Fatece largo che passamo noi farisei perfetti campioni di purezza – Stand aside, for we pharisees, champions of purity, are coming through – ¡Apartaos, que pasamos, los fariseos, perfectos campeones de pureza!

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

Italian, english, español 

 

FATECE LARGO CHE PASSAMO NOI FARISEI PERFETTI CAMPIONI DI PUREZZA 

«O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo».

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Come il Vangelo di domenica scorsa, anche questo della XXX domenica del tempo Ordinario contiene un insegnamento sulla preghiera. È affidato alla parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, un testo presente soltanto nel terzo vangelo.

Se Luca aveva specificato il fine per cui Gesù aveva raccontato la parabola della vedova insistente e del giudice iniquo, ovvero la necessità della preghiera perseverante (Lc 18,1); questa invece viene narrata avendo di mira dei destinatari precisi: «Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9). Alla luce di Lc 16,15 dove Gesù qualifica i farisei come coloro che «si ritengono giusti davanti agli uomini», si può pensare che il bersaglio del racconto siano appunto solo loro, ma l’atteggiamento preso di mira nella parabola è una stortura religiosa che si verifica ovunque e abita anche le comunità cristiane, ed è certamente a questi destinatari che pensa Luca scrivendo il suo vangelo. È importante precisare questo per evitare letture caricaturali dei farisei, che purtroppo non sono mancate nel cristianesimo proprio partendo dalla lettura di questa parabola. Ed ecco il testo evangelico:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18,9-14).

Il brano si lascia facilmente suddividere in tre parti: Una introduzione, di un versetto; una parabola di quattro versetti (vv. 10-13); e la conclusione, di Gesù: «Io vi dico». I protagonisti della parabola sono due uomini, che salgono al luogo più santo di Israele, il tempio. Il verbo salire non solo dice che il tempio si trovava in alto, su un monte, ma anche che per andare a Gerusalemme si ascende, quasi a indicare il modo, anche fisico, di come ci si avvicina a Dio. Possiamo ricordare a tal proposito i «Salmi delle ascensioni», a partire dal Sal 120, ma anche, nel Vangelo, il buon Samaritano che si preoccupò dell’uomo incappato nei briganti mentre «scendeva da Gerusalemme a Gerico» (Lc 10,30). San Luca descrive qui due polarità opposte nel giudaismo del I secolo, mostrando così che i personaggi non sono scelti a caso. I farisei erano le persone più pie e devote, mentre gli esattori delle tasse erano spesso considerati ladri, una categoria di professionisti al soldo di Roma, come poteva essere stato Zaccheo di Gerico (Lc 19,1). Emerge anche che la preghiera al tempio poteva essere privata, mentre quella pubblica si teneva di mattino e alla sera, ed era regolata dalla liturgia templare.

Quindi abbiamo due uomini che si recano al tempio per pregare. Identico è il loro movimento, uguale il loro fine e medesimo è il luogo in cui si recano, eppure una grande distanza li separa. Essi sono vicini e al tempo stesso lontani, tanto che questa loro compresenza nel luogo di preghiera pone la domanda anche oggi, ai cristiani, di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno accanto all’altro in uno stesso luogo. È infatti possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e perfino dal disprezzo: «non sono come questo pubblicano» (v. 11). Le differenze tra i due personaggi sono rilevanti anche per la gestualità e le posture dei loro corpi e nel loro situarsi nello spazio sacro. Il pubblicano resta sul fondo, «si ferma a distanza» (v. 13), non osa avanzare, è abitato dal timore di chi non è abituato al luogo liturgico, china il capo a terra e si batte il petto pronunciando pochissime parole. Il fariseo, invece, esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro e prega stando in piedi a fronte alta, pronunciando molte e ricercate parole nel suo articolato ringraziamento. Questa coscienza di sé non ha nulla a che vedere con la giusta autostima, ma, sposandosi con il disprezzo per gli altri, si rivela essere un’arroganza ostentata, da parte di colui che forse così sicuro di sé non è, tanto che non fa albergare in sé dubbio alcuno. E la presenza degli altri serve a corroborare la sua coscienza di superiorità. Il verbo usato da Luca, exoutheneîn, tradotto con «disprezzare», significa letteralmente «ritenere niente», e sarà l’atteggiamento di Erode nei confronti di Gesù nel racconto della passione (Lc 23,11). La sicurezza nel condannare gli altri nel fariseo è necessaria per sostenere la sicurezza del proprio essere migliore e nel giusto.

Nelle parole del fariseo emerge anche quale immagine di Dio egli abbia. Egli prega «tra sé», cioè «rivolto a se stesso» (cfr. pròs eautòn di Lc 18,11) e la sua preghiera sembra dominata dall’ego. Formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia Dio non per ciò che ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così snaturato poiché il suo io si sostituisce a Dio e la sua preghiera finisce per essere un elenco di prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere «come gli altri uomini» (v. 11). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio tanto da impedirgli di vedere come un fratello colui che prega nel medesimo luogo e si sente così a posto che Dio non deve far altro che confermare ciò che egli è e fa: non necessita di conversione o cambiamento. Così Gesù rivela che lo sguardo di Dio non gradisce la sua preghiera: «il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (v. 14). Svelando al lettore la preghiera sommessa dei due personaggi della parabola, Luca compie un’incursione nella loro interiorità e nell’animo di chi prega, mostrando quel sottofondo dell’orazione che può fare tutt’uno con essa, oppure confliggere con essa. Si apre così, in questo brano, uno squarcio di luce sul cuore e sul profondo di chi prega, sui pensieri che lo abitano mentre è raccolto in preghiera. Si tratta di un’operazione audace ma importante, perché dietro alle parole che si pronunciano nella preghiera liturgica o personale spesso vi sono immagini, pensieri, sentimenti che possono essere anche in clamorosa contraddizione con le parole che si pronunciano e con il significato dei gesti che si compiono.

È il rapporto fra preghiera e autenticità. La preghiera del fariseo è sincera, ma non veritiera. Lo è quella del pubblicano, mentre quella del fariseo permane solo sincera, in quanto esprime quel che quest’uomo crede e sente, portando alla luce però la patologia nascosta nelle sue parole. Egli, cioè,  credendo veramente a ciò che dice, mostra al contempo che quel che lo muove alla preghiera è l’intima convinzione che ciò che compie basti a giustificarlo. Perciò la sua convinzione è granitica e incrollabile. La sua personale sincerità è coerente con l’immagine di Dio che lo muove.

Sottolineiamo ancora il versetto 13, e cioè la postura e la preghiera del pubblicano che fa da contraltare a quella del fariseo. Rimane indietro, forse nello spazio più remoto rispetto all’edificio del tempio, non alza gli occhi al cielo, ma si riconosce peccatore battendosi il petto, al modo in cui Davide diceva: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13); come il «figliol prodigo» che dice: «Ho peccato contro il cielo e contro di te» (Lc 15,21). La preghiera del pubblicano non è centrata su di sé, ma chiede una sola cosa — misericordia — con l’espressione: «Abbi pietà», ilaskomai, che significa: propiziarsi, rendere benevolo, espiare i peccati. Il pubblicano non fa alcun confronto, si considera l’unico peccatore, un vero peccatore. Infine, al v.14, incontriamo il commento di Gesù, il quale mette in rilievo chi è giustificato e chi no. La risposta inizia con l’espressione: «Io vi dico» (lego hymin), come a segnalare una conclusione significativa, una richiesta di attenzione solenne. Poi Gesù dice che dei due che erano saliti al tempio, solo il pubblicano ne discese  giustificato. Il verbo usato da Gesù significa discendere a casa (la CEI: «tornò a casa»). La preghiera del peccatore è accolta da Dio, quella del fariseo invece no perché questi non aveva nulla da chiedere. Dio invece accoglie sempre le richieste di perdono quando sono autentiche e questa parabola risulta essere dunque un ulteriore insegnamento sulla preghiera, come quella appena sopra, del giudice e della vedova.

Il lettore cristiano attraverso questa parabola comprende che l’autenticità della preghiera passa attraverso la qualità buona delle relazioni con gli altri che pregano con me e che con me formano il corpo di Cristo. E nello spazio cristiano, in cui Gesù Cristo è «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), la preghiera è un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dall’immagine rivelata in Cristo e questi crocifisso (cfr. 1Cor 2,2), immagine che contesta tutte quelle contraffatte di Dio. Possiamo dire che l’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili, egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista, compiendo anche opere supererogatorie. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo, che richiede il distacco dagli altri. La preghiera, invece, suggerisce Luca, richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, all’humus di cui siamo fatti. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità e si trova misericordia.

Dall’Eremo, 26 ottobre 2025

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STAND ASIDE, FOR WE PHARISEES, CHAMPIONS OF PURITY, ARE COMING THROUGH

«O God, I thank Thee that I am not like other men — thieves, unjust, adulterers — nor even like this publican. I fast twice a week, and I pay tithes on all I possess».

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As in last Sunday’s Gospel, so too in that of this Thirtieth Sunday in Ordinary Time we find a teaching on prayer. It is conveyed through the parable of the Pharisee and the publican in the temple — a text found only in the third Gospel. If Saint Luke had specified the purpose for which Jesus told the parable of the persistent widow and the unjust judge, namely the necessity of persevering prayer (Lk 18:1), this one, on the other hand, is told with certain hearers clearly in mind: “He also told this parable to some who were convinced of their own righteousness and despised others” (Lk 18:9). In the light of Luke 16:15, where Jesus describes the Pharisees as those “who justify themselves in the sight of men”, one might suppose that they alone are the intended target of the narrative. Yet the attitude denounced in the parable is a religious distortion that can arise anywhere — it inhabits even Christian communities — and it is surely to such as these that Luke directs his Gospel. It is important to make this clarification so as to avoid caricatured readings of the Pharisees, which unfortunately have not been lacking within Christianity, often beginning precisely from this parable. And here is the Gospel text itself:

“Two people went up to the temple area to pray; one was a Pharisee and the other was a tax collector. The Pharisee took up his position and spoke this prayer to himself, ‘O God, I thank you that I am not like the rest of humanity — greedy, dishonest, adulterous — or even like this tax collector. I fast twice a week, and I pay tithes on all I possess.’ But the tax collector stood off at a distance and would not even raise his eyes to heaven but beat his breast and prayed, ‘O God, be merciful to me a sinner ’. I tell you, the latter went home justified, not the former; for whoever exalts himself will be humbled, and the one who humbles himself will be exalted”. (Lk 18:9–14).

The passage can easily be divided into three parts: an introduction of one verse; a parable of four verses (vv. 10–13); and the conclusion spoken by Jesus: “I tell you.”The protagonists of the parable are two men who go up to the holiest place in Israel, the Temple. The verb to go up indicates not only that the Temple stood on high, upon a mountain, but also that one ascends when going to Jerusalem — almost as though to suggest, even in bodily movement, the manner in which one draws near to God. In this regard we may recall the Psalms of Ascent, beginning with Psalm 120, and likewise, in the Gospel, the Good Samaritan who took care of the man fallen among robbers while “going down from Jerusalem to Jericho” (Lk 10:30). Saint Luke here depicts two opposing poles within first-century Judaism, showing that the characters were not chosen at random. The Pharisees were regarded as the most pious and devout, while the tax collectors were often seen as thieves — a class of professionals in the service of Rome, as Zacchaeus of Jericho may have been (Lk 19:1). It also becomes clear that prayer in the Temple could be private, while public prayer was held in the morning and in the evening and was governed by the Temple liturgy.

We thus have two men who go to the Temple to pray. Their movement is identical, their purpose the same, and the place to which they go is one and the same; yet a great distance separates them. They are close to each other and yet far apart, so that their being together in the place of prayer raises, even for us Christians today, the question of what it truly means to pray together — side by side, one beside another, in the same sacred space. It is indeed possible to pray next to someone and yet be separated by comparison, by rivalry, or even by contempt: “I am not like this tax collector” (v. 11). The differences between the two characters are also evident in their gestures, in the posture of their bodies, and in the way they situate themselves within the sacred space. The tax collector remains at the back, “standing at a distance” (v. 13); he does not dare to come forward, he is filled with the awe of one unaccustomed to the liturgical place; he bows his head to the ground and beats his breast, uttering but a few words. The Pharisee, on the other hand, displays his assurance, his familiarity with the holy place; he prays standing upright, head held high, pronouncing many carefully chosen words in his elaborate thanksgiving. This self-awareness has nothing to do with proper self-respect; joined with contempt for others, it becomes a form of ostentatious arrogance — perhaps the posture of one who, in truth, is not so sure of himself, and who harbours no doubt within. The presence of others serves only to confirm his sense of superiority. The verb used by Luke, exoutheneîn, translated as “to despise”, literally means “to regard as nothing”, and it will describe the attitude of Herod toward Jesus in the Passion narrative (Lk 23:11). The Pharisee’s certainty in condemning others is the very means by which he sustains the illusion of his own righteousness and superiority.

In the words of the Pharisee there also emerges the image of God that he bears within himself. He prays “to himself” — that is, “turned toward himself” (pros heautón, Lk 18:11) — and his prayer appears to be ruled entirely by the ego. Formally, he performs an act of thanksgiving, yet in truth he thanks God not for what God has done for him, but for what he does for God. The very meaning of thanksgiving is thus distorted, for his self takes the place of God, and his prayer becomes a catalogue of pious achievements and a self-satisfaction at not being “like other men” (v. 11). His exalted image of himself obscures that of God, to the point of preventing him from seeing as a brother the man who prays in the same holy place. He feels himself so perfectly righteous that God has nothing left to do but to confirm what he already is and does: he has no need of conversion, no need of change. Thus Jesus reveals that God’s gaze does not look with favour upon his prayer: “the tax collector went home justified, rather than the other” (v. 14). By unveiling for the reader the subdued prayer of the two figures in the parable, Luke ventures into their inner world — into the soul of the one who prays — showing that hidden background of prayer which may either be one with it or at odds with it. This passage thus opens a window of light upon the heart and the depths of the one who prays, upon the thoughts that dwell within him even as he stands in prayer. It is a bold but essential insight, for behind the words uttered in prayer — whether liturgical or personal — there often lie images, thoughts, and feelings that may stand in striking contradiction to the very words we speak and to the gestures we perform.

It is the relationship between prayer and authenticity. The prayer of the Pharisee is sincere, but not truthful. That of the tax collector is truthful, whereas the Pharisee’s remains merely sincere — in that it expresses what this man believes and feels, yet at the same time reveals the hidden pathology within his words. Believing truly what he says, he also shows that what moves him to pray is the inner conviction that what he does is sufficient to justify him. Hence his conviction is granite-like and unshakable. His personal sincerity is wholly consistent with the image of God that animates him.

Let us pause once more upon verse 13 — upon the posture and the prayer of the tax collector, which stands in direct contrast to that of the Pharisee. He remains at the back, perhaps in the most distant space of the Temple precincts; he does not lift his eyes to heaven but acknowledges himself as a sinner, beating his breast as David once said, “I have sinned against the Lord” (2 Sam 12:13); and as the prodigal son confessed, “I have sinned against heaven and against you” (Lk 15:21). The prayer of the tax collector is not centred upon himself; he asks only one thing — mercy — with the expression “Be merciful” (hilaskomai), which means to propitiate, to make favourable, to atone for sins. The tax collector makes no comparison; he considers himself the only sinner, a true sinner. Finally, in verse 14, we find the comment of Jesus, who indicates who is justified and who is not. His response begins with the expression “I tell you” (lego hymin), signalling a solemn conclusion, a call for attentive listening. Then Jesus declares that of the two who went up to the Temple, only the tax collector went down to his house justified. The verb used by Jesus means to go down to one’s house. The sinner’s prayer is received by God; the Pharisee’s is not, for he had nothing to ask. God, however, always welcomes the plea for forgiveness when it is sincere. This parable thus becomes yet another teaching on prayer — like the one just above, of the judge and the widow.

Through this parable, the Christian reader understands that the authenticity of prayer passes through the goodness and integrity of one’s relationships with others who pray alongside us and who, together with us, form the Body of Christ. In the Christian sphere, where Jesus Christ is “the image of the invisible God” (Col 1:15), prayer becomes a process of continual purification of our images of God, beginning from the image revealed in Christ — and in Him crucified (cf. 1 Cor 2:2) — the image that contests and unmasks all false and distorted representations of God. The attitude of the Pharisee may be seen as emblematic of a religious type that replaces relationship with the Lord by measurable performance. He fasts twice a week and pays tithes on all he acquires, even undertaking works of supererogation. In place of a relationship with the Lord marked by the Spirit and by the gratuity of love, there arises a pursuit of sanctification through control — a striving that demands separation from others. Prayer, on the contrary, as Luke suggests, requires humility. And humility is an adhesion to reality — to the poverty and smallness of the human condition, to the humus from which we are made. It is the courageous knowledge of oneself before the God who has revealed Himself in the humility and self-emptying of the Son. Where there is humility, there is openness to grace, and there is charity, and mercy is found.

From the Hermitage October 26, 2025

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¡APARTAOS, QUE PASAMOS, LOS FARISEOS, PERFECTOS CAMPEONES DE PUREZA!

«Oh Dios, te doy gracias porque no soy como los demás hombres, ladrones, injustos, adúlteros, ni tampoco como este publicano. Ayuno dos veces por semana y pago el diezmo de todo cuanto poseo».

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Al igual que en el Evangelio del domingo pasado, también en el de este trigésimo domingo del Tiempo Ordinario encontramos una enseñanza sobre la oración. Se expresa a través de la parábola del fariseo y del publicano en el templo, un texto presente únicamente en el tercer Evangelio. Si san Lucas había precisado el propósito por el cual Jesús contó la parábola de la viuda perseverante y del juez inicuo — a saber, la necesidad de orar siempre sin desfallecer (Lc 18,1) —, en esta otra, en cambio, es narrada teniendo en mente unos destinatarios concretos: «Dijo también esta parábola para algunos que confiaban en sí mismos por considerarse justos y despreciaban a los demás» (Lc 18,9). A la luz de Lc 16,15, donde Jesús describe a los fariseos como aquellos «que se tienen por justos ante los hombres», podría pensarse que ellos son los únicos destinatarios del relato. Sin embargo, la actitud que se denuncia en la parábola es una distorsión religiosa que puede manifestarse en cualquier lugar; habita también en las comunidades cristianas, y es seguramente a estos destinatarios a quienes Lucas dirige su Evangelio. Es importante precisar esto para evitar lecturas caricaturescas de los fariseos, que, por desgracia, no han faltado en el cristianismo, nacidas precisamente a partir de la interpretación de esta parábola. Y he aquí el texto evangélico: 

«Dos hombres subieron al templo a orar; uno era fariseo y el otro publicano. El fariseo, erguido, oraba en su interior diciendo: “Oh Dios, te doy gracias porque no soy como los demás hombres, ladrones, injustos, adúlteros, ni tampoco como este publicano. Ayuno dos veces por semana y pago el diezmo de todo cuanto poseo”. Pero el publicano, manteniéndose a distancia, no se atrevía ni a alzar los ojos al cielo, sino que se golpeaba el pecho diciendo: “Oh Dios, ten compasión de mí, que soy un pecador”. Os digo que éste bajó a su casa justificado y aquél no; porque todo el que se ensalza será humillado, y el que se humilla será ensalzado» (Lc 18,9-14).

El pasaje puede dividirse fácilmente en tres partes: una introducción de un versículo; una parábola de cuatro versículos (vv. 10-13); y la conclusión pronunciada por Jesús: «Os digo». Los protagonistas de la parábola son dos hombres que suben al lugar más santo de Israel, el templo. El verbo subir indica no sólo que el templo se hallaba en lo alto, sobre un monte, sino también que para ir a Jerusalén se asciende, casi como para sugerir —incluso en el movimiento físico — el modo en que uno se aproxima a Dios. A este propósito podemos recordar los Salmos de las subidas, comenzando por el Salmo 120, y también, en el Evangelio, la figura del buen samaritano que se apiadó del hombre que cayó en manos de los bandidos mientras «bajaba de Jerusalén a Jericó» (Lc 10,30). San Lucas presenta aquí dos polos opuestos dentro del judaísmo del siglo I, mostrando así que los personajes no fueron elegidos al azar. Los fariseos eran considerados las personas más piadosas y devotas, mientras que los recaudadores de impuestos eran con frecuencia vistos como ladrones: una clase de profesionales al servicio de Roma, como podía haber sido Zaqueo de Jericó (Lc 19,1). En este pasaje se hace también presente que la oración en el templo podía ser privada, mientras que la oración pública se celebraba por la mañana y por la tarde, y estaba regulada por la liturgia del templo.

Tenemos, pues, a dos hombres que suben al templo para orar. Idéntico es su movimiento, igual su propósito y el mismo el lugar al que se dirigen; sin embargo, una gran distancia los separa. Están próximos y al mismo tiempo distantes, de modo que su presencia conjunta en el lugar de oración plantea también hoy, a los cristianos, la pregunta de qué significa verdaderamente orar juntos, uno al lado del otro, en un mismo espacio sagrado. En efecto, es posible orar junto a otro y, sin embargo, estar separados por la comparación, la rivalidad o incluso el desprecio: «No soy como este publicano» (v. 11).

Las diferencias entre los dos personajes son notables también en los gestos, en la postura de sus cuerpos y en la manera en que se sitúan dentro del espacio sagrado. El publicano permanece al fondo, «manteniéndose a distancia» (v. 13); no se atreve a avanzar, está habitado por el temor de quien no está acostumbrado al lugar litúrgico; inclina la cabeza hacia la tierra y se golpea el pecho pronunciando apenas unas pocas palabras. El fariseo, en cambio, manifiesta su seguridad, su condición de habituado al lugar santo; ora erguido, con la frente en alto, pronunciando muchas palabras cuidadosamente escogidas en su elaborado agradecimiento. Esta conciencia de sí mismo no tiene nada que ver con una justa autoestima; unida al desprecio por los demás, se revela en una forma de arrogancia ostentosa quizás por parte de alquien que en realidad, no está tan seguro de sí mismo, hasta el punto que no alberga duda alguna en su interior. La presencia de los otros le sirve sólo para reforzar su conciencia de superioridad. El verbo empleado por Lucas, exoutheneín, traducido como «despreciar», significa literalmente «considerar como nada», y describe la actitud de Herodes hacia Jesús en el relato de la Pasión (Lc 23,11). La seguridad del fariseo al condenar a los demás es el medio por el cual sostiene la ilusión de su propia rectitud y superioridad.

En las palabras del fariseo se revela también la imagen de Dios que lleva dentro de sí. Ora «consigo mismo», es decir, «dirigido hacia sí mismo» (pròs heautón, Lc 18,11), y su oración parece dominada por el ego. Formalmente realiza una acción de gracias, pero en realidad da gracias a Dios no por lo que Dios ha hecho por él, sino por lo que él hace por Dios. El sentido del agradecimiento queda así desnaturalizado, pues su propio yo ocupa el lugar de Dios, y su oración se convierte en un catálogo de prácticas piadosas y en una autocomplacencia por no ser «como los demás hombres» (v. 11). La imagen engrandecida de sí mismo oscurece la de Dios hasta el punto de impedirle ver como hermano al que ora en el mismo lugar santo. Se siente tan justo que Dios no tiene otra cosa que hacer sino confirmar lo que él ya es y hace: no necesita conversión ni cambio alguno. Así, Jesús revela que la mirada de Dios no se complace en su oración: «El publicano bajó a su casa justificado, y el otro no» (v. 14). Al desvelar al lector la oración silenciosa de los dos personajes de la parábola, Lucas penetra en su mundo interior — en el alma de quien ora — mostrando ese trasfondo de la oración que puede coincidir con ella o estar en conflicto con ella. Este pasaje abre, por tanto, una rendija de luz sobre el corazón y las profundidades de quien ora, sobre los pensamientos que lo habitan incluso mientras está recogido en oración.
Se trata de una observación audaz, pero necesaria, porque detrás de las palabras pronunciadas en la oración — sea litúrgica o personal — suelen esconderse imágenes, pensamientos y sentimientos que pueden estar en flagrante contradicción con las propias palabras que se dicen y con el significado de los gestos que se realizan.

Se trata de la relación entre la oración y la autenticidad. La oración del fariseo es sincera, pero no veraz. La del publicano en cambio, es veraz, mientras que la del fariseo permanece meramente sincera, en la medida en que expresa lo que este hombre cree y siente, pero al mismo tiempo pone al descubierto la patología oculta en sus palabras. Creyendo verdaderamente en lo que dice, muestra también que lo que le impulsa a orar es la íntima convicción de que cuanto realiza basta para justificarlo. Por eso su convicción es granítica e inquebrantable. Su sinceridad personal es plenamente coherente con la imagen de Dios que lo mueve.

Detengámonos una vez más en el versículo 13, en la postura y en la oración del publicano, que sirven de contrapeso a las del fariseo. Permanece atrás, quizá en el espacio más alejado del recinto del templo; no alza los ojos al cielo, sino que se reconoce pecador golpeándose el pecho, al modo en que David decía: «He pecado contra el Señor» (2 Sam 12,13); y como el hijo pródigo confesaba: «He pecado contra el cielo y contra ti» (Lc 15,21). La oración del publicano no está centrada en sí mismo; pide una sola cosa —misericordia— con la expresión «Ten compasión» (hilaskomai), que significa propiciar, hacerse favorable, expiar los pecados. El publicano no establece comparaciones; se considera el único pecador, un verdadero pecador. Finalmente, en el versículo 14, encontramos el comentario de Jesús, que destaca quién queda justificado y quién no. Su respuesta comienza con la expresión «Os digo» (lego hymin), como para señalar una conclusión significativa, una invitación a la escucha atenta. Después, Jesús declara que de los dos que subieron al templo, sólo el publicano bajó a su casa justificado. El verbo empleado por Jesús significa descender a casa. La oración del pecador es acogida por Dios; la del fariseo, en cambio, no, porque éste no tenía nada que pedir. Dios, sin embargo, acoge siempre las súplicas de perdón cuando son auténticas. Esta parábola se convierte así en una nueva enseñanza sobre la oración, al igual que la anterior, la del juez y la viuda.

A través de esta parábola, el lector cristiano comprende que la autenticidad de la oración pasa por la calidad y la bondad de las relaciones con los demás que oran conmigo y que, junto conmigo, forman el Cuerpo de Cristo. En el ámbito cristiano, donde Jesucristo es «la imagen del Dios invisible» (Col 1,15), la oración se convierte en un proceso de continua purificación de nuestras imágenes de Dios, a partir de la imagen revelada en Cristo — y en Él crucificado (cf. 1 Cor 2,2) —, imagen que cuestiona y desenmascara todas las representaciones falsas y distorsionadas de Dios. La actitud del fariseo puede considerarse emblemática de un tipo religioso que sustituye la relación con el Señor por rendimientos cuantificables. Ayuna dos veces por semana y paga el diezmo de todo lo que adquiere, realizando incluso obras supererogatorias. En lugar de una relación con el Señor bajo el signo del Espíritu y de la gratuidad del amor, aparece una forma de búsqueda de santificación mediante el control, que exige el distanciamiento de los demás. La oración, en cambio — como sugiere Lucas —, requiere humildad. Y la humildad es adhesión a la realidad, a la pobreza y pequeñez de la condición humana, al humus del que estamos hechos. Es el valiente conocimiento de uno mismo ante el Dios que se ha manifestado en la humildad y el anonadamiento del Hijo. Donde hay humildad, hay apertura a la gracia, hay caridad y se encuentra la misericordia.

Desde el Ermitorio, 26 de octubre de 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

(Italian, English, Español)

 

LA FEDE COME RESISTENZA NELLA NOTTE DI DIO. «QUANDO IL FIGLIO DELL’UOMO VERRÀ, TROVERÀ LA FEDE SULLA TERRA?» 

Quando il Figlio dell’uomo verrà, forse non troverà molte opere, né molte istituzioni rimaste salde; ma se troverà un piccolo resto che ancora crede, spera e ama, allora la sua domanda avrà già trovato risposta. Perché anche una sola fede viva, anche un solo cuore che continua a pregare nella notte, è sufficiente a tenere accesa la lampada della Chiesa.

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La frase conclusiva di questo passo lucano suscita nel mio animo cristiano e sacerdotale timore e tremore. La parabola del giudice e della vedova non termina con una consolazione, ma con una domanda.

Gesù non promette tempi migliori, né garantisce che la giustizia di Dio si manifesterà secondo le nostre attese; lascia invece un interrogativo sospeso, che attraversa i secoli e si posa su ogni generazione: «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?».

Dal Vangelo secondo Luca (18, 1-8) — «In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: “In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: ‘Fammi giustizia contro il mio avversario’. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”. E il Signore soggiunse: “Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”».

Questa domanda è il sigillo drammatico del Vangelo del beato evangelista Luca, perché rivela il paradosso della fede cristiana: Dio è fedele, ma spesso non lo è l’uomo. Il rischio non è che Dio si dimentichi dell’uomo, bensì che l’uomo si stanchi di Dio. Per questo Gesù parla della necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: non perché Dio sia sordo, ma perché la preghiera custodisce viva la fede in un tempo che la consuma sino a svuotarla, specie in questa nostra Europa senza memoria, che rinnega le proprie radici cristiane in modo talora violento e distruttivo.

La vedova di questa parabola rappresenta l’anima sofferente della Chiesa corpo mistico di Cristo: fragile, ma ostinata. Nel silenzio continua a bussare alla porta del giudice, anche quando tutto sembra inutile. È la fede che non cede alla tentazione dell’indifferenza; è la fede che resiste nella notte dell’apparente assenza di Dio. E Dio non è come il giudice disonesto, ma a volte mette alla prova la fede proprio nel momento in cui sembra comportarsi come tale: tace, non risponde, ritarda la giustizia. È qui che la preghiera perseverante diventa atto di fiducia pura, una ribellione silenziosa contro la disperazione.

Quando Gesù domanda se, al suo ritorno, troverà la fede sulla terra, non parla di una credenza vaga o di un sentimento religioso; parla della fede che resiste, quella che rimane salda anche quando ogni apparenza di religione sembra dissolversi, quella fede che è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (cfr. Eb 11,1); quella fede che ci renderà beati perché pur non avendo visto abbiamo creduto (cfr. Gv 20,29). È la fede di Abramo, che crede contro ogni speranza (cfr. Rm 4,18); la fede della vedova che continua a chiedere giustizia (cfr. Lc 18,3); la fede della Chiesa che non smette di pregare anche quando il mondo si fa beffe di lei.

La vera minaccia non è l’ateismo diffuso nel mondo, ma quello sempre più diffuso all’interno della Chiesa visibile: l’ateismo ecclesiastico, conseguenza estrema dell’apatia spirituale che erode il cuore e trasforma la fede in abitudine e la speranza in cinismo. Eppure, è proprio in questo deserto che si rivela la fedeltà di Dio: quando tutto sembra morto il seme della fede sopravvive nascosto nella terra, come un germe silenzioso che attende la primavera di Dio.

Nel rito penitenziale confessiamo di aver peccato in pensieri, parole, opere e omissioni. Tra questi peccati l’omissione è forse il più grave, perché racchiude la radice di tutti gli altri, un po’ come la superbia, che è regina e sintesi di tutti i peccati capitali. E della frase drammatica che chiude questo passo evangelico — insieme ermetica ed enigmatica — il peccato di omissione n’è, a suo modo, paradigma. Basti pensare solo a quanti, davanti al disordine e alla decadenza che da decenni affliggono la Chiesa, si lavano le mani come Pilato nel pretorio, dicendo: «La Chiesa è di Cristo, ed è governata dallo Spirito Santo». Come se bastasse questa formula per giustificare l’inerzia e la mancata assunzione di ogni resposabilità. La casa arde, ma ci rassicuriamo dicendo: «È sua, ci penserà Lui. Non ha forse promesso che le porte degli inferi non prevarranno?».

Siamo di fronte alla santificazione dell’impotenza, alla “teologia” del “mi faccio i fatti miei” travestita da fiducia nella Provvidenza. Quando poi i problemi non possono essere in alcun modo negati ed elusi, si è persino capaci ad affermare: «Ci penseranno quelli che verranno dopo di noi», un vero e proprio trionfo dello spirito irresponsabile più nefasto. 

Se la domanda di Cristo — «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?» — la inserissimo in questo contesto realistico, ne emergerebbe un’eco inquietante. Sì, il Signore ha promesso «non praevalebunt» e certamente, al suo ritorno, troverà ancora la Chiesa. Ma quale Chiesa? Perché potrebbe trovare anche una Chiesa visibile svuotata di Cristo — di cui talvolta sembriamo quasi vergognarci — e riempita di altro: di umanitarismo senza grazia, di giustizia senza verità e diritto, di spiritualità senza Spirito … Una Chiesa che esiste ancora nella sua forma esteriore, ma che rischia di non avere più fede.

E questa, forse, è la più terribile tra le profezie implicite di quella domanda: che la fede possa scomparire non dal mondo, ma proprio dalla Chiesa. Anche di fronte a questa possibilità inquietante — che il Figlio dell’uomo possa trovare una fede affievolita, quasi spenta — il Vangelo non ci abbandona alla paura, ma ci richiama alla speranza che non delude. La fede autentica non è un possesso stabile, è una grazia da custodire e rinnovare ogni giorno. Come il respiro, essa vive solo nella continuità: se si interrompe, muore. Per questo la preghiera diventa l’atto più alto di resistenza spirituale: pregare non significa ricordare a Dio la nostra esistenza, ma ricordare a noi stessi che Dio esiste e che la sua fedeltà precede ogni nostra infedeltà.

Quando la fede sembra venir meno nella Chiesa, Dio non cessa di suscitarla nei piccoli, negli umili, nei poveri che gridano giorno e notte verso di Lui. È questa la logica del Regno: mentre le strutture si irrigidiscono e gli uomini si distraggono, lo Spirito continua a soffiare nei cuori silenziosi che credono anche senza vedere. Dove l’istituzione appare stanca e decadente, Dio resta vivo nel suo popolo. Dove la parola tace, la fede continua a sussurrare.

La domanda di Cristo — «Troverò la fede sulla terra?» — non è una condanna, ma un invito e al tempo stesso una sfida: “Conserverai la fede quando tutto intorno sembrerà perduto?” È un appello a rimanere desti nella notte, a non delegare ad altri la responsabilità di credere. Il Figlio dell’uomo non chiede una Chiesa trionfante nel senso mondano o politico del termine, ma una Chiesa che veglia, che non smette di bussare, che persevera nella preghiera come la vedova della parabola. E quella vedova, simbolo della Chiesa povera e fedele, ci insegna che il miracolo della fede non consiste nel cambiare Dio, ma nel lasciarci cambiare da Lui, fino a diventare noi stessi preghiera vivente.

Quando il Figlio dell’uomo verrà, forse non troverà molte opere né molte istituzioni rimaste salde; ma se troverà un piccolo resto che ancora crede, spera e ama, allora la sua domanda avrà già trovato risposta. Perché anche una sola fede viva, anche un solo cuore che continua a pregare nella notte, è sufficiente a tenere accesa la lampada della Chiesa.

Sia lodato Gesù Cristo!

Dall’Isola di Patmos, 20 ottobre 2025

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FAITH AS RESISTANCE IN THE NIGHT OF GOD. “WHEN THE SON OF MAN COMES, WILL HE FIND FAITH ON EARTH?”

When the Son of Man comes, He may perhaps find few works and few institutions still standing firm; yet if He finds a small remnant that still believes, hopes, and loves, then His question will already have found its answer. For even a single living faith, even a single heart that continues to pray in the night, is enough to keep the lamp of the Church burning.

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The concluding sentence of this Lucan passage awakens within my Christian and priestly soul a sense of awe and trembling. The parable of the judge and the widow does not end with consolation, but with a question. Our Lord does not promise brighter days, nor does He assure us that the justice of God will manifest itself according to our expectations; rather, He leaves a question suspended in the air — one that travels through the centuries and settles upon every generation: When the Son of Man comes, will He find faith upon the earth?

From the Gospel according to Luke (18:1-8) — At that time Jesus told His disciples a parable about the necessity of praying always without becoming weary. “In a certain city there was a judge who neither feared God nor respected any human being. And there was a widow in that city who kept coming to him and saying, ‘Render a just decision for me against my adversary.’ For a long time he was unwilling, but eventually he thought, ‘Even though I neither fear God nor respect any human being, because this widow keeps bothering me I shall deliver a just decision for her lest she finally come and strike me.’” And the Lord said, “Pay attention to what the dishonest judge says. Will not God then secure the rights of His chosen ones who call out to Him day and night? Will He be slow to answer them? I tell you, He will see to it that justice is done for them speedily. But when the Son of Man comes, will He find faith on earth?”

This question stands as the dramatic seal of the Gospel according to the blessed Evangelist Luke, for it discloses the paradox at the heart of Christian faith: God remains faithful, yet man so often does not. The danger is not that God should forget man, but that man should grow weary of God. Hence our Lord speaks of the need to pray always and never lose heart — not because God is deaf, but because prayer keeps faith alive in an age that exhausts and empties it, especially in this Europe of ours, grown amnesiac and intent on denying its Christian roots.

The widow in this parable represents the suffering soul of the Church, the Mystical Body of Christ: fragile, yet unyielding. In silence she keeps knocking at the judge’s door, even when all seems futile. Hers is the faith that does not yield to indifference; the faith that endures through the night of God’s apparent absence. And God, though unlike the unjust judge, at times tests faith precisely in the moment when He seems to act as one: He keeps silence, He withholds His answer, He delays justice. It is there that persevering prayer becomes an act of pure trust — a silent rebellion against despair.

When Jesus asks whether, at His return, He will find faith upon the earth, He is not speaking of a vague belief or a mere religious sentiment; He is speaking of the faith that endures — the faith that remains steadfast even when every outward form of religion seems to dissolve. It is that faith which is “the assurance of things hoped for, the conviction of things not seen” (cf. Heb 11:1); the faith that will make us blessed, “for having not seen, we have yet believed” (cf. Jn 20:29). It is the faith of Abraham, who “hoped against hope” (cf. Rom 4:18); the faith of the widow who continues to plead for justice (cf. Lk 18:3); the faith of the Church that does not cease to pray even when the world mocks her.

The true menace is not the atheism that pervades the world, but the one that spreads ever more within the visible Church — an ecclesiastical atheism, the ultimate consequence of spiritual apathy that corrodes the heart, turning faith into habit and hope into cynicism. Yet it is precisely in this desert that the faithfulness of God is revealed: when all seems dead, the seed of faith survives hidden within the soil, like a silent germ awaiting the springtime of God.

In the penitential rite we confess that we have sinned in thought, word, deed, and omission. Among these sins, omission is perhaps the most grievous, for it encloses within itself the root of all the others — much as pride, queen and synthesis of the capital sins, contains them all. The dramatic phrase that closes this Gospel passage — at once hermetic and enigmatic — finds in the sin of omission its fitting paradigm.

Consider, for example, how many, faced with the disorder and decay that for decades have afflicted the Church, wash their hands like Pilate in the praetorium, saying: “The Church belongs to Christ, and it is governed by the Holy Spirit.” As though that formula were sufficient to justify their inertia. The house is ablaze, yet we console ourselves by saying: “It is His; He will see to it. Did He not promise that the gates of hell shall not prevail?” 

We are witnessing the sanctification of impotence — a theology of minding one’s own business disguised as trust in Providence. It is an evasion of responsibility that masquerades as faith. When problems cannot be denied or avoided in any way, we are even capable of saying: “Those who come after us will take care of it”, a true triumph of the most nefarious irresponsible spirit.

If we were to set Christ’s question — “When the Son of Man comes, will He find faith upon the earth?” — within this realistic context, an unsettling echo would emerge. Yes, the Lord has promised non praevalebunt, and assuredly, at His return, He will find the Church still standing. But which Church? For He may find, rather, a visible Church emptied of Christ — of whom at times we seem almost ashamed — and filled instead with something else: humanism without grace, diplomacy without truth, spirituality without the Spirit. A Church that yet exists in its outward form, but one that risks no longer possessing faith.

And this, perhaps, is the most terrible of all the prophecies implicit in that question: that faith might vanish not from the world, but from the very house of God. Even in the face of this disquieting possibility — that the Son of Man might find a faith grown dim, almost extinguished — the Gospel does not abandon us to fear; it recalls us instead to the hope that does not disappoint.

True faith is not a stable possession; it is a grace to be guarded and renewed each day. Like breath, it lives only in its continuity: if it ceases, it dies. This is why prayer becomes the highest act of spiritual resistance: to pray does not mean to remind God of our existence, but to remind ourselves that God exists, and that His faithfulness precedes every one of our infidelities.

When faith seems to falter within the Church, God does not cease to awaken it in the little ones, in the humble, in the poor who cry to Him day and night. This is the logic of the Kingdom: while structures grow rigid and men grow distracted, the Spirit continues to breathe within silent hearts that believe without seeing. Where the institution appears weary, God remains alive in His people. Where the word falls silent, faith continues to whisper.

The question of ChristWill I find faith upon the earth? — is not a condemnation but an invitation: Will you keep the faith when all around you seems lost?. It is a summons to remain awake in the night, not to delegate to others the responsibility of believing. The Son of Man does not ask for a triumphant Church in the worldly or political sense of the term, but for a Church that keeps vigil, that does not cease to knock, that perseveres in prayer like the widow of the parable. And that widow, symbol of the poor and faithful Church, teaches us that the miracle of faith does not consist in changing God, but in allowing ourselves to be changed by Him — until we ourselves become living prayer.

When the Son of Man comes, He may perhaps find few works and few institutions still standing firm; yet if He finds a small remnant that still believes, hopes, and loves, then His question will already have found its answer. For even a single living faith, even a single heart that continues to pray in the night, is enough to keep the lamp of the Church burning.

Praised be Jesus Christ!

From The Island of Patmos, 20 October 2025

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LA FE EN CUANTO RESISTENCIA EN LA NOCHE DE DIOS. «CUANDO VENGA EL HIJO DEL HOMBRE, ¿ENCONTRARÁ FE SOBRE LA TIERRA?»

Cuando venga el Hijo del hombre, quizá no encuentre muchas obras ni muchas instituciones que permanezcan firmes; pero si halla un pequeño resto que aún cree, espera y ama, su pregunta habrá encontrado ya la respuesta. Porque incluso una sola fe viva, incluso un solo corazón que continúa orando en la noche, basta para mantener encendida la lámpara de la Iglesia.

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La frase conclusiva de este pasaje lucano suscita en mi ánimo cristiano y sacerdotal temor y temblor. La parábola del juez y de la viuda no termina con una consolación, sino con una pregunta. Jesús no promete tiempos mejores ni garantiza que la justicia de Dios se manifestará según nuestras expectativas; deja, más bien, un interrogante suspendido que atraviesa los siglos y se posa sobre cada generación: «Cuando venga el Hijo del hombre, ¿encontrará fe sobre la tierra?».

Del Santo Evangelio según san Lucas (18, 1-8) — En aquel tiempo, Jesús les decía a sus discípulos una parábola sobre la necesidad de orar siempre sin desfallecer: «Había en una ciudad un juez que ni temía a Dios ni respetaba a los hombres. En aquella misma ciudad había una viuda que acudía a él diciendo: “Hazme justicia contra mi adversario”. Por algún tiempo se negó, pero después se dijo a sí mismo: “Aunque no temo a Dios ni respeto a los hombres, como esta viuda me está fastidiando, le haré justicia para que no venga continuamente a importunarme”» Y el Señor añadió: «Fijaos en lo que dice el juez injusto; pues Dios, ¿no hará justicia a sus elegidos que claman a él día y noche? ¿Les hará esperar? Os digo que les hará justicia pronto. Pero cuando venga el Hijo del hombre, ¿encontrará esta fe en la tierra?».

Esta pregunta es el sello dramático del Evangelio del beato evangelista Lucas, porque revela el paradigma de la fe cristiana: Dios permanece fiel, pero con frecuencia el hombre no lo es. El riesgo no consiste en que Dios olvide al hombre, sino en que el hombre se canse de Dios.

Por eso Jesús habla de la necesidad de orar siempre, sin desfallecer: no porque Dios sea sordo, sino porque la oración mantiene viva la fe en un tiempo que la desgasta hasta vaciarla, especialmente en esta Europa nuestra, sin memoria, que reniega de sus raíces cristianas y pretende construir un mundo donde Dios ya no tenga lugar.

La viuda de esta parábola representa el alma sufriente de la Iglesia, Cuerpo Místico de Cristo: frágil, pero obstinada. En silencio continúa llamando a la puerta del juez, aun cuando todo parece inútil. Es la fe que no cede a la tentación de la indiferencia; la fe que resiste en la noche de la aparente ausencia de Dios. Y Dios no es como el juez injusto, pero a veces pone a prueba la fe precisamente en el momento en que parece comportarse como tal: calla, no responde, retrasa la justicia. Es entonces cuando la oración perseverante se convierte en un acto de confianza pura, una rebelión silenciosa contra la desesperación.

Cuando Jesús pregunta si, a su regreso, encontrará la fe sobre la tierra, no habla de una creencia vaga ni de un sentimiento religioso; habla de la fe que resiste, aquella que permanece firme incluso cuando toda apariencia de religión parece disolverse; esa fe que es “fundamento de lo que se espera y garantía de lo que no se ve” (cf. Heb 11,1); esa fe que nos hará bienaventurados porque, “sin haber visto, hemos creído” (cf. Jn 20,29). Es la fe de Abraham, que “creyó esperando contra toda esperanza” (cf. Rom 4,18); la fe de la viuda que sigue pidiendo justicia (cf. Lc 18,3); la fe de la Iglesia que no deja de orar incluso cuando el mundo se burla de ella.

La verdadera amenaza no es el ateísmo extendido en el mundo, sino aquel que se difunde cada vez más dentro de la Iglesia visible: el ateísmo eclesiástico, consecuencia extrema de la apatía espiritual que erosiona el corazón y transforma la fe en costumbre y la esperanza en cinismo. Y, sin embargo, es precisamente en este desierto donde se revela la fidelidad de Dios: cuando todo parece muerto, la semilla de la fe sobrevive oculta en la tierra, como un germen silencioso que espera la primavera de Dios.

En el rito penitencial confesamos haber pecado de pensamiento, palabra, obra y omisión. Entre estos pecados, la omisión es quizá el más grave, porque encierra en sí la raíz de todos los demás, del mismo modo que la soberbia, reina y síntesis de todos los pecados capitales, los contiene a todos. Y la frase dramática que cierra este pasaje evangélico — a la vez hermética y enigmática — tiene en el pecado de omisión, a su modo, su paradigma.

Basta pensar en cuantos, ante el desorden y la decadencia que desde hace décadas afligen a la Iglesia, se lavan las manos como Pilato en el pretorio diciendo: «La Iglesia es de Cristo y está gobernada por el Espíritu Santo». Como si bastara esa fórmula para justificar la inercia. La casa está en llamas, pero nos tranquilizamos diciendo: «Es suya, Él se ocupará. ¿Acaso no prometió que las puertas del infierno no prevalecerán?».

Estamos ante la santificación de la impotencia, ante una teología del “yo me ocupo de lo mío” disfrazada de confianza en la Providencia. Es una huida de la responsabilidad que pretende presentarse como fe. Cuando los problemas no se pueden negar ni evitar de ninguna manera, somos capaces incluso de decir: “Los que vengan después de nosotros se encargarán de ello”, verdadero triunfo del más nefasto espíritu irresponsable.

Si insertáramos la pregunta de Cristo — «Cuando venga el Hijo del hombre, ¿encontrará fe sobre la tierra?» — en este contexto realista, resonaría en ella un eco inquietante. Sí, el Señor ha prometido non praevalebunt y, ciertamente, a su regreso encontrará todavía a la Iglesia. Pero ¿qué Iglesia? Porque podría encontrar también una Iglesia visible vaciada de Cristo — de quien a veces parecemos casi avergonzarnos — y llena de otra cosa: de humanitarismo sin gracia, de diplomacia sin verdad, de espiritualidad sin Espíritu. Una Iglesia que sigue existiendo en su forma exterior, pero que corre el riesgo de no tener ya fe.

Y ésta es quizá la más terrible de las profecías implícitas en aquella pregunta: que la fe pueda desaparecer no del mundo, sino precisamente de la casa de Dios. Aun ante esta posibilidad inquietante — que el Hijo del hombre pueda hallar una fe debilitada, casi extinguida —, el Evangelio no nos abandona al temor, sino que nos llama a la esperanza que no defrauda.

La fe auténtica no es una posesión estable; es una gracia que debe custodiarse y renovarse cada día. Como el aliento, sólo vive en la continuidad: si se interrumpe, muere. Por eso la oración se convierte en el acto más alto de resistencia espiritual: orar no significa recordarle a Dios nuestra existencia, sino recordarnos a nosotros mismos que Dios existe, y que su fidelidad precede a todas nuestras infidelidades.

Cuando la fe parece desfallecer en la Iglesia, Dios no deja de suscitarla en los pequeños, en los humildes, en los pobres que claman a Él día y noche. Ésta es la lógica del Reino: mientras las estructuras se endurecen y los hombres se distraen, el Espíritu continúa soplando en los corazones silenciosos que creen sin haber visto. Donde la institución parece cansada, Dios sigue vivo en su pueblo. Donde la palabra calla, la fe sigue susurrando.

La pregunta de Cristo — «¿Encontraré fe sobre la tierra?» — no es una condena, sino una invitación: «¿Conservarás la fe cuando todo a tu alrededor parezca perdido?» Es un llamado a permanecer despiertos en la noche, a no delegar en otros la responsabilidad de creer. El Hijo del hombre no pide una Iglesia triunfante en el sentido mundano o político del término, sino una Iglesia que vela, que no deja de llamar a la puerta, que persevera en la oración como la viuda de la parábola. Y esa viuda, símbolo de la Iglesia pobre y fiel, nos enseña que el milagro de la fe no consiste en cambiar a Dios, sino en dejarnos cambiar por Él, hasta convertirnos nosotros mismos en oración viviente.

Cuando venga el Hijo del hombre, tal vez no encuentre muchas obras ni muchas instituciones que permanezcan firmes; pero si halla un pequeño resto que todavía cree, espera y ama, su pregunta habrá encontrado ya la respuesta. Porque incluso una sola fe viva, incluso un solo corazón que continúa orando en la noche, basta para mantener encendida la lámpara de la Iglesia.

¡Alabado sea Jesucristo!

Desde La Isla de Patmos, 20 de octubre de 2025

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Il peccato di Sodoma e quel desiderio inespresso di gaizzare la Sacra Scrittura e sdoganare l’omosessualità all’interno della chiesa e del clero — The sin of Sodom and that unexpressed desire to “gay-ize” Sacred Scripture and legitimize homosexuality within the church and the clergy — El pecado de Sodoma y ese deseo inexpresado de hacer gay la Sagrada Escritura y legalizar la homosexualidad dentro de la iglesia y del clero

(Italian, English, Español)

 

IL PECCATO DI SODOMA E QUEL DESIDERIO INESPRESSO DI GAIZZARE LA SACRA SCRITTURA E SDOGANARE L’OMOSESSUALITÀ ALL’INTERNO DELLA CHIESA E DEL CLERO

Se ci è rimasto ancora abbastanza pelo sullo stomaco, veniamo a scoprire che pure la Sacra Scrittura è ossessionata dall’omosessualità e dagli omosessuali. Scopriamo, ad esempio, che Davide e Gionata sono stati forse un po’ più che semplici amici; che Sodoma e Gomorra sono le capitali dell’amore LGBT+, e che anche Gesù con i suoi apostoli e con Lazzaro di Betania aveva qualche cosa da nascondere, insomma non si salva proprio più nessuno.

— Attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Un sacerdote italiano, Giovanni Berti, celebre vignettista, pubblicò giorni fa sul suo sito una vignetta in cui il buon Dio minaccia di incenerire i preti che ancora insegnano che il peccato di Sodoma consiste nell’omosessualità.

In tempi schizofrenici come i nostri dobbiamo assistere a questi teatrini in cui ci sono più preti che parlano e si preoccupano di omosessualità, al disperato scopo di sdoganarla all’interno della Chiesa e del suo clero, più di quanto non ne parlino gli attivisti del più famoso Circolo di cultura omosessuale di Roma, che sono molto più coerenti e quindi rispettabili, nelle loro libere e insindacabili scelte. Gli omosessuali da sempre migliori, sul piano umano e sociale, sono quelli che per loro insindacabile scelta di vita vivono la propria omosessualità alla luce del sole, in libertà e coerenza, senza preoccuparsi della Chiesa cattolica e della sua morale, perché la cosa non li riguarda. Invece, i peggiori in assoluto sono le cocorite clericali, detti anche «omosessuali da sacrestia», che vorrebbero piegare i principi della morale cattolica ai loro capricci, nel disperato tentativo di introdurre le rivendicazioni LGBT+ dentro la Chiesa e il clero come un vero e proprio cavallo di Troia.

Questi soggetti andrebbero mandati a lezione da Tomaso Cerno, che fu presidente nazionale dell’Arcigay (associazione gay della sinistra italiana), in seguito eletto al Senato della Repubblica Italiana, splendida figura di intellettuale omosessuale libero e intellettualmente onesto, autore di frasi intelligenti ed esilaranti del tipo:

«Essendo io un omosessuale serio, certi froci repressi e certe checche impazzite non le ho mai sopportate».

Verrebbe da ribattergli: vallo a dire ai nostri acidi gay isterici da sacrestia! E, con una ironia e una libertà senza pari, a quei vari programmi televisivi e radio dove è consentito un linguaggio più colorito — che, per quanto all’apparenza triviale, in certi contesti può essere anche efficace e persino utile sul piano sociocomunicativo — esordisce facendo continuo riferimento ai «froci» e riferendosi a se stesso dicendo «io sono felicemente finocchio sin da quando ero bambino» (vedere QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, ecc..).

Così, se ci è rimasto ancora abbastanza pelo sullo stomaco, veniamo a scoprire che pure la Sacra Scrittura è ossessionata dall’omosessualità e dagli omosessuali. Scopriamo, ad esempio, che Davide e Gionata sono stati forse un po’ più che semplici amici; che Sodoma e Gomorra sono le capitali dell’amore LGBT+, e che anche Gesù con i suoi apostoli e con Lazzaro di Betania aveva qualche cosa da nascondere, insomma non si salva proprio più nessuno.

Ma torniamo alla vignetta di questo sacerdote italiano. Qual è veramente il peccato di Sodoma che fa scandalizzare certi preti à la page? Il testo di Genesi dice così:

«Non si erano ancora coricati, quand’ecco gli uomini della città, cioè gli abitanti di Sòdoma, si affollarono attorno alla casa, giovani e vecchi, tutto il popolo al completo. Chiamarono Lot e gli dissero: “Dove sono quegli uomini che sono entrati da te questa notte? Falli uscire da noi, perché possiamo abusarne!”» (cfr. Gen 19,4-5).

La traduzione italiana usa il verbo «abusare», che già dice qualcosa di un po’ più preciso per una giusta esegesi (ab-uti: andare oltre l’uso consentito). Il testo originale ebraico usa invece l’espressione «affinché potessero conoscerli». Il termine ebraico è yādáʿ (יָדַע) e significa «avere una conoscenza completa» — non sempre di tipo sessuale — ma in molti casi indica una conoscenza carnale, specifica dell’atto unitivo tra l’uomo e la donna. Se così fosse, ed è così, più che di un atto omosessuale, il racconto biblico testimonierebbe il tentativo di una violenza di gruppo, usato come segno di subordinazione e sottomissione per quegli stranieri considerati ostili e pericolosi.

Del resto, in molte popolazioni — e la storia lo testimonia — l’atto supremo di maggior disprezzo verso un individuo o un’etnia è spesso coinciso non con l’omicidio ma con la violazione del corpo attraverso un atto di abuso sessuale. E quando ad essere abusate sono state le donne, la conseguente gravidanza scaturita dall’atto di violenza riaffermava una volontà di sottomissione e di dominio anche nel figlio che ne sarebbe nato.

Per procedere con maggiori informazioni, riporto quanto la Pontificia Commissione Biblica dice in riferimento a questo passo di Gen 19,4 nel documento «Che cosa è l’uomo?» (Sal 8,5). Un itinerario di antropologia biblica: «Va subito rilevato che la Bibbia non parla dell’inclinazione erotica verso una persona dello stesso sesso, ma solo degli atti omosessuali. E di questi tratta in pochi testi, diversi fra loro per genere letterario e importanza. Per quanto riguarda l’Antico Testamento abbiamo due racconti (Gen 19 e Gdc 19) che evocano impropriamente questo aspetto, e poi delle norme in un Codice legislativo (Lv 18,22 e 20,13) che condannano le relazioni omosessuali» (PCB 2019, n. 185).

Il passo è molto chiaro e la preoccupazione della Bibbia si riferisce al solo atto omosessuale e non alle relazioni e implicazioni omoaffettive, così come noi oggi le conosciamo e teorizziamo. Il che significa introdurre una riflessione sostanzialmente diversa, quanto l’analisi di un caso di teologia morale alla luce della sola antropologia. La Bibbia vede e legge l’atto omosessuale all’interno di una sessualità ben definita e di una relazionalità stabilita da Dio tra uomo e donna, tra maschio e femmina, che stabilisce un ordine e un piano di salvezza (sebbene anche queste categorie, da alcuni biblisti di matrice protestante, siano state scardinate). In questo senso anche la sessualità umana, per Dio, è stata pensata come strumento di salvezza e va esercitata anche in tal senso.

L’uomo biblico, che è un uomo sostanzialmente dell’antichità, considera gli atti omosessuali così come nell’antichità venivano considerati e conosciuti. Così come Paolo di Tarso considerava gli atti omosessuali in quelle persone che, avendo aderito a Cristo, riscoprivano come novità salvifica anche la sessualità (cfr. Rm 1,26-27; 1Cor 6,9-11; 1Tm 1,10).

Ma che cosa erano gli atti omosessuali per gli antichi? Sostanzialmente il capovolgimento dell’ordine naturale di unione e di procreazione, che assegnava all’uomo una parte attiva-donativa e alla donna quella passiva-ricettiva. Una visione forse arcaica, ma mutuata dall’osservazione del mondo naturale, per cui: «Si riteneva che il rapporto sessuale richiedesse un partner attivo e l’altro passivo, che la natura avesse assegnato questi ruoli rispettivamente al maschio e alla femmina, e che gli atti omoerotici inevitabilmente ingenerassero confusione in questi ruoli, confondendo così ciò che è naturale. Nel caso di rapporti tra due maschi, si riteneva che uno venisse degradato dall’assumere il ruolo passivo, considerato naturalmente riservato alla donna. Nel caso di due donne, si riteneva che una delle due usurpasse il ruolo dominante, attivo, considerato naturalmente riservato all’uomo» (B. J. Brooten, Paul’s Views on the Nature of Women and Male Homoeroticism, in AA. VV., Bibbia e omosessualità, Claudiana, Torino 2011, p. 25).

Quindi, per tali ragioni di natura, tra due uomini o tra due donne non erano contemplate relazioni sessuali di questo tipo. Tuttavia ciò non implicava un giudizio di merito esteso alle persone: il discorso verteva sull’atto, non sulle relazioni affettive come oggi le intendiamo, pena ipotizzare un’omofobia storica generalizzata.

Gli storici e gli studiosi del mondo antico sono concordi nell’indicare anche l’esistenza di divieti e pene per disciplinare le pratiche omoerotiche in alcune civiltà e circostanze, ma non si ha certezza della loro effettiva applicazione, salvo determinati casi che qui non trattiamo e che potranno essere oggetto di un successivo articolo.

Tornando al documento della Pontificia Commissione Biblica, si può precisare ancor meglio:

«Ma qual è stato in realtà il peccato di Sodoma, meritevole di una così esemplare punizione? …» (PCB 2019, n. 186).

Il peccato di Sodoma è un peccato derivante dal sostanziale disprezzo di Dio che genera orgoglioso rifiuto e condotta oppositiva verso gli uomini estranei a Sodoma — non solo gli ospiti di Lot, ma anche Lot stesso e la sua famiglia. Sodoma è la città malvagia in cui lo straniero non è tutelato e non si rispetta il sacro dovere dell’accoglienza, perché già da tempo si è smesso di accogliere Dio. Qualcosa di simile si deduce da alcuni passi evangelici (cfr. Mt 10,14-15; Lc 10,10-12), dove si parla della punizione per il rifiuto degli inviati dal Signore: un rifiuto che avrà conseguenze più gravi di quelle abbattutesi su Sodoma. Nella cultura classica questo atteggiamento è la hýbris (ὕβρις): violazione del diritto divino e naturale che sfocia in conseguenze infauste, atti dissacranti e disumani.

Sì, ma l’omosessualità dov’è finita? A partire dal secondo secolo dell’era cristiana, si è affermata una lettura abituale del racconto di Gen 19,4 alla luce di 2Pt 2,6-10 e Gd 7. Il racconto non intende presentare l’immagine di un’intera città dominata da brame omosessuali: denuncia piuttosto la condotta di una entità sociale e politica che non vuole accogliere lo straniero e pretende di umiliarlo, costringendolo con la forza a subire un trattamento infamante di sottomissione (cfr. PCB 2019, n. 187). Se volessimo essere più precisi, potremmo circoscrivere il tentativo di violenza come stuprum, che nel diritto romano definiva un rapporto sessuale illegittimo, anche senza violenza carnale: stuprum cum virgine vel vidua o stuprum cum masculis (cfr. Eva Cantarella, Secondo natura, Feltrinelli, Milano, edizione consultata, pp. 138-141).

Ma allora gli abitanti di Sodoma erano omosessuali sì o no? La Bibbia non lo dice, e questo invita a riflettere su come il testo sacro metta l’accento su tematiche più importanti rispetto a una singola condotta. Analizzando la storia del mondo antico e i costumi morali del tempo, possiamo presumere che a Sodoma come in Persia, in Egitto, a Gerusalemme, ad Atene e a Roma esistessero persone che praticavano in egual misura atti di natura omosessuale e atti di natura eterosessuale. Persone consapevoli del proprio sesso biologico — sapevano di essere maschi e femmine — e che vivevano queste pratiche con una libertà e leggerezza maggiori di quanto immaginiamo. Forse il secolo della liberalizzazione sessuale andrebbe cercato nell’antichità, non (solo) dopo il 1968.

Tali tematiche ci permettono di parlare di atti più che di relazioni omosessuali. In Grecia avevano una funzione politico-civile definita; a Roma altri significati e scopi. Molti di coloro che praticavano atti omosessuali, a una certa età e per fini simili, tornavano ad atti eterosessuali e convolavano a nozze con una donna.

Per il mondo antico e per la filosofia dei Greci, il matrimonio era il solo istituto che garantisse la prosecuzione della famiglia e della società civile, cosa che una comunità di soli uomini o di sole donne non avrebbe potuto sostenere, come attestano i poemi classici, nei quali comunità femminili, per non estinguersi, cercano uomini.

Il mondo antico conosce un’antropologia della sessualità ancora primitiva, basata sugli istinti naturali, e non riusciva a definire pienamente la grandezza della sessualità umana così come il Cristianesimo l’ha proposta nei secoli — talora con toni discutibili — giungendo tuttavia a una teologia della corporeità in vista di una salvezza che include, non mortifica, la sessualità.

Forse siamo noi moderni ad aver categorizzato e definito la sessualità in modo così preciso — grazie alle scienze umane e alle neuroscienze. Il concetto di orientamento omosessuale è moderno. Secondo gli studiosi, l’attività sessuale nell’antichità poteva somigliare a una bisessualità consapevole esercitata in contesti e con scopi diversi. Anche perché il concetto di natura/contro natura era inteso diversamente da come lo intenderà la morale cristiana.

Adesso che sappiamo l’identità del peccato di Sodoma, comprendiamo che nelle tradizioni narrative della Bibbia non ci sono indicazioni puntuali — almeno come vorremmo — sulle pratiche omosessuali, né come comportamento da biasimare, né come atteggiamento da tollerare o favorire (cfr. PCB 2019, n. 188). Semplicemente, la Bibbia parla della salvezza che Dio opera nella storia dell’uomo: una salvezza pedagogica che tiene insieme opposti e apparenti contraddizioni. In Cristo la salvezza si rivela e si affina, immettendo nel cuore dell’uomo un cambiamento non solo interiore, ma anche strutturale, che tocca le relazioni umane, e quindi anche la sessualità. Più fondamentale di un atto considerato peccaminoso è la persona umana, più grande del suo atto o del suo orientamento. Una fede vissuta e accolta con gioia comporta un cammino educativo liberante che ristabilisce e ridefinisce le relazioni in modo nuovo, così da percepire la bellezza di ciò che ci è stato dato — compresa la sessualità e il suo esercizio — affinché sia per me e per altri strumento di salvezza.

Sanluri, 18 ottobre 2025

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THE SIN OF SODOM AND THAT UNEXPRESSED DESIRE TO “GAY-IZE” SACRED SCRIPTURE AND LEGITIMIZE HOMOSEXUALITY WITHIN THE CHURCH AND THE CLERGY

So then, if we still have enough stomach hair left, we come to discover that even Sacred Scripture seems to be obsessed with homosexuality and homosexuals. We learn, for instance, that David and Jonathan may have been somewhat more than simple friends; that Sodom and Gomorrah were the capitals of LGBT+ love; and that even Jesus, with his apostles and with Lazarus of Bethany, had something to hide — in short, it would seem that no one is left innocent anymore.

— Ecclesial actuality —

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Author
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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An Italian priest, Giovanni Berti, well-known as a cartoonist, recently published on his website a cartoon in which the good Lord threatens to incinerate those priests who still teach that the sin of Sodom consists in homosexuality.
In these schizophrenic times of ours, we are forced to witness such little shows, where there are more priests speaking about and worrying over homosexuality — desperately trying to normalize it within the Church and her clergy — than there are activists at Rome’s most famous Homosexual Cultural Circle, who are far more consistent and therefore more respectable in their free and unquestionable choices.

The best homosexuals, humanly and socially speaking, have always been those who, by their own unquestionable life choice, live their homosexuality openly, in freedom and coherence, without worrying about the Catholic Church and her moral teaching — because it simply does not concern them.

The worst, instead, are the clerical parakeets, also known as the camp priests of the sacristy who would like to bend the principles of Catholic morality to their whims, in the desperate attempt to introduce LGBT+ claims into the Church and the clergy as a true Trojan horse.

These individuals should be sent to take lessons from Tommaso Cerno, former national president of Arcigay (Italy’s major left-wing gay association) and later elected to the Italian Senate — a brilliant figure of a free and intellectually honest homosexual, author of witty and sharp remarks such as: Since I am a serious homosexual, I have never been able to stand certain hysterical queens”. One would be tempted to reply: go tell that to our acidic sacristy queens! And, with his unmatched irony and freedom of spirit, in various television and radio programs where a more colorful language is allowed — which, although apparently coarse, can in some contexts be effective and even socially useful — he often opens his remarks by repeatedly referring to faggots and by saying of himself: I have been a happily queer man ever since I was a child (see QUI, QUI, QUI, QUI, QUI, etc..)

So then, if we still have enough stomach hair left, we come to discover that even Sacred Scripture seems to be obsessed with homosexuality and homosexuals. We learn, for instance, that David and Jonathan may have been somewhat more than simple friends; that Sodom and Gomorrah were the capitals of LGBT+ love; and that even Jesus, with his apostles and with Lazarus of Bethany, had something to hide — in short, it would seem that no one is left innocent anymore.

But let us return to the cartoon by this Italian priest. What, in truth, is the sin of Sodom that so scandalizes certain à la page priests? The text of Genesis says:

“They had not yet gone to bed when the townsmen, the men of Sodom, both young and old, all the people to the last man, surrounded the house. They called to Lot and said, ‘Where are the men who came to your house tonight? Bring them out to us that we may abuse them’” (cf. Gen 19:4-5).

The Italian translation uses the verb “to abuse”, which already says something a bit more precise for a proper exegesis (ab-uti: to go beyond the permitted use). The original Hebrew text, however, uses the expression “so that they might know them”. The Hebrew term is yādáʿ (יָדַע) and means “to have complete knowledge” — not always of a sexual kind — but in many cases it indicates a carnal knowledge, specific to the unitive act between a man and a woman. If this is so, and it is so, more than describing a homosexual act, the biblical account would bear witness to an attempted act of group violence, used as a sign of subordination and humiliation toward those foreigners considered hostile and dangerous.

Indeed, in many peoples — and history bears witness to this — the supreme act of contempt toward an individual or an ethnic group has often consisted not in murder but in the violation of the body through an act of sexual abuse. And when the victims of such abuse were women, the consequent pregnancy resulting from the act of violence reaffirmed a will of subjugation and domination even in the child who would be born of it.

To proceed with greater precision, I shall report what the Pontifical Biblical Commission says in reference to this passage of Gen 19:4 in the document What is man? (Ps 8:5), A Journey of Biblical Anthropology: “It must immediately be noted that the Bible does not speak of an erotic inclination toward a person of the same sex, but only of homosexual acts. And these are mentioned in only a few texts, which differ from one another in literary genre and importance. With regard to the Old Testament, we have two accounts (Gen 19 and Judg 19) that improperly evoke this aspect, and then certain norms in a legislative code (Lev 18:22 and 20:13) that condemn homosexual relations” (PBC 2019, n. 185).

The passage is very clear, and the concern of Scripture refers solely to the homosexual act, not to the relationships and affective implications between persons of the same sex as we know and conceptualize them today. This means introducing a substantially different reflection, namely the analysis of a case in moral theology in the light of anthropology alone. The Bible perceives and interprets the homosexual act within a sexuality clearly defined and within a relationality established by God between man and woman, male and female, which determines an order and a salvific plan (although even these categories, according to some Protestant biblical scholars, have been dismantled). In this sense, human sexuality itself, in God’s design, was conceived as an instrument of salvation and must be lived accordingly.

The biblical man, who is essentially a man of antiquity, viewed homosexual acts as they were understood and regarded in ancient times. In the same way, Paul of Tarsus considered homosexual acts in those persons who, having embraced Christ, rediscovered even their sexuality as a new dimension of salvation (cf. Rom 1:26–27; 1 Cor 6:9–11; 1 Tim 1:10).

But what were homosexual acts for the ancients? Essentially, they were seen as the overturning of the natural order of union and procreation, which assigned to the man an active-donative role and to the woman a passive-receptive one. A vision perhaps archaic, yet derived from the observation of the natural world, according to which: “It was believed that the sexual act required one active and one passive partner, that nature had assigned these roles respectively to male and female, and that homoerotic acts inevitably produced confusion in these roles, thereby confusing what is natural. In the case of relations between two males, it was thought that one of them was degraded by assuming the passive role, considered naturally reserved to the woman. In the case of two women, it was thought that one of them usurped the dominant, active role, considered naturally reserved to the man” (B. J. Brooten, Paul’s Views on the Nature of Women and Male Homoeroticism, in Bibbia e omosessualità, Claudiana, Turin 2011, p. 25).

Therefore, for such reasons of nature, sexual relations of this kind were not contemplated between two men or between two women. However, this did not imply a moral judgment extended to the persons themselves: the discourse concerned the act, not the affective relationships as we understand them today, otherwise we would have to hypothesize a generalized historical homophobia.

Historians and scholars of the ancient world agree in noting the existence of prohibitions and penalties intended to regulate homoerotic practices in certain civilizations and circumstances, but there is no certainty as to their actual application, except for specific cases that will not be treated here and may be the subject of a future article.

Returning to the document of the Pontifical Biblical Commission, the matter can be clarified even further: “But what was in fact the sin of Sodom, deserving of so exemplary a punishment? …” (PBC 2019, n. 186).

The sin of Sodom is a sin arising from a fundamental contempt for God that generates a proud rejection and an oppositional attitude toward those who are strangers to Sodom — not only Lot’s guests, but also Lot himself and his family. Sodom is the wicked city in which the stranger is not protected and the sacred duty of hospitality is no longer respected, because long ago its people ceased to welcome God. Something similar can be deduced from certain Gospel passages (cf. Mt 10:14–15; Lk 10:10–12), where reference is made to the punishment for rejecting those sent by the Lord — a rejection that will have consequences more severe than those that befell Sodom. In classical culture, this attitude corresponds to hybris (ὕβρις): the violation of divine and natural law, leading to disastrous consequences, sacrilegious and inhuman acts.

Yes, but where did homosexuality go? Starting from the second century of the Christian era, a customary reading of the account in Gen 19:4 took shape in the light of 2 Pt 2:6–10 and Jude 7. The narrative does not intend to present the image of an entire city dominated by homosexual desires; rather, it denounces the behavior of a social and political entity that refuses to welcome the stranger and seeks to humiliate him, forcing him by violence to undergo a degrading treatment of subjugation (cf. PBC 2019, n. 187). If we wished to be more precise, we could describe the attempted violence as stuprum, which in Roman law defined an illicit sexual act, even without physical violence: stuprum cum virgine vel vidua or stuprum cum masculis (cf. Eva Cantarella, Secondo natura, Feltrinelli, Milan, consulted edition, pp. 138–141).

But then, were the inhabitants of Sodom homosexual or not? Scripture does not say so, and this invites us to reflect on how the sacred text places the emphasis on themes far more important than a single behavior. By analyzing the history of the ancient world and the moral customs of the time, we may presume that in Sodom, as in Persia, Egypt, Jerusalem, Athens, and Rome, there were people who practiced both homosexual and heterosexual acts in equal measure. They were persons conscious of their biological sex — they knew themselves to be male or female — and who lived these practices with a freedom and lightness greater than we might imagine. Perhaps the true century of sexual liberalization should be sought in antiquity, not (only) after 1968.

Such themes allow us to speak of homosexual acts rather than homosexual relationships. In Greece, these acts had a specific political and civic function; in Rome, they bore other meanings and purposes. Many of those who engaged in homosexual acts, at a certain age and for similar reasons, returned to heterosexual acts and contracted marriage with a woman.

For the ancient world and for Greek philosophy, marriage was the only institution that guaranteed the continuation of the family and of civil society, something that a community made up solely of men or solely of women could not sustain, as attested by the classical poems in which female communities, in order not to die out, seek men.

The ancient world possessed an anthropology of sexuality that was still primitive, based on natural instincts, and it was unable fully to define the greatness of human sexuality as Christianity has proposed it throughout the centuries — at times with debatable tones — yet ultimately arriving at a theology of corporeality aimed at a salvation that includes rather than mortifies sexuality.

Perhaps it is we moderns who have categorized and defined sexuality so precisely — thanks to the human sciences and to neuroscience. The concept of homosexual orientation is modern. According to scholars, sexual activity in antiquity could resemble a conscious bisexuality practiced in different contexts and for different purposes. This was also because the concept of nature and against nature was understood differently from the way it would later be interpreted by Christian morality.

Now that we know the true identity of the sin of Sodom, we understand that in the narrative traditions of the Bible there are no precise indications — at least not as we would wish — concerning homosexual practices, neither as behaviors to be condemned nor as attitudes to be tolerated or favored (cf. PBC 2019, n. 188). Quite simply, Scripture speaks of the salvation that God works in the history of humanity: a pedagogical salvation that holds together opposites and apparent contradictions. In Christ, salvation is revealed and refined, implanting in the human heart a change not only interior but also structural, which touches human relationships and therefore also sexuality. More fundamental than an act considered sinful is the human person, who is greater than his or her act or orientation. A faith lived and received with joy entails a liberating educational journey that restores and redefines relationships in a new way, so as to perceive the beauty of what has been given to us — including sexuality and its exercise — that it may be, for me and for others, an instrument of salvation.

Sanluri, 18th October 2025

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EL PECADO DE SODOMA Y ESE DESEO INEXPRESADO DE HACER GAY LA SAGRADA ESCRITURA Y LEGALIZAR LA HOMOSEXUALIDAD DENTRO DE LA IGLESIA Y DEL CLERO

Y si todavía nos queda algo de pelo en el estómago, llegaríamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura parece estar obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. Descubrimos, por ejemplo, que David y Jonatán tal vez fueron algo más que simples amigos; que Sodoma y Gomorra son las capitales del amor LGBT+, y que incluso Jesús, con sus apóstoles y con Lázaro de Betania, tenía algo que ocultar; en resumen, ya no se salva absolutamente nadie.

— Actualidad eclesial —

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Author
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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Un sacerdote italiano, Giovanni Berti, célebre dibujante, publicó hace unos días en su sitio web una viñeta en la que el buen Dios amenaza con incinerar a los sacerdotes que aún enseñan que el pecado de Sodoma consiste en la homosexualidad.

En tiempos esquizofrénicos como los nuestros debemos asistir a estos teatrillos en los que hay más sacerdotes que hablan y se preocupan por la homosexualidad — con el desesperado propósito de normalizarla dentro de la Iglesia y de su clero — que los activistas del más famoso Círculo de Cultura Homosexual de Roma, quienes son mucho más coherentes y, por ello, más respetables en sus libres e incuestionables decisiones. Los mejores homosexuales, desde el punto de vista humano y social, han sido siempre aquellos que, por su libre e incuestionable elección de vida, viven su homosexualidad a la luz del sol, con libertad y coherencia, sin preocuparse por la Iglesia católica ni por su moral, porque el asunto no les concierne. En cambio, los peores en absoluto son las locas histéricas de sacristía, que quisieran doblegar los principios de la moral católica a sus caprichos, en el desesperado intento de introducir las reivindicaciones LGBT+ dentro de la Iglesia y del clero por medio de un verdadero caballo de Troya.

Estos sujetos deberían ser enviados a tomar lecciones de Tommaso Cerno, quien fue presidente nacional de Arcigay (asociación homosexual de la izquierda italiana) y posteriormente elegido senador de la República, una espléndida figura de intelectual homosexual libre y honesto, autor de frases inteligentes y divertidísimas como: “Siendo yo un homosexual serio, nunca he soportado a ciertas locas histéricas”. A uno le darían ganas de responderle: díselo a nuestros ácidos gays histéricos de sacristía!

Y, con una ironía y una libertad sin igual, en varios programas de televisión y radio donde se permite un lenguaje más colorido — que, aunque aparentemente vulgar, en ciertos contextos puede resultar más eficaz e incluso útil en plano sociocomunicativo — suele comenzar refiriéndose constantemente a los “maricones” y diciendo de sí mismo: “Yo soy felizmente un maricón desde que era niño” (véase AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, AQUÍ, etc..).

Y si todavía nos queda algo de pelo en el estómago, llegaríamos a descubrir que incluso la Sagrada Escritura parece estar obsesionada con la homosexualidad y los homosexuales. Descubrimos, por ejemplo, que David y Jonatán tal vez fueron algo más que simples amigos; que Sodoma y Gomorra son las capitales del amor LGBT+, y que incluso Jesús, con sus apóstoles y con Lázaro de Betania, tenía algo que ocultar; en resumen, ya no se salva absolutamente nadie.

Pero volvamos a la viñeta de este sacerdote italiano. ¿Cuál es realmente el pecado de Sodoma que escandaliza a ciertos curas à la page? El texto del Génesis dice así:

“No se habían acostado todavía cuando los hombres de la ciudad, los habitantes de Sodoma, se apiñaron alrededor de la casa, jóvenes y viejos, todo el pueblo en pleno. Llamaron a Lot y le dijeron: ‘¿Dónde están los hombres que entraron en tu casa esta noche? Sácalos para que podamos abusar de ellos’” (cf. Gen 19,4-5).

La traducción italiana utiliza el verbo “abusar”, que expresa algo un poco más preciso para una correcta exégesis (ab-uti: ir más allá del uso permitido). El texto hebreo original, en cambio, usa la expresión “para que pudieran conocerlos”. El término hebreo es yādáʿ (יָדַע) y significa “tener un conocimiento completo”, no siempre de tipo sexual, aunque en muchos casos indica un conocimiento carnal, propio del acto unitivo entre el hombre y la mujer. Si así fuera — y así es —, más que de un acto homosexual, el relato bíblico daría testimonio de un intento de violencia colectiva, utilizada como signo de subordinación y humillación hacia aquellos extranjeros considerados hostiles y peligrosos.

De hecho, en muchos pueblos — y la historia lo demuestra —, el acto supremo de desprecio hacia un individuo o un grupo étnico no ha coincidido con el homicidio, sino con la violación del cuerpo mediante un acto de abuso sexual. Y cuando las víctimas de tales abusos han sido mujeres, el embarazo resultante del acto de violencia reafirmaba una voluntad de sometimiento y de dominio incluso sobre el hijo que habría de nacer.

Para proceder con mayor precisión, cito lo que dice la Comisión Bíblica Pontificia en referencia a este pasaje de Gén 19,4 en el documento ¿Qué es el hombre? (Sal 8,5). Un itinerario de antropología bíblica: “Debe señalarse de inmediato que la Biblia no habla de la inclinación erótica hacia una persona del mismo sexo, sino únicamente de los actos homosexuales. Y de éstos trata en pocos textos, distintos entre sí por género literario e importancia. En lo que respecta al Antiguo Testamento, tenemos dos relatos (Gén 19 y Jue 19) que evocan de manera impropia este aspecto, y luego unas normas en un código legislativo (Lv 18,22 y 20,13) que condenan las relaciones homosexuales” (CBP 2019, n. 185).

El pasaje es muy claro, y la preocupación de la Biblia se refiere únicamente al acto homosexual y no a las relaciones ni a las implicaciones afectivas entre personas del mismo sexo, tal como hoy las conocemos y teorizamos. Esto significa introducir una reflexión sustancialmente distinta, como el análisis de un caso de teología moral a la luz exclusiva de la antropología. La Biblia percibe y lee el acto homosexual dentro de una sexualidad bien definida y de una relacionalidad establecida por Dios entre el hombre y la mujer, entre el varón y la hembra, que establece un orden y un plan de salvación (aunque estas categorías, según algunos biblistas de origen protestante, han sido desmanteladas). En este sentido, también la sexualidad humana, para Dios, fue pensada como instrumento de salvación y debe ejercerse de ese modo.

El hombre bíblico, que es esencialmente un hombre de la antigüedad, considera los actos homosexuales tal como en la antigüedad eran conocidos y comprendidos. Así también Pablo de Tarso consideraba los actos homosexuales en aquellas personas que, habiéndose adherido a Cristo, redescubrían como novedad salvífica incluso la sexualidad (cf. Rom 1,26-27; 1 Cor 6,9-11; 1 Tim 1,10).

Pero ¿qué eran los actos homosexuales para los antiguos? En esencia, la inversión del orden natural de unión y de procreación, que asignaba al hombre una parte activa-donativa y a la mujer una parte pasiva-receptiva. Una visión quizás arcaica, pero derivada de la observación del mundo natural, según la cual: “Se creía que el acto sexual requería un compañero activo y otro pasivo, que la naturaleza había asignado esos roles respectivamente al varón y a la mujer, y que los actos homoeróticos inevitablemente generaban confusión en esos roles, confundiendo así lo que es natural. En el caso de las relaciones entre dos varones, se pensaba que uno de ellos se degradaba al asumir el papel pasivo, considerado naturalmente reservado a la mujer. En el caso de dos mujeres, se pensaba que una de ellas usurpaba el papel dominante, activo, considerado naturalmente reservado al hombre” (B. J. Brooten, Paul’s Views on the Nature of Women and Male Homoeroticism, en Bibbia e omosessualità, Claudiana, Turín 2011, p. 25).

Por tales razones de naturaleza, entre dos hombres o entre dos mujeres no se contemplaban relaciones sexuales de este tipo. Sin embargo, esto no implicaba un juicio moral extendido a las personas: el discurso se centraba en el acto, no en las relaciones afectivas tal como hoy las entendemos, bajo pena de imaginar una homofobia histórica generalizada.

Los historiadores y estudiosos del mundo antiguo coinciden también en señalar la existencia de prohibiciones y sanciones destinadas a regular las prácticas homoeróticas en ciertas civilizaciones y circunstancias, aunque no se tiene certeza de su aplicación efectiva, salvo en algunos casos específicos que aquí no tratamos y que podrán ser objeto de un artículo posterior.

Volviendo al documento de la Comisión Bíblica Pontificia, puede precisarse aún mejor: “¿Pero cuál fue en realidad el pecado de Sodoma, merecedor de un castigo tan ejemplar?…” (CBP 2019, n. 186).

El pecado de Sodoma es un pecado derivado del desprecio fundamental hacia Dios, que genera un rechazo orgulloso y una conducta de oposición hacia quienes son extranjeros en Sodoma: no sólo los huéspedes de Lot, sino también el propio Lot y su familia. Sodoma es la ciudad malvada en la que el extranjero no está protegido y no se respeta el sagrado deber de la hospitalidad, porque desde hacía tiempo se había dejado de acoger a Dios. Algo similar se deduce de algunos pasajes evangélicos (cf. Mt 10,14-15; Lc 10,10-12), donde se habla del castigo por el rechazo a los enviados del Señor, un rechazo que tendrá consecuencias más graves que las que cayeron sobre Sodoma. En la cultura clásica, esta actitud corresponde a la hýbris (ὕβρις): violación del derecho divino y natural que desemboca en consecuencias nefastas, actos sacrílegos e inhumanos.

Sí, pero ¿dónde ha quedado la homosexualidad? A partir del siglo II de la era cristiana se consolidó una lectura habitual del relato de Gén 19,4 a la luz de 2 Pe 2,6-10 y Jud 7. El relato no pretende presentar la imagen de una ciudad entera dominada por deseos homosexuales; más bien denuncia la conducta de una entidad social y política que no quiere acoger al extranjero y pretende humillarlo, obligándolo por la fuerza a sufrir un trato infamante de sometimiento (cf. CBP 2019, n. 187). Si quisiéramos ser más precisos, podríamos circunscribir el intento de violencia como stuprum, que en el derecho romano definía una relación sexual ilícita, incluso sin violencia carnal: stuprum cum virgine vel vidua o stuprum cum masculis (cf. Eva Cantarella, Según naturaleza, Feltrinelli, Milán, edición consultada, pp. 138-141).

Entonces, ¿eran homosexuales los habitantes de Sodoma, sí o no? La Biblia no lo dice, y esto invita a reflexionar sobre cómo el texto sagrado pone el acento en temas mucho más importantes que una sola conducta. Analizando la historia del mundo antiguo y las costumbres morales de la época, podemos suponer que en Sodoma, como en Persia, en Egipto, en Jerusalén, en Atenas y en Roma, existían personas que practicaban en igual medida actos de naturaleza homosexual y actos de naturaleza heterosexual. Personas conscientes de su propio sexo biológico — sabían que eran varones y mujeres — y que vivían esas prácticas con una libertad y una ligereza mayores de lo que imaginamos. Tal vez el verdadero siglo de la liberalización sexual habría que buscarlo en la antigüedad, no (solo) después de 1968.

Estos temas nos permiten hablar de actos más que de relaciones homosexuales. En Grecia tenían una función político-cívica definida; en Roma, otros significados y fines. Muchos de los que practicaban actos homosexuales, a cierta edad y por motivos semejantes, regresaban a actos heterosexuales y contraían matrimonio con una mujer.

Para el mundo antiguo y para la filosofía de los griegos, el matrimonio era la única institución que garantizaba la continuidad de la familia y de la sociedad civil, algo que una comunidad compuesta solo por hombres o solo por mujeres no habría podido sostener, como atestiguan los poemas clásicos en los que comunidades femeninas, para no extinguirse, buscan varones.

El mundo antiguo poseía una antropología de la sexualidad todavía primitiva, basada en los instintos naturales, y no lograba definir plenamente la grandeza de la sexualidad humana tal como el cristianismo la ha propuesto a lo largo de los siglos —a veces con tonos discutibles—, llegando sin embargo a una teología de la corporeidad orientada hacia una salvación que incluye, no que mortifica, la sexualidad.

Tal vez seamos nosotros, los modernos, quienes hemos categorizado y definido la sexualidad de un modo tan preciso, gracias a las ciencias humanas y a las neurociencias. El concepto de orientación homosexual es moderno. Según los estudiosos, la actividad sexual en la antigüedad podía asemejarse a una bisexualidad consciente ejercida en contextos y con fines diversos. También porque el concepto de naturaleza/contra naturaleza se entendía de manera diferente de como lo interpretará la moral cristiana.

Ahora que conocemos la identidad del pecado de Sodoma, comprendemos que en las tradiciones narrativas de la Biblia no hay indicaciones precisas — al menos no como quisiéramos — sobre las prácticas homosexuales, ni como comportamiento que deba ser censurado, ni como actitud que deba ser tolerada o favorecida (cf. CBP 2019, n. 188). Simplemente, la Biblia habla de la salvación que Dios realiza en la historia del hombre: una salvación pedagógica que mantiene unidos los opuestos y las aparentes contradicciones. En Cristo, la salvación se revela y se perfecciona, infundiendo en el corazón humano un cambio no solo interior, sino también estructural, que toca las relaciones humanas y, por tanto, también la sexualidad. Más fundamental que un acto considerado pecaminoso es la persona humana, más grande que su acto o su orientación. Una fe vivida y acogida con alegría comporta un camino educativo liberador que restablece y redefine las relaciones de un modo nuevo, permitiendo percibir la belleza de lo que nos ha sido dado —incluida la sexualidad y su ejercicio— para que sea, para mí y para los demás, instrumento de salvación.

Sanluri, 18 de octubre de 2025

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Lo stallone arabo del Sommo Pontefice: chi desidera montare e chi desidera invece essere montato

LO STALLONE ARABO DEL SOMMO PONTEFICE: CHI DESIDERA MONTARE E CHI DESIDERA INVECE ESSERE MONTATO

Che al Romano Pontefice vengano donati animali non è affatto cosa nuova. A Leone X giunse in dono da Re Manuel I del Portogallo un elefante bianco, il celebre Hanno, che sfilò in processione per le vie di Roma, a Paolo II fu offerta una coppia di pavoni, a Pio IX portarono persino un canguro dall’Australia. Benedetto XVI occupa un posto privilegiato nel cuore di noi felini, essendo stato un pontefice gattolico. Francesco ricevette invece due asinelli: Thea e Noah, casomai non ne avesse avuti già in abbondanza nel Vaticano.

Le brevi dal cogitatorio di Ipazia

Autore Ipazia Gatta Romana

Autore
Ipazia Gatta Romana

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Franca Giansoldati, nota vaticanista del quotidiano Il Messaggero, ha dato oggi notizia dello splendido stallone arabo donato da un fedele polacco a Sua Santità Leone XIV. Un magnifico animale che il Santo Padre — con quella sua schietta eleganza che si spera spiazzi i cortigiani — ha espresso il desiderio di montare personalmente (cfr. QUI).

Che al Romano Pontefice vengano donati animali non è affatto cosa nuova. A Leone X giunse in dono da Re Manuel I del Portogallo un elefante bianco, il celebre Hanno, che sfilò in processione per le vie di Roma, a Paolo II fu offerta una coppia di pavoni, a Pio IX portarono persino un canguro dall’Australia. Benedetto XVI occupa un posto privilegiato nel cuore di noi felini, essendo stato un pontefice gattolico. Francesco ricevette invece due asinelli: Thea e Noah, casomai non ne avesse avuti già in abbondanza nel Vaticano. Insomma, il bestiario pontificio è lungo quasi quanto gli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio.

Che il Santo Padre desideri montare quel nobile destriero ci riempie sinceramente di gioia. Non solo perché rivela un autentico amore per le creature del creato, ma anche perché mostra un Pontefice ancora vigoroso e pieno di energia all’alba dei suoi settant’anni appena compiuti. E Dio sa quanto, in questi tempi, la Chiesa abbia bisogno di Pastori che sappiano ancora montare a cavallo e guidare il gregge.

A preoccuparci, semmai, è tutt’altro: il numero elevatissimo di soggetti che popolano la Curia Romana, i quali — a quanto pare — sognano invece di essere montati loro da quello splendido stallone. E finché questa mandria clericale, nutrita di ambizioni e cortigianerie, non sarà rimandata alle scuderie, nessuna riforma, per quanto santa, potrà riuscire. Tutto finirà, come sempre, nel consueto galoppo verso il nulla.

dall’Isola di Patmos, 17 ottobre 2025

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Con Leone XIV Vescovo di Roma, riemerge il titolo di Primate d’Italia

CON LEONE XIV, VESCOVO DI ROMA, RIEMERGE IL TITOLO DI PRIMATE D’ITALIA

Questa definizione, rimasta a lungo silenziosa nei testi ufficiali, torna ora viva nella voce del Pontefice come segno di orientamento per la Chiesa e per l’Italia. Dopo anni di interpretazioni prevalentemente universali del papato, Leone XIV ha voluto rinnovare la dimensione originaria del suo ministero: il Sommo Pontefice è Vescovo di Roma e, proprio per questo, guida e padre delle Chiese d’Italia.

– Attualità ecclesiale –

Autore Teodoro Beccia

Autore
Teodoro Beccia

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Tra le parole pronunciate dal Sommo Pontefice Leone XIV nel suo recente discorso al Quirinale, il 14 ottobre scorso, una in particolare ha risuonato con forza teologica e con intensità storica: «Come Vescovo di Roma e Primate d’Italia».

Questa definizione, rimasta a lungo silenziosa nei testi ufficiali, torna ora viva nella voce del Pontefice come segno di orientamento per la Chiesa e per l’Italia. Dopo anni di interpretazioni prevalentemente universali del papato, Leone XIV ha voluto rinnovare la dimensione originaria del suo ministero: il Sommo Pontefice è Vescovo di Roma e, proprio per questo, guida e padre delle Chiese d’Italia.

Il titolo di Primate d’Italia esprime la verità ecclesiologica che unisce la Chiesa universale alla sua radice concreta, riconducendo il primato di Pietro alla sorgente sacramentale e alla comunione delle Chiese locali (cfr. Lumen gentium, 22; Pastor aeternus, cap. II). Nella visione del Concilio Vaticano II, la funzione petrina non è mai disgiunta dalla dimensione episcopale e collegiale: il Vescovo di Roma, in quanto successore di Pietro, esercita una presidenza di carità e di unità (Lumen gentium, 23), la quale si radica nella sua stessa sede episcopale. In tal senso, il titolo di Primate d’Italia non rappresenta un privilegio di tipo giuridico, ma un segno teologico ed ecclesiale che manifesta l’intima connessione tra il primato universale del Romano Pontefice e la sua paternità sulle Chiese d’Italia. Come ricorda San Giovanni Paolo II, il ministero del Vescovo di Roma «è al servizio dell’unità di fede e di comunione della Chiesa» (Ut unum sint, 94), e proprio da questa comunione scaturisce la dimensione nazionale e locale della sua sollecitudine pastorale.

Nella gerarchia cattolica della Chiesa latina, agli inizi del secondo millennio, sono previsti anche vescovi primati, prelati che con quel titolo — soltanto onorifico — sono preposti alle diocesi più antiche e più importanti di Stati o di territori, senza prerogativa alcuna (cfr. Annuario Pontificio, ed. 2024). Il Vescovo di Roma è il Primate d’Italia: titolo antico, attuato nei secoli e tuttora vigente, sebbene con prerogative diverse che si sono succedute nel tempo.

Nel corso dei secoli altri vescovi nella Penisola hanno avuto il titolo onorifico di Primate: l’Arcivescovo metropolita di Pisa mantiene il titolo di Primate delle isole di Corsica e Sardegna, l’Arcivescovo metropolita di Cagliari porta il titolo di Primate di Sardegna, l’Arcivescovo metropolita di Palermo mantiene il titolo di Primate di Sicilia, e l’Arcivescovo metropolita di Salerno quello di Primate del Regno di Napoli (cfr. Annuario Pontificio, sez. “Sedi Metropolitane e Primaziali”).

Vario è stato l’ambito territoriale riferito al termine Italia: dall’Italia suburbicaria dei primi secoli cristiani, all’Italia gotica e longobarda, fino al Regnum Italicum incorporato nell’Impero romano-germanico, sostanzialmente costituito dall’Italia settentrionale e dallo Stato Pontificio. Questa primazia non riguardava i territori dell’ex patriarcato di Aquileia, né i territori facenti parte del Regnum Germanicum — l’attuale Trentino-Alto Adige, Trieste e l’Istria —, in seguito appartenuti all’Impero austriaco. Oggi la primazia d’Italia viene attuata su un territorio corrispondente a quello della Repubblica Italiana, della Repubblica di San Marino e dello Stato della Città del Vaticano (cfr. Annuario Pontificio, ed. 2024, sez. “Sedi Primaziali e Territori”).

La nozione di “Italia” applicata alla giurisdizione ecclesiastica non ha mai avuto un valore politico, ma un significato eminentemente pastorale e simbolico, connesso alla funzione unificante del Vescovo di Roma come centro di comunione tra le Chiese particolari della Penisola. Fin dall’epoca tardo-antica, infatti, la suburbicaria regio designava il territorio che, per antica consuetudine, riconosceva la diretta dipendenza dalla Sede romana (cfr. Liber Pontificalis, vol. I, ed. Duchesne). Nel corso dei secoli, pur mutando le circoscrizioni civili e gli assetti statali, la dimensione spirituale della primazia è rimasta costante, come espressione dell’unità ecclesiale e della tradizione apostolica della Penisola.

Nei duemila anni di Cristianesimo, i popoli della Penisola e lo stesso episcopato hanno costantemente guardato alla Sede Romana, sia in ambito ecclesiastico sia in quello civile. Nel 452 il Vescovo di Roma, Leone I, su richiesta dell’imperatore Valentiniano III, fece parte dell’ambasceria che si recò nell’Italia settentrionale per incontrare il re degli Unni Attila, nel tentativo di dissuaderlo dal procedere nella sua avanzata verso Roma (cfr. Prosper d’Aquitania, Chronicon, ad annum 452).

Sono i Papi di Roma che, nei secoli, sostengono i Comuni contro i poteri imperiali: il partito guelfo — e in particolare Carlo d’Angiò — diviene lo strumento del potere pontificio in tutta la Penisola. Il Romano Pontefice apparirà come l’amico dei Comuni, il protettore delle libertà italiche, contribuendo a dissolvere l’idea stessa di Impero inteso come detentore della piena sovranità, a favore di una sovranità diffusa e molteplice.

Il concetto di iurisdictio sarà espresso con chiarezza da Bartolo da Sassoferrato (1313-1357): essa non è intesa soltanto come potestas iuris dicendi, ma soprattutto come il complesso di poteri necessari al governo di un ordinamento che non si accentra nelle mani di una sola persona o ente (cfr. Bartolus de Saxoferrato, Tractatus de iurisdictione, in Opera omnia, Venetiis, 1588, vol. IX). In questa visione pluralistica del diritto, la Sede Apostolica rappresenta il principio di equilibrio e di giustizia tra le molteplici forme di sovranità che si sviluppano nella Penisola, ponendosi come garante dell’ordine e della libertà delle comunità cristiane.

Ancora nel XIX secolo, Vincenzo Gioberti propose l’ideale neo-guelfo e una confederazione degli Stati italiani sotto la presidenza del Romano Pontefice, delineando una visione nella quale l’autorità spirituale del Papa avrebbe dovuto fungere da principio d’unità morale e politica della Penisola (cfr. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli Italiani, Bruxelles 1843, lib. II, cap. 5). In sintonia, anche Antonio Rosmini riconosceva nella Sede Apostolica il fondamento dell’ordine politico cristiano, pur distinguendo tra potere spirituale e potere temporale, in una prospettiva che intendeva sanare la frattura tra Chiesa e nazione (cfr. A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Lugano 1848, Parte II, cap. 1).

Il titolo di Primate d’Italia, nell’età moderna, si riferiva dunque al Vescovo di Roma, sovrano di un vasto territorio e capo di uno Stato che si estendeva, come altri, nella Penisola. Il territorio della primazia, di conseguenza, non si identificava con quello di un solo Stato, ma si sovrapponeva alla pluralità delle giurisdizioni politiche dell’epoca. Se il Concordato di Worms (1122) aveva attribuito ai Papi di Roma la facoltà di confermare la nomina dei vescovi, in Italia — o meglio nel Regnum Italicum, comprendente l’Italia centro-settentrionale —, nel corso dei secoli la scelta dei vescovi venne concordata con i sovrani territoriali, secondo le consuetudini proprie degli Stati europei: o tramite presentazioni di terne, il primo dei quali era generalmente il prescelto, oppure con un’unica designazione da parte del principe titolare del diritto di patronato, come accadeva anche per il Regno di Sicilia (cfr. Bullarium Romanum, t. V, Roma 1739).

Il coinvolgimento dell’autorità statale determinava spesso un sostanziale equilibrio tra Stato e Chiesa, nel quale il riconoscimento delle rispettive sfere d’azione permetteva alla Sede Apostolica di mantenere la propria influenza sulle nomine episcopali, pur entro i confini dei concordati e dei privilegi sovrani.

In pienaepoca giurisdizionalista del secolo XVIII, nell’episcopato della Penisola non trovarono spazio né le rivendicazioni episcopaliste, né quelle gallicane o germaniche, nonostante alcuni principi italiani tentassero di assecondare, se non patrocinare, tali teorie (cfr. P. Prodi, Il giurisdizionalismo nella storia del pensiero politico italiano, Bologna 1968). In Toscana, l’ingerenza statale in materia religiosa raggiunse la sua piena attuazione sotto il granduca Pietro Leopoldo (1765-1790). Animato da sincero fervore religioso, il Granduca credette di compiere opera di vera devozione e pietà quando si adoperò per combattere gli abusi della disciplina ecclesiastica, le superstizioni, la corruzione e l’ignoranza del clero.

In un primo tempo nessuna protesta venne elevata dall’episcopato toscano, o perché vedeva l’inutilità di opporsi, o perché approvava quelle misure; forse anche perché, nell’episcopato toscano come nel clero, covava un’antipatia verso gli Ordini religiosi e si accettava volentieri una forma di autonomia dalla Santa Sede. Tuttavia, nel sinodo generale di Firenze del 1787, tutti i vescovi dello Stato — tranne Scipione de’ Ricci e altri due — respinsero tali riforme, riaffermando la fedeltà alla comunione con il Romano Pontefice e difendendo l’integrità della tradizione ecclesiastica (cfr. Acta Synodi Florentinae, 1787, arch. curiae Florentiae).

La Chiesa Cattolicaha sempre combattuto il formarsi di chiese nazionali, poiché tali tentativi risultano in aperto contrasto con la struttura stessa della comunione ecclesiale e con l’antica disciplina canonica. Già il can. XXXIV dei Canones Apostolorum — una raccolta risalente al IV secolo, attorno all’anno 380 — prescriveva un principio fondamentale di unità episcopale:

Episcopus gentium singularum scire convenit, quia inter eos primus habeatur, quem velut caput existiment et nihil amplius praeter eius consientiam gerant, quam illa sola singuli, quae paroeciae [in greco τῇ παροικίᾳ] propriae et villis quae sub ea sunt competant. Sed nec ille praeter omnium conscientiam faciat aliquid; sic enim unanimitas erit et glorificatur Deus per Christum in Spiritu Sancto (“Bisogna che i vescovi di ciascuna nazione sappiano chi tra di loro sia il primo e lo considerino come il loro capo, e non facciano nulla di importante senza il suo assenso; ciascuno si occuperà solo di ciò che riguarda la propria diocesi e i territori che da essa dipendono; ma anche colui che è primo non faccia nulla senza l’assenso di tutti: così regnerà la concordia e Dio sarà glorificato per Cristo nello Spirito Santo.”)

Questa norma, di sapore apostolico e di matrice sinodale, afferma il principio di unità nella collegialità, dove il primato non è dominio, ma servizio di comunione. Tale concezione, assunta e approfondita nella tradizione cattolica, ha trovato la sua piena espressione nella dottrina del primato romano. Come insegna Papa Leone XIII:

«la Chiesa di Cristo è una per natura, e come uno è Cristo, così uno deve essere il suo corpo, una la sua fede, una la sua dottrina, e uno il suo capo visibile, stabilito dal Redentore nella persona di Pietro» (Satis cognitum, 9).

Di conseguenza, ogni tentativo di fondare chiese particolari o nazionali indipendenti dalla Sede Apostolica è stato sempre respinto come contrario alla una, sancta, catholica et apostolica Ecclesia. La subordinazione del collegio episcopale al primato petrino costituisce infatti il vincolo di unità che garantisce la cattolicità della Chiesa e preserva le singole Chiese particolari dal rischio di isolamento o di deviazione dottrinale (cfr. Lumen gentium, 22; Christus Dominus, 4).

Il titolo di Primate, attribuito ad alcune sedi, era in realtà un mero titolo onorifico, al pari di quello di Patriarca conferito ad alcune sedi episcopali di rito latino (cfr. Codex Iuris Canonici, can. 438). Tale dignità, di natura esclusivamente cerimoniale, non comportava potestà giurisdizionale effettiva, né un’autorità diretta sulle altre diocesi di una determinata regione ecclesiastica. Il titolo aveva lo scopo di onorare la vetustà o la particolare rilevanza storica di una sede episcopale, secondo una prassi consolidata nel secondo millennio.

Diversa è invece la posizione e soprattutto le prerogative delle due sedi primaziali di Italia e Ungheria, che conservano una fisionomia giuridico-ecclesiale singolare all’interno della Chiesa latina. Secondo una tradizione secolare, il Principe-Primate d’Ungheria è rivestito sia di funzioni ecclesiastiche sia di compiti civili. Tra questi, il privilegio di incoronare il sovrano — privilegio esercitato l’ultima volta il 30 dicembre 1916 per l’incoronazione di re Carlo IV d’Asburgo da parte di S. E. Mons. János Csernoch, allora Arcivescovo di Esztergom — e di sostituirlo in caso di impedimento temporaneo (cfr. Acta Sanctae Sedis, vol. XLIX, 1917).

La primazia ungherese è attribuita alla sede arcivescovile di Esztergom (oggi Esztergom-Budapest), la cui antica dignità primaziale risale al secolo XI, quando re Stefano I ottenne dal Papa la fondazione della Chiesa nazionale ungherese sotto la protezione diretta della Sede Apostolica. L’Arcivescovo di Esztergom, come Primate d’Ungheria, gode di una posizione speciale su tutti i cattolici presenti nello Stato e di una potestà quasi-governativa sui vescovi e metropoliti, compresa la metropoli di Hajdúdorog per i fedeli ungheresi di rito bizantino. Presso di lui esiste un tribunale primaziale, da lui sempre presieduto, che giudica le cause in terza istanza: un privilegio fondato su una consuetudine immemorabile, più che su una norma giuridica espressa (cfr. Codex Iuris Canonici, can. 435; Annuario Pontificio, sez. “Sedi Primaziali”, ed. 2024). Egli è un cittadino ungherese, residente nello Stato, e spesso ricopre anche la carica di Presidente della Conferenza Episcopale Ungherese, esercitando una funzione di mediazione tra la Sede Apostolica e la Chiesa locale.

La primazia italiana, attribuita alla Sede Romana, possiede una configurazione del tutto particolare: il suo titolare, il Vescovo di Roma, può essere — e in effetti negli ultimi pontificati è stato — un cittadino non italiano. Egli è sovrano di uno Stato estero, lo Stato della Città del Vaticano, non facente parte dell’Unione Europea, e non appartiene alla Conferenza Episcopale Italiana, pur mantenendo su di essa un’autorità diretta. In virtù del suo titolo di Primate d’Italia, il Romano Pontefice nomina infatti il Presidente e il Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, come previsto dall’art. 4 §2 dello Statuto della CEI, che richiama espressamente «il particolare legame che unisce la Chiesa in Italia al Papa, Vescovo di Roma e Primate d’Italia» (cfr. Statuto della Conferenza Episcopale Italiana, approvato da Paolo VI il 2 luglio 1965, aggiornato nel 2014).

Questa singolare configurazione giuridica mostra come la primazia italiana, pur priva di struttura amministrativa autonoma, conservi una funzione ecclesiologica reale, quale espressione visibile del legame organico tra la Chiesa universale e le Chiese d’Italia. In ciò si manifesta la continuità del primato petrino nella sua duplice dimensione: universale, come servizio alla comunione di tutta la Chiesa, e locale, come paternità pastorale esercitata sul territorio italiano (Lumen gentium, 22–23).

Si delinea così un’apertura del finis Ecclesiae ai problemi d’ordine internazionale e mondiale, cosa che è anche riscontrabile in alcuni paragrafi del Catechismo della Chiesa Cattolica, dedicati ai diritti umani, alla solidarietà internazionale, al diritto alla libertà religiosa dei vari popoli, alla tutela degli emigranti e dei profughi, alla condanna dei regimi totalitari e alla promozione della pace. Ciò che poi è maggiormente rilevante è che l’invito, l’incitamento, della Chiesa a perficere bonum non è solamente ancorato alla salus aeterna, al raggiungimento del fine ultramondano, ma anche al contingente, alle necessità immanenti dell’uomo bisognoso di aiuto materiale.

In base alla rivendicata primazia e ai sensi dell’art. 26 del Trattato Lateranense, l’azione pastorale dello stesso Pontefice si attua in più regioni d’Italia, tramite visite in molte città e santuari, effettuate senza che queste si presentino come viaggi in Stati esteri. L’uso invalso di considerare il Papa di Roma come il primo Vescovo d’Italia fa sì che i fatti d’Italia siano spesso presenti nelle sue allocuzioni o discorsi. Sovente egli visita zone della Penisola dove si sono verificati eventi dolorosi, e la presenza del Papa è vista dalle popolazioni come doverosa, richiesta come segno di conforto e di aiuto. Rientra inoltre, nel senso lato della primazia, il ricevere delegazioni degli organismi statali italiani. In questa prospettiva, la figura del Romano Pontefice come Primate d’Italia assume il valore di un segno di comunione tra la Chiesa e la Nazione, nella linea della missione universale che egli esercita quale successore di Pietro. La dimensione nazionale della sua sollecitudine pastorale non si oppone, ma anzi si integra, con la missione cattolica della Sede Apostolica, perché il Papa è insieme Vescovo di Roma, Padre delle Chiese d’Italia e Pastore della Chiesa universale (Praedicate Evangelium, art. 2).

La triplice dimensione del suo ministero — diocesana, nazionale e universale — rende visibile quella unitas Ecclesiae che la fede professa e la storia testimonia. Così il titolo di Primate d’Italia, riemerso nella voce di Leone XIV, non appare come un residuo di onori passati, ma come un richiamo vivo alla responsabilità spirituale del Papato verso il popolo italiano, in continuità con la sua missione apostolica verso tutte le genti.

Velletri di Roma, 16 ottobre 2025

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Dal Professor Alessandro Barbero un San Francesco “sotto la crosta”. quando la santità si coniuga con la storia

DAL PROFESSOR ALESSANDRO BARBERO UN SAN FRANCESCO “SOTTO LA CROSTA”. QUANDO LA SANTITÀ SI CONIUGA CON LA STORIA

Lo storico Alessandro Barbero non è un cattolico, è un laico, ma su San Francesco racconta più verità di quante se ne siano sentite dai devoti cattolici sulla vita del Poverello. Ciò allo stesso modo in cui, nella cinematografia, il Francesco più aderente al reale lo rappresentò la regista Liliana Cavani, atea e comunista, attraverso un giovane e virile Mickey Rourke. Con buona pace per il talento e la memoria del regista Franco Zeffirelli, che invece rappresentò un San Francesco sdolcinato e completamente de-virilizzato.

— attualità ecclesiale —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Cap.

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PDF articolo formato stampa

 

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Da qualche giorno ho iniziato la lettura del nuovo libro su San Francesco d’Assisi del professor Alessandro Barbero, volto ormai noto e apprezzato non solo nell’ambito accademico.

Mickey Rourke interpreta Francesco d’Assisi nel film della regista Liliana Cavani (Italia, 1989)

Come storico ha intrapreso con successo una buona attività di divulgazione di quella materia ― la storia ― che è sempre stata oggetto di noia per molti ai tempi della scuola, forse più per la metodologia con cui veniva spiegata e posta agli studenti che per l’oggetto stesso del suo studio.

Il merito di questo divulgatore è senza dubbio di aver avvicinato un vasto pubblico alla storia e ad argomenti di carattere storico, così come il giornalista Indro Montanelli fece con i suoi libri e interviste sulla Storia d’Italia che potremmo definire una storia d’inchiesta, come solo un provetto ed esperto giornalista sa fare. 

La storia è magistra vitae e conoscere la storia, quella senza coloriture ideologiche, che ha tante contraddizioni e buchi neri, quella non scritta dai soli vincitori, quella dei fatti e delle fonti è estremamente utile per conoscerci e per sapere come orientare il futuro e forse anche per evitare di commettere errori madornali. Ma non sempre è così purtroppo.

Fino a quando questo discorso lo si applica alle guerre mondiali, ai fatti della storia recente e dell’antichità siamo forse tutti d’accordo, ma quando la storia tocca argomenti e tematiche più particolari come l’agiografia o la teologia che cosa succede? Beh, bisogna saper mantenere un giusto equilibrio tra le parti e le discipline ma personalmente credo che saper fare una buona storia, e partire da una buona base storica riguardo ai temi trattati dalla agiografia e dalla teologia, sia estremamente importante per comprendere come Dio è capace di operare nella vita degli uomini, proprio in quella maniera umana non priva di contraddizioni, di lentezze, di sorprese che apparentemente contraddicono una certa idea devota di azione divina e di santità.

Per quanto riguarda la vita di San Francesco, questa realtà è stata evidente da subito dopo la sua morte e in vista della sua rapida canonizzazione. Noi, suoi frati e prosecutori dei suoi ideali, abbiamo avuto forse troppo una preoccupazione conservativa che ci ha portato a vedere (e a far vedere) frate Francesco come un modello inarrivabile, fino a considerarlo ― come poi l’iconografia avrà modo di esplicitare meglio ― un nuovo Cristo in terra e questo non solo a motivo del dono delle sacre stimmate che furono l’ultimo sigillo che il Verbo di Dio gli conferì (cf. Dante Alighieri, Paradiso, XI canto) ma anche grazie ad alcune colorazioni biografiche che le versioni ufficiali hanno presentato.

Intendiamoci, da moderni non vogliamo fare nessun processo alla Legenda maior di San Bonaventura che contribuì a fissare nella memoria collettiva l’immagine di San Francesco essenzialmente mistico e protagonista solo di eventi favolosi e che ribadivano la sua somiglianza con Cristo. In quel momento storico in senso più ampio possibile ― per la società medievale, per la Chiesa Cattolica, per la stessa sopravvivenza dell’Ordine dei Minori ― un procedimento agiografico più che biografico come quello operato da San Bonaventura era quasi obbligato.

Si cercavano sicurezze e stabilità e lui con la sua astuzia e intelligenza è riuscito nel compito. Si cercava soprattutto un modello e spesso questo desiderio portava a descrivere con perfezione le gesta di un “uomo santo”, omettendo quelle parti di normale fragilità e umanità che invece sono le prime a testimoniare la santità di una persona se teniamo in buon conto l’insegnamento di San Gregorio Magno: «miracula que sanctitatem non faciunt sed ostendum» (i miracoli non creano la santità, ne sono però manifestazione o dimostrazione) 

Tracciare una figura di San Francesco così aulica e inarrivabile ha forse costituito per tanti un traguardo irraggiungibile, più una legenda che una vera e propria vita; una storia che doveva essere letta per scaldare il cuore con buone e sante ispirazioni e insegnamenti morali e religiosi non sempre però realmente percorribili, distanti da quella ferialità dei suoi frati e dei suoi devoti.

Credo che questo abbia anche contribuito al proliferare nei secoli successivi, di quelle visioni di vita di San Francesco, più accomodanti e percorribili che sono diventate tanto care a una modernità ideologica e schierata come la nostra: il Francesco pacifista, ecologista, animalista, vegano, precursore del dialogo interreligioso accomodante, pauperista, comunista ante litteram. Visioni più percorribili forse nell’oggi ma totalmente false e distanti dalle reali intenzioni del Poverello di Assisi.

Com’ebbi già modo di sottolineare in un altro mio articolo (vedi QUI) San Francesco è una persona, prima che un santo, estremamente complicata, dentro un periodo storico ed ecclesiale altrettanto complicato, per cui solo una ricerca storica oggettiva e sana può ricostituirlo all’interno di un discorso che tenda il più possibile al vero, a quel Francesco di Pietro di Bernardone zero, quello che si intravede sotto la crosta di tante amenità a cui ha dovuto, obtorto collo, seraficamente sottostare e forse anche sopportare.

Il merito dello storico Barbero ― come di altri che si sono interessati di San Francesco, penso a Franco Cardini e a Chiara Frugoni ― è descriverlo come un uomo dentro una storia ben precisa, un uomo tormentato, duro, capace di gesti dolcissimi e di asprezze inaspettate, un uomo aperto alla trascendenza e alle contraddizioni del suo tempo.

La lettura storica di San Francesco ci permette di crescere anche nella conoscenza di una Chiesa medievale che per il Poverello non costituisce un motivo di scandalo a differenza dei tanti movimenti a lui contemporanei caduti nell’eresia e nella violenza scismatica. Tirare per la giacchetta San Francesco come un fustigatore dei costumi della Chiesa ― e della Chiesa come corpo istituzionale ― è quanto mai improprio. Questo lo fecero altri e se mai anche con ragione ma San Francesco non lo fece, né lo desiderò, per lui la Chiesa era quella, la migliore possibile esistente perché così voluta da Cristo, non dunque una rifondazione utopica dalle basi ma un rinnovamento in interiore homine che poi sarà il cuore dalla sua forma vitae che si esplicita con tutta la passione nell’estensione della Regola non bollata.

San Francesco ama la Chiesa Cattolica, la sua, quella che dal 1182 in poi lo accompagnerà dal battesimo fino alla sepoltura nella chiesetta di San Giorgio, non un’altra Chiesa ideale. Egli ama e rispetta la gerarchia della Chiesa, dai sacerdoti più poveri e moralmente fragili al suo vescovo di Assisi (Guido) che sarà testimone della sua spogliazione, per arrivare al vescovo di Roma (Innocenzo III e Onorio III) che lo confermeranno nel proposito di vivere sine glossa il Santo Vangelo del Signore Nostro Gesù Cristo approvando la forma vitae. Francesco non è cieco davanti ai fatti ma ha capito che il rinnovamento più efficace è personale, inizia dal di dentro ed è per questo che non giudica ma lascia che lui e i suoi frati siano e diventino quel segno di cambiamento reale – quel lievito buono del Vangelo – che è capace di migliorare tutta quanta la Chiesa Cattolica. Una metodologia di rinnovamento ecclesiale come quella di San Francesco è ancora oggi difficile da trovare nei piani e nei programmi pastorali.

San Francesco è amante e cultore della vita avventurosa del Medioevo, sogna di essere un cavaliere e vede i suoi frati come cavalieri di Cristo senza macchia e puri di cuore. Conosce le mirabolanti avventure fascinose delle Chanson de Geste ed è al contempo testimone delle vicende politico-ecclesiali che hanno condotto alle crociate. Notiamo come Francesco non è critico verso la Chiesa neanche per l’indizione delle crociate. Rimane comunque un uomo del Medioevo e sa che seppur nella loro tragicità anche le crociate hanno un senso e un merito. Furono diversi i santi che si susseguirono dopo di lui che le crociate e le loro ragioni ritenute legittime, le predicarono, tra di essi un altro celebre francescano, Bernardino degli Albizzeschi di Massa Marittima, noto come San Bernardino da Siena. Avendo però conosciuto personalmente le crudeltà della guerra, della battaglia, della prigionia, delle ferite e delle mutilazioni dei suoi compagni, San Francesco sceglie di andare dal Sultano optando una scelta diversa, non quella delle armi ma della Parola.

In Egitto davanti ad Al-Malik al-Kāmil annuncia Cristo e il Vangelo, un’arma ben diversa e più potente della spada, un dialogo che non scade nel politicamente corretto ma in un invito deciso alla conversione del Sultano d’Egitto e Siria a far regnare quel Dio portatore di pace e che dona il pacificatore per eccellenza. Non è sorprendente che il Sultano non si senta offeso dalle parole di San Francesco, ricordiamo che in Egitto erano già presenti i cristiani copti e il Sultano e la sua corte erano abituati a vedere cristiani e ministri ordinati in terra d’Egitto e a disputare con loro. L’atto di San Francesco non è becera propaganda politica alla Chiesa Cattolica ma reale invito di conversione e di salvezza come diversi membri dell’Ordine dei Minori fecero in Marocco e in altri territori di fede islamica trovando molto spesso il martirio nei secoli successivi.

Il libro del Professor Barbero tratta di questi e di altri temi, portando alla luce una immagine di San Francesco che supera l’ideologia e il maquillage da immaginetta agiografica. Il merito è senza dubbio quello di poter conoscere un San Francesco scomodo che non può essere categorizzato dentro una singola visione, la sua storia dentro la storia ci permette di apprezzarlo ancora di più e di restituirne una immagine concreta e vivida.

Per concludere, la stessa tematica della povertà che San Francesco sogna, sposa e raccomanda è quella che anzitutto si è realizzata con una kenosis di sé stesso come uomo che scopre il suo limite e conosce il suo cuore traballante. La povertà materiale non è il fine ma la conseguenza maturata negli anni di una povertà più vera e più profonda. In questo sì che possiamo assimilare San Francesco a Cristo nella umiliazione-spogliazione di una vita che apparentemente sembra un fallimento agli occhi del mondo. Dopo la morte di San Francesco è proprio sul tema della povertà spirituale che i suoi figli discutono e iniziano con le prime controversie che scaturiranno nelle successive riforme.  

La povertà di San Francesco si va costituendo dentro diversi fatti reali della sua storia: nel suo esaurimento fisico e mentale dopo la prigionia della battaglia di Collestrada nel 1202 che lo ridimensiona nei suoi ideali di cavalierato. Nell’incontro con il lebbroso che è l’esempio concreto della spogliazione che ogni malattia impone all’infermo ma è anche il segno evidente che la conversione necessita di determinazione e violenza per essere attuata (cf. Mt 11,12). Fino ad essere rifiutato e non più riconosciuto come capo del suo Ordine che estendendosi in prestigio in buona parte dell’Europa di allora può fare a meno di lui. All’uomo moderno che apprezza in San Francesco la santa povertà si dovrebbe ricordare che questa si conquista facendo diversi passi indietro, nullificandosi, guardando i propri limiti e accettandoli con la perfetta letizia di chi ha saputo mettere tutto nelle mani di Dio.

Lo storico Alessandro Barbero non è un cattolico, è un laico, ma su San Francesco racconta più verità di quante se ne siano sentite dai devoti cattolici sulla vita del Poverello. Ciò allo stesso modo in cui, nella cinematografia, il Francesco più aderente al reale lo rappresentò la regista Liliana Cavani, atea e comunista, attraverso un giovane e virile Mickey Rourke. Con buona pace per il talento e la memoria del regista Franco Zeffirelli, che invece rappresentò un San Francesco sdolcinato e completamente de-virilizzato.

Auguriamo ad Alessandro Barbero, laico e non cattolico, nella saggezza dell’età che passa, complice anche San Francesco, si possa avvicinare a Dio e trovare in lui, fonte di ogni sapienza, ogni bene.     

Sanluri, 9 ottobre 2025

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Sono necessarie le quote rosa all’altare? Dalla teo-ideologia femminista alla sapienza pastorale di Sri Lanka – Are «pink quotas» at the altar necessary? From feminist theo-ideology to Sri Lanka’s pastoral wisdom – ¿Son necesarias las «cuotas rosas» en el altar? De la teo‑ideología feminista a la prudencia pastoral de Sri Lanka

Italian, english, español 

 

SONO NECESSARIE LE QUOTE ROSA ALL’ALTARE? DALLA TEO-IDEOLOGIA FEMMINISTA ALLA SAPIENZA PASTORALE DI SRI LANKA

Il vescovo può permettere le chierichette, ma non può obbligare i parroci a utilizzarle. I fedeli non ordinati «non hanno un diritto» a servire all’altare e rimane l’obbligo di promuovere gruppi maschili di chierichetti, anche per la loro comprovata valenza vocazionale.

— Attualità ecclesiale —

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Vedere fanciulli attorno all’altare rallegra il cuore e lo spirito. È un segno di vita in un’Europa — a partire dalla nostra Italia — in cui la natalità è ferma da decenni e l’età media della popolazione, e del clero, continua a salire. In un contesto così fragile, la presenza dei bambini in chiesa è già una buona notizia, un anticipo di futuro.

Nel video: S.E. Rev.ma Mons. Raymond Kingsley Wickramasinghe, Vescovo di Galle (Sri Lanka)

Quando due genitori mi chiesero scusa alla fine della Santa Messa per i due figli un po’ chiassosi, risposi: «Finché i bambini rumoreggiano nelle nostre chiese, significa che siamo sempre vivi». Non lo aggiunsi allora, ma lo faccio adesso per inciso nel discorso: quando durante le sacre liturgie non udremo più le voci dei bambini, sicuramente sentiremo quelle dei muezzin che canteranno dai campanili delle nostre chiese trasformate in moschee, come già accaduto in vari Paesi dell’Europa del Nord. Gli esempi sono noti, ne prendo solo alcuni: ad Amburgo l’ex Kapernaumkirche luterana è stata acquistata e riaperta come Moschea Al-Nour; ad Amsterdam la Fatih Moskee ha sede nella ex chiesa cattolica di Sant’Ignazio; a Bristol la Jamia Mosque sorge nella ex St. Katherine’s Church. Quanto poi alla chiamata del muezzin con altoparlanti, la città di Colonia ha avviato nel 2021 un progetto cittadino che consente il richiamo del venerdì, poi stabilizzato nel 2024.

Negli ultimi decenni, in non poche diocesi è invalsa l’abitudine di ammettere anche bambine al servizio all’altare. Prassi che molti vescovi e parroci, pur non amandola, hanno tollerato o mantenuto per non scatenare polemiche. Col passare degli anni alcune di loro, diventate ormai adolescenti e giovani hanno continuato a servire all’altare, non senza imbarazzo per taluni sacerdoti, incluso il sottoscritto, che con estremo garbo non ha mai permesso a bambine e soprattutto a ragazze adolescenti di prestare servizio. Beninteso, non si tratta di inibire alle donne certi servizi, ma di pensare con pedagogica sapienza pastorale: quante vocazioni sacerdotali sono nate accanto all’altare, nel gruppo dei chierichetti? E come si spiega a una bambina appassionata di liturgia che il ministero dell’Ordine non è, né può essere una prospettiva aperta alla sua condizione femminile? Perché su questo punto la dottrina è chiarissima: «Riceve validamente la sacra ordinazione soltanto l’uomo battezzato» (Codice di Diritto Canonico 1983, can. 1024); «La Chiesa si riconosce vincolata dalla scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo l’ordinazione di donne non è possibile» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1577); e il Santo Pontefice Giovanni Paolo II ha confermato in modo definitivo che la Chiesa «non ha alcuna autorità» di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne (Ordinatio sacerdotalis, 22 maggio 1994, n. 4).

C’è poi un aspetto socio-pedagogico ben noto a chi frequenta le sacrestie: le bambine, spesso più pronte, diligenti e mature dei coetanei, tendono a prevalere nei piccoli gruppi; l’esperienza mostra che, laddove il numero delle bambine al presbiterio diventa nettamente superiore, non pochi ragazzi si ritraggono percependo quel servizio come “cosa da femmine”. Il risultato paradossale è che proprio i soggetti più potenzialmente vocazionali si allontanano dal cuore della celebrazione. Sarebbe quindi opportuno chiedersi: in un Occidente con età media sacerdotale elevata, seminari vuoti o ridotti in numero di seminaristi ai minimi termini, con sempre più parrocchie senza parroco, ha senso rinunciare a ciò che può favorire anche pochi germi di vocazione per inseguire la logica — mondana e politicamente corretta — delle “quote rosa clericali”?

Per capire “che cosa si può” e soprattutto “che cosa conviene”, il punto di partenza non sono le opinioni ma le norme liturgiche. La liturgia non è campo di sperimentazioni sociologiche: «Assolutamente nessuno, neppure il sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa» (Sacrosanctum Concilium, 22 §3). Le funzioni dei ministri sono delineate con precisi richiami a sobrietà ruoli e limiti (Institutio Generalis Missalis Romani, nn. 100; 107; 187-193). Sul versante dei ministeri, il Santo Pontefice Paolo VI ha sostituito gli antichi “ordini minori” con i ministeri istituiti di lettore e accolito, allora riservati ai viri laici (cfr. Ministeria quaedam, nn. I-IV). Il Sommo Pontefice Francesco ha modificato il can. 230 §1, aprendo i ministeri istituiti di lettore e accolito anche alle donne, ma questi non si identificano con il servizio dei chierichetti, che rientra nella deputazione temporanea prevista dal can. 230 §2 e riguarda l’aiuto all’altare affidato di volta in volta a laici (crf. Motu proprio Spiritus Domini, 2021; CIC 1983, can. 230 §1-2).

Due testi della Santa Sede hanno poi fissato il perimetro con rara chiarezza. La Lettera circolare della Congregazione per il Culto Divino, indirizzata ai Presidenti delle Conferenze Episcopali per la corretta interpretazione del can. 230 §2 (15 marzo 1994, Prot. 2482/93), ha riconosciuto la possibilità — a discrezione del vescovo — di ammettere anche donne al servizio all’altare, precisando però che «sarà sempre molto opportuno seguire la nobile tradizione di avere ragazzi chierichetti» e che dall’ammissione non nasce alcun diritto soggettivo a servire (cfr. Notitiae 30 [1994] 333-335). A distanza di pochi anni, le Litterae della stessa Congregazione (27 luglio 2001) hanno ulteriormente chiarito che il vescovo può permettere le chierichette ma non può obbligare i parroci a utilizzarle; che i fedeli non ordinati «non hanno un diritto» a servire all’altare; che rimane l’obbligo di promuovere gruppi maschili di chierichetti, anche per la loro comprovata valenza vocazionale. È «sempre molto appropriato» — recita il documento — seguire la nobile tradizione dei ragazzi all’altare (testo latino in Notitiae 37 [2001] 397-399; trad. it. in Notitiae 38 [2002] 46-48).

Dentro questo quadro, la pedagogia dell’altare torna a risplendere: la prossimità al Mistero educa con la forza dei segni, introduce a una confidenza filiale con l’Eucaristia e, per molti ragazzi, è stata una vera “palestra” di discernimento. La Chiesa che non ha la facoltà di conferire l’Ordine alle donne (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1577; Ordinatio sacerdotalis, 4) è chiamata a custodire con prudenza quegli spazi che storicamente si sono rivelati fecondi per l’emergere di vocazioni sacerdotali. Questo non svaluta la presenza e i carismi femminili; al contrario, libera la comunità dalla tentazione di clericalizzare il laicato e di laicizzare i chierici — e in particolare le donne — spingendole simbolicamente dentro al presbiterio, come se quello fosse l’unico luogo “che conti” (cfr. richiamo sul clericalismo in Evangelii gaudium, 102-104). Per bambine e giovani esistono percorsi ricchissimi, istituiti e di fatto: lettorato istituito o, secondo i casi, esercitato come lettura nella celebrazione, canto e musica sacra, servizio di sacrestia, ministeri della Parola e della carità, catechesi e, oggi, anche il ministero istituito di catechista (Antiquum ministerium, 2021). Sono àmbiti nei quali il “genio femminile” offre alla Chiesa un contributo decisivo senza generare attese impossibili circa l’accesso al sacerdozio (cfr. Antiquum ministerium, 2021; Spiritus Domini, 2021; can. 230 §1-2).

L’esperienza di altre Chiese particolari illumina ulteriormente la questione. Nel Sri Lanka, dove l’età media del clero è molto più bassa dell’Italia e i seminari sono popolati di vocazioni, l’Arcivescovo metropolita di Colombo, Cardinale Albert Malcolm Ranjith, ha indicato come inopportuno il ricorso alle chierichette per ragioni pastorali e pedagogiche: nessuna di loro, infatti, da adulte potrà entrare in seminario; ha senso dunque preservare spazi educativi tipicamente maschili attorno all’altare, senza nulla togliere alla ricca partecipazione femminile in altri ambiti? In altri contesti, come negli Stati Uniti, alcune diocesi e parrocchie hanno legittimamente mantenuto gruppi solo maschili di ministranti proprio sulla base dei testi del 1994 e del 2001. Non si tratta di “escludere”, ma di valorizzare una prassi che in certi luoghi si rivela più feconda per la pastorale vocazionale (cfr. linee diocesane: Diocesi di Lincoln – Nebraska; Phoenix – Cathedral Parish; altre realtà locali degli Stati Uniti d’America).

A questo punto qualcuno invoca però le quote rosa al presbiterio, come se la rappresentanza simmetrica fosse la cartina di tornasole della valorizzazione della donna. Una logica, quella delle quote rosa, che però appartiene al sociopolitico; la liturgia non è un parlamento da rappresentare proporzionalmente, è azione di Cristo e della Chiesa. Qui vale il discernimento, non la rivendicazione. E il discernimento domanda: in un territorio con pochi sacerdoti e poche vocazioni, quale scelta concreta favorisce meglio la crescita di futuri presbiteri senza svilire la presenza femminile? Le risposte della Santa Sede non lasciano equivoci: ammettere le bambine è lecito quando opportuno, ma è opportuno e perfino doveroso promuovere gruppi maschili di chierichetti, anche in vista della pastorale vocazionale (cfr. Notitiae 30 [1994] 333-335; Notitiae 37 [2001] 397-399; Notitiae 38 [2002] 46-48).

In questi mesi è circolata anche la tesi — ripresa dal teologo Marinella Perroni, secondo cui la scelta di Colombo costituirebbe un «sillogismo» perfetto ma «da respingere», perché renderebbe il gruppo dei chierichetti impermeabile alle differenze e dunque dannoso.

Argomento, quello di questa teologo, che confonde ingegneria sociale e liturgia in modo a tratti davvero superficiale e grossolano. La liturgia non mira a rappresentare tutte le differenze ma a servire il Mistero secondo norme comuni (cfr. Sacrosanctum Concilium 22 §3). Le fonti ufficiali, come si è visto, ricordano tre cose elementari: la facoltà di ammettere le bambine è possibile ma non crea diritti; il vescovo può autorizzare, non però imporre; e «rimane l’obbligo» di promuovere gruppi maschili per ragioni anche vocazionali (cfr. Notitiae 37 [2001] 397-399; trad. it. Notitiae 38 [2002] 46-48; più la Lettera circolare del 15.03.1994, Prot. 2482/93).

In altre parole: il Cardinale Albert Malcom Ranjith non esclude le donne: esercita una prudenza pastorale precisamente prevista dal diritto e dalla prassi. Scambiare questa prudenza per misoginia è pura ideologia, non discernimento. E se davvero la vitalità ecclesiale dipendesse da un turibolo “rosa”, allora due millenni di sante, di donne dottori e martiri — senza mai rivendicare l’altare ministeriale — varrebbero meno di una quota: una conclusione ingiusta verso le donne e, per giunta, irrazionale per la fede (cfr.  Marinella Perroni: «Sri Lanka, ma perché il divieto alle chierichette favorirebbe le vocazioni sacerdotali?», L’Osservatore Romano in Donne Chiesa Mondo, 1 febbraio 2025).

In definitiva, all’altare non servono quote, servono cuori educati al Mistero. È legittimo — e talora opportuno — che alcune Chiese particolari ammettano bambine al servizio; ed è altrettanto legittimo — e spesso più saggio — mantenere gruppi maschili di ministranti quando ciò giova alla chiarezza dei segni e alla promozione delle vocazioni. Non è una resa all’“ordine maschile”, ma un atto di prudenza pastorale a servizio della comunità intera.

Se vogliamo bene alle ragazze, offriamo loro ministeri e servizi grandi secondo il Vangelo: Parola, carità, catechesi, custodia e decoro della chiesa e dell’altare, musica, canto … senza ridurre la loro dignità a una postazione accanto al turibolo. Invece, se vogliamo bene ai ragazzi, custodiamo con intelligenza quegli spazi educativi che, da secoli, hanno aiutato la Chiesa a riconoscere e accompagnare il dono di una vita sacerdotale.

Una nota conclusiva come testimonianza personale: avevo nove anni quando al termine della Santa Messa tornai a casa dicendo ai miei genitori che volevo diventare prete. Cosa che fu presa come una delle tante fantasie tipiche dei bambini, capaci a dire oggi di voler fare gli astronauti, domani i coltivatori di fragole, domani l’altro i medici. Eppure, quella che pareva una fantasia, si rivelò non essere tale: trentacinque anni dopo ricevetti il Sacro ordine sacerdotale. Sì, la mia fu una vocazione adulta, ma nata da fanciullo, mentre facevo servizio come chierichetto all’altare, all’età di nove anni.

dall’Isola di Patmos, 8 ottobre 2025

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ARE «PINK QUOTAS» AT THE ALTAR NECESSARY? FROM FEMINIST THEO‑IDEOLOGY TO SRI LANKA’S PASTORAL WISDOM

A bishop may permit altar girls, but he cannot require pastors to use them. The non-ordained faithful «have no right» to serve at the altar, and there remains an obligation to promote boys’ altar-server groups, also for their proven vocational value.

— Ecclesial actuality —

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Seeing children around the altar gladdens the heart and spirit. It is a sign of life in a Europe — beginning with our Italy — where the birth rate has been flat for decades and the average age of the population, and of the clergy, keeps rising. In such a fragile context, the presence of children in church is already good news, a foretaste of the future.

In the video: His Excellency Msgr. Raymond Kingsley Wickramasinghe, Bishop of Galle (Sri Lanka)

When two parents apologized to me at the end of Holy Mass for their two rather noisy children, I replied: «As long as children make noise in our churches, it means we are still alive». I did not add then — but I do so now in passing — that when we no longer hear the voices of children in our churches, we will surely hear the voices of the muezzins singing from the bell towers of our churches turned into mosques, as has already happened in various countries of Northern Europe.

The examples are well known, I will mention only a few: in Hamburg the former Lutheran Kapernaumkirche was purchased and reopened as the Al‑Nour Mosque; in Amsterdam the Fatih Moskee occupies the former Catholic Church of St Ignatius («De Zaaier»); in Bristol the Jamia Mosque stands in the former St. Katherine’s Church. As for the amplified call of the muezzin, the city of Cologne launched in 2021 a municipal pilot allowing the Friday call, which was then stabilized in 2024.

In recent decades, in not a few dioceses it has become customary to admit girls as well to service at the altar. Many bishops and pastors, though not fond of the practice, have tolerated or maintained it to avoid controversy. Over the years, some of those girls became adolescents and young women and continued serving, not without embarrassment for certain priests — including the undersigned — who, with the greatest courtesy, have never allowed girls, and especially adolescent young women, to serve.

To be clear, this is not about forbidding women certain services, least of all young girls. It is about thinking with pedagogical and pastoral wisdom: how many priestly vocations have been born at the altar, within a group of altar boys? And how does one explain to a girl who loves the liturgy that the sacrament of Orders is not, and cannot be, a path open to her as a woman? The doctrine is crystal‑clear: «A baptized male alone receives sacred ordination validly» (cf. Code of Canon Law, can. 1024); «The Church recognizes herself to be bound by the choice made by the Lord himself. For this reason the ordination of women is not possible» cf. Catechism of the Catholic Church, 1577); and Saint John Paul II definitively confirmed that the Church «has no authority whatsoever» to confer priestly ordination on women (cf. Ordinatio sacerdotalis (1994), n. 4; CDF, Responsum ad dubium (1995).

There is also a socio‑pedagogical aspect known to those who frequent sacristies: girls — often readier, more diligent and mature than their peers — tend to take the lead in small groups; experience shows that where the number of girls in the sanctuary clearly exceeds that of boys, not a few boys withdraw, perceiving the service as a «girls’ thing». The paradoxical result is that those most potentially receptive to a vocation drift away from the heart of the celebration. In a West where the average age of priests is high, seminaries are empty or reduced and parishes are without pastors, does it make sense to give up what may foster even a few vocations in order to pursue the worldly logic of “clerical pink quotas”?

To understand not only «what is allowed» but above all «what is fitting», we must start from the liturgical norms. The liturgy is not a field for sociological experiments: «Therefore no other person, even if he be a priest, may add, remove, or change anything in the liturgy on his own authority» (cf. Sacrosanctum Concilium, 22 §3). The functions of ministers are laid out with sober precision (cf. General Instruction of the Roman Missal). As for ministries, Saint Paul VI replaced the former “minor orders” with the instituted ministries of lector and acolyte, then reserved to lay men cf. Ministeria quaedam, 1972). Pope Francis modified can. 230 §1, opening the instituted ministries of lector and acolyte also to women, but these are not to be identified with altar‑server service, which belongs to the temporary deputation of can. 230 §2 and concerns assistance at the altar entrusted case by case to lay faithful (cf. Spiritus Domini, 2021).

Two texts of the Holy See clarified the matter with unusual precision. The Circular Letter of the Congregation for Divine Worship to the Presidents of Bishops’ Conferences on the correct interpretation of can. 230 §2 (15 March 1994, Prot. 2482/93) recognized the possibility — at the bishop’s discretion — of admitting girls to service at the altar, while stressing that it is “always very appropriate” to maintain the noble tradition of boys as altar servers, and that such admission does not create any subjective “right” to serve (Notitiae 30 (1994) 333–335). A few years later, the Litterae of the same Congregation (27 July 2001) clarified further: the bishop may permit altar girls but cannot oblige pastors to use them; the non‑ordained faithful «have no right» to serve; and there remains the obligation to promote male groups also for their vocational value (cf. Notitiae 37 (2001) 397–399; .Notitiae 38 (2002) 46–48).

The experience of other local Churches also sheds light. In Sri Lanka — where the average age of diocesan clergy is much lower than in Italy and the seminaries are well populated — the Metropolitan Archbishop of Colombo, Cardinal Albert Malcolm Ranjith, indicated the inopportuneness of altar girls for pastoral and pedagogical reasons: none of them, as adults, can enter the seminary; it therefore makes sense to preserve characteristically male formative spaces around the altar, without in any way diminishing the rich female participation elsewhere (see his pastoral indication cited here: Il Timone).

In other contexts, such as the United States, some dioceses and parishes have legitimately maintained boys‑only altar‑server groups precisely on the basis of the 1994 and 2001 texts. This is not “exclusion”, but the promotion of a practice that in certain places proves more fruitful for vocational ministry (cf. Diocese of Lincoln (policy explanation; and the 2011 decision at the Cathedral of Sts. Simon & Jude, Phoenix — news report).

In recent months, this thesis has been taken up by the italian theologian Mrss Marinella Perroni, who argues that the choice made in Colombo follows a «syllogism» that may be logically neat but should nonetheless be rejected.

In doing so, however, her argument slides from liturgy into social engineering. The liturgy is not a proportional mirror of social constituencies; it is the Church’s worship of God according to norms that safeguard the clarity of signs and the freedom of grace (cf. Sacrosanctum Concilium 22 §3). The Holy See’s documents, as shown above, recall three elementary points: the faculty to admit girls is possible but does not create subjective rights; the diocesan bishop may authorize but not impose it on pastors; and there remains the obligation to promote boys’ altar‑server groups also for vocational reasons (cf. Notitiae 30 (1994) 333–335; Notitiae 37 (2001) 397–399; Notitiae 38 (2002) 46–48). To mistake this prudence for misogyny is ideology, not discernment (See Perroni’s article: «Sri Lanka, but why would the ban on altar girls encourage priestly vocations?» — L’Osservatore Romano, the official organ of the Holy See Italian originalEnglish version).

In short, the altar does not need quotas; it needs hearts formed by the Mystery. It is legitimate — and at times opportune — for some particular Churches to admit girls to service; and it is equally legitimate — and often wiser — to maintain male altar‑server groups where this serves the clarity of signs and the promotion of vocations. This is not a capitulation to a “male order”, but an act of pastoral prudence in service of the whole community.

A concluding personal note: I was nine years old when, after Holy Mass, I went home and told my parents I wanted to become a priest. They took it as one of the many fantasies typical of children, who today want to be astronauts, tomorrow strawberry growers, and the day after doctors. And yet, what seemed a fantasy proved otherwise: thirty‑five years later I received sacred priestly ordination. Yes, mine was an adult vocation — but born as a child, while serving as an altar boy at the altar.

from the Island of Patmos, October 8, 2025

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¿SON NECESARIAS LAS «CUOTAS ROSAS» EN EL ALTAR? DE LA TEO‑IDEOLOGÍA FEMINISTA A LA SABIDURÍA PASTORAL DE SRI LANKA

El obispo puede permitir a las monaguillas, pero no puede obligar a los párrocos a utilizarlas. Los fieles no ordenados «no tienen derecho» a servir en el altar y permanece la obligación de promover grupos masculinos de monaguillos, también por su probada valencia vocacional.

— Actualidad eclesial —

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Ver a niños alrededor del altar alegra el corazón y el espíritu. Es un signo de vida en una Europa — empezando por nuestra Italia — en la que la natalidad lleva décadas estancada y la edad media de la población, y del clero, no deja de aumentar. En un contexto tan frágil, la presencia de niños en la iglesia es ya una buena noticia, un anticipo del futuro.

En el vídeo: Su Excelencia Monseñor Raymond Kingsley Wickramasinghe, Obispo de Galle (Sri Lanka)

Cuando, al final de la Santa Misa, dos padres me pidieron disculpas por sus dos hijos algo ruidosos, les tranquilicé diciendo: «Mientras los niños hagan ruido en nuestras iglesias, significa que seguimos vivos». No lo añadí entonces — pero lo hago ahora a modo de inciso—: cuando ya no escuchemos las voces de los niños en nuestras iglesias, seguramente oiremos a los muecines cantar desde los campanarios de nuestras iglesias convertidas en mezquitas, como ya ha sucedido en varios países del Norte de Europa. Los ejemplos son conocidos; cito sólo algunos: en Hamburgo, la antigua Kapernaumkirche luterana fue adquirida y reabierta como Mezquita Al‑Nour; en Ámsterdam, la Fatih Moskee tiene su sede en la antigua iglesia católica de San Ignacio; en Bristol, la Jamia Mosque se levanta en la antigua St. Katherine’s Church. En cuanto a la llamada del muecín por altavoz, la ciudad de Colonia inició en 2021 un proyecto municipal que permite la llamada de los viernes, estabilizado posteriormente en 2024.

En las últimas décadas, no pocas diócesis han admitido también a niñas al servicio del altar. Muchos obispos y párrocos, aun no apreciándolo, han tolerado o mantenido la práctica para evitar polémicas. Con el paso de los años, algunas han continuado como adolescentes y jóvenes, no sin cierto embarazo para algunos sacerdotes, incluido quien escribe, que con suma cortesía nunca ha permitido que niñas — y en especial adolescentes — sirvieran en el altar. Conviene precisarlo: no se trata de negar a las mujeres determinados servicios, sino de pensar con sabiduría pastoral y pedagógica. ¿Cuántas vocaciones sacerdotales nacieron junto al altar, en el grupo de monaguillos? ¿Y cómo se explica a una niña entusiasmada por la liturgia que el sacramento del Orden no es — ni puede ser — una perspectiva abierta a su condición femenina? La doctrina es clarísima: «Recibe válidamente la sagrada ordenación sólo el varón bautizado» (cf. CIC 1983, can. 1024); «La Iglesia se reconoce vinculada por la elección hecha por el mismo Señor. Por este motivo, no es posible la ordenación de las mujeres» (cf. CEC n.1577); y san Juan Pablo II confirmó de modo definitivo que la Iglesia «no tiene de ningún modo la facultad» de conferir la ordenación sacerdotal a las mujeres (cf. Ordinatio sacerdotalis, 22 de mayo de 1994, n. 4).

Hay además un aspecto socio‑pedagógico bien conocido por quienes frecuentan las sacristías: las niñas, a menudo más prontas, diligentes y maduras que sus coetáneos, tienden a prevalecer en los grupos pequeños; la experiencia muestra que, donde el número de niñas en el presbiterio se hace claramente superior, no pocos chicos se retraen, percibiendo ese servicio como “cosa de niñas”. El resultado paradójico es que precisamente los sujetos con mayor potencial vocacional se alejan del corazón de la celebración. ¿Tiene sentido, entonces, en un Occidente con edad media sacerdotal elevada, seminarios vacíos o reducidos y parroquias sin párroco, renunciar a lo que puede favorecer aunque sea unos pocos gérmenes de vocación para perseguir la lógica — ma y políticamente correcta — de las “cuotas rosas clericales”?

Para comprender no sólo lo que “se puede”, sino sobre todo lo que “conviene”, el punto de partida son las normas litúrgicas, no las opiniones. La liturgia no es campo de experimentos sociológicos: «De ningún modo permite a nadie, ni siquiera al sacerdote, añadir, quitar o cambiar cosa alguna por iniciativa propia» (cf. Sacrosanctum Concilium 22 §3). Las funciones de los ministros están delineadas con sobriedad, con papeles y límites (cf. Institutio Generalis Missalis Romani [IGMR], nn. 100; 107; 187–193).

En el ámbito de los ministerios, san Pablo VI sustituyó las antiguas “órdenes menores” por los ministerios instituidos de lector y acólito, entonces reservados a los varones laicos (cf. Ministeria quaedam, nn. I–IV). El papa Francisco modificó después el can. 230 §1, abriendo estos ministerios instituidos también a las mujeres, pero ellos no se identifican con el servicio de monaguillos, que pertenece a la deputación temporal prevista por el can. 230 §2 (cf. Spiritus Domini, 2021; CIC 1983, can. 230 §1–2).

Dos textos de la Santa Sede fijaron luego el perímetro con rara claridad. La Carta circular de la Congregación para el Culto Divino a los Presidentes de las Conferencias Episcopales sobre la correcta interpretación del can. 230 §2 (15 de marzo de 1994, Prot. 2482/93) reconoció la posibilidad — a discreción del obispo — de admitir también a niñas al servicio del altar, precisando al mismo tiempo que «siempre es muy oportuno» mantener la noble tradición de los niños monaguillos y que dicha admisión no crea ningún «derecho» subjetivo a servir (cf. Notitiae 30 (1994) 333–335). A los pocos años, las Litterae de la misma Congregación (27 de julio de 2001) aclararon todavía más: el obispo puede permitir a las monaguillas, pero no puede obligar a los párrocos a usarlas; los fieles no ordenados «no tienen derecho» a servir; y permanece la obligación de promover grupos masculinos también por su probada valencia vocacional (cf. Notitiae 37 (2001) 397–399; véase también la traducción italiana: Notitiae 38 (2002) 46–48).

La experiencia de otras Iglesias particulares ilumina ulteriormente la cuestión. En Sri Lanka — donde la edad media del clero diocesano es mucho más baja que en Italia y los seminarios están bien poblados —, el arzobispo metropolitano de Colombo, el cardenal Albert Malcolm Ranjith, señaló la inoportunidad de las monaguillas por razones pastorales y pedagógicas: ninguna de ellas, ya adulta, podrá entrar en el seminario; por tanto, tiene sentido preservar espacios educativos típicamente masculinos alrededor del altar, sin restar nada a la rica participación femenina en otros ámbitos (véase esta indicación pastoral citada aquí: Il Timone).

En otros contextos, como en Estados Unidos, algunas diócesis y parroquias han mantenido legítimamente grupos de monaguillos sólo varones precisamente sobre la base de los textos de 1994 y 2001. Esto no es «exclusión», sino la promoción de una praxis que en ciertos lugares se muestra más fecunda para la pastoral vocacional (véase la Diócesis de Lincoln (explicación de política); y la decisión de 2011 en la Catedral de los Santos Simón y Judas, Phoenix — crónica periodística).

En estos meses, esta tesis ha sido retomada por la teóloga Marinella Perroni, quien sostiene que la opción de Colombo responde a un «silogismo» impecable pero, a su juicio, rechazable. Sin embargo, su argumento confunde la liturgia con la ingeniería social. La liturgia no es un espejo proporcional de las pertenencias sociales; es el culto de la Iglesia a Dios según normas que custodian la claridad de los signos y la libertad de la gracia (cf. Sacrosanctum Concilium 22 §3). Los documentos de la Santa Sede, como hemos visto, recuerdan tres puntos elementales: se puede admitir a niñas, pero ello no crea derechos subjetivos; el obispo diocesano puede autorizarlo, no imponerlo a los párrocos; y permanece la obligación de promover grupos masculinos de monaguillos también por razones vocacionales (cf. Notitiae 30 (1994) 333–335; Notitiae 37 (2001) 397–399; Notitiae 38 (2002) 46–48). Tomar esta prudencia por misoginia es ideología, no discernimiento. Véase el artículo de Perroni: «Sri Lanka, ma perché il divieto alle chierichette favorirebbe le vocazioni sacerdotali?» — original italianoversión inglesa.

En definitiva, en el altar no hacen falta cuotas, sino corazones educados por el Misterio. Es legítimo — y en ocasiones oportuno — que algunas Iglesias particulares admitan a niñas al servicio; y es igualmente legítimo — y a menudo más prudente — mantener grupos masculinos de monaguillos cuando ello sirve a la claridad de los signos y a la promoción de las vocaciones. No es una rendición al “orden masculino”, sino un acto de prudencia pastoral al servicio de toda la comunidad.

Una nota personal a modo de testimonio: tenía nueve años cuando, al terminar la Santa Misa, volví a casa diciendo a mis padres que quería ser sacerdote. Lo tomaron como una de tantas fantasías propias de los niños, capaces de decir hoy que quieren ser astronautas, mañana cultivadores de fresas y pasado médicos. Y, sin embargo, lo que parecía una fantasía no lo fue: treinta y cinco años después recibí la sagrada ordenación sacerdotal. Sí, la mía fue una vocación adulta, pero nacida de niño, mientras servía como monaguillo en el altar.

Desde la isla de Patmos, 8 de octubre de 2025

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I Padri dell’Isola di Patmos

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La gioia salvifica di essere solo dei servi inutili – The saving joy of being only unworthy servants – La alegría salvífica de ser solo siervos inútiles

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

Italian, english, español 

 

LA GIOIA SALVIFICA DI ESSERE SOLO DEI SERVI INUTILI

L’autentico discepolo del Signore, dopo aver fatto bene il suo servizio, deve comunque riconoscersi inutile perché il suo lavoro non gli garantisce necessariamente la salvezza, in quanto la grazia sarà sempre un dono e non un vanto per aver fatto qualcosa.

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Il Vangelo di Luca riporta oggi due detti di Gesù. Il primo riguarda la fede, in risposta ad una domanda degli apostoli.

Il secondo che si presenta in forma estesa, quasi una piccola parabola, fa riferimento al servizio che i «servi inutili» danno. Il contesto è ancora quello del gran viaggio di Gesù verso Gerusalemme che ha preso avvio in Lc 9,51 e terminerà in Lc 19,45. Con il Vangelo di oggi si chiude proprio la seconda sezione di questo pellegrinaggio di Gesù che si contraddistingue per l’invito ad entrare nel Regno seguendo alcune condizioni. Questo che segue è il testo evangelico:

«In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola?» Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu?» Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,5-10). 

Dopo aver trattato dell’uso dei beni materiali, delle relazioni con il prossimo e della Chiesa con le istruzioni comunitarie, per la prima volta il Signore nel Vangelo di Luca parla del tema della fede in risposta ad un intervento degli apostoli: «Accresci in noi la fede» (Lc 17,5). La domanda di questi ultimi rimanda ad una situazione simile ricordata dal Vangelo di Marco. Lì, dopo il racconto della trasfigurazione, il padre di un ragazzo posseduto si rivolge a Gesù per chiedere la liberazione del figlio, e gli dice: «Credo; aiuta la mia incredulità» (Mc 9,24). Il Signore gli risponde non a parole, ma con un gesto di potenza, esorcizzando lo spirito impuro. Il vangelo di Matteo racconta lo stesso episodio ma lo amplifica, aggiungendo la reazione dei discepoli non tramandata da San Marco e registrando però le stesse parole di Gesù che ascoltiamo oggi: «Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, in disparte, e gli chiesero: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». Ed egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spòstati da qui a là, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile» (Mt 17,19-20).

In verità anche Marco conserva lo stesso detto di Gesù in Luca, ma in un diverso contesto, quello del fico infruttuoso: «Rispose loro Gesù: «Abbiate fede in Dio! In verità io vi dico: se uno dicesse a questo monte: Lèvati e gèttati nel mare, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà»  (Mc 11,22-23).

Se, come diceva Archimede, per sollevare il mondo occorre un punto di appoggio, questo per Gesù è indubbiamente la fede. Gesù ha appena parlato dell’inevitabilità che si verifichino scandali nella comunità cristiana e ha invitato a correggere chi pecca e a perdonare all’infinito chi si pente e riconosce apertamente il proprio peccato (Lc 17,1-4). In questo contesto si comprende la preghiera dei discepoli di veder accresciuta la loro fede. Come reggere, infatti, il peso degli scandali, degli ostacoli alla vita di comunione, dell’inciampo posto ai più piccoli o semplici nello spazio ecclesiale? Come esercitare una correzione fraterna che non schiacci il fratello ma lo liberi? Come perdonare ancora e sempre chi ogni volta si pente? Solo per mezzo della fede. Che si tratti, a titolo esemplificativo, di spostare un gelso come nell’odierna pagina di Luca o un monte, come nei vangeli di Marco e Matteo, la «leva» di cui sopra per farlo è la fede, grande anche solo come un granello di senapa, infatti ciò che vale è la qualità e non la quantità. Nei miracoli evangelici essa è presupposta nei bisognosi che Gesù incontra, permette di rifuggire dalla spettacolarizzazione o dall’idolatria, Gesù di norma chiede la fede prima del suo intervento, poiché dopo essa non è più garantita, come nel caso dei dieci lebbrosi guariti del Vangelo di domenica prossima: solo uno tornò per ringraziare (cfr. Lc 17,11-19).    

Nella seconda parte del brano viene riportata una similitudine, quasi una parabola, che presenta una situazione che, per fortuna, oggi è molto difficile rintracciare, poiché la schiavitù è stata abolita e chi svolge un servizio lo fa perché competente e gratificato e non semplicemente perché qualificato come servo. Tuttavia nella Bibbia questi termini, al netto delle situazioni sociali differenti dalle nostre, vengono adoperati per definire una condizione religiosa, spesso positiva. Per esempio, nel Vangelo di Luca, Maria stessa si proclama «serva» del Signore (cfr. Lc 1,38). Com’è tipico di Gesù, la parabola ci pone davanti ad una situazione paradossale, in quanto invito a guardare la realtà da un altro punto di vista, che è quello di Dio. In questo caso il paradosso corrisponde al fatto che il servo, avendo compiuto il suo dovere, è stato necessario al suo padrone. Ma l’autentico discepolo del Signore, dopo aver fatto bene il suo servizio, deve comunque riconoscersi inutile perché il suo lavoro non gli garantisce necessariamente la salvezza, in quanto la grazia sarà sempre un dono e non un vanto per aver fatto qualcosa. Il termine greco, usato da Luca, acreios (achreioi), che ha il significato primigenio di «senza valore», applicato alle persone citate da Gesù sta ad indicare dei servi qualunque, a cui nulla è dovuto. È un senso forte, che potrebbe urtare la sensibilità moderna, eppure nasconde un significato religioso e salvifico che, ad esempio, l’apostolo Paolo coglie parlando della fede nella Lettera ai Romani: «Dove dunque sta il vanto? È stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rom 3,27-28). E ancora nella Lettera agli Efesini: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene» (Ef 2,8-9).

Per il discepolo dunque e nella comunità cristiana, la fede è richiesta per il servizio e camminano insieme; questo è il legame che possiamo rintracciare fra la similitudine che Gesù fa e l’esortazione alla fede, pur delle dimensioni di un granello di senapa. Gesù sta istruendo coloro che lo seguono e al discepolo è richiesta una fede grande, che non può altro che essere domandata di continuo a Dio. La fatica e l’impegno che devono avere i cristiani per fare ciò che fanno, spesso a rischio della propria vita in alcune situazioni e parti del mondo, deve anche saper riconoscere che si è salvati non perché si è stati bravi o si sono ottenuti dei risultati, ma perché è Dio che salva. Tutti i meriti, anche quelli legittimamente ottenuti, devono essere ricondotti a Dio misericordioso e salvatore.

Dall’Eremo, 5 ottobre 2025

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THE SAVING JOY OF BEING ONLY UNWORTHY SERVANTS

The disciple of the Lord, after having carried out his service well, must still recognise himself as unprofitable, because his work does not of itself guarantee salvation; grace will always be a gift and never a boast for having done something.

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The Gospel of Luke today reports two sayings of Jesus. The first concerns faith, in response to a request from the apostles.

The second, presented at greater length as a short parable, refers to the service rendered by the «unprofitable servants». The setting is still that of the great journey of Jesus to Jerusalem which began at Lk 9:51 and will end at Lk 19:45. With today’s Gospel we come to the close of the second section of this pilgrimage of Jesus, which is marked by the invitation to enter the Kingdom by following certain conditions. What follows is the Gospel text:

«And the apostles said to the Lord, “Increase our faith.” The Lord replied, “If you have faith the size of a mustard seed, you would say to [this] mulberry tree, ‘Be uprooted and planted in the sea,’ and it would obey you. “Who among you would say to your servant who has just come in from plowing or tending sheep in the field, ‘Come here immediately and take your place at table’? Would he not rather say to him, ‘Prepare something for me to eat. Put on your apron and wait on me while I eat and drink. You may eat and drink when I am finished’? Is he grateful to that servant because he did what was commanded? So should it be with you. When you have done all you have been commanded, say, ‘We are unprofitable servants; we have done what we were obliged to do.’” (Luke 17:5–10)».

After speaking about the use of material goods, relations with one’s neighbour and the life of the Church with her communal instructions, for the first time in Luke’s Gospel the Lord speaks about the theme of faith in response to a request from the apostles: «Increase our faith» (Lk 17:5). Their plea recalls a similar situation noted by Mark. There, after the account of the Transfiguration, the father of a possessed boy turns to Jesus to ask for his son’s liberation and says to him: «I do believe, help my unbelief!» (Mk 9:24). The Lord answers him not with words but with a deed of power, by casting out the unclean spirit. Matthew recounts the same episode but expands it, adding the disciples’ reaction (which Mark does not record) and preserving the same words of Jesus that we hear today: «Then the disciples approached Jesus in private and said, “Why could we not drive it out?” He said to them, “Because of your little faith. Amen, I say to you, if you have faith the size of a mustard seed, you will say to this mountain, ‘Move from here to there,’ and it will move; nothing will be impossible for you”» (Mt 17:19–20).

Mark also preserves the same saying of Jesus as Luke, but in a different context, that of the barren fig tree: «Jesus said to them in reply, “Have faith in God. Amen, I say to you, whoever says to this mountain, ‘Be lifted up and thrown into the sea,’ and does not doubt in his heart but believes that what he says will happen, it shall be done for him”» (Mk 11:22–23).

If, as Archimedes said, to lift the world one needs a fixed point, for Jesus that point is undoubtedly faith. He has just spoken about the inevitability that scandals occur within the Christian community and has urged that the sinner be corrected and that the one who repents be forgiven without limit (Lk 17:1-4). In this context one understands the disciples’ prayer to have their faith increased. How, indeed, can one bear the weight of scandals, of obstacles to communion, of stumbling blocks placed before the little ones in the Church’s life? How can one exercise fraternal correction that does not crush a brother but frees him? How can one forgive again and again those who repent each time? Only by means of faith. Whether, by way of example, it is a matter of moving a mulberry tree as in Luke, or a mountain as in Mark and Matthew, the “lever” to do so is faith — great even if only like a mustard seed — for what counts is its quality rather than its quantity. In the Gospel miracles faith is presupposed in those in need whom Jesus meets; it allows one to avoid spectacle or idolatry. Jesus normally asks for faith before he intervenes, because afterwards it is no longer guaranteed, as in the case of the ten lepers of next Sunday’s Gospel: only one returned to give thanks (cf. Lk 17:11–19).

In the second part of the passage a comparison is reported, almost a parable, presenting a situation which, thankfully, is very hard to find today, since slavery has been abolished and those who perform a service do so because they are competent and fulfilled, not simply because they are labelled as servants. Nevertheless, in the Bible such terms, quite apart from social situations different from our own, are used to define a religious condition, often a positive one. For example, in Luke’s Gospel Mary herself proclaims herself the «handmaid» of the Lord (cf. Lk 1:38). As is typical of Jesus, the parable sets before us a paradoxical situation that invites us to look at reality from another point of view, that of God. The paradox here is that the servant, having done his duty, has in fact been necessary to his master. But the true disciple of the Lord, after having carried out his service well, must still recognise himself as unprofitable, because his work does not of itself guarantee salvation; grace will always be a gift and never a boast for having done something. The Greek word used by Luke, acreios (achreioi), whose primary sense is “without claim,” applied to the persons in Jesus’ example indicates ordinary servants to whom nothing is owed. It is a strong expression that can jar modern sensibilities, yet it conceals a religious and saving meaning which, for example, the Apostle Paul brings out when he speaks about faith in the Letter to the Romans: «What occasion is there then for boasting? It is ruled out. On what principle, that of works? No, rather on the principle of faith. For we consider that a person is justified by faith apart from works of the law» (Rom 3:27–28). And again in the Letter to the Ephesians: «For by grace you have been saved through faith, and this is not from you; it is the gift of God; it is not from works, so no one may boast» (Eph 2:8–9).

For the disciple, then, and within the Christian community, faith is required for service and the two walk together. This is the link we can trace between the comparison that Jesus makes and the exhortation to a faith even the size of a mustard seed. Jesus is instructing those who follow him, and the disciple is asked for a great faith which can only be continually begged from God. The hard work and commitment Christians must put into what they do — often at the risk of their very lives in certain situations and parts of the world — must also be joined to the recognition that we are saved not because we have been good or have achieved results, but because it is God who saves. All merits, even those legitimately obtained, must be referred back to the merciful and saving God.

From the Hermitage October 5, 2025

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LA ALEGRÍA SALVÍFICA DE SER SOLO SIERVOS INÚTILES

El auténtico discípulo del Señor, después de haber realizado bien su servicio, debe igualmente reconocerse inútil, porque su obra no le garantiza por sí misma la salvación; la gracia será siempre un don y no un motivo de jactancia por haber hecho algo.

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El Evangelio de Lucas hoy recoge dos dichos de Jesús. El primero se refiere a la fe, en respuesta a una petición de los apóstoles.

El segundo, presentado de forma más extensa como una pequeña parábola, alude al servicio que prestan los «siervos inútiles». El contexto sigue siendo el del gran viaje de Jesús hacia Jerusalén que comenzó en Lc 9,51 y concluirá en Lc 19,45. Con el Evangelio de hoy se cierra precisamente la segunda sección de esta peregrinación de Jesús, que se caracteriza por la invitación a entrar en el Reino siguiendo ciertas condiciones. A continuación, el texto evangélico:

«En aquel tiempo, los apóstoles dijeron al Señor: “¡Auméntanos la fe!”. El Señor respondió: “Si tuvierais fe como un grano de mostaza, diríais a esta morera: ‘Arráncate y plántate en el mar’, y os obedecería. ¿Quién de vosotros, si tiene un siervo arando o pastoreando el rebaño, le dirá, cuando vuelve del campo: ‘Ven enseguida y ponte a la mesa’? ¿No le dirá más bien: ‘Prepárame de comer; cíñete y sírveme mientras yo como y bebo, y después comerás y beberás tú’? ¿Acaso da las gracias al siervo porque hizo lo que se le mandó? Así también vosotros, cuando hayáis hecho todo lo que se os ha ordenado, decid: ‘Somos siervos inútiles. Hemos hecho lo que debíamos hacer’.» (Lc 17,5–10).

Tras haber tratado del uso de los bienes materiales, de las relaciones con el prójimo y de la vida de la Iglesia con sus instrucciones comunitarias, por primera vez en el Evangelio de Lucas el Señor habla del tema de la fe en respuesta a una petición de los apóstoles: «¡Auméntanos la fe!» (Lc 17,5). La súplica remite a una situación semejante recordada por el Evangelio de Marcos. Allí, después del relato de la Transfiguración, el padre de un muchacho poseído se dirige a Jesús para pedir la liberación de su hijo y le dice: «¡Creo; ayuda mi incredulidad!» (Mc 9,24). El Señor le responde no con palabras, sino con un gesto de poder, expulsando al espíritu impuro. Mateo narra el mismo episodio pero lo amplía, añadiendo la reacción de los discípulos (que Marcos no registra) y conservando las mismas palabras de Jesús que escuchamos hoy: «Entonces se acercaron a Jesús los discípulos aparte y le dijeron: “¿Por qué nosotros no pudimos expulsarlo?”. Él les dijo: “Por vuestra poca fe. En verdad os digo: si tenéis fe como un grano de mostaza, diréis a este monte: ‘Muévete de aquí allá’, y se moverá; y nada os será imposible”» (Mt 17,19–20).

En realidad, Marcos también conserva el mismo dicho de Jesús que Lucas, pero en un contexto distinto, el de la higuera estéril: «Jesús les respondió: “Tened fe en Dios. En verdad os digo: el que diga a este monte: ‘Quítate y arrójate al mar’, sin dudar en el corazón, sino creyendo que sucederá lo que dice, le sucederá.”» (Mc 11,22–23).

Si, como decía Arquímedes, para mover el mundo se necesita un punto de apoyo, para Jesús ese punto es sin duda la fe. Acaba de hablar de la inevitabilidad de los escándalos en la comunidad cristiana y ha invitado a corregir al que peca y a perdonar sin límite al que se arrepiente (Lc 17,1–4). En este contexto se entiende la oración de los discípulos para que se aumente su fe. ¿Cómo soportar, en efecto, el peso de los escándalos, de los obstáculos a la comunión, de la piedra de tropiezo colocada a los pequeños en la vida eclesial? ¿Cómo ejercer una corrección fraterna que no aplaste al hermano sino que lo libere? ¿Cómo perdonar una y otra vez a quien cada vez se arrepiente? Solo mediante la fe. Ya se trate, a modo de ejemplo, de mover una morera, como en la página de hoy de Lucas, o una montaña, como en Marcos y Mateo, la «palanca» mencionada anteriormente para hacerlo es la fe, grande incluso si es del tamaño de un grano de mostaza: importa la calidad, no la cantidad. En los milagros evangélicos se presupone la fe en los necesitados que Jesús encuentra; permite huir del espectáculo o de la idolatría. Jesús normalmente pide la fe antes de intervenir, porque después ya no está garantizada, como en el caso de los diez leprosos del Evangelio del próximo domingo: solo uno volvió para dar gracias (cf. Lc 17,11–19).

En la segunda parte del pasaje se recoge una comparación, casi una parábola, que presenta una situación que, por fortuna, hoy es muy difícil de encontrar, pues la esclavitud ha sido abolida y quien presta un servicio lo hace porque es competente y se realiza, no simplemente por estar calificado como siervo. Sin embargo, en la Biblia estos términos —al margen de situaciones sociales distintas de las nuestras— se emplean para definir una condición religiosa, a menudo positiva. Por ejemplo, en el Evangelio de Lucas, María misma se proclama «sierva» del Señor (cf. Lc 1,38). Como es típico en Jesús, la parábola nos coloca ante una situación paradójica que invita a mirar la realidad desde otro punto de vista: el de Dios. El paradoja aquí consiste en que el siervo, habiendo cumplido su deber, ha sido necesario a su señor. Pero el auténtico discípulo del Señor, después de haber realizado bien su servicio, debe igualmente reconocerse inútil, porque su obra no le garantiza por sí misma la salvación; la gracia será siempre un don y no un motivo de jactancia por haber hecho algo. El término griego usado por Lucas, acreios (achreioi), cuyo sentido primario es «sin derecho», aplicado a las personas del ejemplo de Jesús indica siervos ordinarios a quienes nada se les debe. Es una expresión fuerte, que puede chocar la sensibilidad moderna, pero encierra un significado religioso y salvífico que, por ejemplo, el apóstol Pablo capta al hablar de la fe en la Carta a los Romanos: «¿Dónde está, pues, el motivo de gloriarse? Queda excluido. ¿Por qué ley? ¿Por la de las obras? No, por la ley de la fe. Pues sostenemos que el hombre es justificado por la fe, sin las obras de la ley» (Rom 3,27–28). Y también en la Carta a los Efesios: «Pues por gracia habéis sido salvados mediante la fe; y esto no viene de vosotros, sino que es don de Dios; no viene de las obras, para que nadie se gloríe» (Ef 2,8–9).

Para el discípulo, pues, y dentro de la comunidad cristiana, la fe se requiere para el servicio y ambas caminan juntas; este es el vínculo que podemos rastrear entre la comparación que hace Jesús y la exhortación a una fe, aunque sea del tamaño de un grano de mostaza. Jesús está instruyendo a quienes le siguen, y al discípulo se le pide una fe grande, que solo puede ser pedida a Dios continuamente. El esfuerzo y el compromiso que los cristianos deben poner en lo que hacen —muchas veces a riesgo de la propia vida en determinadas situaciones y lugares del mundo— debe ir unido al reconocimiento de que somos salvados no porque hayamos sido buenos o conseguido resultados, sino porque es Dios quien salva. Todos los méritos, incluso los legítimamente obtenidos, deben referirse a Dios misericordioso y salvador.

Desde la Ermita, 5 de octubre de 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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