Fatece largo che passamo noi farisei perfetti campioni di purezza – Stand aside, for we pharisees, champions of purity, are coming through – ¡Apartaos, que pasamos, los fariseos, perfectos campeones de pureza!

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos
Italian, english, español
FATECE LARGO CHE PASSAMO NOI FARISEI PERFETTI CAMPIONI DI PUREZZA
«O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».

Autore
Monaco Eremita
.
PDF articolo formato stampa – PDF article print format – PDF artículo en formato impreso
.
Come il Vangelo di domenica scorsa, anche questo della XXX domenica del tempo Ordinario contiene un insegnamento sulla preghiera. È affidato alla parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, un testo presente soltanto nel terzo vangelo.
Se Luca aveva specificato il fine per cui Gesù aveva raccontato la parabola della vedova insistente e del giudice iniquo, ovvero la necessità della preghiera perseverante (Lc 18,1); questa invece viene narrata avendo di mira dei destinatari precisi: «Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9). Alla luce di Lc 16,15 dove Gesù qualifica i farisei come coloro che «si ritengono giusti davanti agli uomini», si può pensare che il bersaglio del racconto siano appunto solo loro, ma l’atteggiamento preso di mira nella parabola è una stortura religiosa che si verifica ovunque e abita anche le comunità cristiane, ed è certamente a questi destinatari che pensa Luca scrivendo il suo vangelo. È importante precisare questo per evitare letture caricaturali dei farisei, che purtroppo non sono mancate nel cristianesimo proprio partendo dalla lettura di questa parabola. Ed ecco il testo evangelico:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18,9-14).
Il brano si lascia facilmente suddividere in tre parti: Una introduzione, di un versetto; una parabola di quattro versetti (vv. 10-13); e la conclusione, di Gesù: «Io vi dico». I protagonisti della parabola sono due uomini, che salgono al luogo più santo di Israele, il tempio. Il verbo salire non solo dice che il tempio si trovava in alto, su un monte, ma anche che per andare a Gerusalemme si ascende, quasi a indicare il modo, anche fisico, di come ci si avvicina a Dio. Possiamo ricordare a tal proposito i «Salmi delle ascensioni», a partire dal Sal 120, ma anche, nel Vangelo, il buon Samaritano che si preoccupò dell’uomo incappato nei briganti mentre «scendeva da Gerusalemme a Gerico» (Lc 10,30). San Luca descrive qui due polarità opposte nel giudaismo del I secolo, mostrando così che i personaggi non sono scelti a caso. I farisei erano le persone più pie e devote, mentre gli esattori delle tasse erano spesso considerati ladri, una categoria di professionisti al soldo di Roma, come poteva essere stato Zaccheo di Gerico (Lc 19,1). Emerge anche che la preghiera al tempio poteva essere privata, mentre quella pubblica si teneva di mattino e alla sera, ed era regolata dalla liturgia templare.
Quindi abbiamo due uomini che si recano al tempio per pregare. Identico è il loro movimento, uguale il loro fine e medesimo è il luogo in cui si recano, eppure una grande distanza li separa. Essi sono vicini e al tempo stesso lontani, tanto che questa loro compresenza nel luogo di preghiera pone la domanda anche oggi, ai cristiani, di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno accanto all’altro in uno stesso luogo. È infatti possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e perfino dal disprezzo: «non sono come questo pubblicano» (v. 11). Le differenze tra i due personaggi sono rilevanti anche per la gestualità e le posture dei loro corpi e nel loro situarsi nello spazio sacro. Il pubblicano resta sul fondo, «si ferma a distanza» (v. 13), non osa avanzare, è abitato dal timore di chi non è abituato al luogo liturgico, china il capo a terra e si batte il petto pronunciando pochissime parole. Il fariseo, invece, esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro e prega stando in piedi a fronte alta, pronunciando molte e ricercate parole nel suo articolato ringraziamento. Questa coscienza di sé non ha nulla a che vedere con la giusta autostima, ma, sposandosi con il disprezzo per gli altri, si rivela essere un’arroganza ostentata, da parte di colui che forse così sicuro di sé non è, tanto che non fa albergare in sé dubbio alcuno. E la presenza degli altri serve a corroborare la sua coscienza di superiorità. Il verbo usato da Luca, exoutheneîn, tradotto con «disprezzare», significa letteralmente «ritenere niente», e sarà l’atteggiamento di Erode nei confronti di Gesù nel racconto della passione (Lc 23,11). La sicurezza nel condannare gli altri nel fariseo è necessaria per sostenere la sicurezza del proprio essere migliore e nel giusto.
Nelle parole del fariseo emerge anche quale immagine di Dio egli abbia. Egli prega «tra sé», cioè «rivolto a se stesso» (cfr. pròs eautòn di Lc 18,11) e la sua preghiera sembra dominata dall’ego. Formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia Dio non per ciò che ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così snaturato poiché il suo io si sostituisce a Dio e la sua preghiera finisce per essere un elenco di prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere «come gli altri uomini» (v. 11). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio tanto da impedirgli di vedere come un fratello colui che prega nel medesimo luogo e si sente così a posto che Dio non deve far altro che confermare ciò che egli è e fa: non necessita di conversione o cambiamento. Così Gesù rivela che lo sguardo di Dio non gradisce la sua preghiera: «il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (v. 14). Svelando al lettore la preghiera sommessa dei due personaggi della parabola, Luca compie un’incursione nella loro interiorità e nell’animo di chi prega, mostrando quel sottofondo dell’orazione che può fare tutt’uno con essa, oppure confliggere con essa. Si apre così, in questo brano, uno squarcio di luce sul cuore e sul profondo di chi prega, sui pensieri che lo abitano mentre è raccolto in preghiera. Si tratta di un’operazione audace ma importante, perché dietro alle parole che si pronunciano nella preghiera liturgica o personale spesso vi sono immagini, pensieri, sentimenti che possono essere anche in clamorosa contraddizione con le parole che si pronunciano e con il significato dei gesti che si compiono.
È il rapporto fra preghiera e autenticità. La preghiera del fariseo è sincera, ma non veritiera. Lo è quella del pubblicano, mentre quella del fariseo permane solo sincera, in quanto esprime quel che quest’uomo crede e sente, portando alla luce però la patologia nascosta nelle sue parole. Egli, cioè, credendo veramente a ciò che dice, mostra al contempo che quel che lo muove alla preghiera è l’intima convinzione che ciò che compie basti a giustificarlo. Perciò la sua convinzione è granitica e incrollabile. La sua personale sincerità è coerente con l’immagine di Dio che lo muove.
Sottolineiamo ancora il versetto 13, e cioè la postura e la preghiera del pubblicano che fa da contraltare a quella del fariseo. Rimane indietro, forse nello spazio più remoto rispetto all’edificio del tempio, non alza gli occhi al cielo, ma si riconosce peccatore battendosi il petto, al modo in cui Davide diceva: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13); come il «figliol prodigo» che dice: «Ho peccato contro il cielo e contro di te» (Lc 15,21). La preghiera del pubblicano non è centrata su di sé, ma chiede una sola cosa — misericordia — con l’espressione: «Abbi pietà», ilaskomai, che significa: propiziarsi, rendere benevolo, espiare i peccati. Il pubblicano non fa alcun confronto, si considera l’unico peccatore, un vero peccatore. Infine, al v.14, incontriamo il commento di Gesù, il quale mette in rilievo chi è giustificato e chi no. La risposta inizia con l’espressione: «Io vi dico» (lego hymin), come a segnalare una conclusione significativa, una richiesta di attenzione solenne. Poi Gesù dice che dei due che erano saliti al tempio, solo il pubblicano ne discese giustificato. Il verbo usato da Gesù significa discendere a casa (la CEI: «tornò a casa»). La preghiera del peccatore è accolta da Dio, quella del fariseo invece no perché questi non aveva nulla da chiedere. Dio invece accoglie sempre le richieste di perdono quando sono autentiche e questa parabola risulta essere dunque un ulteriore insegnamento sulla preghiera, come quella appena sopra, del giudice e della vedova.
Il lettore cristiano attraverso questa parabola comprende che l’autenticità della preghiera passa attraverso la qualità buona delle relazioni con gli altri che pregano con me e che con me formano il corpo di Cristo. E nello spazio cristiano, in cui Gesù Cristo è «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), la preghiera è un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dall’immagine rivelata in Cristo e questi crocifisso (cfr. 1Cor 2,2), immagine che contesta tutte quelle contraffatte di Dio. Possiamo dire che l’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili, egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista, compiendo anche opere supererogatorie. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo, che richiede il distacco dagli altri. La preghiera, invece, suggerisce Luca, richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, all’humus di cui siamo fatti. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità e si trova misericordia.
Dall’Eremo, 26 ottobre 2025
.
______________________________
STAND ASIDE, FOR WE PHARISEES, CHAMPIONS OF PURITY, ARE COMING THROUGH
«O God, I thank Thee that I am not like other men — thieves, unjust, adulterers — nor even like this publican. I fast twice a week, and I pay tithes on all I possess».

Author
Monaco Eremita
.
As in last Sunday’s Gospel, so too in that of this Thirtieth Sunday in Ordinary Time we find a teaching on prayer. It is conveyed through the parable of the Pharisee and the publican in the temple — a text found only in the third Gospel. If Saint Luke had specified the purpose for which Jesus told the parable of the persistent widow and the unjust judge, namely the necessity of persevering prayer (Lk 18:1), this one, on the other hand, is told with certain hearers clearly in mind: “He also told this parable to some who were convinced of their own righteousness and despised others” (Lk 18:9). In the light of Luke 16:15, where Jesus describes the Pharisees as those “who justify themselves in the sight of men”, one might suppose that they alone are the intended target of the narrative. Yet the attitude denounced in the parable is a religious distortion that can arise anywhere — it inhabits even Christian communities — and it is surely to such as these that Luke directs his Gospel. It is important to make this clarification so as to avoid caricatured readings of the Pharisees, which unfortunately have not been lacking within Christianity, often beginning precisely from this parable. And here is the Gospel text itself:
“Two people went up to the temple area to pray; one was a Pharisee and the other was a tax collector. The Pharisee took up his position and spoke this prayer to himself, ‘O God, I thank you that I am not like the rest of humanity — greedy, dishonest, adulterous — or even like this tax collector. I fast twice a week, and I pay tithes on all I possess.’ But the tax collector stood off at a distance and would not even raise his eyes to heaven but beat his breast and prayed, ‘O God, be merciful to me a sinner ’. I tell you, the latter went home justified, not the former; for whoever exalts himself will be humbled, and the one who humbles himself will be exalted”. (Lk 18:9–14).
The passage can easily be divided into three parts: an introduction of one verse; a parable of four verses (vv. 10–13); and the conclusion spoken by Jesus: “I tell you.”The protagonists of the parable are two men who go up to the holiest place in Israel, the Temple. The verb to go up indicates not only that the Temple stood on high, upon a mountain, but also that one ascends when going to Jerusalem — almost as though to suggest, even in bodily movement, the manner in which one draws near to God. In this regard we may recall the Psalms of Ascent, beginning with Psalm 120, and likewise, in the Gospel, the Good Samaritan who took care of the man fallen among robbers while “going down from Jerusalem to Jericho” (Lk 10:30). Saint Luke here depicts two opposing poles within first-century Judaism, showing that the characters were not chosen at random. The Pharisees were regarded as the most pious and devout, while the tax collectors were often seen as thieves — a class of professionals in the service of Rome, as Zacchaeus of Jericho may have been (Lk 19:1). It also becomes clear that prayer in the Temple could be private, while public prayer was held in the morning and in the evening and was governed by the Temple liturgy.
We thus have two men who go to the Temple to pray. Their movement is identical, their purpose the same, and the place to which they go is one and the same; yet a great distance separates them. They are close to each other and yet far apart, so that their being together in the place of prayer raises, even for us Christians today, the question of what it truly means to pray together — side by side, one beside another, in the same sacred space. It is indeed possible to pray next to someone and yet be separated by comparison, by rivalry, or even by contempt: “I am not like this tax collector” (v. 11). The differences between the two characters are also evident in their gestures, in the posture of their bodies, and in the way they situate themselves within the sacred space. The tax collector remains at the back, “standing at a distance” (v. 13); he does not dare to come forward, he is filled with the awe of one unaccustomed to the liturgical place; he bows his head to the ground and beats his breast, uttering but a few words. The Pharisee, on the other hand, displays his assurance, his familiarity with the holy place; he prays standing upright, head held high, pronouncing many carefully chosen words in his elaborate thanksgiving. This self-awareness has nothing to do with proper self-respect; joined with contempt for others, it becomes a form of ostentatious arrogance — perhaps the posture of one who, in truth, is not so sure of himself, and who harbours no doubt within. The presence of others serves only to confirm his sense of superiority. The verb used by Luke, exoutheneîn, translated as “to despise”, literally means “to regard as nothing”, and it will describe the attitude of Herod toward Jesus in the Passion narrative (Lk 23:11). The Pharisee’s certainty in condemning others is the very means by which he sustains the illusion of his own righteousness and superiority.
In the words of the Pharisee there also emerges the image of God that he bears within himself. He prays “to himself” — that is, “turned toward himself” (pros heautón, Lk 18:11) — and his prayer appears to be ruled entirely by the ego. Formally, he performs an act of thanksgiving, yet in truth he thanks God not for what God has done for him, but for what he does for God. The very meaning of thanksgiving is thus distorted, for his self takes the place of God, and his prayer becomes a catalogue of pious achievements and a self-satisfaction at not being “like other men” (v. 11). His exalted image of himself obscures that of God, to the point of preventing him from seeing as a brother the man who prays in the same holy place. He feels himself so perfectly righteous that God has nothing left to do but to confirm what he already is and does: he has no need of conversion, no need of change. Thus Jesus reveals that God’s gaze does not look with favour upon his prayer: “the tax collector went home justified, rather than the other” (v. 14). By unveiling for the reader the subdued prayer of the two figures in the parable, Luke ventures into their inner world — into the soul of the one who prays — showing that hidden background of prayer which may either be one with it or at odds with it. This passage thus opens a window of light upon the heart and the depths of the one who prays, upon the thoughts that dwell within him even as he stands in prayer. It is a bold but essential insight, for behind the words uttered in prayer — whether liturgical or personal — there often lie images, thoughts, and feelings that may stand in striking contradiction to the very words we speak and to the gestures we perform.
It is the relationship between prayer and authenticity. The prayer of the Pharisee is sincere, but not truthful. That of the tax collector is truthful, whereas the Pharisee’s remains merely sincere — in that it expresses what this man believes and feels, yet at the same time reveals the hidden pathology within his words. Believing truly what he says, he also shows that what moves him to pray is the inner conviction that what he does is sufficient to justify him. Hence his conviction is granite-like and unshakable. His personal sincerity is wholly consistent with the image of God that animates him.
Let us pause once more upon verse 13 — upon the posture and the prayer of the tax collector, which stands in direct contrast to that of the Pharisee. He remains at the back, perhaps in the most distant space of the Temple precincts; he does not lift his eyes to heaven but acknowledges himself as a sinner, beating his breast as David once said, “I have sinned against the Lord” (2 Sam 12:13); and as the prodigal son confessed, “I have sinned against heaven and against you” (Lk 15:21). The prayer of the tax collector is not centred upon himself; he asks only one thing — mercy — with the expression “Be merciful” (hilaskomai), which means to propitiate, to make favourable, to atone for sins. The tax collector makes no comparison; he considers himself the only sinner, a true sinner. Finally, in verse 14, we find the comment of Jesus, who indicates who is justified and who is not. His response begins with the expression “I tell you” (lego hymin), signalling a solemn conclusion, a call for attentive listening. Then Jesus declares that of the two who went up to the Temple, only the tax collector went down to his house justified. The verb used by Jesus means to go down to one’s house. The sinner’s prayer is received by God; the Pharisee’s is not, for he had nothing to ask. God, however, always welcomes the plea for forgiveness when it is sincere. This parable thus becomes yet another teaching on prayer — like the one just above, of the judge and the widow.
Through this parable, the Christian reader understands that the authenticity of prayer passes through the goodness and integrity of one’s relationships with others who pray alongside us and who, together with us, form the Body of Christ. In the Christian sphere, where Jesus Christ is “the image of the invisible God” (Col 1:15), prayer becomes a process of continual purification of our images of God, beginning from the image revealed in Christ — and in Him crucified (cf. 1 Cor 2:2) — the image that contests and unmasks all false and distorted representations of God. The attitude of the Pharisee may be seen as emblematic of a religious type that replaces relationship with the Lord by measurable performance. He fasts twice a week and pays tithes on all he acquires, even undertaking works of supererogation. In place of a relationship with the Lord marked by the Spirit and by the gratuity of love, there arises a pursuit of sanctification through control — a striving that demands separation from others. Prayer, on the contrary, as Luke suggests, requires humility. And humility is an adhesion to reality — to the poverty and smallness of the human condition, to the humus from which we are made. It is the courageous knowledge of oneself before the God who has revealed Himself in the humility and self-emptying of the Son. Where there is humility, there is openness to grace, and there is charity, and mercy is found.
From the Hermitage October 26, 2025
.
______________________________
¡APARTAOS, QUE PASAMOS, LOS FARISEOS, PERFECTOS CAMPEONES DE PUREZA!
«Oh Dios, te doy gracias porque no soy como los demás hombres, ladrones, injustos, adúlteros, ni tampoco como este publicano. Ayuno dos veces por semana y pago el diezmo de todo cuanto poseo».

Autor
Monaco Eremita
.
Al igual que en el Evangelio del domingo pasado, también en el de este trigésimo domingo del Tiempo Ordinario encontramos una enseñanza sobre la oración. Se expresa a través de la parábola del fariseo y del publicano en el templo, un texto presente únicamente en el tercer Evangelio. Si san Lucas había precisado el propósito por el cual Jesús contó la parábola de la viuda perseverante y del juez inicuo — a saber, la necesidad de orar siempre sin desfallecer (Lc 18,1) —, en esta otra, en cambio, es narrada teniendo en mente unos destinatarios concretos: «Dijo también esta parábola para algunos que confiaban en sí mismos por considerarse justos y despreciaban a los demás» (Lc 18,9). A la luz de Lc 16,15, donde Jesús describe a los fariseos como aquellos «que se tienen por justos ante los hombres», podría pensarse que ellos son los únicos destinatarios del relato. Sin embargo, la actitud que se denuncia en la parábola es una distorsión religiosa que puede manifestarse en cualquier lugar; habita también en las comunidades cristianas, y es seguramente a estos destinatarios a quienes Lucas dirige su Evangelio. Es importante precisar esto para evitar lecturas caricaturescas de los fariseos, que, por desgracia, no han faltado en el cristianismo, nacidas precisamente a partir de la interpretación de esta parábola. Y he aquí el texto evangélico:
«Dos hombres subieron al templo a orar; uno era fariseo y el otro publicano. El fariseo, erguido, oraba en su interior diciendo: “Oh Dios, te doy gracias porque no soy como los demás hombres, ladrones, injustos, adúlteros, ni tampoco como este publicano. Ayuno dos veces por semana y pago el diezmo de todo cuanto poseo”. Pero el publicano, manteniéndose a distancia, no se atrevía ni a alzar los ojos al cielo, sino que se golpeaba el pecho diciendo: “Oh Dios, ten compasión de mí, que soy un pecador”. Os digo que éste bajó a su casa justificado y aquél no; porque todo el que se ensalza será humillado, y el que se humilla será ensalzado» (Lc 18,9-14).
El pasaje puede dividirse fácilmente en tres partes: una introducción de un versículo; una parábola de cuatro versículos (vv. 10-13); y la conclusión pronunciada por Jesús: «Os digo». Los protagonistas de la parábola son dos hombres que suben al lugar más santo de Israel, el templo. El verbo subir indica no sólo que el templo se hallaba en lo alto, sobre un monte, sino también que para ir a Jerusalén se asciende, casi como para sugerir —incluso en el movimiento físico — el modo en que uno se aproxima a Dios. A este propósito podemos recordar los Salmos de las subidas, comenzando por el Salmo 120, y también, en el Evangelio, la figura del buen samaritano que se apiadó del hombre que cayó en manos de los bandidos mientras «bajaba de Jerusalén a Jericó» (Lc 10,30). San Lucas presenta aquí dos polos opuestos dentro del judaísmo del siglo I, mostrando así que los personajes no fueron elegidos al azar. Los fariseos eran considerados las personas más piadosas y devotas, mientras que los recaudadores de impuestos eran con frecuencia vistos como ladrones: una clase de profesionales al servicio de Roma, como podía haber sido Zaqueo de Jericó (Lc 19,1). En este pasaje se hace también presente que la oración en el templo podía ser privada, mientras que la oración pública se celebraba por la mañana y por la tarde, y estaba regulada por la liturgia del templo.
Tenemos, pues, a dos hombres que suben al templo para orar. Idéntico es su movimiento, igual su propósito y el mismo el lugar al que se dirigen; sin embargo, una gran distancia los separa. Están próximos y al mismo tiempo distantes, de modo que su presencia conjunta en el lugar de oración plantea también hoy, a los cristianos, la pregunta de qué significa verdaderamente orar juntos, uno al lado del otro, en un mismo espacio sagrado. En efecto, es posible orar junto a otro y, sin embargo, estar separados por la comparación, la rivalidad o incluso el desprecio: «No soy como este publicano» (v. 11).
Las diferencias entre los dos personajes son notables también en los gestos, en la postura de sus cuerpos y en la manera en que se sitúan dentro del espacio sagrado. El publicano permanece al fondo, «manteniéndose a distancia» (v. 13); no se atreve a avanzar, está habitado por el temor de quien no está acostumbrado al lugar litúrgico; inclina la cabeza hacia la tierra y se golpea el pecho pronunciando apenas unas pocas palabras. El fariseo, en cambio, manifiesta su seguridad, su condición de habituado al lugar santo; ora erguido, con la frente en alto, pronunciando muchas palabras cuidadosamente escogidas en su elaborado agradecimiento. Esta conciencia de sí mismo no tiene nada que ver con una justa autoestima; unida al desprecio por los demás, se revela en una forma de arrogancia ostentosa quizás por parte de alquien que en realidad, no está tan seguro de sí mismo, hasta el punto que no alberga duda alguna en su interior. La presencia de los otros le sirve sólo para reforzar su conciencia de superioridad. El verbo empleado por Lucas, exoutheneín, traducido como «despreciar», significa literalmente «considerar como nada», y describe la actitud de Herodes hacia Jesús en el relato de la Pasión (Lc 23,11). La seguridad del fariseo al condenar a los demás es el medio por el cual sostiene la ilusión de su propia rectitud y superioridad.
En las palabras del fariseo se revela también la imagen de Dios que lleva dentro de sí. Ora «consigo mismo», es decir, «dirigido hacia sí mismo» (pròs heautón, Lc 18,11), y su oración parece dominada por el ego. Formalmente realiza una acción de gracias, pero en realidad da gracias a Dios no por lo que Dios ha hecho por él, sino por lo que él hace por Dios. El sentido del agradecimiento queda así desnaturalizado, pues su propio yo ocupa el lugar de Dios, y su oración se convierte en un catálogo de prácticas piadosas y en una autocomplacencia por no ser «como los demás hombres» (v. 11). La imagen engrandecida de sí mismo oscurece la de Dios hasta el punto de impedirle ver como hermano al que ora en el mismo lugar santo. Se siente tan justo que Dios no tiene otra cosa que hacer sino confirmar lo que él ya es y hace: no necesita conversión ni cambio alguno. Así, Jesús revela que la mirada de Dios no se complace en su oración: «El publicano bajó a su casa justificado, y el otro no» (v. 14). Al desvelar al lector la oración silenciosa de los dos personajes de la parábola, Lucas penetra en su mundo interior — en el alma de quien ora — mostrando ese trasfondo de la oración que puede coincidir con ella o estar en conflicto con ella. Este pasaje abre, por tanto, una rendija de luz sobre el corazón y las profundidades de quien ora, sobre los pensamientos que lo habitan incluso mientras está recogido en oración.
Se trata de una observación audaz, pero necesaria, porque detrás de las palabras pronunciadas en la oración — sea litúrgica o personal — suelen esconderse imágenes, pensamientos y sentimientos que pueden estar en flagrante contradicción con las propias palabras que se dicen y con el significado de los gestos que se realizan.
Se trata de la relación entre la oración y la autenticidad. La oración del fariseo es sincera, pero no veraz. La del publicano en cambio, es veraz, mientras que la del fariseo permanece meramente sincera, en la medida en que expresa lo que este hombre cree y siente, pero al mismo tiempo pone al descubierto la patología oculta en sus palabras. Creyendo verdaderamente en lo que dice, muestra también que lo que le impulsa a orar es la íntima convicción de que cuanto realiza basta para justificarlo. Por eso su convicción es granítica e inquebrantable. Su sinceridad personal es plenamente coherente con la imagen de Dios que lo mueve.
Detengámonos una vez más en el versículo 13, en la postura y en la oración del publicano, que sirven de contrapeso a las del fariseo. Permanece atrás, quizá en el espacio más alejado del recinto del templo; no alza los ojos al cielo, sino que se reconoce pecador golpeándose el pecho, al modo en que David decía: «He pecado contra el Señor» (2 Sam 12,13); y como el hijo pródigo confesaba: «He pecado contra el cielo y contra ti» (Lc 15,21). La oración del publicano no está centrada en sí mismo; pide una sola cosa —misericordia— con la expresión «Ten compasión» (hilaskomai), que significa propiciar, hacerse favorable, expiar los pecados. El publicano no establece comparaciones; se considera el único pecador, un verdadero pecador. Finalmente, en el versículo 14, encontramos el comentario de Jesús, que destaca quién queda justificado y quién no. Su respuesta comienza con la expresión «Os digo» (lego hymin), como para señalar una conclusión significativa, una invitación a la escucha atenta. Después, Jesús declara que de los dos que subieron al templo, sólo el publicano bajó a su casa justificado. El verbo empleado por Jesús significa descender a casa. La oración del pecador es acogida por Dios; la del fariseo, en cambio, no, porque éste no tenía nada que pedir. Dios, sin embargo, acoge siempre las súplicas de perdón cuando son auténticas. Esta parábola se convierte así en una nueva enseñanza sobre la oración, al igual que la anterior, la del juez y la viuda.
A través de esta parábola, el lector cristiano comprende que la autenticidad de la oración pasa por la calidad y la bondad de las relaciones con los demás que oran conmigo y que, junto conmigo, forman el Cuerpo de Cristo. En el ámbito cristiano, donde Jesucristo es «la imagen del Dios invisible» (Col 1,15), la oración se convierte en un proceso de continua purificación de nuestras imágenes de Dios, a partir de la imagen revelada en Cristo — y en Él crucificado (cf. 1 Cor 2,2) —, imagen que cuestiona y desenmascara todas las representaciones falsas y distorsionadas de Dios. La actitud del fariseo puede considerarse emblemática de un tipo religioso que sustituye la relación con el Señor por rendimientos cuantificables. Ayuna dos veces por semana y paga el diezmo de todo lo que adquiere, realizando incluso obras supererogatorias. En lugar de una relación con el Señor bajo el signo del Espíritu y de la gratuidad del amor, aparece una forma de búsqueda de santificación mediante el control, que exige el distanciamiento de los demás. La oración, en cambio — como sugiere Lucas —, requiere humildad. Y la humildad es adhesión a la realidad, a la pobreza y pequeñez de la condición humana, al humus del que estamos hechos. Es el valiente conocimiento de uno mismo ante el Dios que se ha manifestado en la humildad y el anonadamiento del Hijo. Donde hay humildad, hay apertura a la gracia, hay caridad y se encuentra la misericordia.
Desde el Ermitorio, 26 de octubre de 2025
.
.

Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)
.
Visitate la pagina del nostro negozio librario QUI e sostenete le nostre edizioni acquistando e diffondendo i nostri libri.
.
______________________
Cari Lettori,
questa rivista richiede costi di gestione che affrontiamo da sempre unicamente con le vostre libere offerte. Chi desidera sostenere la nostra opera apostolica può farci pervenire il proprio contributo mediante il comodo e sicuro Paypal cliccando sotto:
O se preferite potete usare il nostro
Conto corrente bancario intestato a:
Edizioni L’Isola di Patmos
![]()
Agenzia n. 59 di Roma – Vaticano
Codice IBAN:
IT74R0503403259000000301118
Per i bonifici internazionali:
Codice SWIFT:
BAPPIT21D21
Se fate un bonifico inviate una email di avviso alla redazione, la banca non fornisce la vostra email e noi non potremmo inviarvi un messaggio di ringraziamento:
isoladipatmos@gmail.com
Vi ringraziamo per il sostegno che vorrete offrire al nostro servizio apostolico.
I Padri dell’Isola di Patmos
.
.
.
.
.













