La mostra dei paramenti sacri a New York: evoluzione o involuzione del messaggio cristiano cattolico alla comunità

LA MOSTRA DEI PARAMENTI SACRI A NEW YORK: EVOLUZIONE E INVOLUZIONE DEL MESSAGGIO CRISTIANO CATTOLICO ALLA COMUNITÀ

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Vero scopo della mostra a New York sembra pertanto essere il diavolo e l’acquasantaIl sacro e profano, mentre il bello ed il sacro finisce surclassato dalla volontà di far discutere, di entrare nella notizia e di far parte di un sistema gossip che ha il sapore della blasfemia, dove la sacralità finisce malamente sottomessa alla peggiore profanità mondana.

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Autore
Licia Oddo *.

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era proprio necessario?

Che l’abbigliamento, o il costume espressione di una moda, segua nel tempo il suo corso, quale branca dall’aspetto più fashion, estroso, della creatività artistica non v’è dubbio. Quando però ad essere coinvolta è la sfera religiosa e più specificatamente cattolica, sino a divenire protagonista o soggetto delle sfilate glamour, la cosa cambia, generando situazioni di fatto eclatanti e controverse. Soprattutto se promotore di una iniziativa così “singolare” è il Cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che in anteprima mondiale ha presentato nella galleria romana di Palazzo Colonna [vedere QUI e QUI], accanto alla iconica Anna Wintur, direttrice della nota rivista Vogue, l’evento «Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination» (Corpi celesti: la moda e l’immaginazione cattolica). Oggetto di questa mostra allestita dal 10 maggio all’8 ottobre a New York nel Metropolitan Museum of Art è il dialogo tra sacro e profano, moda e paramenti sacri [vedere QUI, QUI e QUI].

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Tra i 150 abiti creati ad hoc dagli stilisti più in auge dell’ haute couture, per diffondere attraverso le loro creazioni icone cristiane, spicca la croce ricca di pietre preziose stampata sul corpetto di un abito disegnato da Gianni Versace. Immagine destinata a creare un certo scalpore, perché la croce è rappresentata al di fuori di quello che è il suo naturale ambito di culto. Nell’esposizione Met Cloister, un’ala separata del museo che comprende cinque antichi chiostri disseminati nell’ Upper Manhattan, spiccano i paramenti sacri, quaranta per l’esattezza, mai usciti prima dalle sacristie della Cappella.

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Nella sua presentazione il Cardinale Gianfranco Ravasi sostiene:

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«La veste, infatti, non è meramente un indumento che ci protegge dal freddo o dal caldo o dalla nudità, funzione per altro valida, riconosciuta già dalla Bibbia agli esordi dell’umanità. Ma, come appare chiaramente dalla creatività della moda e dal nesso linguistico tra il latino vestis, “veste”, e “investitura” ― vocabolo presente in molte lingue europee per indicare la nomina a un incarico ufficiale ― l’abito, attraverso la sua dimensione simbolica, appartiene alla stessa cultura e la esprime” […] “La sfilata della quarantina di vesti e di arredi sacri vaticani presenti nella mostra Heavenly Bodie merita, allora, di essere giustamente classificata sotto la categoria della “catholic imagination» […] La selezione offerta dalla mostra è marcata da un’indubbia qualità sontuosa: essa è stata esaltata nell’epoca barocca ma è rimasta nell’ornamentazione liturgica dei secoli successivi. Si voleva, così, per questa via proclamare la trascendenza divina, il distacco sacrale del culto dalla ferialità quotidiana, lo splendore del mistero.[cf. QUI].

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Purtroppo, il Cardinale Gianfranco Ravasi, quasi subito si contraddice nello stesso scritto quando asserisce:

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«Naturalmente incombe sempre sulla ritualità e, quindi, sull’apparato liturgico cristiano il monito di Gesù che ironizzava sugli osservanti esteriori che «allargano i loro filatteri e allungano le frange», ossia i tefillin e il tallit, componenti del culto giudaico [Mt. 23,5]. Resta, infatti, anche nel rito sacro il rischio che segnalerà lo scrittore inglese William Hazlitt nel suo saggio Del carattere clericale (1818) “Coloro che fanno del vestito una parte principale di se stessi finiscono in generale per non valere più del loro abito”. Tuttavia la bellezza e l’arte sono state per secoli inseparabili sorelle della fede e della liturgia cristiana, soprattutto nel cattolicesimo e nell’ortodossia E – come ha fatto Henri Matisse con le sue mirabili casule da lui disegnate per la cappella di Vence e ora conservate nei Musei Vaticani – questo legame dovrà continuare a rivivere e a rinnovarsi attraverso il dialogo anche con l’arte contemporanea» [cf. QUI].

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Sembra che il Cardinale corregga subito la sua versione quasi rifacendosi al motto: “insomma non prendiamoci troppo sul serio, l’abito non fa il monaco”! Ma allora che cos’ha espresso prima, riguardo al significato etimologico della parola veste?

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Volendo c’è però di più, perché affermare che sacrale non sia il riflesso di colui che l’abito lo veste, è inesatto. È infatti opportuno evidenziare che il carattere festivo espresso anche dal decoro della veste del presbitero che presiede l’Eucaristia, diventa una costante della celebrazione, come pure il modello dello stesso abito [Cf. QUI]. Ed in effetti, quando nel VII secolo la moda secolare cambia, l’abito religioso del presbitero non muta, diventando anzi caratteristico alla celebrazione alla quale esso è riservato. Nessun simbolismo vi è dunque all’origine della veste liturgica, bensì la volontà di sottolineare il rispetto dovuto, sia per la celebrazione liturgica sia per ogni altro tipo di incontro sociale. L’abito assumerà così la funzione di una divisa opportunamente indossata, che non manifesta una semplice caratteristica, ma il carattere sacro stesso, perché libera l’individuo dalle sue particolarità e lo rende “riflesso” di Colui in persona del quale egli agisce. Anche l’abito perciò si ritualizza, astraendo dal singolare e offrendo attraverso “il ruolo” una immagine trascendentale.

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Nel XIII secolo si sviluppa una simbologia che Giuseppe Braun [1] chiama tipico-rappresentativa perché in essa la persona del sacerdote rappresenta quella del Salvatore che soffre, e le vesti del sacerdote ricordano gli avvenimenti particolari della passione morte e risurrezione di Cristo. La contemplazione di questa varia simbologia sosteneva l’attenzione e la devozione dei fedeli, pazienti nell’assistere alla Santa Messa, in un ambito ricco della devozione che fa scoprire nelle cose sacre la risposta anche dottrinale ai propri bisogni spirituali.

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A rigor di logica, i secoli trascorsi che sanciscono la nostra tradizione culturale, fondata non su semplici ideali ma su precetti che evidenziano l’aspetto canonico di quella che è la religione cattolica, non può essere modificata per lasciarsi trascinare nell’oceano delle “mode” che, per quanto fonti di creatività, non hanno nulla a che vedere con la stabilità e la fondatezza di un paramento sacro della traditio catholica, nato e poi consumato per quel ruolo. Ritenere che l’abbigliamento sacro cattolico sia fenomeno sociale è una degenerazione dei costume del popolo occidentale, che vanta la tradizione millenaria di un Credo cattolico sancito nel 325 al Concilio di Nicea. Da allora, i paramenti sacri, sono assurti ad un significato preciso ricco di simbologie mistagogiche che non hanno nulla da spartire con la  moda destinata a cambiare col mutare della società e dei suoi gusti. La Chiesa, pastoralmente, segue i tempi, ma non per questo muta le verità della fede rivelata; perché la Chiesa in cammino è proiettata al di là del tempo verso una dimensione escatologica di eternità.

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In questa sfilata le modelle non sfoggiano l’abito chic, il tailleurs fashion, od il cappellino da cocktail per i pomeriggi all’aria aperta o per le serate gala, ma sono rivestite con paramenti della traditio catholica, in un ambito del tutto estraneo ed antitetico alla fede sulla quale questa traditio si edifica, finisce col figurare come una totale mancanza di rispetto verso l’arte sacra. Alla luce di tutto questo, come storico dell’arte mi corre l’obbligo di precisare che in questa “sfilata del secolo” è stato stravolto, de-qualificato e persino rivoluzionato il significato stesso di alcuni concetti fondamentali dell’arte. Se infatti pensiamo che tra i paramenti liturgici in generale, camici casule e stole, vi sono le tiare, la mitria ed i pastorali, classificati come «attributi iconografici» perché simbolicamente emblemi di riconoscimento di una data figura che occupa un ruolo di santità, è presto detto che appena questi accessori liturgici sono consegnati ad una qualsiasi figura femminile che solca una passerella, nello spettatore finisce con l’ingenerarsi una vera e propria confusione nella percezione di ciò che viene presentato alla sua vista. Non più quindi il pastorale che nella Pala di Brera  identificava  Giovanni il Battista [vedere QUI], o la mitria che identifica il vescovo, bensì accessori liturgici svuotati del loro significato mistagogico e finiti addosso ad una modella. E dinanzi a tutto questo, ci dovremmo interrogare sul ruolo svolto oggi dalla Chiesa Cattolica nella divulgazione del suo messaggio alla comunità.

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Leggiamo ancora in un articolo su questa mostra:

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«La mostra porta i visitatori a esplorare i confini tra sacro e profano: la corona di spine, trasformata in fascinator da Alexander McQueen, gli iconici capolavori dell’arte bizantina riprodotti da Dolce & Gabbana nella collezione “Monreale” autunno-inverno 2013/14. “Raccontiamo piccole storie”, spiega Bolton, curatore della mostra,  come con l’angelo di Thierry Mugler dalle ali di piume dorate o la “Giovanna d’Arco” del 1994 di John Galliano, stesa come un monumento sepolcrale di una chiesa. Sacro e profano occupano spazi separati. I prestiti del Vaticano ― tra queste le scarpe rosse di Giovanni Paolo Secondo ― sono esposti nelle sale del Constume Institute, “mostra nella mostra” rispetto al resto della rassegna dove l’iconico “Pretino” delle Sorelle Fontana evoca la surreale sfilata di moda ecclesiastica di Roma di Federico Fellini con i prelati sui pattini» [cf. QUI].

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Che sia un laico a fare uso dello stravagante binomio sacro e profano, come nel caso dello stilista, senza dubbio è curioso, oltre che inconsulto, ma soprattutto pare avere come fine quello di sbalordire l’opinione pubblica per fare scalpore e notizia con frasi di questo tipo: Santa Moda ora pro nobis «Siano lodati gli abiti e benedette le scarpe. Il nostro non è un lavoro, ma una vocazione». Così, esordiva infatti Stefano Gabbana alla fine della sfilata autunno inverno 2018, intitolata Fashion Devotion [cf. QUI]. Uno show dove in passerella erano state presentate le T-shirt con gli slogan «Santa Moda, ora pro nobis», «Fashion sinner», «Fashion Eden» e «Fashion is beauty» insieme a pantaloni stile guêpière, gonne di pizzo nero e mini dress attillati.

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Che sia però un Cardinale preposto alla presidenza di un Pontificio Consiglio della Santa Sede, ad affibbiare al generico significato del termine sacro tutti gli «strumenti» e paramenti cattolici nell’ampia spira del sacro, è invece dissacrante, non fa altro che lasciare sgomenti ed increduli. I paramenti liturgici, così definiti nella traditio catholica per differenziarli da quelli sacri in generale, intrisi di storia, valori culturali, da secoli custoditi all’interno della Sacrestia della Cappella Sistina, solcano le passerelle e finiscono indossati da chicchessia. E tutto ciò perché? Qual è il senso del messaggio cattolico?

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Mentre un tempo ciò che nel mondo artistico emergeva era proprio la competizione alla ricerca del bello all’interno dello stesso mondo ecclesiale e ecclesiastico, il post contemporaneo, richiede forse alla Chiesa un ruolo diverso? La Chiesa, per secoli grande mecenate dell’arte, sembra non essere più alla ricerca di queste espressioni del bello estetico che rappresenti il sacro ed i sacri misteri in generale, ma di ciò che fa più clamore, o peggio di ciò che fa più discutere. In tutto questo il paradosso è che la Chiesa sembra conformarsi a questo genere di volontà mondana perdendo il ruolo di maestra, per accettare i compromessi di una società che vuole a tutti i costi apparire nel modo più bizzarro possibile.

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Alla luce di questa mostra tutt’oggi in corso a New York, cosa è emerso a livello artistico, attraverso il coinvolgimento della Chiesa cattolica? Quello che sembra di fatto emergere è la cosiddetta commistione di «Stili» o di abiti che ha generata una contaminazione tra moda e fede. Tutto questo per andare forse al passo con i tempi, grazie ad una Chiesa che si piega ai capricci della società o della moda?

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Assistere alla presentazione di una mostra del genere, voluta dalla direttrice di Vogue America Anna Wintour, personaggio descritto nel film cult ad ella ispirato Il diavolo veste Prada, di cui è protagonista una donna cinicamente votata a qualsiasi azione pur di giungere allo scopo perseguito e la cui morale “irrisolta” è andare incontro al successo dimenticando i veri valori, non si concilia per niente con la Chiesa Cattolica, veste e ruolo della quale è certamente l’opposto di quello di Anna Wintour. Due figure antitetiche a confronto, tesi e antitesi. Ma la cosa stupefacente è che in questo caso sono però complici, o per usare il titolo di un altro film: Amici, complici, amanti.

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Vero scopo della mostra a New York sembra pertanto essere  il diavolo e l’acquasantaIl sacro e profano, mentre il bello ed il sacro finisce surclassato dalla volontà di far discutere, di entrare nella notizia e di far parte di un sistema gossip che ha il sapore della blasfemia, dove la sacralità finisce malamente sottomessa alla peggiore profanità mondana.

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Siracusa, 14 maggio 2018

 

 

*Storica dell’arte

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NOTE.

[1]Cf, G. Braun, I paramenti sacri. Loro uso storia e simbolismo, Marietti, Turín 1914. 

 

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2 commenti
  1. Claudia Ponce
    Claudia Ponce dice:

    La traducción pésima!!!
    El uso de material de culto católico con la finalidad anunciada, además de ofensivo para Dios, una idea nefasta!!!

  2. piertoussaint dice:

    Cara Licia,

    noi “sgomenti” e “increduli”?… Non direi… da un po’ di tempo a questa parte, siamo abituati a vedere di tutto e di più, nell’ammaloramento della nostra Chiesa cattolica. Anzi, è bene che queste posizioni vengano ben fuori alla luce del sole. Sarà il Padrone della Vigna, a dividere la zizzania dal grano. E allora sarà pianto e stridore di denti…

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