Dejad paso a nosotros, los fariseos, perfectos campeones de la pureza. – Apartarse, para nosotros los fariseos, campeones de la pureza, están pasando – ¡Apartaos, que pasamos, los fariseos, perfectos campeones de pureza!

Homilética de los Padres de la Isla de Patmos

italiano, inglés, español

 

FATECE LARGO CHE PASSAMO NOI FARISEI PERFETTI CAMPIONI DI PUREZZA

"Odio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladrones, injustos, adulterio, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».

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Come il Vangelo di domenica scorsa, anche questo della XXX domenica del tempo Ordinario contiene un insegnamento sulla preghiera. È affidato alla parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, un testo presente soltanto nel terzo vangelo.

Se Luca aveva specificato il fine per cui Gesù aveva raccontato la parabola della vedova insistente e del giudice iniquo, ovvero la necessità della preghiera perseverante (Lc 18,1); questa invece viene narrata avendo di mira dei destinatari precisi: «Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9). Alla luce di Lc 16,15 dove Gesù qualifica i farisei come coloro che «si ritengono giusti davanti agli uomini», si può pensare che il bersaglio del racconto siano appunto solo loro, ma l’atteggiamento preso di mira nella parabola è una stortura religiosa che si verifica ovunque e abita anche le comunità cristiane, ed è certamente a questi destinatari che pensa Luca scrivendo il suo vangelo. È importante precisare questo per evitare letture caricaturali dei farisei, che purtroppo non sono mancate nel cristianesimo proprio partendo dalla lettura di questa parabola. Ed ecco il testo evangelico:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: "Odio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladrones, injustos, adulterio, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: "Odio, sé propicio a mí, pecador! '. te digo: éstos, a diferencia de la otra, Bajó a su casa justificado, Porque el que se enaltece será humillado, el que se humilla será ensalzado " (Lc 18,9-14).

Il brano si lascia facilmente suddividere in tre parti: Una introduzione, di un versetto; una parabola di quattro versetti (v.v.. 10-13); e la conclusione, di Gesù: «Io vi dico». I protagonisti della parabola sono due uomini, che salgono al luogo più santo di Israele, il tempio. Il verbo salire non solo dice che il tempio si trovava in alto, su un monte, ma anche che per andare a Gerusalemme si ascende, quasi a indicare il modo, tambien fisico, di come ci si avvicina a Dio. Possiamo ricordare a tal proposito i «Salmi delle ascensioni», a partire dal Sal 120, pero también, en el evangelio, il buon Samaritano che si preoccupò dell’uomo incappato nei briganti mentre «scendeva da Gerusalemme a Gerico» (Lc 10,30). San Luca descrive qui due polarità opposte nel giudaismo del I secolo, mostrando così che i personaggi non sono scelti a caso. I farisei erano le persone più pie e devote, mentre gli esattori delle tasse erano spesso considerati ladri, una categoria di professionisti al soldo di Roma, come poteva essere stato Zaccheo di Gerico (Lc 19,1). Emerge anche che la preghiera al tempio poteva essere privata, mentre quella pubblica si teneva di mattino e alla sera, ed era regolata dalla liturgia templare.

Quindi abbiamo due uomini che si recano al tempio per pregare. Identico è il loro movimento, uguale il loro fine e medesimo è il luogo in cui si recano, eppure una grande distanza li separa. Essi sono vicini e al tempo stesso lontani, tanto che questa loro compresenza nel luogo di preghiera pone la domanda anche oggi, ai cristiani, di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno accanto all’altro in uno stesso luogo. È infatti possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e perfino dal disprezzo: «non sono come questo pubblicano» (v. 11). Le differenze tra i due personaggi sono rilevanti anche per la gestualità e le posture dei loro corpi e nel loro situarsi nello spazio sacro. Il pubblicano resta sul fondo, «si ferma a distanza» (v. 13), non osa avanzare, è abitato dal timore di chi non è abituato al luogo liturgico, china il capo a terra e si batte il petto pronunciando pochissime parole. Il fariseo, en cambio, esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro e prega stando in piedi a fronte alta, pronunciando molte e ricercate parole nel suo articolato ringraziamento. Questa coscienza di sé non ha nulla a che vedere con la giusta autostima, sino, sposandosi con il disprezzo per gli altri, si rivela essere un’arroganza ostentata, da parte di colui che forse così sicuro di sé non è, tanto che non fa albergare in sé dubbio alcuno. E la presenza degli altri serve a corroborare la sua coscienza di superiorità. Il verbo usato da Luca, exoutheneîn, tradotto con «disprezzare», significa letteralmente «ritenere niente», e sarà l’atteggiamento di Erode nei confronti di Gesù nel racconto della passione (Lc 23,11). La sicurezza nel condannare gli altri nel fariseo è necessaria per sostenere la sicurezza del proprio essere migliore e nel giusto.

Nelle parole del fariseo emerge anche quale immagine di Dio egli abbia. Egli prega «tra sé», cioè «rivolto a se stesso» (cf.. pròs eautòn de Lc 18,11) e la sua preghiera sembra dominata dall’ego. Formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia Dio non per ciò che ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così snaturato poiché il suo io si sostituisce a Dio e la sua preghiera finisce per essere un elenco di prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere «come gli altri uomini» (v. 11). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio tanto da impedirgli di vedere come un fratello colui che prega nel medesimo luogo e si sente così a posto che Dio non deve far altro che confermare ciò che egli è e fa: non necessita di conversione o cambiamento. Così Gesù rivela che lo sguardo di Dio non gradisce la sua preghiera: «il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (v. 14). Svelando al lettore la preghiera sommessa dei due personaggi della parabola, Luca compie un’incursione nella loro interiorità e nell’animo di chi prega, mostrando quel sottofondo dell’orazione che può fare tutt’uno con essa, oppure confliggere con essa. Si apre così, in questo brano, uno squarcio di luce sul cuore e sul profondo di chi prega, sui pensieri che lo abitano mentre è raccolto in preghiera. Si tratta di un’operazione audace ma importante, perché dietro alle parole che si pronunciano nella preghiera liturgica o personale spesso vi sono immagini, pensamientos, sentimenti che possono essere anche in clamorosa contraddizione con le parole che si pronunciano e con il significato dei gesti che si compiono.

È il rapporto fra preghiera e autenticità. La preghiera del fariseo è sincera, ma non veritiera. Lo è quella del pubblicano, mentre quella del fariseo permane solo sincera, in quanto esprime quel che quest’uomo crede e sente, portando alla luce però la patologia nascosta nelle sue parole. Él, es decir, credendo veramente a ciò che dice, mostra al contempo che quel che lo muove alla preghiera è l’intima convinzione che ciò che compie basti a giustificarlo. Perciò la sua convinzione è granitica e incrollabile. La sua personale sincerità è coerente con l’immagine di Dio che lo muove.

Sottolineiamo ancora il versetto 13, e cioè la postura e la preghiera del pubblicano che fa da contraltare a quella del fariseo. Rimane indietro, forse nello spazio più remoto rispetto all’edificio del tempio, non alza gli occhi al cielo, ma si riconosce peccatore battendosi il petto, al modo in cui Davide diceva: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13); come il «figliol prodigo» che dice: «Ho peccato contro il cielo e contro di te» (Lc 15,21). La preghiera del pubblicano non è centrata su di sé, ma chiede una sola cosa — misericordia — con l’espressione: «Abbi pietà», ilaskomai, que significa: propiziarsi, rendere benevolo, espiare i peccati. Il pubblicano non fa alcun confronto, si considera l’unico peccatore, un vero peccatore. Por fin, al v.14, incontriamo il commento di Gesù, il quale mette in rilievo chi è giustificato e chi no. La risposta inizia con l’espressione: «Io vi dico» (lego hymin), come a segnalare una conclusione significativa, una richiesta di attenzione solenne. Poi Gesù dice che dei due che erano saliti al tempio, solo il pubblicano ne discese giustificato. Il verbo usato da Gesù significa discendere a casa (en el CIS: «tornò a casa»). La preghiera del peccatore è accolta da Dio, quella del fariseo invece no perché questi non aveva nulla da chiedere. Dio invece accoglie sempre le richieste di perdono quando sono autentiche e questa parabola risulta essere dunque un ulteriore insegnamento sulla preghiera, come quella appena sopra, del giudice e della vedova.

Il lettore cristiano attraverso questa parabola comprende che l’autenticità della preghiera passa attraverso la qualità buona delle relazioni con gli altri che pregano con me e che con me formano il corpo di Cristo. E nello spazio cristiano, in cui Gesù Cristo è «l’immagine del Dio invisibile» (Columna 1,15), la preghiera è un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dall’immagine rivelata in Cristo e questi crocifisso (cf.. 1Cor 2,2), immagine che contesta tutte quelle contraffatte di Dio. Possiamo dire che l’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili, egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista, compiendo anche opere supererogatorie. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo, che richiede il distacco dagli altri. Oración, en cambio, suggerisce Luca, richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, todos'humus di cui siamo fatti. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità e si trova misericordia.

Desde la ermita, 26 de Octubre del 2025

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STAND ASIDE, FOR WE PHARISEES, CHAMPIONS OF PURITY, ARE COMING THROUGH

«O God, I thank Thee that I am not like other men — thieves, unjust, adulterers — nor even like this publican. I fast twice a week, and I pay tithes on all I possess».

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As in last Sunday’s Gospel, so too in that of this Thirtieth Sunday in Ordinary Time we find a teaching on prayer. It is conveyed through the parable of the Pharisee and the publican in the temple — a text found only in the third Gospel. If Saint Luke had specified the purpose for which Jesus told the parable of the persistent widow and the unjust judge, namely the necessity of persevering prayer (Lc 18:1), this one, en la otra mano, is told with certain hearers clearly in mind: “He also told this parable to some who were convinced of their own righteousness and despised others” (Lc 18:9). In the light of Luke 16:15, where Jesus describes the Pharisees as those “who justify themselves in the sight of men”, one might suppose that they alone are the intended target of the narrative. Yet the attitude denounced in the parable is a religious distortion that can arise anywhere — it inhabits even Christian communities — and it is surely to such as these that Luke directs his Gospel. It is important to make this clarification so as to avoid caricatured readings of the Pharisees, which unfortunately have not been lacking within Christianity, often beginning precisely from this parable. And here is the Gospel text itself:

“Two people went up to the temple area to pray; one was a Pharisee and the other was a tax collector. The Pharisee took up his position and spoke this prayer to himself, ‘O God, I thank you that I am not like the rest of humanity — greedy, dishonest, adulterous — or even like this tax collector. I fast twice a week, and I pay tithes on all I possess.’ But the tax collector stood off at a distance and would not even raise his eyes to heaven but beat his breast and prayed, ‘O God, be merciful to me a sinner ’. te digo, the latter went home justified, not the former; for whoever exalts himself will be humbled, and the one who humbles himself will be exalted”. (Lc 18:9–14).

The passage can easily be divided into three parts: an introduction of one verse; a parable of four verses (v.v.. 10–13); and the conclusion spoken by Jesus: “I tell you.”The protagonists of the parable are two men who go up to the holiest place in Israel, the Temple. The verb to go up indicates not only that the Temple stood on high, upon a mountain, but also that one ascends when going to Jerusalem — almost as though to suggest, even in bodily movement, the manner in which one draws near to God. In this regard we may recall the Psalms of Ascent, beginning with Psalm 120, and likewise, in the Gospel, the Good Samaritan who took care of the man fallen among robbers while “going down from Jerusalem to Jericho” (Lc 10:30). Saint Luke here depicts two opposing poles within first-century Judaism, showing that the characters were not chosen at random. The Pharisees were regarded as the most pious and devout, while the tax collectors were often seen as thieves — a class of professionals in the service of Rome, as Zacchaeus of Jericho may have been (Lc 19:1). It also becomes clear that prayer in the Temple could be private, while public prayer was held in the morning and in the evening and was governed by the Temple liturgy.

We thus have two men who go to the Temple to pray. Their movement is identical, their purpose the same, and the place to which they go is one and the same; yet a great distance separates them. They are close to each other and yet far apart, so that their being together in the place of prayer raises, even for us Christians today, the question of what it truly means to pray together — side by side, one beside another, in the same sacred space. It is indeed possible to pray next to someone and yet be separated by comparison, by rivalry, or even by contempt: “I am not like this tax collector” (v. 11). The differences between the two characters are also evident in their gestures, in the posture of their bodies, and in the way they situate themselves within the sacred space. The tax collector remains at the back, “standing at a distance” (v. 13); he does not dare to come forward, he is filled with the awe of one unaccustomed to the liturgical place; he bows his head to the ground and beats his breast, uttering but a few words. The Pharisee, en la otra mano, displays his assurance, his familiarity with the holy place; he prays standing upright, head held high, pronouncing many carefully chosen words in his elaborate thanksgiving. This self-awareness has nothing to do with proper self-respect; joined with contempt for others, it becomes a form of ostentatious arrogance — perhaps the posture of one who, en verdad, is not so sure of himself, and who harbours no doubt within. The presence of others serves only to confirm his sense of superiority. The verb used by Luke, exoutheneîn, translated as “to despise”, literally means “to regard as nothing”, and it will describe the attitude of Herod toward Jesus in the Passion narrative (Lc 23:11). The Pharisee’s certainty in condemning others is the very means by which he sustains the illusion of his own righteousness and superiority.

In the words of the Pharisee there also emerges the image of God that he bears within himself. He prays “to himself” — that is, “turned toward himself” (pros heautón, Lc 18:11) — and his prayer appears to be ruled entirely by the ego. Formally, he performs an act of thanksgiving, yet in truth he thanks God not for what God has done for him, but for what he does for God. The very meaning of thanksgiving is thus distorted, for his self takes the place of God, and his prayer becomes a catalogue of pious achievements and a self-satisfaction at not being “like other men” (v. 11). His exalted image of himself obscures that of God, to the point of preventing him from seeing as a brother the man who prays in the same holy place. He feels himself so perfectly righteous that God has nothing left to do but to confirm what he already is and does: he has no need of conversion, no need of change. Thus Jesus reveals that God’s gaze does not look with favour upon his prayer: “the tax collector went home justified, rather than the other” (v. 14). By unveiling for the reader the subdued prayer of the two figures in the parable, Luke ventures into their inner world — into the soul of the one who prays — showing that hidden background of prayer which may either be one with it or at odds with it. This passage thus opens a window of light upon the heart and the depths of the one who prays, upon the thoughts that dwell within him even as he stands in prayer. It is a bold but essential insight, for behind the words uttered in prayer — whether liturgical or personal — there often lie images, thoughts, and feelings that may stand in striking contradiction to the very words we speak and to the gestures we perform.

It is the relationship between prayer and authenticity. The prayer of the Pharisee is sincere, but not truthful. That of the tax collector is truthful, whereas the Pharisee’s remains merely sincere — in that it expresses what this man believes and feels, yet at the same time reveals the hidden pathology within his words. Believing truly what he says, he also shows that what moves him to pray is the inner conviction that what he does is sufficient to justify him. Hence his conviction is granite-like and unshakable. His personal sincerity is wholly consistent with the image of God that animates him.

Let us pause once more upon verse 13 — upon the posture and the prayer of the tax collector, which stands in direct contrast to that of the Pharisee. He remains at the back, perhaps in the most distant space of the Temple precincts; he does not lift his eyes to heaven but acknowledges himself as a sinner, beating his breast as David once said, “I have sinned against the Lord” (2 Sam 12:13); and as the prodigal hijo confessed, “I have sinned against heaven and against you” (Lc 15:21). The prayer of the tax collector is not centred upon himself; he asks only one thing — mercy — with the expression “Be merciful” (hilaskomai), which means to propitiate, to make favourable, to atone for sins. The tax collector makes no comparison; he considers himself the only sinner, a true sinner. Finalmente, in verse 14, we find the comment of Jesus, who indicates who is justified and who is not. His response begins with the expression “I tell you” (lego hymin), signalling a solemn conclusion, a call for attentive listening. Then Jesus declares that of the two who went up to the Temple, only the tax collector went down to his house justified. The verb used by Jesus means a go down to one’s house. The sinner’s prayer is received by God; the Pharisee’s is not, for he had nothing to ask. God, sin embargo, always welcomes the plea for forgiveness when it is sincere. This parable thus becomes yet another teaching on prayer — like the one just above, of the judge and the widow.

Through this parable, the Christian reader understands that the authenticity of prayer passes through the goodness and integrity of one’s relationships with others who pray alongside us and who, together with us, form the Body of Christ. In the Christian sphere, where Jesus Christ is “the image of the invisible God” (Columna 1:15), prayer becomes a process of continual purification of our images of God, beginning from the image revealed in Christ — and in Him crucified (cf. 1 Cor 2:2) — the image that contests and unmasks all false and distorted representations of God. The attitude of the Pharisee may be seen as emblematic of a religious type that replaces relationship with the Lord by measurable performance. He fasts twice a week and pays tithes on all he acquires, even undertaking works of supererogation. In place of a relationship with the Lord marked by the Spirit and by the gratuity of love, there arises a pursuit of sanctification through control — a striving that demands separation from others. Prayer, de lo contrario, as Luke suggests, requires humility. And humility is an adhesion to reality — to the poverty and smallness of the human condition, hacia humus from which we are made. It is the courageous knowledge of oneself before the God who has revealed Himself in the humility and self-emptying of the Son. Where there is humility, there is openness to grace, and there is charity, and mercy is found.

From the Hermitage October 26, 2025

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¡APARTAOS, QUE PASAMOS, LOS FARISEOS, PERFECTOS CAMPEONES DE PUREZA!

«Oh Dios, te doy gracias porque no soy como los demás hombres, ladrones, injustos, adúlteros, ni tampoco como este publicano. Ayuno dos veces por semana y pago el diezmo de todo cuanto poseo».

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Al igual que en el Evangelio del domingo pasado, también en el de este trigésimo domingo del Tiempo Ordinario encontramos una enseñanza sobre la oración. Se expresa a través de la parábola del fariseo y del publicano en el templo, un texto presente únicamente en el tercer Evangelio. Si san Lucas había precisado el propósito por el cual Jesús contó la parábola de la viuda perseverante y del juez inicuo — a saber, la necesidad de orar siempre sin desfallecer (Lc 18,1) -, en esta otra, en cambio, es narrada teniendo en mente unos destinatarios concretos: «Dijo también esta parábola para algunos que confiaban en sí mismos por considerarse justos y despreciaban a los demás» (Lc 18,9). A la luz de Lc 16,15, donde Jesús describe a los fariseos como aquellos «que se tienen por justos ante los hombres», podría pensarse que ellos son los únicos destinatarios del relato. Sin embargo, la actitud que se denuncia en la parábola es una distorsión religiosa que puede manifestarse en cualquier lugar; habita también en las comunidades cristianas, y es seguramente a estos destinatarios a quienes Lucas dirige su Evangelio. Es importante precisar esto para evitar lecturas caricaturescas de los fariseos, qué, por desgracia, no han faltado en el cristianismo, nacidas precisamente a partir de la interpretación de esta parábola. Y he aquí el texto evangélico:

«Dos hombres subieron al templo a orar; uno era fariseo y el otro publicano. El fariseo, erguido, oraba en su interior diciendo: “Oh Dios, te doy gracias porque no soy como los demás hombres, ladrones, injustos, adúlteros, ni tampoco como este publicano. Ayuno dos veces por semana y pago el diezmo de todo cuanto poseo”. Pero el publicano, manteniéndose a distancia, no se atrevía ni a alzar los ojos al cielo, sino que se golpeaba el pecho diciendo: “Oh Dios, ten compasión de mí, que soy un pecador”. Os digo que éste bajó a su casa justificado y aquél no; porque todo el que se ensalza será humillado, y el que se humilla será ensalzado» (Lc 18,9-14).

El pasaje puede dividirse fácilmente en tres partes: una introducción de un versículo; una parábola de cuatro versículos (v.v.. 10-13); y la conclusión pronunciada por Jesús: «Os digo». Los protagonistas de la parábola son dos hombres que suben al lugar más santo de Israel, el templo. El verbo subir indica no sólo que el templo se hallaba en lo alto, sobre un monte, sino también que para ir a Jerusalén se asciende, casi como para sugerir —incluso en el movimiento físico — el modo en que uno se aproxima a Dios. A este propósito podemos recordar los Salmos de las subidas, comenzando por el Salmo 120, y también, en el Evangelio, la figura del buen samaritano que se apiadó del hombre que cayó en manos de los bandidos mientras «bajaba de Jerusalén a Jericó» (Lc 10,30). San Lucas presenta aquí dos polos opuestos dentro del judaísmo del siglo I, mostrando así que los personajes no fueron elegidos al azar. Los fariseos eran considerados las personas más piadosas y devotas, mientras que los recaudadores de impuestos eran con frecuencia vistos como ladrones: una clase de profesionales al servicio de Roma, como podía haber sido Zaqueo de Jericó (Lc 19,1). En este pasaje se hace también presente que la oración en el templo podía ser privada, mientras que la oración pública se celebraba por la mañana y por la tarde, y estaba regulada por la liturgia del templo.

Tenemos, pues, a dos hombres que suben al templo para orar. Idéntico es su movimiento, igual su propósito y el mismo el lugar al que se dirigen; sin embargo, una gran distancia los separa. Están próximos y al mismo tiempo distantes, de modo que su presencia conjunta en el lugar de oración plantea también hoy, a los cristianos, la pregunta de qué significa verdaderamente orar juntos, uno al lado del otro, en un mismo espacio sagrado. En efecto, es posible orar junto a otro y, sin embargo, estar separados por la comparación, la rivalidad o incluso el desprecio: «No soy como este publicano» (v. 11).

Las diferencias entre los dos personajes son notables también en los gestos, en la postura de sus cuerpos y en la manera en que se sitúan dentro del espacio sagrado. El publicano permanece al fondo, «manteniéndose a distancia» (v. 13); no se atreve a avanzar, está habitado por el temor de quien no está acostumbrado al lugar litúrgico; inclina la cabeza hacia la tierra y se golpea el pecho pronunciando apenas unas pocas palabras. El fariseo, en cambio, manifiesta su seguridad, su condición de habituado al lugar santo; ora erguido, con la frente en alto, pronunciando muchas palabras cuidadosamente escogidas en su elaborado agradecimiento. Esta conciencia de sí mismo no tiene nada que ver con una justa autoestima; unida al desprecio por los demás, se revela en una forma de arrogancia ostentosa quizás por parte de alquien que en realidad, no está tan seguro de sí mismo, hasta el punto que no alberga duda alguna en su interior. La presencia de los otros le sirve sólo para reforzar su conciencia de superioridad. El verbo empleado por Lucas, exoutheneín, traducido como «despreciar», significa literalmente «considerar como nada», y describe la actitud de Herodes hacia Jesús en el relato de la Pasión (Lc 23,11). La seguridad del fariseo al condenar a los demás es el medio por el cual sostiene la ilusión de su propia rectitud y superioridad.

En las palabras del fariseo se revela también la imagen de Dios que lleva dentro de sí. Ora «consigo mismo», es decir, «dirigido hacia sí mismo» (pròs heautón, Lc 18,11), y su oración parece dominada por el ego. Formalmente realiza una acción de gracias, pero en realidad da gracias a Dios no por lo que Dios ha hecho por él, sino por lo que él hace por Dios. El sentido del agradecimiento queda así desnaturalizado, pues su propio yo ocupa el lugar de Dios, y su oración se convierte en un catálogo de prácticas piadosas y en una autocomplacencia por no ser «como los demás hombres» (v. 11). La imagen engrandecida de sí mismo oscurece la de Dios hasta el punto de impedirle ver como hermano al que ora en el mismo lugar santo. Se siente tan justo que Dios no tiene otra cosa que hacer sino confirmar lo que él ya es y hace: no necesita conversión ni cambio alguno. Así, Jesús revela que la mirada de Dios no se complace en su oración: «El publicano bajó a su casa justificado, y el otro no» (v. 14). Al desvelar al lector la oración silenciosa de los dos personajes de la parábola, Lucas penetra en su mundo interior — en el alma de quien ora — mostrando ese trasfondo de la oración que puede coincidir con ella o estar en conflicto con ella. Este pasaje abre, por tanto, una rendija de luz sobre el corazón y las profundidades de quien ora, sobre los pensamientos que lo habitan incluso mientras está recogido en oración.
Se trata de una observación audaz, pero necesaria, porque detrás de las palabras pronunciadas en la oración — sea litúrgica o personal — suelen esconderse imágenes, pensamientos y sentimientos que pueden estar en flagrante contradicción con las propias palabras que se dicen y con el significado de los gestos que se realizan.

Se trata de la relación entre la oración y la autenticidad. La oración del fariseo es sincera, pero no veraz. La del publicano en cambio, es veraz, mientras que la del fariseo permanece meramente sincera, en la medida en que expresa lo que este hombre cree y siente, pero al mismo tiempo pone al descubierto la patología oculta en sus palabras. Creyendo verdaderamente en lo que dice, muestra también que lo que le impulsa a orar es la íntima convicción de que cuanto realiza basta para justificarlo. Por eso su convicción es granítica e inquebrantable. Su sinceridad personal es plenamente coherente con la imagen de Dios que lo mueve.

Detengámonos una vez más en el versículo 13, en la postura y en la oración del publicano, que sirven de contrapeso a las del fariseo. Permanece atrás, quizá en el espacio más alejado del recinto del templo; no alza los ojos al cielo, sino que se reconoce pecador golpeándose el pecho, al modo en que David decía: «He pecado contra el Señor» (2 Sam 12,13); y como el hijo pródigo confesaba: «He pecado contra el cielo y contra ti» (Lc 15,21). La oración del publicano no está centrada en sí mismo; pide una sola cosa —misericordia— con la expresión «Ten compasión» (hilaskomai), que significa propiciar, hacerse favorable, expiar los pecados. El publicano no establece comparaciones; se considera el único pecador, un verdadero pecador. Finalmente, en el versículo 14, encontramos el comentario de Jesús, que destaca quién queda justificado y quién no. Su respuesta comienza con la expresión «Os digo» (lego hymin), como para señalar una conclusión significativa, una invitación a la escucha atenta. Después, Jesús declara que de los dos que subieron al templo, sólo el publicano bajó a su casa justificado. El verbo empleado por Jesús significa descender a casa. La oración del pecador es acogida por Dios; la del fariseo, en cambio, no, porque éste no tenía nada que pedir. Dios, sin embargo, acoge siempre las súplicas de perdón cuando son auténticas. Esta parábola se convierte así en una nueva enseñanza sobre la oración, al igual que la anterior, la del juez y la viuda.

A través de esta parábola, el lector cristiano comprende que la autenticidad de la oración pasa por la calidad y la bondad de las relaciones con los demás que oran conmigo y que, junto conmigo, forman el Cuerpo de Cristo. En el ámbito cristiano, donde Jesucristo es «la imagen del Dios invisible» (Columna 1,15), la oración se convierte en un proceso de continua purificación de nuestras imágenes de Dios, a partir de la imagen revelada en Cristo — y en Él crucificado (cf. 1 Cor 2,2) -, imagen que cuestiona y desenmascara todas las representaciones falsas y distorsionadas de Dios. La actitud del fariseo puede considerarse emblemática de un tipo religioso que sustituye la relación con el Señor por rendimientos cuantificables. Ayuna dos veces por semana y paga el diezmo de todo lo que adquiere, realizando incluso obras supererogatorias. En lugar de una relación con el Señor bajo el signo del Espíritu y de la gratuidad del amor, aparece una forma de búsqueda de santificación mediante el control, que exige el distanciamiento de los demás. La oración, en cambio — como sugiere Lucas —, requiere humildad. Y la humildad es adhesión a la realidad, a la pobreza y pequeñez de la condición humana, al humus del que estamos hechos. Es el valiente conocimiento de uno mismo ante el Dios que se ha manifestado en la humildad y el anonadamiento del Hijo. Donde hay humildad, hay apertura a la gracia, hay caridad y se encuentra la misericordia.

Desde el Ermitorio, 26 de octubre de 2025

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Cueva de Sant'Angelo en Maduro (Civitella del Tronto)

 

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Los Padres de la Isla de Patmos

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La fe como resistencia en la noche de Dios. «Cuando venga el hijo del hombre, ¿hallará fe en la tierra?» – La fe como resistencia en la noche de Dios. “Cuando venga el Hijo del Hombre, ¿Encontrará fe en la tierra??” – La fe en cuanto resistencia en la noche de Dios. «Cuando venga el hijo del hombre, ¿encontrará fe sobre la tierra?»

Homilético de los padres de la isla de Patmos

Homilética de los Padres de la Isla de Patmos

(italiano, Inglés, Español)

 

LA FE COMO RESISTENCIA EN LA NOCHE DE DIOS. «CUANDO VENGA EL HIJO DEL HOMBRE, ENCONTRARÁ FE EN LA TIERRA?»

Quando il Figlio dell’uomo verrà, tal vez no encuentre muchas obras, ni muchas instituciones se mantuvieron fuertes; ma se troverà un piccolo resto che ancora crede, spera e ama, allora la sua domanda avrà già trovato risposta. Perché anche una sola fede viva, anche un solo cuore che continua a pregare nella notte, è sufficiente a tenere accesa la lampada della Chiesa.

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La frase conclusiva di questo passo lucano suscita nel mio animo cristiano e sacerdotale timore e tremore. La parabola del giudice e della vedova non termina con una consolazione, ma con una domanda.

Gesù non promette tempi migliori, né garantisce che la giustizia di Dio si manifesterà secondo le nostre attese; lascia invece un interrogativo sospeso, che attraversa i secoli e si posa su ogni generazione: «Quando il Figlio dell’uomo verrà, ¿hallará fe en la tierra?».

Dal Vangelo secondo Luca (18, 1-8) — «In quel tempo, Jesús dijo a sus discípulos una parábola sobre la necesidad de orar, senza stancarsi mai: “In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: ‘Fammi giustizia contro il mio avversario’. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”. E il Signore soggiunse: “Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. Y Dios no hará justicia a sus elegidos, que claman a él día y noche? Puede hacerlos esperar mucho tiempo.? les digo que les hará justicia prontamente. Pero el Hijo del Hombre, cuando vendrá, ¿hallará fe en la tierra?”».

Questa domanda è il sigillo drammatico del Vangelo del beato evangelista Luca, perché rivela il paradosso della fede cristiana: Dio è fedele, ma spesso non lo è l’uomo. Il rischio non è che Dio si dimentichi dell’uomo, bensì che l’uomo si stanchi di Dio. Per questo Gesù parla della necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: non perché Dio sia sordo, ma perché la preghiera custodisce viva la fede in un tempo che la consuma sino a svuotarla, specie in questa nostra Europa senza memoria, che rinnega le proprie radici cristiane in modo talora violento e distruttivo.

La vedova di questa parabola rappresenta l’anima sofferente della Chiesa corpo mistico di Cristo: fragile, ma ostinata. Nel silenzio continua a bussare alla porta del giudice, anche quando tutto sembra inutile. È la fede che non cede alla tentazione dell’indifferenza; è la fede che resiste nella notte dell’apparente assenza di Dio. E Dio non è come il giudice disonesto, ma a volte mette alla prova la fede proprio nel momento in cui sembra comportarsi come tale: Es silencioso, No contesta, ritarda la giustizia. È qui che la preghiera perseverante diventa atto di fiducia pura, una ribellione silenziosa contro la disperazione.

Quando Gesù domanda se, al suo ritorno, ¿hallará fe en la tierra, non parla di una credenza vaga o di un sentimento religioso; parla della fede che resiste, quella che rimane salda anche quando ogni apparenza di religione sembra dissolversi, quella fede che è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (cf.. Eb 11,1); quella fede che ci renderà beati perché pur non avendo visto abbiamo creduto (cf.. Juan 20,29). È la fede di Abramo, che crede contro ogni speranza (cf.. Rm 4,18); la fede della vedova che continua a chiedere giustizia (cf.. Lc 18,3); la fede della Chiesa che non smette di pregare anche quando il mondo si fa beffe di lei.

La vera minaccia non è l’ateismo diffuso nel mondo, ma quello sempre più diffuso all’interno della Chiesa visibile: el ateísmo religioso, conseguenza estrema dell’apatia spirituale che erode il cuore e trasforma la fede in abitudine e la speranza in cinismo. Y sin embargo,, è proprio in questo deserto che si rivela la fedeltà di Dio: quando tutto sembra morto il seme della fede sopravvive nascosto nella terra, come un germe silenzioso che attende la primavera di Dio.

Nel rito penitenziale confessiamo di aver peccato in pensieri, palabras, obras y omisiones. Tra questi peccati l’omissione è forse il più grave, perché racchiude la radice di tutti gli altri, un po’ come la superbia, che è regina e sintesi di tutti i peccati capitali. E della frase drammatica che chiude questo passo evangelico — insieme ermetica ed enigmatica — il peccato di omissione n’è, en su propio modo, paradigma. Basti pensare solo a quanti, davanti al disordine e alla decadenza che da decenni affliggono la Chiesa, si lavano le mani come Pilato nel pretorio, diciendo: "La Iglesia es Cristo, ed è governata dallo Spirito Santo». Come se bastasse questa formula per giustificare l’inerzia e la mancata assunzione di ogni resposabilità. La casa arde, ma ci rassicuriamo dicendo: «È sua, ci penserà Lui. Non ha forse promesso che le porte degli inferi non prevarranno?».

Siamo di fronte alla santificazione dell’impotenza, a la “teología” del “mi faccio i fatti miei” travestita da fiducia nella Provvidenza. Quando poi i problemi non possono essere in alcun modo negati ed elusi, si è persino capaci ad affermare: «Ci penseranno quelli che verranno dopo di noi», un vero e proprio trionfo dello spirito irresponsabile più nefasto.

Se la domanda di Cristo — «Quando il Figlio dell’uomo verrà, ¿hallará fe en la tierra?» — la inserissimo in questo contesto realistico, ne emergerebbe un’eco inquietante. Sí, il Signore ha promesso «no praevalebunt» e certamente, al suo ritorno, troverà ancora la Chiesa. Ma quale Chiesa? Perché potrebbe trovare anche una Chiesa visibile svuotata di Cristo — di cui talvolta sembriamo quasi vergognarci — e riempita di altro: di umanitarismo senza grazia, di giustizia senza verità e diritto, di spiritualità senza SpiritoUna Chiesa che esiste ancora nella sua forma esteriore, ma che rischia di non avere più fede.

es este, Tal vez, è la più terribile tra le profezie implicite di quella domanda: che la fede possa scomparire non dal mondo, ma proprio dalla Chiesa. Anche di fronte a questa possibilità inquietante — che il Figlio dell’uomo possa trovare una fede affievolita, quasi spenta — il Vangelo non ci abbandona alla paura, ma ci richiama alla speranza che non delude. La fede autentica non è un possesso stabile, è una grazia da custodire e rinnovare ogni giorno. Come il respiro, essa vive solo nella continuità: se si interrompe, muere. Per questo la preghiera diventa l’atto più alto di resistenza spirituale: pregare non significa ricordare a Dio la nostra esistenza, ma ricordare a noi stessi che Dio esiste e che la sua fedeltà precede ogni nostra infedeltà.

Quando la fede sembra venir meno nella Chiesa, Dio non cessa di suscitarla nei piccoli, negli umili, nei poveri che gridano giorno e notte verso di Lui. È questa la logica del Regno: mentre le strutture si irrigidiscono e gli uomini si distraggono, lo Spirito continua a soffiare nei cuori silenziosi che credono anche senza vedere. Dove l’istituzione appare stanca e decadente, Dio resta vivo nel suo popolo. Dove la parola tace, la fede continua a sussurrare.

La domanda di Cristo — «Troverò la fede sulla terra?» — non è una condanna, ma un invito e al tempo stesso una sfida: “Conserverai la fede quando tutto intorno sembrerà perduto?” È un appello a rimanere desti nella notte, a non delegare ad altri la responsabilità di credere. Il Figlio dell’uomo non chiede una Chiesa trionfante nel senso mondano o politico del termine, ma una Chiesa che veglia, che non smette di bussare, che persevera nella preghiera come la vedova della parabola. E quella vedova, simbolo della Chiesa povera e fedele, ci insegna che il miracolo della fede non consiste nel cambiare Dio, ma nel lasciarci cambiare da Lui, fino a diventare noi stessi preghiera vivente.

Quando il Figlio dell’uomo verrà, forse non troverà molte opere né molte istituzioni rimaste salde; ma se troverà un piccolo resto che ancora crede, spera e ama, allora la sua domanda avrà già trovato risposta. Perché anche una sola fede viva, anche un solo cuore che continua a pregare nella notte, è sufficiente a tenere accesa la lampada della Chiesa.

Alabado sea Jesucristo!

Desde la isla de Patmos, 20 de Octubre del 2025

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FAITH AS RESISTANCE IN THE NIGHT OF GOD. “WHEN THE SON OF MAN COMES, WILL HE FIND FAITH ON EARTH?"

When the Son of Man comes, He may perhaps find few works and few institutions still standing firm; yet if He finds a small remnant that still believes, hopes, and loves, then His question will already have found its answer. For even a single living faith, even a single heart that continues to pray in the night, is enough to keep the lamp of the Church burning.

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The concluding sentence of this Lucan passage awakens within my Christian and priestly soul a sense of awe and trembling. The parable of the judge and the widow does not end with consolation, but with a question. Our Lord does not promise brighter days, nor does He assure us that the justice of God will manifest itself according to our expectations; bastante, He leaves a question suspended in the air — one that travels through the centuries and settles upon every generation: "When the Son of Man comes, will He find faith upon the earth?"

From the Gospel according to Luke (18:1-8) — At that time Jesus told His disciples a parable about the necessity of praying always without becoming weary. “In a certain city there was a judge who neither feared God nor respected any human being. And there was a widow in that city who kept coming to him and saying, ‘Render a just decision for me against my adversary.’ For a long time he was unwilling, but eventually he thought, ‘Even though I neither fear God nor respect any human being, because this widow keeps bothering me I shall deliver a just decision for her lest she finally come and strike me.’” And the Lord said, “Pay attention to what the dishonest judge says. Will not God then secure the rights of His chosen ones who call out to Him day and night? Will He be slow to answer them? te digo, He will see to it that justice is done for them speedily. But when the Son of Man comes, will He find faith on earth?"

This question stands as the dramatic seal of the Gospel according to the blessed Evangelist Luke, for it discloses the paradox at the heart of Christian faith: God remains faithful, yet man so often does not. The danger is not that God should forget man, but that man should grow weary of God. Hence our Lord speaks of the need to pray always and never lose heart — not because God is deaf, but because prayer keeps faith alive in an age that exhausts and empties it, especially in this Europe of ours, grown amnesiac and intent on denying its Christian roots.

The widow in this parable represents the suffering soul of the Church, the Mystical Body of Christ: fragile, yet unyielding. In silence she keeps knocking at the judge’s door, even when all seems futile. Hers is the faith that does not yield to indifference; the faith that endures through the night of God’s apparent absence. And God, though unlike the unjust judge, at times tests faith precisely in the moment when He seems to act as one: He keeps silence, He withholds His answer, He delays justice. It is there that persevering prayer becomes an act of pure trust — a silent rebellion against despair.

When Jesus asks whether, at His return, He will find faith upon the earth, He is not speaking of a vague belief or a mere religious sentiment; He is speaking of the faith that endures — the faith that remains steadfast even when every outward form of religion seems to dissolve. It is that faith which is “the assurance of things hoped for, the conviction of things not seen” (cf. Heb 11:1); the faith that will make us blessed, “for having not seen, we have yet believed” (cf. Jn 20:29). It is the faith of Abraham, who “hoped against hope” (cf. ROM 4:18); the faith of the widow who continues to plead for justice (cf. Lc 18:3); the faith of the Church that does not cease to pray even when the world mocks her.

The true menace is not the atheism that pervades the world, but the one that spreads ever more within the visible Church — an ecclesiastical atheism, the ultimate consequence of spiritual apathy that corrodes the heart, turning faith into habit and hope into cynicism. Yet it is precisely in this desert that the faithfulness of God is revealed: when all seems dead, the seed of faith survives hidden within the soil, like a silent germ awaiting the springtime of God.

In the penitential rite we confess that we have sinned in thought, word, deed, and omission. Among these sins, omission is perhaps the most grievous, for it encloses within itself the root of all the others — much as pride, queen and synthesis of the capital sins, contains them all. The dramatic phrase that closes this Gospel passage — at once hermetic and enigmatic — finds in the sin of omission its fitting paradigm.

Consider, por ejemplo, how many, faced with the disorder and decay that for decades have afflicted the Church, wash their hands like Pilate in the praetorium, dicho: “The Church belongs to Christ, and it is governed by the Holy Spirit.” As though that formula were sufficient to justify their inertia. The house is ablaze, yet we console ourselves by saying: “It is His; He will see to it. Did He not promise that the gates of hell shall not prevail?"

We are witnessing the sanctification of impotence — a theology of minding one’s own business disguised as trust in Providence. It is an evasion of responsibility that masquerades as faith. When problems cannot be denied or avoided in any way, we are even capable of saying: “Those who come after us will take care of it”, a true triumph of the most nefarious irresponsible spirit.

If we were to set Christ’s question — “When the Son of Man comes, will He find faith upon the earth?” — within this realistic context, an unsettling echo would emerge. sí, the Lord has promised no praevalebunt, and assuredly, at His return, He will find the Church still standing. But which Church? For He may find, bastante, a visible Church emptied of Christ — of whom at times we seem almost ashamed — and filled instead with something else: humanism without grace, diplomacy without truth, spirituality without the Spirit. A Church that yet exists in its outward form, but one that risks no longer possessing faith.

And this, perhaps, is the most terrible of all the prophecies implicit in that question: that faith might vanish not from the world, but from the very house of God. Even in the face of this disquieting possibility — that the Son of Man might find a faith grown dim, almost extinguished — the Gospel does not abandon us to fear; it recalls us instead to the hope that does not disappoint.

True faith is not a stable possession; it is a grace to be guarded and renewed each day. Like breath, it lives only in its continuity: if it ceases, it dies. This is why prayer becomes the highest act of spiritual resistance: to pray does not mean to remind God of our existence, but to remind ourselves that God exists, and that His faithfulness precedes every one of our infidelities.

When faith seems to falter within the Church, God does not cease to awaken it in the little ones, in the humble, in the poor who cry to Him day and night. This is the logic of the Kingdom: while structures grow rigid and men grow distracted, the Spirit continues to breathe within silent hearts that believe without seeing. Where the institution appears weary, God remains alive in His people. Where the word falls silent, faith continues to whisper.

The question of Christ - "Will I find faith upon the earth?" — is not a condemnation but an invitation: "Will you keep the faith when all around you seems lost?". It is a summons to remain awake in the night, not to delegate to others the responsibility of believing. The Son of Man does not ask for a triumphant Church in the worldly or political sense of the term, but for a Church that keeps vigil, that does not cease to knock, that perseveres in prayer like the widow of the parable. And that widow, symbol of the poor and faithful Church, teaches us that the miracle of faith does not consist in changing God, but in allowing ourselves to be changed by Him — until we ourselves become living prayer.

When the Son of Man comes, He may perhaps find few works and few institutions still standing firm; yet if He finds a small remnant that still believes, hopes, and loves, then His question will already have found its answer. For even a single living faith, even a single heart that continues to pray in the night, is enough to keep the lamp of the Church burning.

Praised be Jesus Christ!

De la isla de Patmos, 20 Octubre 2025

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LA FE EN CUANTO RESISTENCIA EN LA NOCHE DE DIOS. «CUANDO VENGA EL HIJO DEL HOMBRE, ¿ENCONTRARÁ FE SOBRE LA TIERRA

Cuando venga el Hijo del hombre, quizá no encuentre muchas obras ni muchas instituciones que permanezcan firmes; pero si halla un pequeño resto que aún cree, espera y ama, su pregunta habrá encontrado ya la respuesta. Porque incluso una sola fe viva, incluso un solo corazón que continúa orando en la noche, basta para mantener encendida la lámpara de la Iglesia.

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La frase conclusiva de este pasaje lucano suscita en mi ánimo cristiano y sacerdotal temor y temblor. La parábola del juez y de la viuda no termina con una consolación, sino con una pregunta. Jesús no promete tiempos mejores ni garantiza que la justicia de Dios se manifestará según nuestras expectativas; deja, más bien, un interrogante suspendido que atraviesa los siglos y se posa sobre cada generación: «Cuando venga el Hijo del hombre, ¿encontrará fe sobre la tierra?».

Del Santo Evangelio según san Lucas (18, 1-8) — En aquel tiempo, Jesús les decía a sus discípulos una parábola sobre la necesidad de orar siempre sin desfallecer: «Había en una ciudad un juez que ni temía a Dios ni respetaba a los hombres. En aquella misma ciudad había una viuda que acudía a él diciendo: “Hazme justicia contra mi adversario”. Por algún tiempo se negó, pero después se dijo a sí mismo: “Aunque no temo a Dios ni respeto a los hombres, como esta viuda me está fastidiando, le haré justicia para que no venga continuamente a importunarme”» Y el Señor añadió: «Fijaos en lo que dice el juez injusto; pues Dios, ¿no hará justicia a sus elegidos que claman a él día y noche? ¿Les hará esperar? Os digo que les hará justicia pronto. Pero cuando venga el Hijo del hombre, ¿encontrará esta fe en la tierra?».

Esta pregunta es el sello dramático del Evangelio del beato evangelista Lucas, porque revela el paradigma de la fe cristiana: Dios permanece fiel, pero con frecuencia el hombre no lo es. El riesgo no consiste en que Dios olvide al hombre, sino en que el hombre se canse de Dios.

Por eso Jesús habla de la necesidad de orar siempre, sin desfallecer: no porque Dios sea sordo, sino porque la oración mantiene viva la fe en un tiempo que la desgasta hasta vaciarla, especialmente en esta Europa nuestra, sin memoria, que reniega de sus raíces cristianas y pretende construir un mundo donde Dios ya no tenga lugar.

La viuda de esta parábola representa el alma sufriente de la Iglesia, Cuerpo Místico de Cristo: frágil, pero obstinada. En silencio continúa llamando a la puerta del juez, aun cuando todo parece inútil. Es la fe que no cede a la tentación de la indiferencia; la fe que resiste en la noche de la aparente ausencia de Dios. Y Dios no es como el juez injusto, pero a veces pone a prueba la fe precisamente en el momento en que parece comportarse como tal: calla, no responde, retrasa la justicia. Es entonces cuando la oración perseverante se convierte en un acto de confianza pura, una rebelión silenciosa contra la desesperación.

Cuando Jesús pregunta si, a su regreso, encontrará la fe sobre la tierra, no habla de una creencia vaga ni de un sentimiento religioso; habla de la fe que resiste, aquella que permanece firme incluso cuando toda apariencia de religión parece disolverse; esa fe que es “fundamento de lo que se espera y garantía de lo que no se ve” (cf. Heb 11,1); esa fe que nos hará bienaventurados porque, “sin haber visto, hemos creído” (cf. Jn 20,29). Es la fe de Abraham, que “creyó esperando contra toda esperanza” (cf. ROM 4,18); la fe de la viuda que sigue pidiendo justicia (cf. Lc 18,3); la fe de la Iglesia que no deja de orar incluso cuando el mundo se burla de ella.

La verdadera amenaza no es el ateísmo extendido en el mundo, sino aquel que se difunde cada vez más dentro de la Iglesia visible: el ateísmo eclesiástico, consecuencia extrema de la apatía espiritual que erosiona el corazón y transforma la fe en costumbre y la esperanza en cinismo. Y, sin embargo, es precisamente en este desierto donde se revela la fidelidad de Dios: cuando todo parece muerto, la semilla de la fe sobrevive oculta en la tierra, como un germen silencioso que espera la primavera de Dios.

En el rito penitencial confesamos haber pecado de pensamiento, palabra, obra y omisión. Entre estos pecados, la omisión es quizá el más grave, porque encierra en sí la raíz de todos los demás, del mismo modo que la soberbia, reina y síntesis de todos los pecados capitales, los contiene a todos. Y la frase dramática que cierra este pasaje evangélico — a la vez hermética y enigmática — tiene en el pecado de omisión, a su modo, su paradigma.

Basta pensar en cuantos, ante el desorden y la decadencia que desde hace décadas afligen a la Iglesia, se lavan las manos como Pilato en el pretorio diciendo: «La Iglesia es de Cristo y está gobernada por el Espíritu Santo». Como si bastara esa fórmula para justificar la inercia. La casa está en llamas, pero nos tranquilizamos diciendo: «Es suya, Él se ocupará. ¿Acaso no prometió que las puertas del infierno no prevalecerán?».

Estamos ante la santificación de la impotencia, ante una teología del “yo me ocupo de lo mío” disfrazada de confianza en la Providencia. Es una huida de la responsabilidad que pretende presentarse como fe. Cuando los problemas no se pueden negar ni evitar de ninguna manera, somos capaces incluso de decir: “Los que vengan después de nosotros se encargarán de ello”, verdadero triunfo del más nefasto espíritu irresponsable.

Si insertáramos la pregunta de Cristo — «Cuando venga el Hijo del hombre, ¿encontrará fe sobre la tierra?» — en este contexto realista, resonaría en ella un eco inquietante. Sí, el Señor ha prometido no praevalebunt y, ciertamente, a su regreso encontrará todavía a la Iglesia. Pero ¿qué Iglesia? Porque podría encontrar también una Iglesia visible vaciada de Cristo — de quien a veces parecemos casi avergonzarnos — y llena de otra cosa: de humanitarismo sin gracia, de diplomacia sin verdad, de espiritualidad sin Espíritu. Una Iglesia que sigue existiendo en su forma exterior, pero que corre el riesgo de no tener ya fe.

Y ésta es quizá la más terrible de las profecías implícitas en aquella pregunta: que la fe pueda desaparecer no del mundo, sino precisamente de la casa de Dios. Aun ante esta posibilidad inquietante — que el Hijo del hombre pueda hallar una fe debilitada, casi extinguida —, el Evangelio no nos abandona al temor, sino que nos llama a la esperanza que no defrauda.

La fe auténtica no es una posesión estable; es una gracia que debe custodiarse y renovarse cada día. Como el aliento, sólo vive en la continuidad: si se interrumpe, muere. Por eso la oración se convierte en el acto más alto de resistencia espiritual: orar no significa recordarle a Dios nuestra existencia, sino recordarnos a nosotros mismos que Dios existe, y que su fidelidad precede a todas nuestras infidelidades.

Cuando la fe parece desfallecer en la Iglesia, Dios no deja de suscitarla en los pequeños, en los humildes, en los pobres que claman a Él día y noche. Ésta es la lógica del Reino: mientras las estructuras se endurecen y los hombres se distraen, el Espíritu continúa soplando en los corazones silenciosos que creen sin haber visto. Donde la institución parece cansada, Dios sigue vivo en su pueblo. Donde la palabra calla, la fe sigue susurrando.

La pregunta de Cristo — «¿Encontraré fe sobre la tierra?» — no es una condena, sino una invitación: «¿Conservarás la fe cuando todo a tu alrededor parezca perdido?» Es un llamado a permanecer despiertos en la noche, a no delegar en otros la responsabilidad de creer. El Hijo del hombre no pide una Iglesia triunfante en el sentido mundano o político del término, sino una Iglesia que vela, que no deja de llamar a la puerta, que persevera en la oración como la viuda de la parábola. Y esa viuda, símbolo de la Iglesia pobre y fiel, nos enseña que el milagro de la fe no consiste en cambiar a Dios, sino en dejarnos cambiar por Él, hasta convertirnos nosotros mismos en oración viviente.

Cuando venga el Hijo del hombre, tal vez no encuentre muchas obras ni muchas instituciones que permanezcan firmes; pero si halla un pequeño resto que todavía cree, espera y ama, su pregunta habrá encontrado ya la respuesta. Porque incluso una sola fe viva, incluso un solo corazón que continúa orando en la noche, basta para mantener encendida la lámpara de la Iglesia.

¡Alabado sea Jesucristo!

Desde La Isla de Patmos, 20 de octubre de 2025

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Los Padres de la Isla de Patmos

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El pecado de Sodoma y ese deseo no expresado de gay-izar la Sagrada Escritura y legitimar la homosexualidad dentro de la iglesia y el clero — El pecado de Sodoma y ese deseo inexpresado de hacer gay la Sagrada Escritura y legalizar la homosexualidad dentro de la iglesia y el clero

(italiano, Inglés, Español)

 

EL PECADO DE SODOMA Y ESE DESEO NO EXPRESADO DE RECONOCER LA SANTA ESCRITURA Y LA HOMOSEXUALIDAD CLARA DENTRO DE LA IGLESIA Y EL CLERO

Si todavía nos queda bastante pelo en el estómago, llegamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura está obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. averigüemos, por ejemplo,, que David y Jonatán tal vez eran algo más que amigos; que Sodoma y Gomorra son las capitales del amor LGBT+, y que incluso Jesús con sus apóstoles y con Lázaro de Betania tenían algo que ocultar, En resumen, ya nadie puede salvarse..

- Noticias eclesiales -

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Autor
Ivano Liguori, ofm. Gorra.

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Ivano Liguori – Artículo en formato de impresión PDF – Formato de impresión del artículo en PDF – PDF artículo en formato impreso

 

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Un sacerdote italiano, Juan Berti, dibujante famoso, publicó hace unos días en su sitio web una caricatura en la que el buen Dios amenaza con incinerar a los sacerdotes que todavía enseñan que el pecado de Sodoma consiste en la homosexualidad.

En tiempos esquizofrénicos como el nuestro tenemos que presenciar estos pequeños teatros en los que hay más sacerdotes que hablan y se preocupan por la homosexualidad, con el objetivo desesperado de limpiarlo dentro de la Iglesia y su clero, Más de lo que hablan de ello los activistas del club de cultura homosexual más famoso de Roma., que son mucho más coherentes y por tanto respetables, en sus elecciones libres e incuestionables. Los homosexuales siempre han sido mejores., a nivel humano y social, son aquellos que, por su incuestionable elección de vida, viven su homosexualidad a la luz del sol., en libertad y coherencia, sin preocuparnos por la Iglesia Católica y su moralidad, porque no les concierne. En lugar, Lo peor son los periquitos administrativos., también llamados "homosexuales de sacristía", que quisieran someter los principios de la moral católica a sus caprichos, en un intento desesperado de introducir las reivindicaciones LGBT+ en la Iglesia y el clero como un auténtico caballo de Troya.

Estos temas deberían ser enviados a clases por Tomaso Cerno., quien fue presidente nacional de Arcigay (asociación gay de la izquierda italiana), más tarde elegido para el Senado de la República Italiana, espléndida figura de un intelectual homosexual libre e intelectualmente honesto, autor de frases ingeniosas y hilarantes como:

«Ser homosexual grave, certi maricones reprimido y ciertos maricones Nunca he tolerado que se volvieran locos"..

Habría que responderle: Dile eso a nuestros ácidos histéricos de sacristía gay.! Y, con una ironía y una libertad incomparable, a esos diversos programas de radio y televisión en los que se permite un lenguaje más colorido, que, por aparentemente trivial que sea, en determinados contextos también puede resultar eficaz e incluso útil a nivel sociocomunicativo: comienza refiriéndose continuamente a "maricones" y refiriéndose a sí mismo diciendo "Felizmente soy maricón desde que era niño". (ver AQUI, QUE, AQUI, AQUI, AQUI, etc ..).

Así, si todavía nos queda suficiente pelo en el estómago, llegamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura está obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. averigüemos, por ejemplo,, que David y Jonatán tal vez eran algo más que amigos; que Sodoma y Gomorra son las capitales del amor LGBT+, y que incluso Jesús con sus apóstoles y con Lázaro de Betania tenían algo que ocultar, En resumen, ya nadie puede salvarse..

Pero volvamos a la caricatura de este sacerdote italiano.. ¿Cuál es realmente el pecado de Sodoma que escandaliza a ciertos sacerdotes? en la página? El texto del Génesis lo dice.:

«Aún no se habían acostado, cuando he aquí los hombres de la ciudad, es decir, los habitantes de Sodoma, se apiñaron alrededor de la casa, joven y viejo, toda la gente en su conjunto. Llamaron a Lot y le dijeron: “¿Dónde están esos hombres que vinieron a verte esta noche?? Sácalos de nosotros, porque podemos abusar de ello!"» (cf.. Gen 19,4-5).

La traducción italiana utiliza el verbo «abusare», que ya dice algo un poco más preciso para una correcta exégesis (usar: ir más allá del uso permitido). En cambio, el texto hebreo original utiliza la expresión "para que los conocieran".. El término hebreo es fallarʿ (conocimiento) y significa “tener conocimiento completo” —no siempre de naturaleza sexual— pero en muchos casos indica conocimiento carnal., Especificidad del acto unitivo entre hombre y mujer.. En ese caso, y asi es, más que un acto homosexual, La historia bíblica daría testimonio del intento de violencia de las pandillas., utilizado como señal de subordinación y sumisión para aquellos extranjeros considerados hostiles y peligrosos.

Del resto, en muchas poblaciones —y la historia lo atestigua— el acto supremo de mayor desprecio hacia un individuo o un grupo étnico ha coincidido muchas veces no con el asesinato sino con la violación del cuerpo mediante un acto de abuso sexual.. Y cuando fueron las mujeres las que fueron abusadas, el consiguiente embarazo resultante del acto de violencia reafirmó un deseo de sumisión y dominación también en el niño que nacería de él.

Para continuar con más información, Les informo lo que dice la Pontificia Comisión Bíblica en referencia a este pasaje de Gen 19,4 en el documento «Qué es el hombre»?» (Sal 8,5). Un itinerario de antropología bíblica: «Cabe señalar inmediatamente que la Biblia no habla de inclinación erótica hacia una persona del mismo sexo., pero solo actos homosexuales. Y de ellos se ocupa en unos pocos textos., diferentes entre sí en género literario e importancia. Respecto al Antiguo Testamento tenemos dos historias. (Gen 19 y Gdc 19) que evocan inapropiadamente este aspecto, y luego las reglas en un código legislativo (lv 18,22 y 20,13) que condenan las relaciones homosexuales" (tarjeta de circuito impreso 2019, n. 185).

El pasaje es muy claro. y la preocupación de la Biblia se refiere sólo al acto homosexual y no a las relaciones e implicaciones homoafectivas., como los conocemos y teorizamos hoy. Lo que significa introducir una reflexión sustancialmente diferente, tanto como el análisis de un caso de teología moral a la luz únicamente de la antropología. La Biblia ve y lee el acto homosexual dentro de una sexualidad bien definida y una relación establecida por Dios entre el hombre y la mujer., entre hombre y mujer, que establece un orden y un plan de salvación (aunque estas categorías también, por algunos eruditos bíblicos de origen protestante, han sido demolidos). En este sentido también la sexualidad humana., para dios, fue concebido como instrumento de salvación y debe ser ejercido también en este sentido.

el hombre bíblico, quien es esencialmente un hombre de la antigüedad, Considera los actos homosexuales tal como eran considerados y conocidos en la antigüedad.. Así como Pablo de Tarso consideraba los actos homosexuales en aquellas personas que, Habiéndose unido a Cristo, también redescubrieron la sexualidad como novedad salvadora (cf.. Rm 1,26-27; 1Cor 6,9-11; 1TM 1,10).

Pero ¿qué eran los actos homosexuales para los antiguos?? Substancialmente la inversión del orden natural de unión y procreación., que asignaba un papel activo-dador al hombre y un papel pasivo-receptivo a la mujer. Una visión quizás arcaica, pero tomado de la observación del mundo natural., por lo cual: «Se creía que las relaciones sexuales requerían una pareja activa y otra pasiva., que la naturaleza había asignado estos roles a hombres y mujeres respectivamente, y que los actos homoeróticos inevitablemente crearon confusión en estos roles, confundiendo así lo que es natural. En el caso de relaciones entre dos varones, Se creía que uno se degradaba al asumir el papel pasivo., considerado naturalmente reservado para las mujeres. En el caso de dos mujeres, Se creía que uno de los dos usurpaba el papel dominante., activo, considerada naturalmente reservada al hombre" (B. J. Pan, Las opiniones de Pablo sobre la naturaleza de las mujeres y el homoerotismo masculino, en AA. V. V., Biblia y homosexualidad, Claudiana, Turín 2011, pag. 25).

Por lo tanto, por estas razones naturales, No se contemplaban relaciones sexuales de este tipo entre dos hombres o dos mujeres.. Sin embargo, esto no implicó un juicio de mérito extendido a las personas: la discusión fue sobre el acto, no sobre las relaciones emocionales tal como las entendemos hoy, Vale la pena plantear la hipótesis de una homofobia histórica generalizada..

Historiadores y eruditos del mundo antiguo. también coinciden en señalar la existencia de prohibiciones y sanciones para regular las prácticas homoeróticas en algunas civilizaciones y circunstancias., pero no hay certeza de su aplicación real, salvo determinados casos que no tratamos aquí y que pueden ser objeto de un artículo posterior.

Volviendo al documento de la Pontificia Comisión Bíblica, se puede especificar aún mejor:

«Pero ¿cuál fue en realidad el pecado de Sodoma?, merecedor de tan ejemplar castigo? …» (tarjeta de circuito impreso 2019, n. 186).

El pecado de Sodoma es un pecado derivado del sustancial desprecio de Dios que genera un rechazo orgulloso y una conducta de oposición hacia los hombres fuera de Sodoma, no sólo los invitados de Lot., pero también el propio Lot y su familia. Sodoma es la ciudad malvada donde no se protege al extranjero y no se respeta el deber sagrado de acoger, porque hace tiempo que dejamos de acoger a Dios. Algo parecido se puede deducir de algunos pasajes evangélicos (cf.. Mt 10,14-15; Lc 10,10-12), donde habla del castigo por el rechazo de los enviados por el Señor: una negativa que tendrá consecuencias más graves que las que sufrieron Sodoma. En la cultura clásica esta actitud es la hybris (insulto): violación de la ley divina y natural que tiene consecuencias desafortunadas, actos profanadores e inhumanos.

Sí, pero ¿adónde ha ido a parar la homosexualidad?? A partir del siglo II de la era cristiana, Se ha establecido una lectura habitual de la historia de Gen. 19,4 a la luz del 2Pt 2,6-10 y Dios 7. La historia no pretende presentar la imagen de una ciudad entera dominada por la lujuria homosexual.: más bien denuncia la conducta de una entidad social y política que no quiere acoger al extranjero y busca humillarlo., obligándolo por la fuerza a sufrir un trato vergonzoso de sumisión (cf.. tarjeta de circuito impreso 2019, n. 187). Si quisiéramos ser más precisos, podríamos limitar el intento de violencia lo más violación, que en el derecho romano definía las relaciones sexuales ilegítimas, incluso sin violación: violación con una virgen o una viuda o violación con hombres (cf.. Eva Cantarella, Según la naturaleza, Feltrinelli, Milano, edición consultada, pags.. 138-141).

Pero entonces los habitantes de Sodoma eran homosexuales si o no? La biblia no dice eso., y esto nos invita a reflexionar sobre cómo el texto sagrado resalta cuestiones más importantes que una sola conducta. Analizando la historia del mundo antiguo y las costumbres morales de la época., podemos suponer que en Sodoma como en Persia, en Egipto, en Jerusalén, en Atenas y Roma había personas que practicaban actos de carácter homosexual y actos de carácter heterosexual a partes iguales. Personas conscientes de su sexo biológico -sabían que eran hombre y mujer- y que vivieron estas prácticas con mayor libertad y ligereza de la que imaginamos. Quizás el siglo de la liberalización sexual debería buscarse en la antigüedad, no (solo) después 1968.

Estos temas nos permiten hablar de actos más que de relaciones homosexuales.. En Grecia tenían una función político-civil definida; en Roma otros significados y propósitos. Muchos de los que participan en actos homosexuales, a cierta edad y con fines similares, regresaron a actos heterosexuales y se casaron con una mujer.

Para el mundo antiguo y para la filosofía de los griegos, El matrimonio era la única institución que garantizaba la continuidad de la familia y de la sociedad civil., algo que una comunidad de sólo hombres o todas las mujeres no podría haber apoyado, como atestiguan los poemas clásicos, en qué comunidades femeninas, para no extinguirse, estan buscando hombres.

El mundo antiguo conocía una antropología de la sexualidad aún primitiva, basado en instintos naturales, y no supo definir plenamente la grandeza de la sexualidad humana tal como la ha propuesto el cristianismo a lo largo de los siglos -a veces con tonos cuestionables-, llegando sin embargo a una teología de la corporeidad con vistas a una salvación que incluye, no mortifica, sexualidad.

Tal vez seamos nosotros, la gente moderna. haber categorizado y definido la sexualidad con tanta precisión, gracias a las ciencias humanas y la neurociencia. El concepto de orientación homosexual es moderno.. Según los estudiosos, La actividad sexual en la antigüedad podría parecerse a la bisexualidad consciente ejercida en diferentes contextos y con diferentes propósitos.. También porque el concepto de naturaleza/contra naturaleza se entendía de manera diferente a como lo entendería la moral cristiana..

Ahora que conocemos la identidad del pecado de Sodoma, Entendemos que en las tradiciones narrativas de la Biblia no hay indicaciones precisas -al menos como nos gustaría- sobre las prácticas homosexuales., ni como comportamiento culpable, ni como una actitud que deba ser tolerada o fomentada (cf.. tarjeta de circuito impreso 2019, n. 188). Simplemente, la Biblia habla de la salvación que Dios realiza en la historia del hombre: Una salvación pedagógica que mantiene unidos los opuestos y las contradicciones aparentes.. En Cristo la salvación es revelada y refinada., introduciendo un cambio no sólo internamente en el corazón del hombre, sino también estructural, que afecta las relaciones humanas, y por tanto también la sexualidad. Más fundamental que un acto considerado pecaminoso es la persona humana, mayor que su acto o su orientación. Una fe vivida y acogida con alegría implica un camino educativo liberador que restablece y redefine las relaciones de una manera nueva., para percibir la belleza de lo que nos ha sido dado - incluida la sexualidad y su ejercicio - para que sea un instrumento de salvación para mí y para los demás..

Sanluri, 18 de Octubre del 2025

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EL PECADO DE SODOMA Y ESE DESEO NO EXPRESADO DE “GAY-IZAR” LA SAGRADA ESCRITURA Y LEGITIMIR LA HOMOSEXUALIDAD DENTRO DE LA IGLESIA Y EL CLERO

Por lo que entonces, si todavía nos queda suficiente pelo en el estómago, llegamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura parece estar obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. Aprendemos, por ejemplo, que David y Jonatán pueden haber sido algo más que simples amigos; que Sodoma y Gomorra fueron las capitales del amor LGBT+; y que incluso Jesús, con sus apóstoles y con Lázaro de Betania, tenía algo que ocultar - en resumen, parecería que ya nadie queda inocente.

- Actualidad eclesial -

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Autor
Ivano Liguori, ofm. Gorra.

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Un sacerdote italiano, Juan Berti, conocido como caricaturista, publicó recientemente en su sitio web una caricatura en la que el buen Dios amenaza con incinerar a los sacerdotes que todavía enseñan que el pecado de Sodoma consiste en la homosexualidad.
En estos tiempos esquizofrénicos nuestros, Nos vemos obligados a presenciar espectáculos tan pequeños., donde hay más sacerdotes hablando y preocupándose por la homosexualidad (tratando desesperadamente de normalizarla dentro de la Iglesia y su clero) que activistas en el Círculo Cultural Homosexual más famoso de Roma., que son mucho más consistentes y por lo tanto más respetables en sus elecciones libres e incuestionables.

los mejores homosexuales, humana y socialmente hablando, siempre han sido los que, por su propia elección de vida incuestionable, vivir su homosexualidad abiertamente, en libertad y coherencia, sin preocuparse por la Iglesia Católica y su enseñanza moral, porque simplemente no les concierne.

lo peor, en lugar, son los periquitos clericales, también conocido como "los sacerdotes del campo de la sacristía" que quisieran someter los principios de la moral católica a sus caprichos, en el intento desesperado de introducir las reivindicaciones LGBT+ en la Iglesia y el clero como una verdadera caballo de troya.

Estas personas deberían ser enviadas a recibir lecciones de Tommaso Cerno., ex presidente nacional de Arcigay (La principal asociación gay de izquierda de Italia) y más tarde elegido para el Senado italiano: una brillante figura de homosexual libre e intelectualmente honesto., autor de comentarios ingeniosos y agudos como: "Ya que soy un homosexual serio., Nunca he podido soportar a ciertas reinas histéricas.". Uno estaría tentado a responder.: ve y dile eso a nuestras ácidas reinas de la sacristía! Y, con su inigualable ironía y libertad de espíritu, en varios programas de radio y televisión donde se permite un lenguaje más colorido, lo que, aunque aparentemente tosco, en algunos contextos puede ser eficaz e incluso socialmente útil; a menudo abre sus comentarios refiriéndose repetidamente a "maricones" y diciendo de si mismo: "He sido un hombre felizmente queer desde que era niño." (ver AQUI, QUE, AQUI, AQUI, AQUI, etc ..)

Por lo que entonces, si todavía nos queda suficiente pelo en el estómago, llegamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura parece estar obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. Aprendemos, por ejemplo, que David y Jonatán pueden haber sido algo más que simples amigos; que Sodoma y Gomorra fueron las capitales del amor LGBT+; y que incluso Jesús, con sus apóstoles y con Lázaro de Betania, tenía algo que ocultar - en resumen, parecería que ya nadie queda inocente.

Pero volvamos a la caricatura de este sacerdote italiano. Qué, en verdad, ¿Es el pecado de Sodoma el que tanto escandaliza a algunos? en la página sacerdotes? El texto del Génesis dice:

“Aún no se habían acostado cuando los habitantes del pueblo, los hombres de sodoma, tanto joven como viejo, toda la gente hasta el ultimo hombre, rodeó la casa. Llamaron a Lot y le dijeron, “¿Dónde están los hombres que vinieron a tu casa esta noche?? Sácanoslos para que podamos abusar de ellos”. (cf. Gen 19:4-5).

La traducción italiana utiliza el verbo “abusar”, lo que ya dice algo un poco más preciso para una exégesis adecuada (usar: ir más allá del uso permitido). El texto hebreo original, sin embargo, utiliza la expresión “para que los conozcan”. El término hebreo es yādāʿ (conocimiento) y significa “tener conocimiento completo” – no siempre de tipo sexual – pero en muchos casos indica un conocimiento carnal, Específico del acto unitivo entre un hombre y una mujer.. Si esto es asi, y es asi, más que describir un acto homosexual, el relato bíblico daría testimonio de un intento de acto de violencia grupal, utilizado como señal de subordinación y humillación hacia aquellos extranjeros considerados hostiles y peligrosos.

En efecto, en muchos pueblos —y la historia lo atestigua— el acto supremo de desprecio hacia un individuo o un grupo étnico ha consistido muchas veces no en el asesinato sino en la violación del cuerpo mediante un acto de abuso sexual.. Y cuando las víctimas de tales abusos eran mujeres, el consiguiente embarazo resultante del acto de violencia reafirmó una voluntad de sometimiento y dominación incluso en el niño que nacería de él..

Para proceder con mayor precisión, Informaré lo que dice la Pontificia Comisión Bíblica en referencia a este pasaje de Gen 19:4 en el documento "que es el hombre?" (PD 8:5), A Viaje de antropología bíblica: “Debe señalarse inmediatamente que la Biblia no habla de una inclinación erótica hacia una persona del mismo sexo., pero sólo de actos homosexuales. Y estos se mencionan sólo en unos pocos textos., que se diferencian entre sí en género literario e importancia. Respecto al Antiguo Testamento, tenemos dos cuentas (Gen 19 y juez 19) que evocan inadecuadamente este aspecto, y luego ciertas normas en un código legislativo (lev 18:22 y 20:13) que condenan las relaciones homosexuales” (PBC 2019, n. 185).

El pasaje es muy claro., y la preocupación de las Escrituras se refiere únicamente al acto homosexual, no a las relaciones e implicaciones afectivas entre personas del mismo sexo tal como las conocemos y conceptualizamos hoy. Esto significa introducir una reflexión sustancialmente diferente., a saber, el análisis de un caso en teología moral a la luz únicamente de la antropología. La Biblia percibe e interpreta el acto homosexual dentro de una sexualidad claramente definida y dentro de una relacional establecida por Dios entre el hombre y la mujer., masculino y femenino, que determina un orden y un plan salvífico (aunque incluso estas categorías, según algunos eruditos bíblicos protestantes, han sido desmantelados). En este sentido, la sexualidad humana misma, en el diseño de Dios, fue concebido como un instrumento de salvación y debe ser vivido en consecuencia.

el hombre bíblico, quien es esencialmente un hombre de la antigüedad, Consideraba los actos homosexuales tal como eran entendidos y considerados en la antigüedad.. Del mismo modo, Pablo de Tarso consideraba actos homosexuales en aquellas personas que, habiendo abrazado a Cristo, redescubrieron incluso su sexualidad como una nueva dimensión de salvación (cf. ROM 1:26–27; 1 Cor 6:9–11; 1 Tim 1:10).

Pero ¿qué eran los actos homosexuales para los antiguos?? Esencialmente, fueron vistos como la alteración del orden natural de unión y procreación., que asignaba al hombre un papel activo-donativo y a la mujer pasivo-receptivo. Una visión quizás arcaica, pero derivado de la observación del mundo natural., según el cual: “Se creía que el acto sexual requería una pareja activa y otra pasiva., que la naturaleza había asignado estos roles respectivamente a hombres y mujeres, y que los actos homoeróticos inevitablemente producían confusión en estos roles, confundiendo así lo que es natural. En el caso de relaciones entre dos varones, se pensó que uno de ellos se había degradado al asumir el rol pasivo, considerado naturalmente reservado a la mujer. En el caso de dos mujeres, se pensó que uno de ellos usurpó el poder dominante, papel activo, considerada naturalmente reservada al hombre” (B. J. Pan, Las opiniones de Pablo sobre la naturaleza de las mujeres y el homoerotismo masculino, en Biblia y homosexualidad, Claudiana, Turín 2011, pag. 25).

Por lo tanto, por tales razones de naturaleza, No se contemplaban relaciones sexuales de este tipo entre dos hombres ni entre dos mujeres.. Sin embargo, esto no implicaba un juicio moral extendido a las propias personas: el discurso se refería al acto, no las relaciones afectivas tal como las entendemos hoy, De lo contrario, tendríamos que plantear la hipótesis de una homofobia histórica generalizada..

Historiadores y eruditos del mundo antiguo. Coinciden en señalar la existencia de prohibiciones y sanciones destinadas a regular las prácticas homoeróticas en determinadas civilizaciones y circunstancias., pero no hay certeza sobre su aplicación real, excepto casos específicos que no serán tratados aquí y pueden ser objeto de un artículo futuro.

Volviendo al documento de la Pontificia Comisión Bíblica, el asunto se puede aclarar aún más: “¿Pero cuál fue en realidad el pecado de Sodoma?, merecedor de tan ejemplar castigo? ... " (PBC 2019, n. 186).

El pecado de Sodoma es un pecado que surge de un desprecio fundamental por Dios que genera un rechazo orgulloso y una actitud de oposición hacia aquellos que son extraños en Sodoma, no solo los invitados de Lot., pero también el propio Lot y su familia. Sodoma es la ciudad malvada en la que el extranjero no está protegido y el deber sagrado de la hospitalidad ya no se respeta., porque hace tiempo su pueblo dejó de acoger a Dios. Algo parecido se puede deducir de ciertos pasajes del Evangelio (cf. Mt 10:14–15; Lc 10:10–12), donde se hace referencia al castigo por rechazar a los enviados del Señor, un rechazo que tendrá consecuencias más severas que las que sufrieron Sodoma.. En la cultura clásica, Esta actitud corresponde a Hybris (insulto): la violación de la ley divina y natural, llevando a consecuencias desastrosas, actos sacrílegos e inhumanos.

sí, pero ¿a dónde se fue la homosexualidad?? A partir del siglo II de la era cristiana, una lectura habitual del relato en Gen 19:4 tomó forma a la luz de 2 punto 2:6–10 y Judas 7. La narrativa no pretende presentar la imagen de una ciudad entera dominada por los deseos homosexuales.; bastante, denuncia el comportamiento de una entidad social y política que se niega a acoger al extraño y busca humillarlo, obligándolo mediante violencia a sufrir un trato degradante de sometimiento (cf. PBC 2019, n. 187). Si quisiéramos ser más precisos, Podríamos describir el intento de violencia como violación, que en el derecho romano definía un acto sexual ilícito, incluso sin violencia física: violación con una virgen o una viuda o smalo con los hombres (cf. Eva Cantarella, Según la naturaleza, Feltrinelli, Milán, edición consultada, pags.. 138–141).

Pero entonces, ¿Eran los habitantes de Sodoma homosexuales o no?? La escritura no lo dice, y esto nos invita a reflexionar sobre cómo el texto sagrado pone el énfasis en temas mucho más importantes que un solo comportamiento. Analizando la historia del mundo antiguo y las costumbres morales de la época., podemos suponer que en Sodoma, como en persia, Egipto, Jerusalén, Atenas, y roma, había personas que practicaban actos tanto homosexuales como heterosexuales en igual medida. Eran personas conscientes de su sexo biológico —se sabían hombre o mujer— y que vivieron estas prácticas con una libertad y una ligereza mayor de la que podríamos imaginar.. Quizás el verdadero siglo de liberalización sexual debería buscarse en la antigüedad, no (solamente) después 1968.

Tales temas nos permiten hablar de actos homosexuales. en lugar de relaciones homosexuales. En Grecia, estos actos tenían una función política y cívica específica; en Roma, tenían otros significados y propósitos. Muchos de los que participaron en actos homosexuales, a cierta edad y por razones similares, volvió a actos heterosexuales y contrajo matrimonio con una mujer.

Para el mundo antiguo y para la filosofía griega, El matrimonio era la única institución que garantizaba la continuidad de la familia y de la sociedad civil., algo que una comunidad formada únicamente por hombres o únicamente por mujeres no podría sostener, como lo atestiguan los poemas clásicos en los que las comunidades femeninas, para no morir, buscar hombres.

el mundo antiguo Poseía una antropología de la sexualidad todavía primitiva., basado en instintos naturales, y fue incapaz de definir plenamente la grandeza de la sexualidad humana tal como la ha propuesto el cristianismo a lo largo de los siglos –a veces con tonos discutibles–, pero finalmente llegó a una teología de la corporalidad encaminada a una salvación que incluye, en lugar de mortificar, la sexualidad..

Quizás seamos nosotros los modernos que han categorizado y definido la sexualidad con tanta precisión, gracias a las ciencias humanas y a la neurociencia. El concepto de orientación homosexual es moderno.. Según los estudiosos, La actividad sexual en la antigüedad podría parecerse a una bisexualidad consciente practicada en diferentes contextos y con diferentes propósitos.. Esto también se debió a que el concepto de naturaleza y contra naturaleza se entendía de manera diferente a como sería interpretado más tarde por la moral cristiana..

Ahora que conocemos la verdadera identidad del pecado de Sodoma, entendemos que en las tradiciones narrativas de la Biblia no hay indicaciones precisas –al menos no como desearíamos– sobre las prácticas homosexuales., ni como comportamientos a condenar ni como actitudes a tolerar o favorecer (cf. PBC 2019, n. 188). Muy simple, La Escritura habla de la salvación que Dios obra en la historia de la humanidad: Una salvación pedagógica que mantiene unidos los opuestos y las contradicciones aparentes.. en cristo, la salvación es revelada y refinada, implantando en el corazón humano un cambio no sólo interior sino también estructural, que toca las relaciones humanas y por tanto también la sexualidad. Más fundamental que un acto considerado pecaminoso es la persona humana, que es mayor que su acto u orientación. Una fe vivida y recibida con alegría implica un camino educativo liberador que restablece y redefine las relaciones de una manera nueva., para percibir la belleza de lo que nos ha sido dado -incluida la sexualidad y su ejercicio- para que sea, para mi y para los demás, un instrumento de salvación.

Sanluri, 18de octubre 2025

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EL PECADO DE SODOMA Y ESE DESEO INEXPRESADO DE HACER GAY LA SAGRADA ESCRITURA Y LEGALIZAR LA HOMOSEXUALIDAD DENTRO DE LA IGLESIA Y DEL CLERO

Y si todavía nos queda algo de pelo en el estómago, llegaríamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura parece estar obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. nos enteramos, por ejemplo, que David y Jonatán tal vez fueron algo más que simples amigos; que Sodoma y Gomorra son las capitales del amor LGBT+, y que incluso Jesús, con sus apóstoles y con Lázaro de Betania, tenía algo que ocultar; en resumen, ya no se salva absolutamente nadie.

— Actualidad eclesial —

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Autor
Ivano Liguori, ofm. Gorra.

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Un sacerdote italiano, Juan Berti, célebre dibujante, publicó hace unos días en su sitio web una viñeta en la que el buen Dios amenaza con incinerar a los sacerdotes que aún enseñan que el pecado de Sodoma consiste en la homosexualidad.

En tiempos esquizofrénicos como los nuestros debemos asistir a estos teatrillos en los que hay más sacerdotes que hablan y se preocupan por la homosexualidad — con el desesperado propósito de normalizarla dentro de la Iglesia y de su clero — que los activistas del más famoso Círculo de Cultura Homosexual de Roma, quienes son mucho más coherentes y, por ello, más respetables en sus libres e incuestionables decisiones. Los mejores homosexuales, desde el punto de vista humano y social, han sido siempre aquellos que, por su libre e incuestionable elección de vida, viven su homosexualidad a la luz del sol, con libertad y coherencia, sin preocuparse por la Iglesia católica ni por su moral, porque el asunto no les concierne. En cambio, los peores en absoluto son las locas histéricas de sacristía, que quisieran doblegar los principios de la moral católica a sus caprichos, en el desesperado intento de introducir las reivindicaciones LGBT+ dentro de la Iglesia y del clero por medio de un verdadero caballo de Troya.

Estos sujetos deberían ser enviados a tomar lecciones de Tommaso Cerno, quien fue presidente nacional de Arcigay (asociación homosexual de la izquierda italiana) y posteriormente elegido senador de la República, una espléndida figura de intelectual homosexual libre y honesto, autor de frases inteligentes y divertidísimas como: “Siendo yo un homosexual serio, nunca he soportado a ciertas locas histéricas”. A uno le darían ganas de responderle: díselo a nuestros ácidos gays histéricos de sacristía!

Y, con una ironía y una libertad sin igual, en varios programas de televisión y radio donde se permite un lenguaje más colorido — que, aunque aparentemente vulgar, en ciertos contextos puede resultar más eficaz e incluso útil en plano sociocomunicativo — suele comenzar refiriéndose constantemente a los “maricones” y diciendo de sí mismo: “Yo soy felizmente un maricón desde que era niño” (véase AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, etc ..).

Y si todavía nos queda algo de pelo en el estómago, llegaríamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura parece estar obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. nos enteramos, por ejemplo, que David y Jonatán tal vez fueron algo más que simples amigos; que Sodoma y Gomorra son las capitales del amor LGBT+, y que incluso Jesús, con sus apóstoles y con Lázaro de Betania, tenía algo que ocultar; en resumen, ya no se salva absolutamente nadie.

Pero volvamos a la viñeta de este sacerdote italiano. ¿Cuál es realmente el pecado de Sodoma que escandaliza a ciertos curas en la página? El texto del Génesis dice así:

“No se habían acostado todavía cuando los hombres de la ciudad, los habitantes de Sodoma, se apiñaron alrededor de la casa, jóvenes y viejos, todo el pueblo en pleno. Llamaron a Lot y le dijeron: ‘¿Dónde están los hombres que entraron en tu casa esta noche? Sácalos para que podamos abusar de ellos’” (cf. Gen 19,4-5).

La traducción italiana utiliza el verbo “abusar”, que expresa algo un poco más preciso para una correcta exégesis (usar: ir más allá del uso permitido). El texto hebreo original, en cambio, usa la expresión “para que pudieran conocerlos”. El término hebreo es yādāʿ (conocimiento) y significa “tener un conocimiento completo”, no siempre de tipo sexual, aunque en muchos casos indica un conocimiento carnal, propio del acto unitivo entre el hombre y la mujer. Si así fuera — y así es —, más que de un acto homosexual, el relato bíblico daría testimonio de un intento de violencia colectiva, utilizada como signo de subordinación y humillación hacia aquellos extranjeros considerados hostiles y peligrosos.

De hecho, en muchos pueblos — y la historia lo demuestra —, el acto supremo de desprecio hacia un individuo o un grupo étnico no ha coincidido con el homicidio, sino con la violación del cuerpo mediante un acto de abuso sexual. Y cuando las víctimas de tales abusos han sido mujeres, el embarazo resultante del acto de violencia reafirmaba una voluntad de sometimiento y de dominio incluso sobre el hijo que habría de nacer.

Para proceder con mayor precisión, cito lo que dice la Comisión Bíblica Pontificia en referencia a este pasaje de Gén 19,4 en el documento ¿Qué es el hombre? (Sal 8,5). Un itinerario de antropología bíblica: “Debe señalarse de inmediato que la Biblia no habla de la inclinación erótica hacia una persona del mismo sexo, sino únicamente de los actos homosexuales. Y de éstos trata en pocos textos, distintos entre sí por género literario e importancia. En lo que respecta al Antiguo Testamento, tenemos dos relatos (Gene 19 y Jue 19) que evocan de manera impropia este aspecto, y luego unas normas en un código legislativo (lv 18,22 y 20,13) que condenan las relaciones homosexuales” (CBP 2019, n. 185).

El pasaje es muy claro, y la preocupación de la Biblia se refiere únicamente al acto homosexual y no a las relaciones ni a las implicaciones afectivas entre personas del mismo sexo, tal como hoy las conocemos y teorizamos. Esto significa introducir una reflexión sustancialmente distinta, como el análisis de un caso de teología moral a la luz exclusiva de la antropología. La Biblia percibe y lee el acto homosexual dentro de una sexualidad bien definida y de una relacionalidad establecida por Dios entre el hombre y la mujer, entre el varón y la hembra, que establece un orden y un plan de salvación (aunque estas categorías, según algunos biblistas de origen protestante, han sido desmanteladas). En este sentido, también la sexualidad humana, para Dios, fue pensada como instrumento de salvación y debe ejercerse de ese modo.

El hombre bíblico, que es esencialmente un hombre de la antigüedad, considera los actos homosexuales tal como en la antigüedad eran conocidos y comprendidos. Así también Pablo de Tarso consideraba los actos homosexuales en aquellas personas que, habiéndose adherido a Cristo, redescubrían como novedad salvífica incluso la sexualidad (cf. ROM 1,26-27; 1 Cor 6,9-11; 1 Tim 1,10).

Pero ¿qué eran los actos homosexuales para los antiguos? En esencia, la inversión del orden natural de unión y de procreación, que asignaba al hombre una parte activa-donativa y a la mujer una parte pasiva-receptiva. Una visión quizás arcaica, pero derivada de la observación del mundo natural, según la cual: “Se creía que el acto sexual requería un compañero activo y otro pasivo, que la naturaleza había asignado esos roles respectivamente al varón y a la mujer, y que los actos homoeróticos inevitablemente generaban confusión en esos roles, confundiendo así lo que es natural. En el caso de las relaciones entre dos varones, se pensaba que uno de ellos se degradaba al asumir el papel pasivo, considerado naturalmente reservado a la mujer. En el caso de dos mujeres, se pensaba que una de ellas usurpaba el papel dominante, activo, considerado naturalmente reservado al hombre” (B. J. Pan, Las opiniones de Pablo sobre la naturaleza de las mujeres y el homoerotismo masculino, en Biblia y homosexualidaden, Claudiana, Turín 2011, pag. 25).

Por tales razones de naturaleza, entre dos hombres o entre dos mujeres no se contemplaban relaciones sexuales de este tipo. Sin embargo, esto no implicaba un juicio moral extendido a las personas: el discurso se centraba en el acto, no en las relaciones afectivas tal como hoy las entendemos, bajo pena de imaginar una homofobia histórica generalizada.

Los historiadores y estudiosos del mundo antiguo coinciden también en señalar la existencia de prohibiciones y sanciones destinadas a regular las prácticas homoeróticas en ciertas civilizaciones y circunstancias, aunque no se tiene certeza de su aplicación efectiva, salvo en algunos casos específicos que aquí no tratamos y que podrán ser objeto de un artículo posterior.

Volviendo al documento de la Comisión Bíblica Pontificia, puede precisarse aún mejor: “¿Pero cuál fue en realidad el pecado de Sodoma, merecedor de un castigo tan ejemplar?…" (CBP 2019, n. 186).

El pecado de Sodoma es un pecado derivado del desprecio fundamental hacia Dios, que genera un rechazo orgulloso y una conducta de oposición hacia quienes son extranjeros en Sodoma: no sólo los huéspedes de Lot, sino también el propio Lot y su familia. Sodoma es la ciudad malvada en la que el extranjero no está protegido y no se respeta el sagrado deber de la hospitalidad, porque desde hacía tiempo se había dejado de acoger a Dios. Algo similar se deduce de algunos pasajes evangélicos (cf. Mt 10,14-15; Lc 10,10-12), donde se habla del castigo por el rechazo a los enviados del Señor, un rechazo que tendrá consecuencias más graves que las que cayeron sobre Sodoma. En la cultura clásica, esta actitud corresponde a la hybris (insulto): violación del derecho divino y natural que desemboca en consecuencias nefastas, actos sacrílegos e inhumanos.

Sí, pero ¿dónde ha quedado la homosexualidad? A partir del siglo II de la era cristiana se consolidó una lectura habitual del relato de Gén 19,4 a la luz de 2 pe 2,6-10 y jud 7. El relato no pretende presentar la imagen de una ciudad entera dominada por deseos homosexuales; más bien denuncia la conducta de una entidad social y política que no quiere acoger al extranjero y pretende humillarlo, obligándolo por la fuerza a sufrir un trato infamante de sometimiento (cf. CBP 2019, n. 187). Si quisiéramos ser más precisos, podríamos circunscribir el intento de violencia como violación, que en el derecho romano definía una relación sexual ilícita, incluso sin violencia carnal: violación con una virgen o una viuda o violación con hombres (cf. Eva Cantarella, Según naturaleza, Feltrinelli, Milán, edición consultada, pags.. 138-141).

Entonces, ¿eran homosexuales los habitantes de Sodoma, sí o no? La Biblia no lo dice, y esto invita a reflexionar sobre cómo el texto sagrado pone el acento en temas mucho más importantes que una sola conducta. Analizando la historia del mundo antiguo y las costumbres morales de la época, podemos suponer que en Sodoma, como en Persia, en Egipto, en Jerusalén, en Atenas y en Roma, existían personas que practicaban en igual medida actos de naturaleza homosexual y actos de naturaleza heterosexual. Personas conscientes de su propio sexo biológico — sabían que eran varones y mujeres — y que vivían esas prácticas con una libertad y una ligereza mayores de lo que imaginamos. Tal vez el verdadero siglo de la liberalización sexual habría que buscarlo en la antigüedad, no (solo) después de 1968.

Estos temas nos permiten hablar de actos más que de relaciones homosexuales. En Grecia tenían una función político-cívica definida; en Roma, otros significados y fines. Muchos de los que practicaban actos homosexuales, a cierta edad y por motivos semejantes, regresaban a actos heterosexuales y contraían matrimonio con una mujer.

Para el mundo antiguo y para la filosofía de los griegos, el matrimonio era la única institución que garantizaba la continuidad de la familia y de la sociedad civil, algo que una comunidad compuesta solo por hombres o solo por mujeres no habría podido sostener, como atestiguan los poemas clásicos en los que comunidades femeninas, para no extinguirse, buscan varones.

El mundo antiguo poseía una antropología de la sexualidad todavía primitiva, basada en los instintos naturales, y no lograba definir plenamente la grandeza de la sexualidad humana tal como el cristianismo la ha propuesto a lo largo de los siglos —a veces con tonos discutibles—, llegando sin embargo a una teología de la corporeidad orientada hacia una salvación que incluye, no que mortifica, la sexualidad.

Tal vez seamos nosotros, los modernos, quienes hemos categorizado y definido la sexualidad de un modo tan preciso, gracias a las ciencias humanas y a las neurociencias. El concepto de orientación homosexual es moderno. Según los estudiosos, la actividad sexual en la antigüedad podía asemejarse a una bisexualidad consciente ejercida en contextos y con fines diversos. También porque el concepto de naturaleza/contra naturaleza se entendía de manera diferente de como lo interpretará la moral cristiana.

Ahora que conocemos la identidad del pecado de Sodoma, comprendemos que en las tradiciones narrativas de la Biblia no hay indicaciones precisas — al menos no como quisiéramos — sobre las prácticas homosexuales, ni como comportamiento que deba ser censurado, ni como actitud que deba ser tolerada o favorecida (cf. CBP 2019, n. 188). Simplemente, la Biblia habla de la salvación que Dios realiza en la historia del hombre: una salvación pedagógica que mantiene unidos los opuestos y las aparentes contradicciones. En Cristo, la salvación se revela y se perfecciona, infundiendo en el corazón humano un cambio no solo interior, sino también estructural, que toca las relaciones humanas y, por tanto, también la sexualidad. Más fundamental que un acto considerado pecaminoso es la persona humana, más grande que su acto o su orientación. Una fe vivida y acogida con alegría comporta un camino educativo liberador que restablece y redefine las relaciones de un modo nuevo, permitiendo percibir la belleza de lo que nos ha sido dado —incluida la sexualidad y su ejercicio— para que sea, para mí y para los demás, instrumento de salvación.

Sanluri, 18 de octubre de 2025

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El semental árabe del Sumo Pontífice: los que quieren montar y los que quieren ser montados en su lugar

EL SEMENTAL ÁRABE DEL SUPREMO PONTÍFICE: LOS QUE DESEAN MONTAR Y LOS QUE QUIEREN SER MONTADOS

El hecho de que se donen animales al Romano Pontífice no es nada nuevo. León X recibió un elefante blanco como regalo del rey Manuel I de Portugal, el famoso hanno, que desfiló en procesión por las calles de Roma, A Pablo II le ofrecieron un par de pavos reales, Incluso trajeron un canguro de Australia a Pío IX.. Benedicto XVI ocupa un lugar privilegiado en el corazón de los felinos, haber sido un pontífice católico. Francesco recibió en cambio dos burros.: Thea y Noah, en caso de que no hubiera tenido ya muchos de ellos en el Vaticano.

Breves del reflexivo de Hipatia

Autora Hipatia Gatta Romana

Autor
Hipatia Gatta romana

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Franca Giansoldati, Nota vaticanista del periódico el Mensajero, hoy se ha dado noticia del espléndido semental árabe donado por un fiel polaco a Su Santidad León XIV. Un magnífico animal que el Santo Padre -con esa franca elegancia suya que ojalá sorprenda a los cortesanos- ha manifestado el deseo de montar personalmente (cf.. AQUI).

Que se donen animales al Romano Pontífice No es nada nuevo. León X recibió un elefante blanco como regalo del rey Manuel I de Portugal, el famoso hanno, que desfiló en procesión por las calles de Roma, A Pablo II le ofrecieron un par de pavos reales, Incluso trajeron un canguro de Australia a Pío IX.. Benedicto XVI ocupa un lugar privilegiado en el corazón de los felinos, haber sido un pontífice católico. Francesco recibió en cambio dos burros.: Thea y Noah, en caso de que no hubiera tenido ya muchos de ellos en el Vaticano. En conclusión, el bestiario pontificio es casi tan largo como él Anales eclesiásticos por César Baronio.

Que el Santo Padre desee montar en ese noble corcel sinceramente nos llena de alegría. No sólo porque revela un auténtico amor por las criaturas de la creación, pero también porque muestra a un Pontífice todavía vigoroso y lleno de energía en los albores de sus setenta años recién cumplidos.. Y Dios sabe cuanto, en estos tiempos, la Iglesia necesita pastores que aún sepan montar a caballo y guiar el rebaño.

preocuparse, si algo, es algo completamente diferente: el altísimo número de súbditos que pueblan la Curia Romana, que - aparentemente - sueñan con ser montados por ese espléndido semental. Y mientras este rebaño clerical, alimentado por la ambición y la cortesía, ella no será enviada de regreso a los establos, ninguna reforma, por muy santo que sea, puede tener éxito. todo terminará, como siempre, en el galope habitual hacia ninguna parte.

desde la Isla de Patmos, 17 de Octubre del 2025

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Con León XIV Obispo de Roma, resurge el título de Primado de Italia

CON LEÓN XIV, OBISPO DE ROMA, RIEMERGE IL TITOLO DI PRIMATE D’ITALIA

Questa definizione, permaneció en silencio durante mucho tiempo en los textos oficiales, vuelve ahora a la vida en la voz del Pontífice como signo de orientación para la Iglesia y para Italia. Dopo anni di interpretazioni prevalentemente universali del papato, Leone XIV ha voluto rinnovare la dimensione originaria del suo ministero: il Sommo Pontefice è Vescovo di Roma e, para esto, guida e padre delle Chiese d’Italia.

- Topicalidad eclesial -

Autor Teodoro Beccia

Autor
Teodoro Beccia

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Tra le parole pronunciate dal Sommo Pontefice Leone XIV nel suo recente discorso al Quirinale, el 14 El pasado octubre, una in particolare ha risuonato con forza teologica e con intensità storica: «Come Vescovo di Roma e Primate d’Italia».

Questa definizione, permaneció en silencio durante mucho tiempo en los textos oficiales, vuelve ahora a la vida en la voz del Pontífice como signo de orientación para la Iglesia y para Italia. Dopo anni di interpretazioni prevalentemente universali del papato, Leone XIV ha voluto rinnovare la dimensione originaria del suo ministero: il Sommo Pontefice è Vescovo di Roma e, para esto, guida e padre delle Chiese d’Italia.

Il titolo di Primate d’Italia esprime la verità ecclesiologica che unisce la Chiesa universale alla sua radice concreta, riconducendo il primato di Pietro alla sorgente sacramentale e alla comunione delle Chiese locali (cf.. lumen gentium, 22; Pastor aeternus, gorra. II). Nella visione del Concilio Vaticano II, la funzione petrina non è mai disgiunta dalla dimensione episcopale e collegiale: el Obispo de Roma, Como el sucesor de Pietro, esercita una presidenza di carità e di unità (lumen gentium, 23), la quale si radica nella sua stessa sede episcopale. En tal sentido, il titolo di Primate d’Italia non rappresenta un privilegio di tipo giuridico, ma un segno teologico ed ecclesiale che manifesta l’intima connessione tra il primato universale del Romano Pontefice e la sua paternità sulle Chiese d’Italia. Come ricorda San Giovanni Paolo II, il ministero del Vescovo di Roma «è al servizio dell’unità di fede e di comunione della Chiesa» (Para uno;, 94), e proprio da questa comunione scaturisce la dimensione nazionale e locale della sua sollecitudine pastorale.

Nella gerarchia cattolica della Chiesa latina, agli inizi del secondo millennio, sono previsti anche vescovi primati, prelati che con quel titolo — soltanto onorifico — sono preposti alle diocesi più antiche e più importanti di Stati o di territori, senza prerogativa alcuna (cf.. Annuario Pontificio, ed. 2024). Il Vescovo di Roma è il Primate d’Italia: titolo antico, attuato nei secoli e tuttora vigente, sebbene con prerogative diverse che si sono succedute nel tempo.

A través de los siglos altri vescovi nella Penisola hanno avuto il titolo onorifico di Primate: l’Arcivescovo metropolita di Pisa mantiene il titolo di Primate delle isole di Corsica e Sardegna, l’Arcivescovo metropolita di Cagliari porta il titolo di Primate di Sardegna, l’Arcivescovo metropolita di Palermo mantiene il titolo di Primate di Sicilia, e l’Arcivescovo metropolita di Salerno quello di Primate del Regno di Napoli (cf.. Annuario Pontificio, salpicadura. “Sedi Metropolitane e Primaziali”).

Vario è stato l’ambito territoriale riferito al termine Italia: dall’Italia suburbicaria dei primi secoli cristiani, all’Italia gotica e longobarda, hasta el Regnum Italicum incorporato nell’Impero romano-germanico, sostanzialmente costituito dall’Italia settentrionale e dallo Stato Pontificio. Questa primazia non riguardava i territori dell’ex patriarcato di Aquileia, né i territori facenti parte del Regnum Germanicum — l’attuale Trentino-Alto Adige, Trieste e l’Istria —, in seguito appartenuti all’Impero austriaco. Oggi la primazia d’Italia viene attuata su un territorio corrispondente a quello della Repubblica Italiana, della Repubblica di San Marino e dello Stato della Città del Vaticano (cf.. Annuario Pontificio, ed. 2024, salpicadura. “Sedi Primaziali e Territori”).

La nozione di “Italia” applicata alla giurisdizione ecclesiastica non ha mai avuto un valore politico, ma un significato eminentemente pastorale e simbolico, connesso alla funzione unificante del Vescovo di Roma come centro di comunione tra le Chiese particolari della Penisola. Fin dall’epoca tardo-antica, de hecho, la suburbicaria regio designava il territorio che, per antica consuetudine, riconosceva la diretta dipendenza dalla Sede romana (cf.. Liber Pontificalis, vol. E, ed. Duchesne). A través de los siglos, pur mutando le circoscrizioni civili e gli assetti statali, la dimensione spirituale della primazia è rimasta costante, come espressione dell’unità ecclesiale e della tradizione apostolica della Penisola.

Nei duemila anni di Cristianesimo, i popoli della Penisola e lo stesso episcopato hanno costantemente guardato alla Sede Romana, sia in ambito ecclesiastico sia in quello civile. En el 452 el Obispo de Roma, Leone I, su richiesta dell’imperatore Valentiniano III, fece parte dell’ambasceria che si recò nell’Italia settentrionale per incontrare il re degli Unni Attila, nel tentativo di dissuaderlo dal procedere nella sua avanzata verso Roma (cf.. Prosper d’Aquitania, Chronicon, ad annum 452).

Sono i Papi di Roma che, los siglos, sostengono i Comuni contro i poteri imperiali: il partito guelfo — e in particolare Carlo d’Angiò — diviene lo strumento del potere pontificio in tutta la Penisola. Il Romano Pontefice apparirà come l’amico dei Comuni, il protettore delle libertà italiche, contribuendo a dissolvere l’idea stessa di Impero inteso come detentore della piena sovranità, a favore di una sovranità diffusa e molteplice.

El concepto de iurisdictio sarà espresso con chiarezza da Bartolo da Sassoferrato (1313-1357): essa non è intesa soltanto come potestas iuris dicendi, ma soprattutto come il complesso di poteri necessari al governo di un ordinamento che non si accentra nelle mani di una sola persona o ente (cf.. Bartolus de Saxoferrato, Tractatus de iurisdictione, en Opera omnia, nueva York, 1588, vol. IX). In questa visione pluralistica del diritto, la Sede Apostolica rappresenta il principio di equilibrio e di giustizia tra le molteplici forme di sovranità che si sviluppano nella Penisola, ponendosi come garante dell’ordine e della libertà delle comunità cristiane.

Ancora nel XIX secolo, Vincenzo Gioberti propose l’ideale neo-guelfo e una confederazione degli Stati italiani sotto la presidenza del Romano Pontefice, delineando una visione nella quale l’autorità spirituale del Papa avrebbe dovuto fungere da principio d’unità morale e politica della Penisola (cf.. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli ItalianRe, Bruxelles 1843, liberación. II, gorra. 5). In sintonia, anche Antonio Rosmini riconosceva nella Sede Apostolica il fondamento dell’ordine politico cristiano, pur distinguendo tra potere spirituale e potere temporale, in una prospettiva che intendeva sanare la frattura tra Chiesa e nazione (cf.. A. Rosmini, Las cinco llagas de la Santa Iglesia, Lugano 1848, parte II, gorra. 1).

Il titolo di Primate d’Italia, nell’età moderna, si riferiva dunque al Vescovo di Roma, sovrano di un vasto territorio e capo di uno Stato che si estendeva, como otros, nella Penisola. Il territorio della primazia, como consecuencia, non si identificava con quello di un solo Stato, ma si sovrapponeva alla pluralità delle giurisdizioni politiche dell’epoca. Si él Concordato di Worms (1122) aveva attribuito ai Papi di Roma la facoltà di confermare la nomina dei vescovi, in Italia — o meglio nel Regnum Italicum, comprendente l’Italia centro-settentrionale —, nel corso dei secoli la scelta dei vescovi venne concordata con i sovrani territoriali, secondo le consuetudini proprie degli Stati europei: o tramite presentazioni di terne, il primo dei quali era generalmente il prescelto, oppure con un’unica designazione da parte del principe titolare del diritto di patronato, come accadeva anche per il Regno di Sicilia (cf.. Bullarium Romanum, t. V, Roma 1739).

Il coinvolgimento dell’autorità statale determinava spesso un sostanziale equilibrio tra Stato e Chiesa, nel quale il riconoscimento delle rispettive sfere d’azione permetteva alla Sede Apostolica di mantenere la propria influenza sulle nomine episcopali, pur entro i confini dei concordati e dei privilegi sovrani.

In pienaepoca giurisdizionalista del secolo XVIII, nell’episcopato della Penisola non trovarono spazio né le rivendicazioni episcopaliste, né quelle gallicane o germaniche, nonostante alcuni principi italiani tentassero di assecondare, se non patrocinare, tali teorie (cf.. Por. Prodi, Il giurisdizionalismo nella storia del pensiero politico italiano, Bologna 1968). In Toscana, l’ingerenza statale in materia religiosa raggiunse la sua piena attuazione sotto il granduca Pietro Leopoldo (1765-1790). Animato da sincero fervore religioso, il Granduca credette di compiere opera di vera devozione e pietà quando si adoperò per combattere gli abusi della disciplina ecclesiastica, le superstizioni, la corruzione e l’ignoranza del clero.

In un primo tempo nessuna protesta venne elevata dall’episcopato toscano, o perché vedeva l’inutilità di opporsi, o perché approvava quelle misure; tal vez incluso por qué, nell’episcopato toscano come nel clero, covava un’antipatia verso gli Ordini religiosi e si accettava volentieri una forma di autonomia dalla Santa Sede. Sin embargo, nel sinodo generale di Firenze del 1787, tutti i vescovi dello Stato — tranne Scipione de’ Ricci e altri due — respinsero tali riforme, riaffermando la fedeltà alla comunione con il Romano Pontefice e difendendo l’integrità della tradizione ecclesiastica (cf.. Acta Synodi Florentinae, 1787, arch. curiae Florentiae).

La Chiesa Cattolicaha sempre combattuto il formarsi di chiese nazionali, poiché tali tentativi risultano in aperto contrasto con la struttura stessa della comunione ecclesiale e con l’antica disciplina canonica. Già il can. XXXIV dei Canones Apostolorum — una raccolta risalente al IV secolo, attorno all’anno 380 — prescriveva un principio fondamentale di unità episcopale:

Episcopus gentium singularum scire convenit, quia inter eos primus habeatur, quem velut caput existiment et nihil amplius praeter eius consientiam gerant, quam illa sola singuli, quae paroeciae [in greco τῇ παροικίᾳ] propriae et villis quae sub ea sunt competant. Sed nec ille praeter omnium conscientiam faciat aliquid; sic enim unanimitas erit et glorificatur Deus per Christum in Spiritu Sancto (“Bisogna che i vescovi di ciascuna nazione sappiano chi tra di loro sia il primo e lo considerino come il loro capo, e non facciano nulla di importante senza il suo assenso; ciascuno si occuperà solo di ciò che riguarda la propria diocesi e i territori che da essa dipendono; ma anche colui che è primo non faccia nulla senza l’assenso di tutti: così regnerà la concordia e Dio sarà glorificato per Cristo nello Spirito Santo.”)

Questa norma, di sapore apostolico e di matrice sinodale, afferma il principio di unità nella collegialità, dove il primato non è dominio, ma servizio di comunione. Tal concepción, assunta e approfondita nella tradizione cattolica, ha trovato la sua piena espressione nella dottrina del primato romano. Come insegna Papa Leone XIII:

«la Chiesa di Cristo è una per natura, e come uno è Cristo, così uno deve essere il suo corpo, una la sua fede, una la sua dottrina, e uno il suo capo visibile, stabilito dal Redentore nella persona di Pietro» (Satis cognitum, 9).

como consecuencia, ogni tentativo di fondare chiese particolari o nazionali indipendenti dalla Sede Apostolica è stato sempre respinto come contrario alla una, sancta, catholica et apostolica Ecclesia. La subordinazione del collegio episcopale al primato petrino costituisce infatti il vincolo di unità che garantisce la cattolicità della Chiesa e preserva le singole Chiese particolari dal rischio di isolamento o di deviazione dottrinale (cf.. Lumen gentium, 22; cristo el señor, 4).

Il titolo di Primate, attribuito ad alcune sedi, era in realtà un mero titolo onorifico, al pari di quello di Patriarca conferito ad alcune sedi episcopali di rito latino (cf.. Codex Iuris Canonici, lata. 438). Tale dignità, di natura esclusivamente cerimoniale, non comportava potestà giurisdizionale effettiva, né un’autorità diretta sulle altre diocesi di una determinata regione ecclesiastica. Il titolo aveva lo scopo di onorare la vetustà o la particolare rilevanza storica di una sede episcopale, secondo una prassi consolidata nel secondo millennio.

Diversa è invece la posizione e soprattutto le prerogative delle due sedi primaziali di Italia e Ungheria, che conservano una fisionomia giuridico-ecclesiale singolare all’interno della Chiesa latina. Secondo una tradizione secolare, il Principe-Primate d’Ungheria è rivestito sia di funzioni ecclesiastiche sia di compiti civili. entre éstos, il privilegio di incoronare il sovrano — privilegio esercitato l’ultima volta il 30 diciembre 1916 per l’incoronazione di re Carlo IV d’Asburgo da parte di S. Y. Mons. János Csernoch, allora Arcivescovo di Esztergom — e di sostituirlo in caso di impedimento temporaneo (cf.. Acta Sanctae Sedis, vol. XLIX, 1917).

La primazia ungherese è attribuita alla sede arcivescovile di Esztergom (oggi Esztergom-Budapest), la cui antica dignità primaziale risale al secolo XI, quando re Stefano I ottenne dal Papa la fondazione della Chiesa nazionale ungherese sotto la protezione diretta della Sede Apostolica. L’Arcivescovo di Esztergom, come Primate d’Ungheria, gode di una posizione speciale su tutti i cattolici presenti nello Stato e di una potestà quasi-governativa sui vescovi e metropoliti, compresa la metropoli di Hajdúdorog per i fedeli ungheresi di rito bizantino. Presso di lui esiste un tribunale primaziale, da lui sempre presieduto, che giudica le cause in terza istanza: un privilegio fondato su una consuetudine immemorabile, più che su una norma giuridica espressa (cf.. Codex Iuris Canonici, lata. 435; Annuario Pontificio, salpicadura. “Sedi Primaziali”, ed. 2024). Egli è un cittadino ungherese, residente nello Stato, e spesso ricopre anche la carica di Presidente della Conferenza Episcopale Ungherese, esercitando una funzione di mediazione tra la Sede Apostolica e la Chiesa locale.

La primazia italiana, attribuita alla Sede Romana, possiede una configurazione del tutto particolare: il suo titolare, el Obispo de Roma, può essere — e in effetti negli ultimi pontificati è stato — un cittadino non italiano. Egli è sovrano di uno Stato estero, Estado de la Ciudad del Vaticano, non facente parte dell’Unione Europea, e non appartiene alla Conferenza Episcopale Italiana, pur mantenendo su di essa un’autorità diretta. In virtù del suo titolo di Primate d’Italia, il Romano Pontefice nomina infatti il Presidente e il Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, come previsto dall’art. 4 §2 dello Statuto della CEI, che richiama espressamente «il particolare legame che unisce la Chiesa in Italia al Papa, Vescovo di Roma e Primate d’Italia» (cf.. Statuto della Conferenza Episcopale Italiana, approvato da Paolo VI il 2 De julio 1965, aggiornato nel 2014).

Questa singolare configurazione giuridica mostra come la primazia italiana, pur priva di struttura amministrativa autonoma, conservi una funzione ecclesiologica reale, quale espressione visibile del legame organico tra la Chiesa universale e le Chiese d’Italia. In ciò si manifesta la continuità del primato petrino nella sua duplice dimensione: universal, come servizio alla comunione di tutta la Chiesa, e locale, come paternità pastorale esercitata sul territorio italiano (lumen gentium, 22–23).

Si delinea così un’apertura del finis Ecclesiae ai problemi d’ordine internazionale e mondiale, cosa che è anche riscontrabile in alcuni paragrafi del Catechismo della Chiesa Cattolica, dedicati ai diritti umani, alla solidarietà internazionale, al diritto alla libertà religiosa dei vari popoli, alla tutela degli emigranti e dei profughi, alla condanna dei regimi totalitari e alla promozione della pace. Ciò che poi è maggiormente rilevante è che l’invito, incitación, della Chiesa a perficere bonum non è solamente ancorato alla salus aeterna, al raggiungimento del fine ultramondano, ma anche al contingente, alle necessità immanenti dell’uomo bisognoso di aiuto materiale.

In base alla rivendicata primazia e ai sensi dell’art. 26 del Trattato Lateranense, l’azione pastorale dello stesso Pontefice si attua in più regioni d’Italia, tramite visite in molte città e santuari, effettuate senza che queste si presentino come viaggi in Stati esteri. L’uso invalso di considerare il Papa di Roma come il primo Vescovo d’Italia fa sì che i fatti d’Italia siano spesso presenti nelle sue allocuzioni o discorsi. Sovente egli visita zone della Penisola dove si sono verificati eventi dolorosi, e la presenza del Papa è vista dalle popolazioni come doverosa, richiesta come segno di conforto e di aiuto. Rientra inoltre, nel senso lato della primazia, il ricevere delegazioni degli organismi statali italiani. En esta perspectiva, la figura del Romano Pontefice come Primate d’Italia assume il valore di un segno di comunione tra la Chiesa e la Nazione, nella linea della missione universale che egli esercita quale successore di Pietro. La dimensione nazionale della sua sollecitudine pastorale non si oppone, ma anzi si integra, con la missione cattolica della Sede Apostolica, perché il Papa è insieme Vescovo di Roma, Padre delle Chiese d’Italia e Pastore della Chiesa universale (Predicar el evangelio, Arte. 2).

La triplice dimensione del suo ministero — diocesana, nazionale e universale — rende visibile quella unitas Ecclesiae che la fede professa e la storia testimonia. Così il titolo di Primate d’Italia, riemerso nella voce di Leone XIV, non appare come un residuo di onori passati, ma come un richiamo vivo alla responsabilità spirituale del Papato verso il popolo italiano, in continuità con la sua missione apostolica verso tutte le genti.

Velletri de Roma, 16 de Octubre del 2025

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Del profesor Alessandro Barbero un San Francisco "bajo la corteza". cuando la santidad se combina con la historia

DEL PROFESOR ALESSANDRO BARBERO A SAN FRANCISCO "BAJO LA CORTEZA". CUANDO LA SANTIDAD SE COMBINA CON LA HISTORIA

El historiador Alessandro Barbero no es católico, el es un laico, pero dice más verdades sobre San Francisco de las que han escuchado los católicos devotos sobre la vida del Poverello.. Esto de la misma manera que, en cinematografía, la directora Liliana Cavani representó al Francesco más cercano a la realidad, El ateo es comunista., a través de un joven y viril Mickey Rourke. Con el debido respeto al talento y la memoria del director Franco Zeffirelli., quien en cambio representó a un San Francisco empalagoso y completamente desvirilizado.

- actualidad eclesial -

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Autor
Ivano Liguori, ofm. Gorra.

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Artículo en formato de impresión PDF

 

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por unos dias Empecé a leer el nuevo libro sobre San Francisco de Asís del profesor Alessandro Barbero, un rostro ahora conocido y apreciado no sólo en el ámbito académico.

Mickey Rourke interpreta a Francisco de Asís en la película de la directora Liliana Cavani (Italia, 1989)

como historiador ha llevado a cabo con éxito una buena actividad de difusión de esa materia, la historia, que siempre ha sido motivo de aburrimiento para muchos durante su época escolar, quizás más por la metodología con la que fue explicado y planteado a los estudiantes que por el objeto de su estudio en sí..

El mérito de este divulgador. es sin duda que ha acercado a un gran público a la historia y a los temas históricos, tal como lo hizo el periodista Indro Montanelli con sus libros y entrevistas sobre la historia de Italia que podríamos definir como un relato de investigación, como sólo un periodista hábil y experto puede hacer.

la historia es el maestro de la vida y aprender sobre la historia, el que no tiene tintes ideológicos, que tiene muchas contradicciones y agujeros negros, el que no está escrito solo por los ganadores, el de los hechos y las fuentes es sumamente útil para conocernos a nosotros mismos y para saber orientar el futuro y quizás también para no cometer grandes errores. Pero lamentablemente no siempre es así.

Hasta este discurso se aplica a las guerras mundiales, Todos podemos estar de acuerdo en los hechos de la historia reciente y la antigüedad., pero cuando la historia toca temas y temas más particulares como la hagiografía o la teología, ¿qué sucede?? bien, hay que saber mantener el equilibrio adecuado entre las partes y las disciplinas pero personalmente creo que saber hacer una buena historia, y partir de una buena base histórica sobre los temas tratados por la hagiografía y la teología., Es sumamente importante entender cómo Dios es capaz de operar en la vida de los hombres., precisamente en ese modo humano que no está exento de contradicciones, de lentitud, de sorpresas que aparentemente contradicen cierta idea devota de la acción divina y de la santidad.

Sobre la vida de San Francisco, Esta realidad se hizo evidente inmediatamente después de su muerte y en vista de su rápida canonización.. Nosotros, sus frailes y continuadores de sus ideales, quizás teníamos una preocupación demasiado conservadora que nos llevó a ver (y para mostrar) El hermano Francisco como modelo inalcanzable, hasta el punto de considerarlo - como la iconografía tendrá entonces la oportunidad de explicar mejor - un nuevo Cristo en la tierra y esto no sólo por el don de los sagrados estigmas que fueron el último sello que le dio la Palabra de Dios (cf. Dante Alighieri, paraíso, canto XI) pero también gracias a algunos colores biográficos que han presentado las versiones oficiales.

Eso sí, Como modernos no queremos hacer ningún juicio. Título más grande de San Buenaventura que contribuyó a fijar en la memoria colectiva la imagen de San Francisco como esencialmente místico y protagonista sólo de acontecimientos fabulosos que reafirmaban su semejanza con Cristo.. En ese momento histórico en el sentido más amplio posible - para la sociedad medieval, para la iglesia catolica, para la supervivencia misma de la Orden de Menores - un procedimiento hagiográfico más que biográfico como el llevado a cabo por San Buenaventura era casi obligatorio.

Se buscaba seguridad y estabilidad y con su astucia e inteligencia logró la tarea. Se buscaba sobre todo un modelo y muchas veces este deseo conducía a describir perfectamente las hazañas de un "hombre santo"., omitiendo aquellas partes de la fragilidad y de la humanidad normales que, en cambio, son las primeras en dar testimonio de la santidad de una persona si tenemos en cuenta la enseñanza de San Gregorio Magno.: «Milagros que no se realizan sino que se muestran» (Los milagros no crean santidad., Sin embargo, son una manifestación o demostración de ello.)

Trazar una figura de San Francisco tan noble e inalcanzable que tal vez constituyó una meta inalcanzable para muchos, más uno leyenda que vida real; una historia que debía leerse para calentar el corazón con inspiraciones buenas y santas y enseñanzas morales y religiosas que no siempre son verdaderamente practicables, distante de la vulgaridad de sus frailes y de sus devotos.

Creo que esto también contribuyó proliferar en los siglos siguientes, de aquellas visiones de la vida de San Francisco, más complacientes y practicables que se han vuelto tan queridos para una modernidad ideológica y alineada como la nuestra.: el pacifista francisco, ecologista, activista de los derechos de los animales, vegano, precursor del diálogo interreligioso complaciente, pauperista, comunista antes de la carta. Visiones quizás hoy más viables pero totalmente falsas y alejadas de las verdaderas intenciones del Pobre de Asís.

Como ya tuve la oportunidad de subrayar en otro articulo mio (verás AQUI) San Francisco es una persona, ante un santo, extremadamente complicado, dentro de un período histórico y eclesial igualmente complicado, por lo tanto, sólo una investigación histórica objetiva y sana puede reconstituirlo dentro de un discurso que tienda lo más posible a la verdad., a ese cero de Francesco di Pietro di Bernardone, lo que se vislumbra bajo la corteza de muchas comodidades a las que se le debe, cuello obtorto, someterse seráficamente y tal vez incluso soportar.

El mérito del historiador Barbero - así como otros que estaban interesados ​​en San Francisco, Pienso en Franco Cardini y Chiara Frugoni: es describirlo como un hombre dentro de una historia muy específica., un hombre atormentado, pararse, capaz de gestos muy dulces y dureza inesperada, un hombre abierto a la trascendencia y a las contradicciones de su tiempo.

La lectura histórica de San Francisco también nos permite crecer en el conocimiento de una Iglesia medieval que para el Poverello no constituye una fuente de escándalo a diferencia de los numerosos movimientos contemporáneos que cayeron en la herejía y la violencia cismática.. Tirar de la chaqueta a San Francisco como azote de las costumbres de la Iglesia -y de la Iglesia como organismo institucional- es sumamente inapropiado. Otros hicieron esto y si acaso con razón pero San Francisco no lo hizo, ni lo deseaba, para él la Iglesia era eso, el mejor existente posible porque así lo quiso Cristo, por tanto no una refundación utópica desde las bases sino una renovación En el hombre interior quien entonces tendrá su corazón de su lado forma de vida que se expresa con toda la pasión en la ampliación de la Regola non bullata.

San Francisco ama a la Iglesia católica, su, el que da 1182 en adelante lo acompañará desde su bautismo hasta su entierro en la pequeña iglesia de San Giorgio, no otra iglesia ideal. Ama y respeta la jerarquía de la Iglesia., desde los sacerdotes más pobres y moralmente frágiles hasta su obispo de Asís (guido) ¿Quién presenciará su desnudamiento?, para llegar al obispo de Roma (Inocencio III y Honorio III) ¿Quién le confirmará en su intención de vivir? sin brillo el Santo Evangelio de Nuestro Señor Jesucristo aprobando el forma de vida. Francisco no es ciego a los hechos pero ha comprendido que la renovación más eficaz es la personal, comienza desde dentro y por eso no juzga sino que deja que él y sus frailes sean y se conviertan en ese signo de cambio real - ese buen fermento del Evangelio - que es capaz de mejorar a toda la Iglesia católica.. Una metodología de renovación eclesial como la de San Francisco todavía es difícil de encontrar en los planes y programas pastorales de hoy.

San Francisco es amante y amante de la vida aventurera de la Edad Media, sueña con ser caballero y ve a sus frailes como caballeros de Cristo sin mancha y puros de corazón. Él conoce las asombrosas y fascinantes aventuras de Canción de gestos y es al mismo tiempo testigo de los acontecimientos político-eclesiásticos que dieron lugar a las cruzadas. Observamos cómo Francisco no critica a la Iglesia ni siquiera por convocar las cruzadas.. Sin embargo, sigue siendo un hombre de la Edad Media y sabe que, a pesar de su tragedia, también las Cruzadas tienen significado y mérito.. Fueron varios los santos que le siguieron que consideraron legítimas las cruzadas y sus motivos., le predicaron, entre ellos otro famoso franciscano, Bernardino degli Albizzeschi de Massa Marittima, conocido como San Bernardino da Siena. Sin embargo, habiendo conocido personalmente las crueldades de la guerra, de la batalla, de prisión, de las heridas y mutilaciones de sus compañeros, San Francisco elige ir al Sultán optando por una opción diferente, no el de las armas sino el de la Palabra.

En Egipto antes de Al-Malik al-Kāmil anuncia a Cristo y el Evangelio, un arma muy diferente y más poderosa que la espada, un diálogo que no cae en la corrección política sino en una invitación decidida a la conversión del sultán de Egipto y Siria a dejar reinar a ese Dios que trae la paz y que da el pacificador por excelencia.. No es de extrañar que el Sultán no se sienta ofendido por las palabras de San Francisco, Recordamos que los cristianos coptos ya estaban presentes en Egipto y el sultán y su corte estaban acostumbrados a ver cristianos y ministros ordenados en la tierra de Egipto y discutir con ellos.. El acto de San Francisco no es una vulgar propaganda política para la Iglesia católica sino una verdadera invitación a la conversión y a la salvación como lo hicieron varios miembros de la Orden de Menores en Marruecos y en otros territorios de fe islámica, encontrando muy a menudo el martirio en los siglos siguientes..

El libro del profesor Barbero. trata estos y otros temas, sacando a la luz una imagen de San Francisco que supera ideologías y maquillaje de una imagen hagiográfica. El mérito es sin duda el de poder conocer a un San Francisco incómodo y que no se puede encuadrar dentro de una única visión., su historia dentro de la historia nos permite apreciarla aún más y devolver una imagen concreta y vívida de ella..

Finalmente, El mismo tema de la pobreza con el que sueña San Francisco., casa y recomienda es el que primero se consiguió con uno kénosis de sí mismo como un hombre que descubre su límite y conoce su corazón tembloroso. La pobreza material no es el fin sino la consecuencia desarrollada a lo largo de los años de una pobreza más verdadera y profunda. De esta manera podemos asimilar a San Francisco a Cristo en el humillación-despojo de una vida que aparentemente parece un fracaso a los ojos del mundo.. Tras la muerte de San Francisco, es precisamente sobre el tema de la pobreza espiritual que sus hijos discuten y comienzan con las primeras controversias que surgirán en las reformas posteriores..

La pobreza de San Francisco va tomando forma dentro de diversos hechos reales de su historia: en su agotamiento físico y mental tras su encarcelamiento en la batalla de Collestrada en 1202 que lo redimensiona en sus ideales de caballería. En el encuentro con el leproso, que es el ejemplo concreto de las privaciones que toda enfermedad impone al enfermo, pero es también el signo claro de que la conversión requiere determinación y violencia. (cf. Mt 11,12). Hasta que fue rechazado y ya no reconocido como jefe de su Orden que, con su prestigio en gran parte de Europa en ese momento, podía prescindir de él.. Al hombre moderno que aprecia la santa pobreza de San Francisco se le debe recordar que esto se consigue dando varios pasos hacia atrás., anulándose, mirar los propios límites y aceptarlos con la alegría perfecta de quien ha sabido poner todo en manos de Dios.

El historiador Alessandro Barbero no es católico, el es un laico, pero dice más verdades sobre San Francisco de las que han escuchado los católicos devotos sobre la vida del Poverello.. Esto de la misma manera que, en cinematografía, la directora Liliana Cavani representó al Francesco más cercano a la realidad, El ateo es comunista., a través de un joven y viril Mickey Rourke. Con el debido respeto al talento y la memoria del director Franco Zeffirelli., quien en cambio representó a un San Francisco empalagoso y completamente desvirilizado.

Le deseamos a Alessandro Barbero., laica y no católica, en la sabiduría de la era que pasa, San Francisco también fue cómplice, puede acercarse a Dios y encontrarse en él, fuente de toda sabiduría, todo está bien.

Sanluri, 9 de Octubre del 2025

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Las cuotas rosas en el altar son necesarias? De la teoideología feminista a la sabiduría pastoral de Sri Lanka – ¿Son necesarias las «cuotas rosas» en el altar?? De la teoideología feminista a la sabiduría pastoral de Sri Lanka – ¿Son necesarias las «cuotas rosas» en el altar? De la teo‑ideología feminista a la prudencia pastoral de Sri Lanka

italiano, inglés, español

 

SE REQUIEREN CUOTAS ROSAS EN EL ALTAR? DE LA TEOIDEOLOGÍA FEMINISTA A LA SABIDURÍA PASTORAL DE SRI LANKA

El obispo puede permitir que las monaguillas, pero no puede obligar a los párrocos a utilizarlos. Los fieles no ordenados "no tienen derecho" a servir en el altar y queda la obligación de promover grupos masculinos de monaguillos, también por su demostrado valor vocacional.

- Noticias eclesiales -

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Ver niños alrededor del altar alegra el corazón y el espíritu. Es un signo de vida en una Europa -empezando por nuestra Italia- en la que la tasa de natalidad está estancada desde hace décadas y la edad media de la población, y el clero, sigue aumentando. En un contexto tan frágil, la presencia de niños en la iglesia ya es una buena noticia, un anticipo del futuro.

en el vídeo: S.E. Rev.ma Mons. Raymond Kingsley Wickramasinghe, Obispo de Galle (Sri Lanka)

Cuando dos padres me pidieron disculpas al final de la Santa Misa para los dos niños algo ruidosos, contestado: «Mientras los niños hagan ruido en nuestras iglesias, significa que siempre estamos vivos". No lo agregué entonces, pero lo haré ahora como un aparte en la discusión.: cuando durante las sagradas liturgias ya no escuchemos las voces de los niños, seguramente oiremos las de los muecines que cantarán desde los campanarios de nuestras iglesias transformadas en mezquitas, como ya ha sucedido en varios países del norte de Europa. Los ejemplos son conocidos, tomaré solo algunos: En Hamburgo se compró la antigua Kapernaumkirche luterana y se reabrió como mezquita Al-Nour.; En Amsterdam, el Fatih Moskee está ubicado en la antigua iglesia católica de San Ignacio.; En Bristol, la Mezquita Jamia está ubicada en la antigua calle St.. Iglesia de Catalina. En cuanto al llamado del muecín con altavoces, la ciudad de Colonia comenzó en 2021 un proyecto de ciudad que permite recordar el viernes, luego se estabilizó en 2024.

En las últimas décadas, En bastantes diócesis se ha establecido la costumbre de admitir niñas para servir en el altar.. Práctica que muchos obispos y párrocos, aunque no la amo, toleraron o mantuvieron para no generar controversia. A lo largo de los años, algunos de ellos, convertidos ya en adolescentes y jóvenes, continuaron sirviendo en el altar, no sin vergüenza para algunos sacerdotes, incluyendo el suyo verdaderamente, quien con extrema cortesía nunca ha permitido que las niñas y especialmente las adolescentes sirvan. Por supuesto, No se trata de impedir que las mujeres accedan a ciertos servicios., sino pensar con sabiduría pedagógica pastoral: cuantas vocaciones sacerdotales nacieron junto al altar, en el grupo de monaguillos? ¿Y cómo explicarle a una niña apasionada por la liturgia que el ministerio de la Orden no es, ni puede ser una perspectiva abierta a su condición femenina? Porque en este punto la doctrina es muy clara: «Sólo el bautizado recibe válidamente la sagrada ordenación» (Código de Derecho Canónico 1983, lata. 1024); «La Iglesia se reconoce vinculada por la elección hecha por el mismo Señor. Por esta razón no es posible la ordenación de mujeres". (Catecismo de la Iglesia Católica, n. 1577); y el Santo Pontífice Juan Pablo II confirmó definitivamente que la Iglesia "no tiene autoridad" para conferir la ordenación sacerdotal a las mujeres (la ordenación sacerdotal, 22 Mayo 1994, n. 4).

Luego hay un aspecto sociopedagógico. bien conocido por quienes frecuentan las sacristías: las niñas, a menudo más preparado, compañeros diligentes y maduros, tienden a prevalecer en grupos pequeños; la experiencia demuestra que, donde el número de niñas en el presbiterio aumenta significativamente, bastantes chicos retroceden al percibir ese servicio como "cosa de chicas". El resultado paradójico es que precisamente los sujetos más potencialmente vocacionales se distancian del corazón de la celebración.. Por lo tanto, sería apropiado preguntar: en un Occidente con una elevada edad media de los sacerdotes, Seminarios vacíos o reducidos al mínimo el número de seminaristas., Cada vez hay más parroquias sin párroco., tiene sentido renunciar a lo que puede favorecer incluso unas pocas semillas de vocación para seguir la lógica -mundana y políticamente correcta- de las "cuotas rosas clericales"?

Para entender "lo que es posible" y sobre todo "lo que es mejor", el punto de partida no son opiniones sino normas litúrgicas. La liturgia no es un campo de experimentación sociológica.: «Absolutamente ninguno, ni siquiera el sacerdote, agregar, elimina o cambia cualquier cosa por su propia iniciativa" (Sacrosanctum Concilium, 22 § 3). Se perfilan funciones de los ministros con precisos llamados a la sobriedad, roles y límites (Misal General Tradicional, NN. 100; 107; 187-193). Del lado ministerial, el Santo Pontífice Pablo VI reemplazó las antiguas "órdenes menores" por los ministerios establecidos de lector y acólito, luego reservado para hombres laicos (cf.. Ministerios, NN. I-IV). El Sumo Pontífice Francisco ha modificado can. 230 §1, abrir los ministerios establecidos de lector y acólito también a las mujeres, pero estos no se identifican con el servicio de monaguillos, que entra dentro de la diputación temporal prevista por el can.. 230 §2 y se refiere a la ayuda en el altar confiada de vez en cuando a los laicos (fcr. El dueño del dueño, 2021; CIC 1983, lata. 230 §1-2).

Dos textos de la Santa Sede Luego fijaron el perímetro con rara claridad.. La Carta Circular de la Congregación para el Culto Divino, dirigida a los Presidentes de las Conferencias Episcopales para la correcta interpretación del can.. 230 §2 (15 marzo 1994, beneficio. 2482/93), reconoció la posibilidad - a discreción del obispo - de admitir también a mujeres para servir en el altar, precisando, sin embargo, que "siempre será muy apropiado seguir la noble tradición de tener monaguillos" y que ningún derecho subjetivo a servir surge de la admisión (cf.. Información 30 [1994] 333-335). Unos años después, los Carta de la misma Congregación (27 De julio 2001) Aclararon además que el obispo puede permitir monaguillos pero no puede obligar a los párrocos a usarlas.; que los fieles no ordenados "no tienen derecho" a servir en el altar; que se mantiene la obligación de promover grupos masculinos de monaguillos, también por su demostrado valor vocacional. Es "siempre muy apropiado" - afirma el documento - seguir la noble tradición de los niños en el altar (texto latino en Información 37 [2001] 397-399; tradicional. eso. en Información 38 [2002] 46-48).

Dentro de esta imagen, la pedagogía del altar vuelve a brillar: La proximidad al Misterio educa con el poder de los signos., introduce una confianza filial con la Eucaristía e, para muchos niños, era uno real “conferencia” de discernimiento. La Iglesia que no tiene el poder de conferir la Orden a las mujeres (Catecismo de la Iglesia Católica No.. 1577; la ordenación sacerdotal, 4) está llamado a salvaguardar con prudencia aquellos espacios que históricamente se han mostrado fértiles para el surgimiento de las vocaciones sacerdotales. Esto no devalúa la presencia y el carisma femenino.; al contrario, libera a la comunidad de la tentación de clericalizar a los laicos y laicizar al clero -y en particular a las mujeres- empujándolos simbólicamente al presbiterio, como si ese fuera el único lugar "que importa" (cf.. recordatorio sobre el clericalismo en el evangelio de la alegría, 102-104). Hay caminos muy ricos para niñas y jóvenes, establecido y de hecho: lectores establecidos o, según los casos, practicado como lectura en la celebración, canto y musica sacra, servicio de sacristía, ministerios de la palabra y caridad, catequesis e, hoy en día, también el ministerio establecido de catequista (El viejo ministerio, 2021). Son ámbitos en los que el "genio femenino" ofrece a la Iglesia una contribución decisiva sin generar expectativas imposibles en cuanto al acceso al sacerdocio (cf.. El viejo ministerio, 2021; espíritu deRe, 2021; lata. 230 §1-2).

La experiencia de otras Iglesias particulares arroja más luz sobre el tema. En Sri Lanka, donde la edad media del clero es mucho más baja que en Italia y los seminarios están poblados de vocaciones, el Arzobispo Metropolitano de Colombo, Cardenal Albert Malcolm Ranjith, indicó que el uso de monaguillas era inapropiado por razones pastorales y pedagógicas: ninguno de ellos, de hecho, de adultos podrán ingresar al seminario; Por lo tanto, tiene sentido preservar espacios educativos típicamente masculinos alrededor del altar., sin quitarle nada a la rica participación femenina en otros ámbitos? En otros contextos, como en estados unidos, Algunas diócesis y parroquias han mantenido legítimamente grupos de monaguillos exclusivamente masculinos, precisamente sobre la base de los textos de 1994 él nació en 2001. No se trata de "excluir", sino valorizar una práctica que en algunos lugares resulta más fructífera para la pastoral vocacional (cf.. líneas diocesanas: Diócesis de Lincoln – Nebraska; Fénix – Parroquia Catedral; otras realidades locales de los Estados Unidos de América).

Pero a estas alturas alguien pide cuotas rosas en el presbiterio, como si la representación simétrica fuera la prueba de fuego de la valorización de las mujeres. una lógica, el de las cuotas rosas, que sin embargo pertenece al ámbito sociopolítico; La liturgia no es un parlamento que debe estar representado proporcionalmente., es la acción de Cristo y de la Iglesia. El discernimiento se aplica aquí, no el reclamo. Y el discernimiento pregunta: en un territorio con pocos sacerdotes y pocas vocaciones, ¿Qué elección concreta promueve mejor el crecimiento de los futuros sacerdotes sin degradar la presencia de las mujeres?? Las respuestas de la Santa Sede no dejan malentendidos: Se permite la admisión de niñas cuando sea apropiado., pero es apropiado e incluso necesario promover grupos masculinos de monaguillos, también en vista de la pastoral vocacional (cf.. Información 30 [1994] 333-335; Información 37 [2001] 397-399; Información 38 [2002] 46-48).

La tesis también ha estado circulando en los últimos meses. — retomado por el teólogo Marinella Perroni, según el cual la elección de Colón constituiría un "silogismo" perfecto pero "debe ser rechazado", porque haría al grupo de monaguillos inmune a las diferencias y por tanto perjudicial.

Sujeto, el de este teólogo, que confunde ingeniería social y liturgia de una manera verdaderamente superficial y cruda. La liturgia no pretende representar todas las diferencias sino servir al Misterio según normas comunes (cf.. Sacrosanctum Concilium 22 § 3). Las fuentes oficiales, como se ha visto, recuerdan tres cosas elementales: La capacidad de admitir a las niñas es posible pero no crea derechos.; el obispo puede autorizar, pero no te impongas; y "queda la obligación" de promover grupos de hombres también por motivos vocacionales (cf.. Información 37 [2001] 397-399; tradicional. eso. Información 38 [2002] 46-48; cuanto más carta circular del 15.03.1994, beneficio. 2482/93).

En otras palabras: El cardenal Albert Malcom Ranjith no excluye a las mujeres: ejerce la prudencia pastoral precisamente prevista por la ley y la práctica. Confundir esta prudencia con misoginia es pura ideología, no discernimiento. Y si la vitalidad eclesial realmente dependiera de un incensario "rosa", luego dos milenios de santas, de mujeres médicas y mártires -sin jamás reclamar el altar ministerial- valdría menos que una parte: una conclusión injusta hacia las mujeres e, Además, irracional para la fe (cf.. Marinella Perroni: "Sri Lanka, sino porque la prohibición de las monaguillas favorecería las vocaciones sacerdotales?», L’Osservatore Romano en Mujeres Iglesia Mundo, 1 Febrero 2025).

Definitivamente, no se necesitan cuotas en el altar, necesitamos corazones educados en el Misterio. Es legítimo -y a veces apropiado- que algunas Iglesias particulares admitan a niñas en sus servicios.; y es igualmente legítimo -y muchas veces más prudente- mantener grupos masculinos de monaguillos cuando esto beneficia la claridad de los signos y la promoción de las vocaciones.. No es una rendición al “orden masculino”, sino un acto de prudencia pastoral al servicio de toda la comunidad.

si amamos a las chicas, les ofrecemos grandes ministerios y servicios según el evangelio: Palabra, caridad, Catequesis, custodia y decoración de la iglesia y el altar, música, cantando... sin reducir su dignidad a una posición junto al incensario. En lugar, si amamos a los niños, cuidemos inteligentemente aquellos espacios educativos que, durante siglos, ayudaron a la Iglesia a reconocer y acompañar el don de la vida sacerdotal.

Una nota final a modo de testimonio personal.: Tenía nueve años cuando al terminar la Santa Misa volví a casa diciéndoles a mis padres que quería ser sacerdote.. La cual fue tomada como una de las tantas fantasías típicas de los niños., capaces de decir hoy que quieren ser astronautas, mañana los productores de fresas, los doctores ante mañana. Y sin embargo,, lo que parecía una fantasía, resultó no ser así: treinta y cinco años después recibí la Sagrada Orden Sacerdotal. Sí, la mía era una vocación adulta, pero nací siendo un niño, mientras servía como monaguillo en el altar, a la edad de nueve años.

desde la Isla de Patmos, 8 de Octubre del 2025

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SON NECESARIAS «CUOTAS ROSAS» EN EL ALTAR? DE LA TEO-IDEOLOGÍA FEMINISTA A LA SABIDURÍA PASTORAL DE SRI LANKA

Un obispo puede permitir monaguillos, pero no puede exigir a los pastores que los utilicen. Los fieles no ordenados «no tienen derecho» a servir en el altar, y sigue existiendo la obligación de promover grupos de monaguillos de niños, también por su demostrado valor vocacional.

- Actualidad eclesial -

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Ver niños alrededor del altar alegra el corazón y el espíritu. Es una señal de vida en una Europa –empezando por nuestra Italia– donde la tasa de natalidad se ha mantenido estable durante décadas y la edad media de la población, y del clero, sigue subiendo. En un contexto tan frágil, la presencia de niños en la iglesia ya es una buena noticia, un anticipo del futuro.

en el vídeo: Su Excelencia Mons.. Raymond Kingsley Wickramasinghe, Obispo de Galle (Sri Lanka)

Cuando dos padres me pidieron disculpas al final de la Santa Misa por sus dos hijos bastante ruidosos, Respondí: «Mientras los niños hagan ruido en nuestras iglesias, significa que todavía estamos vivos». No agregué entonces -pero lo hago ahora de paso- que cuando ya no escuchemos las voces de los niños en nuestras iglesias, Seguramente escucharemos las voces de los muecines cantando desde los campanarios de nuestras iglesias convertidas en mezquitas., como ya ha sucedido en varios países del norte de Europa.

Los ejemplos son bien conocidos., mencionaré sólo algunos: En Hamburgo se compró la antigua Kapernaumkirche luterana y se reabrió como mezquita Al‑Nour.; En Ámsterdam, el Fatih Moskee ocupa la antigua iglesia católica de San Ignacio. («El Sembrador»); En Bristol, la mezquita Jamia se encuentra en la antigua calle St.. Iglesia de Catalina. En cuanto al llamado amplificado del muecín, la ciudad de Colonia lanzó en 2021 un piloto municipal que permitirá la convocatoria del viernes, que luego se estabilizó en 2024.

En las últimas décadas, En no pocas diócesis se ha hecho costumbre admitir también a las niñas al servicio del altar.. Muchos obispos y pastores, aunque no le gusta la práctica, lo han tolerado o mantenido para evitar controversias. A lo largo de los años, algunas de esas niñas se convirtieron en adolescentes y mujeres jóvenes y continuaron sirviendo, no sin vergüenza para ciertos sacerdotes -entre ellos el abajo firmante- que, con la mayor cortesía, Nunca he permitido a las chicas, y especialmente las mujeres jóvenes adolescentes, servir.

Ser claro, No se trata de prohibir a las mujeres ciertos servicios., y menos las chicas jóvenes. Se trata de pensar con sabiduría pedagógica y pastoral: cuantas vocaciones sacerdotales han nacido en el altar, dentro de un grupo de monaguillos? ¿Y cómo se le explica a una chica que ama la liturgia que el sacramento del Orden no es, y no puede ser, un camino abierto para ella como mujer? La doctrina es muy clara: «Sólo el varón bautizado recibe válidamente la sagrada ordenación» (cf. Código de Ley Canon, lata. 1024); «La Iglesia se reconoce vinculada por la elección hecha por el mismo Señor. Por esta razón no es posible la ordenación de mujeres» cf.. Catecismo de la Iglesia Católica, 1577); y san Juan Pablo II confirmó definitivamente que la Iglesia «no tiene autoridad alguna» para conferir la ordenación sacerdotal a las mujeres (cf. la ordenación sacerdotal (1994), n. 4; CDF, La respuesta al problema (1995).

También hay un aspecto sociopedagógico. conocido por quienes frecuentan las sacristías: chicas: a menudo más preparadas, Más diligentes y maduros que sus compañeros: tienden a tomar la iniciativa en grupos pequeños.; La experiencia muestra que cuando el número de niñas en el santuario supera claramente al de niños, no pocos chicos se retiran, percibir el servicio como “cosa de chicas”. El resultado paradójico es que aquellos más potencialmente receptivos a una vocación se alejan del corazón de la celebración.. En un Occidente donde la edad media de los sacerdotes es alta, Los seminarios están vacíos o reducidos y las parroquias están sin párrocos., ¿Tiene sentido renunciar a lo que puede fomentar incluso unas pocas vocaciones para seguir la lógica mundana de las “cuotas clericales rosas”??

Para entender no sólo «lo que está permitido» pero sobre todo «lo que conviene», debemos partir de las normas litúrgicas. La liturgia no es un campo para experimentos sociológicos.: «Por lo tanto ninguna otra persona, aunque sea sacerdote, puede agregar, eliminar, ni cambiar nada en la liturgia por su propia cuenta» (cf. Sacrosanctum Concilium, 22 § 3). Las funciones de los ministros están expuestas con sobria precisión (cf. Instrucción General del Misal Romano). En cuanto a los ministerios, San Pablo VI reemplazó las antiguas “órdenes menores” por los ministerios instituidos de lector y acólito., luego reservado a hombres laicos cf. Ministerios, 1972). El Papa Francisco modificó la lata.. 230 §1, abrir los ministerios instituidos de lector y acólito también a las mujeres, pero estos no deben identificarse con el servicio de monaguillo, que pertenece a la diputación temporal de can. 230 §2 y se refiere a la asistencia al altar confiada caso por caso a fieles laicos (cf. espíritu de, 2021).

Dos textos de la Santa Sede aclaró el asunto con inusual precisión. La Carta Circular de la Congregación para el Culto Divino a los Presidentes de las Conferencias Episcopales sobre la correcta interpretación del can. 230 §2 (15 Marzo 1994, beneficio. 2482/93) reconoció la posibilidad, a discreción del obispo, de admitir niñas al servicio del altar, al tiempo que destaca que es “siempre muy apropiado” mantener la noble tradición de los niños como monaguillos, y que dicha admisión no crea ningún “derecho” subjetivo a servir (Información 30 (1994) 333–335). Unos años después, los Carta de la misma Congregación (27 Julio 2001) Aclarado más: El obispo puede permitir monaguillos pero no puede obligar a los pastores a usarlas.; los fieles no ordenados «no tienen derecho» a servir; y queda la obligación de promover los grupos masculinos también por su valor vocacional (cf. Información 37 (2001) 397–399; .Información 38 (2002) 46–48).

La experiencia de otras Iglesias locales también arroja luz. En Sri Lanka, donde la edad media del clero diocesano es mucho menor que en Italia y los seminarios están bien poblados, el Arzobispo Metropolitano de Colombo, Cardenal Albert Malcolm Ranjith, señaló la inoportunidad de las monaguillas por razones pastorales y pedagógicas: ninguno de ellos, como adultos, puede entrar al seminario; Por lo tanto, tiene sentido preservar espacios formativos característicamente masculinos alrededor del altar., sin disminuir de ninguna manera la rica participación femenina en otros lugares (ver su indicación pastoral citada aquí: IL TIMONE).

En otros contextos, como los estados unidos, Algunas diócesis y parroquias han mantenido legítimamente grupos de monaguillos exclusivos para niños precisamente sobre la base de la 1994 y 2001 textos. Esto no es “exclusión”, sino la promoción de una práctica que en ciertos lugares resulta más fructífera para la pastoral vocacional (cf. Diócesis de Lincoln (explicación de la política; y el 2011 decisión en la Catedral de los Santos. Simón & Judas, Fénix— reportaje de noticias).

En los últimos meses, Esta tesis ha sido retomada por la teóloga italiana Sra. Marinella Perroni, quien sostiene que la elección hecha en Colombo sigue un «silogismo» que puede ser lógicamente claro pero que, no obstante, debería ser rechazado.

Al hacerlo, sin embargo, su argumento pasa de la liturgia a la ingeniería social. La liturgia no es un espejo proporcional de los electores sociales.; es el culto de la Iglesia a Dios según normas que salvaguardan la claridad de los signos y la libertad de la gracia (cf. Sacrosanctum Concilium 22 § 3). Los documentos de la Santa Sede, como se muestra arriba, recordar tres puntos elementales: la facultad de admitir niñas es posible pero no crea derechos subjetivos; el obispo diocesano puede autorizarlo pero no imponerlo a los pastores; y sigue existiendo la obligación de promover grupos de monaguillos de niños también por motivos vocacionales (cf. Información 30 (1994) 333–335; Información 37 (2001) 397–399; Información 38 (2002) 46–48). Confundir esta prudencia con misoginia es ideología, no discernimiento (Ver el artículo de Perroni: "Sri Lanka, pero ¿por qué la prohibición de las monaguillas fomentaría las vocaciones sacerdotales??» — L’Osservatore Romano, el órgano oficial de la Santa Sede original italiano - versión inglesa).

En breve, el altar no necesita cuotas; necesita corazones formados por el Misterio. Es legítimo, y a veces oportuno, que algunas Iglesias particulares admitan a niñas en sus servicios.; y es igualmente legítimo —y a menudo más prudente— mantener grupos de monaguillos masculinos cuando ello sirva para la claridad de los signos y la promoción de las vocaciones.. Esto no es una capitulación ante un “orden masculino”, sino un acto de prudencia pastoral al servicio de toda la comunidad.

Una nota personal final: Yo tenía nueve años cuando, después de la santa misa, Regresé a casa y les dije a mis padres que quería ser sacerdote.. Lo tomaron como una de las tantas fantasías propias de los niños., que hoy quieren ser astronautas, mañana productores de fresas, y el dia despues doctores. Y sin embargo, lo que parecía una fantasía demostró lo contrario: treinta y cinco años después recibí la sagrada ordenación sacerdotal. sí, La mía fue una vocación de adulto, pero nacida de niño., mientras servía como monaguillo en el altar.

de la isla de patmos, Octubre 8, 2025

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¿SON NECESARIAS LAS «CUOTAS ROSAS» EN EL ALTAR? DE LA TEO‑IDEOLOGÍA FEMINISTA A LA SABIDURÍA PASTORAL DE SRI LANKA

El obispo puede permitir a las monaguillas, pero no puede obligar a los párrocos a utilizarlas. Los fieles no ordenados «no tienen derecho» a servir en el altar y permanece la obligación de promover grupos masculinos de monaguillos, también por su probada valencia vocacional.

— Actualidad eclesial —

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Ver a niños alrededor del altar alegra el corazón y el espíritu. Es un signo de vida en una Europa — empezando por nuestra Italia — en la que la natalidad lleva décadas estancada y la edad media de la población, y del clero, no deja de aumentar. En un contexto tan frágil, la presencia de niños en la iglesia es ya una buena noticia, un anticipo del futuro.

En el vídeo: Su Excelencia Monseñor Raymond Kingsley Wickramasinghe, Obispo de Bilal (Sri Lanka)

Cuando, al final de la Santa Misa, dos padres me pidieron disculpas por sus dos hijos algo ruidosos, les tranquilicé diciendo: «Mientras los niños hagan ruido en nuestras iglesias, significa que seguimos vivos». No lo añadí entonces — pero lo hago ahora a modo de inciso—: cuando ya no escuchemos las voces de los niños en nuestras iglesias, seguramente oiremos a los muecines cantar desde los campanarios de nuestras iglesias convertidas en mezquitas, como ya ha sucedido en varios países del Norte de Europa. Los ejemplos son conocidos; cito sólo algunos: en Hamburgo, la antigua Kapernaumkirche luterana fue adquirida y reabierta como Mezquita Al‑Nour; en Ámsterdam, la Fatih Moskee tiene su sede en la antigua iglesia católica de San Ignacio; Un brístol, la Jamia Mosque se levanta en la antigua St. Iglesia de Catalina. En cuanto a la llamada del muecín por altavoz, la ciudad de Colonia inició en 2021 un proyecto municipal que permite la llamada de los viernes, estabilizado posteriormente en 2024.

En las últimas décadas, no pocas diócesis han admitido también a niñas al servicio del altar. Muchos obispos y párrocos, aun no apreciándolo, han tolerado o mantenido la práctica para evitar polémicas. Con el paso de los años, algunas han continuado como adolescentes y jóvenes, no sin cierto embarazo para algunos sacerdotes, incluido quien escribe, que con suma cortesía nunca ha permitido que niñas — y en especial adolescentes — sirvieran en el altar. Vale la pena aclarar esto: no se trata de negar a las mujeres determinados servicios, sino de pensar con sabiduría pastoral y pedagógica. ¿Cuántas vocaciones sacerdotales nacieron junto al altar, en el grupo de monaguillos? ¿Y cómo se explica a una niña entusiasmada por la liturgia que el sacramento del Orden no es — ni puede ser — una perspectiva abierta a su condición femenina? La doctrina es clarísima: «Recibe válidamente la sagrada ordenación sólo el varón bautizado» (cf. CIC 1983, lata. 1024); «La Iglesia se reconoce vinculada por la elección hecha por el mismo Señor. Por este motivo, no es posible la ordenación de las mujeres» (cf. CCA n.1577); y san Juan Pablo II confirmó de modo definitivo que la Iglesia «no tiene de ningún modo la facultad» de conferir la ordenación sacerdotal a las mujeres (cf. la ordenación sacerdotal, 22 de mayo de 1994, n. 4).

Hay además un aspecto socio‑pedagógico bien conocido por quienes frecuentan las sacristías: las niñas, a menudo más prontas, diligentes y maduras que sus coetáneos, tienden a prevalecer en los grupos pequeños; la experiencia muestra que, donde el número de niñas en el presbiterio se hace claramente superior, no pocos chicos se retraen, percibiendo ese servicio como “cosa de niñas”. El resultado paradójico es que precisamente los sujetos con mayor potencial vocacional se alejan del corazón de la celebración. ¿Tiene sentido, entonces, en un Occidente con edad media sacerdotal elevada, seminarios vacíos o reducidos y parroquias sin párroco, renunciar a lo que puede favorecer aunque sea unos pocos gérmenes de vocación para perseguir la lógica — ma y políticamente correcta — de las “cuotas rosas clericales”?

Para comprender no sólo lo que “se puede”, sino sobre todo lo que “conviene”, el punto de partida son las normas litúrgicas, no las opiniones. La liturgia no es campo de experimentos sociológicos: «De ningún modo permite a nadie, ni siquiera al sacerdote, añadir, quitar o cambiar cosa alguna por iniciativa propia» (cf. Sacrosanctum Concilium 22 § 3). Las funciones de los ministros están delineadas con sobriedad, con papeles y límites (cf. Misal General Tradicional [IGMR], NN. 100; 107; 187–193).

En el ámbito de los ministerios, san Pablo VI sustituyó las antiguas “órdenes menores” por los ministerios instituidos de lector y acólito, entonces reservados a los varones laicos (cf. Ministerios, NN. I-IV). El papa Francisco modificó después el can. 230 §1, abriendo estos ministerios instituidos también a las mujeres, pero ellos no se identifican con el servicio de monaguillos, que pertenece a la deputación temporal prevista por el can. 230 §2 (cf. espíritu de, 2021; CIC 1983, lata. 230 §1-2).

Dos textos de la Santa Sede fijaron luego el perímetro con rara claridad. La Carta circular de la Congregación para el Culto Divino a los Presidentes de las Conferencias Episcopales sobre la correcta interpretación del can. 230 §2 (15 de marzo de 1994, beneficio. 2482/93) reconoció la posibilidad — a discreción del obispo — de admitir también a niñas al servicio del altar, precisando al mismo tiempo que «siempre es muy oportuno» mantener la noble tradición de los niños monaguillos y que dicha admisión no crea ningún «derecho» subjetivo a servir (cf. Información 30 (1994) 333–335). A los pocos años, las Carta de la misma Congregación (27 de julio de 2001) aclararon todavía más: el obispo puede permitir a las monaguillas, pero no puede obligar a los párrocos a usarlas; los fieles no ordenados «no tienen derecho» a servir; y permanece la obligación de promover grupos masculinos también por su probada valencia vocacional (cf. Información 37 (2001) 397–399; véase también la traducción italiana: Información 38 (2002) 46–48).

La experiencia de otras Iglesias particulares ilumina ulteriormente la cuestión. En Sri Lanka — donde la edad media del clero diocesano es mucho más baja que en Italia y los seminarios están bien poblados —, el arzobispo metropolitano de Colombo, el cardenal Albert Malcolm Ranjith, señaló la inoportunidad de las monaguillas por razones pastorales y pedagógicas: ninguna de ellas, ya adulta, podrá entrar en el seminario; por tanto, tiene sentido preservar espacios educativos típicamente masculinos alrededor del altar, sin restar nada a la rica participación femenina en otros ámbitos (véase esta indicación pastoral citada aquí: IL TIMONE).

En otros contextos, como en Estados Unidos, algunas diócesis y parroquias han mantenido legítimamente grupos de monaguillos sólo varones precisamente sobre la base de los textos de 1994 y 2001. Esto no es «exclusión», sino la promoción de una praxis que en ciertos lugares se muestra más fecunda para la pastoral vocacional (véase la Diócesis de Lincoln (explicación de política); y la decisión de 2011 en la Catedral de los Santos Simón y Judas, Fénix— crónica periodística).

En estos meses, esta tesis ha sido retomada por la teóloga Marinella Perroni, quien sostiene que la opción de Colombo responde a un «silogismo» impecable pero, a su juicio, rechazable. Sin embargo, su argumento confunde la liturgia con la ingeniería social. La liturgia no es un espejo proporcional de las pertenencias sociales; es el culto de la Iglesia a Dios según normas que custodian la claridad de los signos y la libertad de la gracia (cf. Sacrosanctum Concilium 22 § 3). Los documentos de la Santa Sede, como hemos visto, recuerdan tres puntos elementales: se puede admitir a niñas, pero ello no crea derechos subjetivos; el obispo diocesano puede autorizarlo, no imponerlo a los párrocos; y permanece la obligación de promover grupos masculinos de monaguillos también por razones vocacionales (cf. Información 30 (1994) 333–335; Información 37 (2001) 397–399; Información 38 (2002) 46–48). Tomar esta prudencia por misoginia es ideología, no discernimiento. Véase el artículo de Perroni: "Sri Lanka, sino porque la prohibición de las monaguillas favorecería las vocaciones sacerdotales?» — original italiano - versión inglesa.

En definitiva, en el altar no hacen falta cuotas, sino corazones educados por el Misterio. Es legítimo — y en ocasiones oportuno — que algunas Iglesias particulares admitan a niñas al servicio; y es igualmente legítimo — y a menudo más prudente — mantener grupos masculinos de monaguillos cuando ello sirve a la claridad de los signos y a la promoción de las vocaciones. No es una rendición al “orden masculino”, sino un acto de prudencia pastoral al servicio de toda la comunidad.

Una nota personal a modo de testimonio: tenía nueve años cuando, al terminar la Santa Misa, volví a casa diciendo a mis padres que quería ser sacerdote. Lo tomaron como una de tantas fantasías propias de los niños, capaces de decir hoy que quieren ser astronautas, mañana cultivadores de fresas y pasado médicos. Y, sin embargo, lo que parecía una fantasía no lo fue: treinta y cinco años después recibí la sagrada ordenación sacerdotal. Sí, la mía fue una vocación adulta, pero nacida de niño, mientras servía como monaguillo en el altar.

Desde la isla de Patmos, 8 de octubre de 2025

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Los Padres de la Isla de Patmos

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La alegría salvadora de ser solo sirvientes inútiles – La alegría salvadora de ser solo sirvientes – La alegría salvífica de ser solo siervos inútiles

Homilética de los Padres de la Isla de Patmos

italiano, inglés, español

 

LA GIOIA SALVIFICA DI ESSERE SOLO DEI SERVI INUTILI

L’autentico discepolo del Signore, Después de hacer bien su servicio, Sin embargo, debe reconocerse a sí mismo inútil porque su trabajo no necesariamente le garantiza la salvación, in quanto la grazia sarà sempre un dono e non un vanto per aver fatto qualcosa.

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Il Vangelo di Luca riporta oggi due detti di Gesù. Il primo riguarda la fede, in risposta ad una domanda degli apostoli.

Il secondo che si presenta in forma estesa, quasi una piccola parabola, fa riferimento al servizio che i «servi inutili» danno. Il contesto è ancora quello del gran viaggio di Gesù verso Gerusalemme che ha preso avvio in Lc 9,51 e terminerà in Lc 19,45. Con il Vangelo di oggi si chiude proprio la seconda sezione di questo pellegrinaggio di Gesù che si contraddistingue per l’invito ad entrare nel Regno seguendo alcune condizioni. Questo che segue è il testo evangelico:

"En ese momento, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe. ¿Quién entre ustedes?, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola?» Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu?» Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Por lo que hacer, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dicho: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,5-10).

Dopo aver trattato dell’uso dei beni materiali, delle relazioni con il prossimo e della Chiesa con le istruzioni comunitarie, per la prima volta il Signore nel Vangelo di Luca parla del tema della fede in risposta ad un intervento degli apostoli: «Accresci in noi la fede» (Lc 17,5). La domanda di questi ultimi rimanda ad una situazione simile ricordata dal Vangelo di Marco. Ahí, dopo il racconto della trasfigurazione, il padre di un ragazzo posseduto si rivolge a Gesù per chiedere la liberazione del figlio, e gli dice: «Credo; aiuta la mia incredulità» (MC 9,24). Il Signore gli risponde non a parole, ma con un gesto di potenza, esorcizzando lo spirito impuro. Il vangelo di Matteo racconta lo stesso episodio ma lo amplifica, aggiungendo la reazione dei discepoli non tramandata da San Marco e registrando però le stesse parole di Gesù che ascoltiamo oggi: «Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, al margen, e gli chiesero: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». Y él les respondió: «Per la vostra poca fede. De cierto os digo: se avrete fede pari a un granello di senape, le dirás a esta montaña: «Spòstati da qui a là, y se moverá, y nada te será imposible" (Mt 17,19-20).

In verità anche Marco conserva lo stesso detto di Gesù in Luca, ma in un diverso contesto, quello del fico infruttuoso: «Rispose loro Gesù: «Abbiate fede in Dio! De cierto os digo: se uno dicesse a questo monte: Lèvati e gèttati nel mare, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà» (MC 11,22-23).

Se, come diceva Archimede, per sollevare il mondo occorre un punto di appoggio, questo per Gesù è indubbiamente la fede. Gesù ha appena parlato dell’inevitabilità che si verifichino scandali nella comunità cristiana e ha invitato a correggere chi pecca e a perdonare all’infinito chi si pente e riconosce apertamente il proprio peccato (Lc 17,1-4). In questo contesto si comprende la preghiera dei discepoli di veder accresciuta la loro fede. Come reggere, de hecho, il peso degli scandali, degli ostacoli alla vita di comunione, dell’inciampo posto ai più piccoli o semplici nello spazio ecclesiale? Come esercitare una correzione fraterna che non schiacci il fratello ma lo liberi? Come perdonare ancora e sempre chi ogni volta si pente? Solo per mezzo della fede. Che si tratti, a titolo esemplificativo, di spostare un gelso come nell’odierna pagina di Luca o un monte, come nei vangeli di Marco e Matteo, la «leva» di cui sopra per farlo è la fede, grande anche solo come un granello di senapa, infatti ciò che vale è la qualità e non la quantità. Nei miracoli evangelici essa è presupposta nei bisognosi che Gesù incontra, permette di rifuggire dalla spettacolarizzazione o dall’idolatria, Gesù di norma chiede la fede prima del suo intervento, poiché dopo essa non è più garantita, come nel caso dei dieci lebbrosi guariti del Vangelo di domenica prossima: solo uno tornò per ringraziare (cf.. Lc 17,11-19).

Nella seconda parte del brano viene riportata una similitudine, quasi una parabola, che presenta una situazione che, Afortunadamente, oggi è molto difficile rintracciare, poiché la schiavitù è stata abolita e chi svolge un servizio lo fa perché competente e gratificato e non semplicemente perché qualificato come servo. Tuttavia nella Bibbia questi termini, al netto delle situazioni sociali differenti dalle nostre, vengono adoperati per definire una condizione religiosa, spesso positiva. Por ejemplo, en el evangelio de Lucas, Maria stessa si proclama «serva» del Signore (cf.. Lc 1,38). Com’è tipico di Gesù, la parabola ci pone davanti ad una situazione paradossale, in quanto invito a guardare la realtà da un altro punto di vista, che è quello di Dio. In questo caso il paradosso corrisponde al fatto che il servo, avendo compiuto il suo dovere, è stato necessario al suo padrone. Ma l’autentico discepolo del Signore, Después de hacer bien su servicio, Sin embargo, debe reconocerse a sí mismo inútil porque su trabajo no necesariamente le garantiza la salvación, in quanto la grazia sarà sempre un dono e non un vanto per aver fatto qualcosa. Il termine greco, usato da Luca, acreios (achreioi), che ha il significato primigenio di «senza valore», applicato alle persone citate da Gesù sta ad indicare dei servi qualunque, a cui nulla è dovuto. È un senso forte, che potrebbe urtare la sensibilità moderna, eppure nasconde un significato religioso e salvifico che, por ejemplo,, l’apostolo Paolo coglie parlando della fede nella Lettera ai Romani: «Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (ROM 3,27-28). E ancora nella Lettera agli Efesini: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene» (Ef 2,8-9).

Per il discepolo dunque e nella comunità cristiana, la fede è richiesta per il servizio e camminano insieme; questo è il legame che possiamo rintracciare fra la similitudine che Gesù fa e l’esortazione alla fede, pur delle dimensioni di un granello di senapa. Gesù sta istruendo coloro che lo seguono e al discepolo è richiesta una fede grande, che non può altro che essere domandata di continuo a Dio. La fatica e l’impegno che devono avere i cristiani per fare ciò che fanno, spesso a rischio della propria vita in alcune situazioni e parti del mondo, deve anche saper riconoscere che si è salvati non perché si è stati bravi o si sono ottenuti dei risultati, ma perché è Dio che salva. Tutti i meriti, anche quelli legittimamente ottenuti, devono essere ricondotti a Dio misericordioso e salvatore.

Desde la ermita, 5 de Octubre del 2025

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THE SAVING JOY OF BEING ONLY UNWORTHY SERVANTS

The disciple of the Lord, after having carried out his service well, must still recognise himself as unprofitable, because his work does not of itself guarantee salvation; grace will always be a gift and never a boast for having done something.

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The Gospel of Luke today reports two sayings of Jesus. The first concerns faith, in response to a request from the apostles.

The second, presented at greater length as a short parable, refers to the service rendered by the «unprofitable servants». The setting is still that of the great journey of Jesus to Jerusalem which began at Lc 9:51 and will end at Lc 19:45. With today’s Gospel we come to the close of the second section of this pilgrimage of Jesus, which is marked by the invitation to enter the Kingdom by following certain conditions. What follows is the Gospel text:

«And the apostles said to the Lord, “Increase our faith.” The Lord replied, “If you have faith the size of a mustard seed, you would say to [this] mulberry tree, ‘Be uprooted and planted in the sea,’ and it would obey you. “Who among you would say to your servant who has just come in from plowing or tending sheep in the field, ‘Come here immediately and take your place at table’? Would he not rather say to him, ‘Prepare something for me to eat. Put on your apron and wait on me while I eat and drink. You may eat and drink when I am finished’? Is he grateful to that servant because he did what was commanded? So should it be with you. When you have done all you have been commanded, say, ‘We are unprofitable servants; we have done what we were obliged to do.’” (lucas 17:5–10)».

After speaking about the use of material goods, relations with one’s neighbour and the life of the Church with her communal instructions, for the first time in Luke’s Gospel the Lord speaks about the theme of faith in response to a request from the apostles: «Increase our faith» (Lc 17:5). Their plea recalls a similar situation noted by Mark. There, after the account of the Transfiguration, the father of a possessed boy turns to Jesus to ask for his son’s liberation and says to him: «I do believe, help my unbelief!» (Mk 9:24). The Lord answers him not with words but with a deed of power, by casting out the unclean spirit. Matthew recounts the same episode but expands it, adding the disciples’ reaction (which Mark does not record) and preserving the same words of Jesus that we hear today: «Then the disciples approached Jesus in private and said, “Why could we not drive it out?” He said to them, “Because of your little faith. Amén, I say to you, if you have faith the size of a mustard seed, you will say to this mountain, ‘Move from here to there,’ and it will move; nothing will be impossible for you”» (Mt 17:19–20).

Mark also preserves the same saying of Jesus as Luke, but in a different context, that of the barren fig tree: «Jesus said to them in reply, “Have faith in God. Amén, I say to you, whoever says to this mountain, ‘Be lifted up and thrown into the sea,’ and does not doubt in his heart but believes that what he says will happen, it shall be done for him”» (Mk 11:22–23).

If, as Archimedes said, to lift the world one needs a fixed point, for Jesus that point is undoubtedly faith. He has just spoken about the inevitability that scandals occur within the Christian community and has urged that the sinner be corrected and that the one who repents be forgiven without limit (Lc 17:1-4). In this context one understands the disciples’ prayer to have their faith increased. How, Por supuesto, can one bear the weight of scandals, of obstacles to communion, of stumbling blocks placed before the little ones in the Church’s life? How can one exercise fraternal correction that does not crush a brother but frees him? How can one forgive again and again those who repent each time? Only by means of faith. Whether, by way of example, it is a matter of moving a mulberry tree as in Luke, or a mountain as in Mark and Matthew, the “lever” to do so is faith — great even if only like a mustard seed — for what counts is its quality rather than its quantity. In the Gospel miracles faith is presupposed in those in need whom Jesus meets; it allows one to avoid spectacle or idolatry. Jesus normally asks for faith before he intervenes, because afterwards it is no longer guaranteed, as in the case of the ten lepers of next Sunday’s Gospel: only one returned to give thanks (cf. Lc 17:11–19).

In the second part of the passage a comparison is reported, almost a parable, presenting a situation which, thankfully, is very hard to find today, since slavery has been abolished and those who perform a service do so because they are competent and fulfilled, not simply because they are labelled as servants. Nevertheless, in the Bible such terms, quite apart from social situations different from our own, are used to define a religious condition, often a positive one. Por ejemplo, in Luke’s Gospel Mary herself proclaims herself the «handmaid» of the Lord (cf. Lc 1:38). As is typical of Jesus, the parable sets before us a paradoxical situation that invites us to look at reality from another point of view, that of God. The paradox here is that the servant, having done his duty, has in fact been necessary to his master. But the true disciple of the Lord, after having carried out his service well, must still recognise himself as unprofitable, because his work does not of itself guarantee salvation; grace will always be a gift and never a boast for having done something. The Greek word used by Luke, acreios (achreioi), whose primary sense is “without claim,” applied to the persons in Jesus’ example indicates ordinary servants to whom nothing is owed. It is a strong expression that can jar modern sensibilities, yet it conceals a religious and saving meaning which, por ejemplo, the Apostle Paul brings out when he speaks about faith in the Letter to the Romans: «What occasion is there then for boasting? It is ruled out. On what principle, that of works? No, rather on the principle of faith. For we consider that a person is justified by faith apart from works of the law» (ROM 3:27–28). And again in the Letter to the Ephesians: «For by grace you have been saved through faith, and this is not from you; it is the gift of God; it is not from works, so no one may boast» (Efusión 2:8–9).

For the disciple, entonces, and within the Christian community, faith is required for service and the two walk together. This is the link we can trace between the comparison that Jesus makes and the exhortation to a faith even the size of a mustard seed. Jesus is instructing those who follow him, and the disciple is asked for a great faith which can only be continually begged from God. The hard work and commitment Christians must put into what they do — often at the risk of their very lives in certain situations and parts of the world — must also be joined to the recognition that we are saved not because we have been good or have achieved results, but because it is God who saves. All merits, even those legitimately obtained, must be referred back to the merciful and saving God.

From the Hermitage October 5, 2025

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LA ALEGRÍA SALVÍFICA DE SER SOLO SIERVOS INÚTILES

El auténtico discípulo del Señor, después de haber realizado bien su servicio, debe igualmente reconocerse inútil, porque su obra no le garantiza por sí misma la salvación; la gracia será siempre un don y no un motivo de jactancia por haber hecho algo.

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El Evangelio de Lucas hoy recoge dos dichos de Jesús. El primero se refiere a la fe, en respuesta a una petición de los apóstoles.

El segundo, presentado de forma más extensa como una pequeña parábola, alude al servicio que prestan los «siervos inútiles». El contexto sigue siendo el del gran viaje de Jesús hacia Jerusalén que comenzó en Lc 9,51 y concluirá en Lc 19,45. Con el Evangelio de hoy se cierra precisamente la segunda sección de esta peregrinación de Jesús, que se caracteriza por la invitación a entrar en el Reino siguiendo ciertas condiciones. A continuación, el texto evangélico:

«En aquel tiempo, los apóstoles dijeron al Señor: “¡Auméntanos la fe!". El Señor respondió: “Si tuvierais fe como un grano de mostaza, diríais a esta morera: ‘Arráncate y plántate en el mar’, y os obedecería. ¿Quién de vosotros, si tiene un siervo arando o pastoreando el rebaño, le dirá, cuando vuelve del campo: ‘Ven enseguida y ponte a la mesa’? ¿No le dirá más bien: ‘Prepárame de comer; cíñete y sírveme mientras yo como y bebo, y después comerás y beberás tú’? ¿Acaso da las gracias al siervo porque hizo lo que se le mandó? Así también vosotros, cuando hayáis hecho todo lo que se os ha ordenado, decid: ‘Somos siervos inútiles. Hemos hecho lo que debíamos hacer’.» (Lc 17,5–10).

Tras haber tratado del uso de los bienes materiales, de las relaciones con el prójimo y de la vida de la Iglesia con sus instrucciones comunitarias, por primera vez en el Evangelio de Lucas el Señor habla del tema de la fe en respuesta a una petición de los apóstoles: «¡Auméntanos la fe!» (Lc 17,5). La súplica remite a una situación semejante recordada por el Evangelio de Marcos. Allí, después del relato de la Transfiguración, el padre de un muchacho poseído se dirige a Jesús para pedir la liberación de su hijo y le dice: «¡Creo; ayuda mi incredulidad!» (MC 9,24). El Señor le responde no con palabras, sino con un gesto de poder, expulsando al espíritu impuro. Mateo narra el mismo episodio pero lo amplía, añadiendo la reacción de los discípulos (que Marcos no registra) y conservando las mismas palabras de Jesús que escuchamos hoy: «Entonces se acercaron a Jesús los discípulos aparte y le dijeron: “¿Por qué nosotros no pudimos expulsarlo?". Él les dijo: “Por vuestra poca fe. En verdad os digo: si tenéis fe como un grano de mostaza, diréis a este monte: ‘Muévete de aquí allá’, y se moverá; y nada os será imposible”» (Mt 17,19–20).

En realidad, Marcos también conserva el mismo dicho de Jesús que Lucas, pero en un contexto distinto, el de la higuera estéril: «Jesús les respondió: “Tened fe en Dios. En verdad os digo: el que diga a este monte: ‘Quítate y arrójate al mar’, sin dudar en el corazón, sino creyendo que sucederá lo que dice, le sucederá.”» (Mc 11,22–23).

Y, como decía Arquímedes, para mover el mundo se necesita un punto de apoyo, para Jesús ese punto es sin duda la fe. Acaba de hablar de la inevitabilidad de los escándalos en la comunidad cristiana y ha invitado a corregir al que peca y a perdonar sin límite al que se arrepiente (Lc 17,1–4). En este contexto se entiende la oración de los discípulos para que se aumente su fe. ¿Cómo soportar, en efecto, el peso de los escándalos, de los obstáculos a la comunión, de la piedra de tropiezo colocada a los pequeños en la vida eclesial? ¿Cómo ejercer una corrección fraterna que no aplaste al hermano sino que lo libere? ¿Cómo perdonar una y otra vez a quien cada vez se arrepiente? Solo mediante la fe. Ya se trate, a modo de ejemplo, de mover una morera, como en la página de hoy de Lucas, o una montaña, como en Marcos y Mateo, la «palanca» mencionada anteriormente para hacerlo es la fe, grande incluso si es del tamaño de un grano de mostaza: importa la calidad, no la cantidad. En los milagros evangélicos se presupone la fe en los necesitados que Jesús encuentra; permite huir del espectáculo o de la idolatría. Jesús normalmente pide la fe antes de intervenir, porque después ya no está garantizada, como en el caso de los diez leprosos del Evangelio del próximo domingo: solo uno volvió para dar gracias (cf. Lc 17,11–19).

En la segunda parte del pasaje se recoge una comparación, casi una parábola, que presenta una situación que, por fortuna, hoy es muy difícil de encontrar, pues la esclavitud ha sido abolida y quien presta un servicio lo hace porque es competente y se realiza, no simplemente por estar calificado como siervo. Sin embargo, en la Biblia estos términos —al margen de situaciones sociales distintas de las nuestras— se emplean para definir una condición religiosa, a menudo positiva. Por ejemplo, en el Evangelio de Lucas, María misma se proclama «sierva» del Señor (cf. Lc 1,38). Como es típico en Jesús, la parábola nos coloca ante una situación paradójica que invita a mirar la realidad desde otro punto de vista: el de Dios. El paradoja aquí consiste en que el siervo, habiendo cumplido su deber, ha sido necesario a su señor. Pero el auténtico discípulo del Señor, después de haber realizado bien su servicio, debe igualmente reconocerse inútil, porque su obra no le garantiza por sí misma la salvación; la gracia será siempre un don y no un motivo de jactancia por haber hecho algo. El término griego usado por Lucas, acreios (achreioi), cuyo sentido primario es «sin derecho», aplicado a las personas del ejemplo de Jesús indica siervos ordinarios a quienes nada se les debe. Es una expresión fuerte, que puede chocar la sensibilidad moderna, pero encierra un significado religioso y salvífico que, por ejemplo, el apóstol Pablo capta al hablar de la fe en la Carta a los Romanos: «¿Dónde está, pues, el motivo de gloriarse? Queda excluido. ¿Por qué ley? ¿Por la de las obras? No, por la ley de la fe. Pues sostenemos que el hombre es justificado por la fe, sin las obras de la ley» (Rom 3,27–28). Y también en la Carta a los Efesios: «Pues por gracia habéis sido salvados mediante la fe; y esto no viene de vosotros, sino que es don de Dios; no viene de las obras, para que nadie se gloríe» (Ef 2,8–9).

Para el discípulo, pues, y dentro de la comunidad cristiana, la fe se requiere para el servicio y ambas caminan juntas; este es el vínculo que podemos rastrear entre la comparación que hace Jesús y la exhortación a una fe, aunque sea del tamaño de un grano de mostaza. Jesús está instruyendo a quienes le siguen, y al discípulo se le pide una fe grande, que solo puede ser pedida a Dios continuamente. El esfuerzo y el compromiso que los cristianos deben poner en lo que hacen —muchas veces a riesgo de la propia vida en determinadas situaciones y lugares del mundo— debe ir unido al reconocimiento de que somos salvados no porque hayamos sido buenos o conseguido resultados, sino porque es Dios quien salva. Todos los méritos, incluso los legítimamente obtenidos, deben referirse a Dios misericordioso y salvador.

Desde la Ermita, 5 de octubre de 2025

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Cueva de Sant'Angelo en Maduro (Civitella del Tronto)

 

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