Dio, invece nelle sue traspare tanta umanità e tanto interesse per la specificità dell’individuo, che allarga il cuore. Grazie

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