Il Vescovo di Ascoli Piceno Giovanni D’Ercole ha scelta “l’opzione Benedetto”, la stessa che a breve molti di noi seguiranno, assieme a coloro che l’hanno già intrapresa da alcuni anni

— attualità ecclesiale —

IL VESCOVO DI ASCOLI PICENO GIOVANNI D’ERCOLE HA SCELTA L’OPZIONE BENEDETTO, LA STESSA CHE A BREVE MOLTI DI NOI SEGUIRANNO, ASSIEME A COLORO CHE l’HANNO GIÀ INTRAPRESA DA ALCUNI ANNI

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Si potrebbe dire che di fuga si tratta, ma non come la può intendere il mondo dei cattolici adulti che vedono Dio come un militante e il Vangelo come un manifesto politico da sbattere sul muso di chi non la pensa come loro. La fuga di Giovanni D’Ercole è la stessa fuga di Papa Benedetto XVI, da intendersi e da leggere anzitutto come la fuga di Benedetto da Norcia che osa separarsi dall’Impero oramai corrotto e sconvolto dai barbari invasori per poter ritrovare le proprie origini, le proprie radici e l’identità cristiana che oggi al mondo suona come una bestemmia impronunciabile.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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S.E. Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito di Ascoli Piceno

Il Vescovo di Ascoli Piceno S.E. Mons. Giovanni D’Ercole, religioso orionino, alla soglia dei 73 anni di età ― in anticipo di due anni sul previsto ritiro dei vescovi dalla cattedra episcopale a 75 anni ― ha deciso di presentare al Sommo Pontefice la lettera di rinuncia al governo pastorale della sua diocesi e di entrare in monastero per vivere una vita di silenzio e di preghiera.

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Ha così motivata la sua decisione:

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«Amare la Chiesa significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi».

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Parole che ricordano quelle del Sommo Pontefice Benedetto XVI e che pesano come dei macigni in questo momento storico di disordine e di perdita di leadership dentro e fuori la Chiesa. La situazione, lo capiamo bene, è comprensiva della responsabilità di molti, non solo di un singolo.

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Tra i campi di battaglia insanguinati dal sacrificio dei martiri, si combatte strenuamente per la salvaguardia della dottrina, della morale e della libertà della Chiesa. Domandiamoci: in questo scenario, forse un vescovo fugge?

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Si potrebbe dire che di fuga si tratta, ma non come la può intendere il mondo dei cattolici adulti che vedono Dio come un militante e il Vangelo come un manifesto politico da sbattere sul muso di chi non la pensa come loro. La fuga di Giovanni D’Ercole è la stessa fuga di Papa Benedetto XVI, da intendersi e da leggere anzitutto come la fuga di Benedetto da Norcia che osa separarsi dall’Impero oramai corrotto e sconvolto dai barbari invasori per poter ritrovare le proprie origini, le proprie radici e l’identità cristiana che oggi al mondo suona come una bestemmia impronunciabile.

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Ancora, noi uomini di Chiesa, non abbiamo compreso che per convertire gli altri è necessario convertire prima noi stessi, la bontà del Vangelo e della persona di Gesù Cristo non si abbraccia ibridando la politica [cfr. QUI] che per sua natura è secolare e il secolo è lo spazio e il tempo storico dell’uomo caduto e punito perché si è ribellato a Dio. Così, come il Vangelo non è l’ideale pauperistico di chi pretende di rimuovere la povertà con una sorta di ottimismo roussoiano, che vede nell’uomo l’orologio perfetto, il demiurgo che ha rinnegato Dio e crea ordine nel disordine e salvezza nella disperazione.

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Essere Chiesa senza compromessi è possibile se Cristo è l’opzione privilegiata dei credenti e dei pastori, opzione che Giovanni D’Ercole ha ribadito in questi mesi di emergenza sanitaria, ricordando ai vertici del governo le verità della fede e stornando il Popolo di Dio da quella sicura coperta anestetizzata che scrolla ogni responsabilità e coinvolgimento con Dio in nome di un non meglio identificato bene comune che uccide ogni speranza.

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Il mondo adesso non capisce la scelta del vescovo emerito di Ascoli Piceno, ma la capirà quando si renderà conto che le cisterne sono ormai aride e i granai vuoti e pieni di topi.

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Forse qualche vescovo, sacerdote o semplice fedele considererà frettolosa questa decisione, perché un vescovo che entra in clausura monastica assomiglia tanto a una Ferrari nascosta in garage, tutta sola, lì parcheggiata ad arrugginire.

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E invece no, cari miei! In quella solitudine silenziosa si stanno preparando i granai, si sta ammassando il grano della Parola di Cristo, si sta preservando il buon seme che sfama e che sarà seminato nel futuro. Tra non molto tutti noi avremo fame, sarà molto reale il grido di Geremia secondo cui

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«il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa» [Ger 14,18],

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di questa impotenza siamo più che testimoni in molte realtà. Ma non tutti i profeti del nostro tempo e i sacerdoti sono inconsapevoli e indecisi, alcuni, come Giovanni D’Ercole, così come Benedetto XVI davanti al deserto spirituale, scelgono il deserto del chiostro. Loro fanno

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«[…] ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede […] bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più, ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede» [1].

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Tutto questo passerà e passerà per tutti, affamati e affamatori. La via d’uscita consiste nel cercare fin da subito chi conserva il buon seme nel granaio, anche con scelte difficili e sofferte che implicano la propria persona.

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Giovanni D’Ercole, presbitero e vescovo, ha fatto questo, ed è doveroso e, innanzitutto cristiano, esprimere un grazie benedicente a Dio per avercelo dato. Cosa che esprimo non solo a titolo personale, ma anche a nome di tutti i Padri de L’Isola di Patmos.

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Laconi, 30 ottobre 2020

NOTE

[1] Cfr. Giovannino Guareschi, Don Camillo e don Chichì, in Tutto Don Camillo. Mondo piccolo, II, BUR, Milano, 2008, pp. 3114-3115.

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Elogio della follia. Teste decapitate dagli islamisti in Europa? Non temete: «L’Islam è una religione di pace e d’amore»

— attualità ecclesiale —

ELOGIO DELLA FOLLIA. TESTE DECAPITATE DAGLI ISLAMISTI IN EUROPA? NON TEMETE: «L’ISLAM È UNA RELIGIONE DI PACE E D’AMORE»

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Nessuna mente pensante e razionale può sostenere che tutti i musulmani sono potenziali terroristi, una simile affermazione sarebbe veramente aberrante. È però doveroso domandarsi: perché, proprio dall’Islam, si sono generati violenti filoni estremistici, che non costituiscono fenomeni minoritari né gruppi di cosiddetti cani sciolti? Quelle dei terroristi islamisti sono associazioni numerose e organizzate che beneficiano di enormi risorse economiche, non poche delle quali provenienti sottobanco da ricchi paesi petroliferi arabi. Gli stessi Paesi che a ogni attentato terroristico porgono le condoglianze all’Occidente per i morti ammazzati dalle mani di quei terroristi islamisti che loro stessi hanno finanziato.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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La prima settimana di novembre sarà in distribuzione il libro di Padre Ariel S. Levi di Gualdo che analizza le radici della violenza racchiuse nell’Islam

L’opera di Erasmo da Rotterdam non è ciò che credono coloro che non la conoscono e che ne usano il titolo a effetto. Dedicata all’amico Thomas Moore, oggi venerato dalla Chiesa santo martire, Elogio della follia è un’opera improntata sui principi della scolastica e della metafisica classica che attraverso l’uso della satira parla della divina origine della follia. In periodi di decadenza irreversibile, l’ironia unita alla sapienza della fede dei folli di Dio, risulta lo strumento reattivo più efficace per aprire la strada verso la salvezza.

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In Francia, il 16 ottobre, un islamista decapita un insegnante, postando poi sui social media l’immagine della testa della vittima [Cfr. La Repubblica, QUI]. Oggi, 29 ottobre, un altro islamista irrompe nella Cattedrale di Nizza, uccide tre persone e decapita una donna con un coltello [cfr. Avvenire.it, QUI].

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Tra pochi giorni uscirà un mio libro intitolato L’Aspirina dell’Islam moderato, riflettendo sul quale mi domando: coi tempi che corrono oggi e quelli peggiori che giungeranno domani, posso andare incontro a rischi, dopo avere spiegato che Maometto è un falso profeta da cui prende vita un Islam che definire in toni rassicuranti «religione di pace e amore» suona come un insulto all’umana intelligenza, alla storia e alle tante vittime cadute sotto i suoi colpi mortali nel corso dei secoli?

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I rischi non li posso prevedere, ma le reazioni dei buonisti onirici che dialogano a tutti i costi e costi quel che costi, specie con tutto ciò che non è cristiano e cattolico e che accarezzano il pericoloso nemico che da tempo ci siamo trascinati in casa, quelle sì, le posso anticipare e prevedere con facilità. Se come capitato al povero professore francese, un diciottenne venisse a uccidermi e a tagliarmi la testa, postando sui social media le immagini del mio corpo decapitato, accadrà che gli amorevoli e misericordiosi maestri cattolici del dialogo a tutti i costi e costi quel che costi, si affretterebbero a chiedere perdono all’Islam per il libro che ho scritto. E se i membri delle Forze dell’Ordine del nostro Paese abbattessero a colpi di pistola il mio assassino, come accaduto a Parigi, per avere brandita un’arma contro di loro e non essersi fermato all’ordine di blocco, dopo avere uccisa e decapitata una persona, finirebbero sotto indagine per omicidio, perché così disporrebbero i magistrati di Magistratura Democratica in Italia, rassicurante vessillo che cela l’odierna Sinistra post-comunista e post-sessantottina, i giornali della quale spiegherebbero che “si tratta solo di un atto giuridico dovuto”, quello di mettere sotto inchiesta le Forze dell’Ordine che hanno sparato. Nel frattempo, gli sfaccendati figli di papà dei centri sociali innescherebbero polemiche dando vita a campagne di odio verso la “polizia fascista”, colpevole di avere violato lo stato di diritto, che per loro equivale al diritto alla tutela della criminalità e dei criminali.

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Questo è di fatto ciò che accade in una società europea condizionata dai venefici filosofismi di Jean Jacques Rousseau, resa ormai incapace a dire “povera vittima assassinata”, ma “povero assassino”, non più “povero derubato”, ma “povero ladro”, non più “povero bambino abortito”, ma “povera donna che ha abortito”… 

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… prima di incedere oltre merita chiarire chi è Jean Jacques Rousseau, nato a Ginevra nel 1712 e morto a Ermenonville nel 1778. Soprattutto quali danni abbia recato il suo pensiero alla società europea. Annoverato impropriamente tra i filosofi, Jean Jacques Rousseau alla prova dei fatti è un sociologo non esente da punte di surrealismo e di illogicità. Nel periodo post-illuminista le sue teorie hanno influenzata la politica e i moderni ordinamenti giuridici mediante la cosiddetta teoria del “buon selvaggio”, in base alla quale l’uomo è considerato fondamentalmente buono, se poi diviene un violento o un criminale, le cause non vanno ricercate in lui, ma nella società che lo ha traviato e che della sua violenza e dei suoi crimini è la vera responsabile. Inutile dire che cosa hanno prodotto nelle società occidentali queste teorie assimilate e applicate alla politica e alla giurisprudenza.

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Dopo l’attentato alla discoteca Bataclan di Parigi consumato il 13 novembre 2015 da una squadra di islamisti che hanno ucciso 113 persone, il giorno appresso fu diffusa sugli organi di stampa una lettera aperta ai terroristi scritta da Chaimaa Fatihi. Un autentico monumento alla emotività e alla manipolazione della realtà, per opera di un trasognante spirito adolescenziale giunto all’acme attraverso l’annuncio del meraviglioso legame tra Islam e pace; un legame magnifico che molti si ostinano a negare e a riconoscere. La lettera divenne presto un cavallo di battaglia sulla stampa della Sinistra radical chic e di certa stampa cattolica più ancora a sinistra della Sinistra radical chic.

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«Maledetti terroristi, sono Chaimaa Fatihi, ho 22 anni, sono italiana musulmana ed europea. Vi scrivo perché possiate comprendere che non ci avrete mai, che non farete dell’Islam ciò che non è, non farete dell’Europa un luogo di massacri e non avrà efficacia il vostro progetto di terrore. Vi scrivo come musulmana per dirvi che la mia fede è l’Islam, una religione che predica pace, che insegna valori e principi fondamentali, come la gentilezza, l’educazione, la libertà e la giustizia. Voi siete ciò che l’Islam ha contrastato per secoli, voi siete nemici, voi siete coloro che spargono sangue di innocenti, di giovani, anziani, uomini e donne, bambini e neonati. Non ho paura dei vostri kalashnikov, dei vostri coltelli e armi, perché da musulmana vi rinnego, vi combatto con la parola, con l’informazione, con la voce di chi vive quotidianamente la propria fede, dando esempio dei suoi insegnamenti».

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Nel libro di Chaimaa Fatihi edito poco meno di un anno dopo dall’Editrice Rizzoli nel 2016, è riportata questa biografia: «È nata nel 1993 in Marocco, dove ha vissuto fino all’età di sei anni. Da allora si è trasferita in Italia. Dopo aver frequentato le scuole primarie e secondarie in provincia di Mantova, a Castiglione delle Stiviere, ora studia giurisprudenza. Con questo libro ha vinto nel 2016 il 18° Premio Casato Prime Donne di Montalcino, assegnato a donne simbolo del coraggio e del talento femminili».

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Molti sarebbero gli esempi da portare, a proposito dei catto-sinistri radical chic che hanno mutata questa letterina a babbo Natale in una specie di Quarto Vangelo. Ne scelgo uno tra i tanti a firma di Daniela Rocchetti, delegata per la vita cristiana della ACLI (Associazione Cattolica Lavoratori Italiani), che lungi dal conoscere i testi dell’Islam, riporta tre frasi a effetto che le sono state riferite da alcuni studiosi musulmani, estrapolate in modo maldestro dai testi coranici e presentate come inconfutabile prova che l’Islam ripudia la violenza [vedere, QUI]. Questo modo di agire è intellettualmente disonesto, però non mosso da malafede, ma da crassa ignoranza e superficialità, presupposti tipici di chi non comprende neppure l’estrema complessità degli argomenti che presume essere in grado di trattare.

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Anzitutto chiariamo: per la fede islamica il Corano non è una raccolta di metafore da interpretare, è parola di Allah. Maometto non è altro che il fedele redattore di un sacro libro che va applicato alla lettera, non interpretato. Il Corano è un testo complesso e parecchio confuso, al suo interno si afferma di tutto, poi il suo esatto contrario. Se in una sura si invita a un comportamento non violento, in altre cento si dettaglia come la violenza va santamente esercitata sugli infedeli. E se andiamo a leggere con cura certi inviti alla non violenza, scopriremo che in essi si esorta i figli dell’Islam a non esercitare violenza verso gli altri figli dell’Islam, in quanto suoi fratelli. Gli infedeli non sono però fratelli, lo provano le dettagliate spiegazioni su come vanno fronteggiati, aggrediti e sottomessi con tutti i mezzi coercitivi disponibili. Il Corano insegna persino come gli infedeli devono essere ingannati: prima conquistando la loro fiducia, poi, una volta rasserenati e divenuti amici, aggrediti e sottomessi. Una vera e propria esaltazione del “santo” tradimento. Quindi non solo, il “testo sacro” dell’Islam legittima la violenza, ma spiega fin nei minimi dettagli come e con quale severità vada esercitata.  Ovviamente, questi testi ben più numerosi, non sono oggetto di esegesi da parte del Prof. Adnane Mokrani, teologo mussulmano tunisino che solo i membri della moderna Compagnia delle Indie quella che fu in passato la Compagnia di Gesù fondata da Sant’Ignazio di Loyola ―, potevano invitare in cattedra alla Pontificia Università Gregoriana, per dimostrare quanto siamo aperti e quanto siamo dialoganti. Soprattutto quanto non siamo più cattolici, almeno da quelle parti, dove il gesuitismo ha soppiantato il cattolicesimo.

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Questi testi del Corano definito «religione di pace» nella tenera letterina a babbo Natale, noi però li conosciamo. Sono per l’esattezza 123 quelli che spiegano come combattere e uccidere gli infedeli per la causa di Allah. Ne prenderò di seguito solo alcuni stralci, quelli dedicati agli infedeli, ovvero tutti coloro che non si sottomettono all’Islam e che il Corano invita a «arrestarli, assediarli e preparare imboscate in ogni dove» (Sura 9:95). I musulmani devono anche «circondarli e metterli a morte ovunque li troviate, uccideteli ogni dove li troviate, cercate i nemici dell’Islam senza sosta» (Sura 4:90). Per seguire con un ordine perentorio: «Combatteteli finché l’Islam non regni sovrano» (Sura 2:193). Si indicano anche mezzi, per così dire, efficaci: «tagliate loro le mani e la punta delle loro dita» (Sura 8:12). E per chi avesse qualche dubbio è prontamente chiarito: «I musulmani devono far guerra agli infedeli che vivono intorno a loro» (Sura 9:123). Ma se il tutto non fosse ancora chiaro, in tal caso si tenga presente che i musulmani devono essere «brutali con gli infedeli» (Sura 48:29). Sempre a ulteriore riprova che l’Islam è una religione di pace, basti aggiungere che un musulmano «deve gioire delle cose buone che ha guadagnato con il combattimento» (Sura 8:69). Seguono poi numerose altre esortazioni alla pace, più o meno di questo genere: chiunque combatta contro Allah o rinunci all’Islam per abbracciare un’altra religione, che sia «messo a morte o crocifisso o mani e piedi siano amputati da parti opposte» (Sura 5:34). E ancora: «Assassinate gli idolatri ogni dove li troviate, prendeteli prigionieri e assediateli e attendeteli in ogni imboscata» (Sura 9:5). Chi si domanda perché gli islamisti sgozzano e decapitano i cosiddetti infedeli, senza però trovare risposta a siffatto quesito, potrebbe trarre illuminazione da questa esortazione: «Instillerò il terrore nel cuore dei non credenti, colpite sopra il loro collo e tagliate loro la punta di tutte le dita» (Sura 8:12). A ulteriore conferma di quanto l’Islam sia una religione di pace basti aggiungere: «Quando incontrate gli infedeli, uccideteli con grande spargimento di sangue e stringete forte le catene dei prigionieri». (Sura 47:4). Per concludere con un tocco di poetico misticismo che non guasta mai: «Sappiate che il Paradiso giace sotto l’ombra delle spade» (Sahlih al-Bukhari Vol 4 p55).

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Spero di avere chiarito come mai provo autentica tenerezza erasmiana per questa giovane resa oggetto delle peggiori strumentalizzazioni di certa cieca ideologia, alla quale furono spalancate all’istante le porte della grande editoria che, anziché libri intelligenti e realisti, ha deciso di spacciare morfina per lenire il dolore derivante da un tumore con metastasi diffuse, rassicurando al tempo stesso che, la morte, non esiste.

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Nessuna mente pensante e razionale può sostenere che tutti i musulmani sono potenziali terroristi, una simile affermazione sarebbe veramente aberrante. È però doveroso domandarsi: perché, proprio dall’Islam, si sono generati violenti filoni estremistici, che non costituiscono fenomeni minoritari né gruppi di cosiddetti cani sciolti? Quelle dei terroristi islamisti sono associazioni numerose e organizzate che beneficiano di enormi risorse economiche, non poche delle quali provenienti sottobanco da ricchi paesi petroliferi arabi. Gli stessi Paesi che a ogni attentato terroristico porgono le condoglianze all’Occidente per i morti ammazzati dalle mani di quei terroristi islamisti che loro stessi hanno finanziato. E qualcuno intende forse offendersi, quando si osa parlare di quella doppiezza e ipocrisia che caratterizza certe culture arabe?

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Nel libro che sta per andare in distribuzione ho cercato di spiegare con rigore scientifico che definire l’Islam «religione di pace e amore» è un insulto al buon senso e all’umana intelligenza, un autentico spaccio di acidi allucinogeni. L’Islam prende vita proprio dalla violenza e dalla guerra con le quali si è imposto sin dall’epoca che era sempre vivente Maometto suo fondatore.

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La tenera Chaimaa Fatihi è semplicemente una di quelle figure che il nostro problematico teologo gesuita Karl Rahner avrebbe annoverato tra l’esercito di quei “cristiani anonimi” che senza saperlo sono di fatto cristiani. Tenera fanciulla tutta pace e amore che nei concreti fatti si rivela una musulmana confusa, inconsapevolmente assimilata alle radici cristiane della cultura europea. Quanto basta a generare in lei una tale confusione da spingerla ad attribuire all’Islam quelle che sono le caratteristiche fondanti del Cristianesimo: una religione di pace e amore.

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Simili figure di musulmani surreali sono il nulla destinato a rassicurare i laicisti europei senza Dio, che alla croce di Cristo hanno sostituito gli arcobaleni e le marce del Gay Pride, che dissacrano puntualmente per le vie delle Capitali d’Europa tutti i simboli più preziosi alla Cristianità. E non sapendo più chi sono e da dove provengono, ecco che fitti eserciti di europei senza memoria e radici traggono infine illusoria rassicurazione dalle parole di una giovane confusa come la “cristiana anonima” Chaimaa Fatihi, che non sa cos’è l’Islam, ma che supplisce a questa mancanza di conoscenza con una rassicurazione emotiva del tutto falsa: «L’islam è una religione di pace». Un mantra che di attentato in attentato, di decapitazione in decapitazione sentiamo ripetere nel totale spregio della storia e della logica, come se il rifiuto della realtà ci potesse salvare.

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«Bisogna dialogare con l’Islam moderato», recita un altro mantra diffuso ormai da un trentennio. Ma anche quest’ultima è un’asserzione illogica scissa dal reale, perché equivale a dire: «Bisogna entrare in un bordello e cercare di dialogare con le prostitute vergini». E qualcuno ritiene davvero possibile trovare all’interno di un bordello una prostituta vergine? Un quesito al quale dovrebbe rispondere l’Europa ammalata di odio distruttivo verso le proprie radici cristiane.

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Questa letterina nella quale l’Europa si è sentita dire ciò che desiderava sentirsi dire sui cadaveri dei morti ammazzati dagli islamisti al Bataclan di Parigi e a tutti gli altri che ne sono seguiti, è anzitutto un’accozzaglia di contenuti illogici, prima ancora che falsi, destinati a recare ingiuria all’umana intelligenza. Contenuti smentiti da quindici secoli di storia passata e presente, basterebbe solo chiedere alla fanciullesca autrice: le donne e i bambini chiusi nelle chiese della Nigeria e bruciati vivi, i cristiani perseguitati e uccisi in Pakistan, le donne cristiane stuprate e gli uomini cristiani mutilati in Afghanistan, i cristiani che nella quasi totalità dei Paesi arabi e di quelli retti da teocrazie religiose islamiche sono privi di diritti civili e di libertà di culto, sono forse vittime di una sparuta cultura islamista minoritaria, mentre la totalità dell’Islam vive all’universale insegna della pace e dell’amore? La triste realtà è che questi cristiani, perseguitati ovunque i musulmani detengono il potere di governo, sono vittime della violenza insita in quell’Islam che una musulmana assimilata alla cultura europea, nonché “cristiana anonima”, ci ha dipinto come una «religione di pace» sui cadaveri dei morti ammazzati.

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Nella Capitale d’Italia, che storicamente è anche capitale mondiale della Cristianità, fu costruita la più grande moschea d’Europa. Pagata dal Re Faysal, Sovrano dell’Arabia Saudita dal 1964 al 1975, realizzata su progetto del celebre architetto Paolo Portoghesi e costata all’epoca ― così si dice ― circa 200 miliardi delle vecchie lire. L’allora Pontefice regnante Paolo VI, Vescovo di Roma, non sollevò alcuna protesta, né alcuna riserva, anzi inviò i propri migliori auspici alla Comunità Islamica presente sul territorio italiano.

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In Arabia Saudita, dove si trova la “città santa” della Mecca, non esiste neppure una cappella di venti metri quadrati. Conservare un Vangelo o dei simboli religiosi cristiani è considerato dal diritto penale islamico di quello, come di altri Paesi, un reato grave perseguibile severamente. Le due uniche liturgie cattoliche che si svolgono su quel territorio per Natale e per Pasqua sono celebrate negli spazi extra territoriali delle ambasciate d’Italia e di Francia. Detto questo, occorre forse aggiungere altro?

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La tenera Chaimaa Fatihi, il cui libro è stato coronato dal Premio Casato Prime Donne di Montalcino, assegnato a donne simbolo del coraggio e del talento femminili, oltre al mantra che il “suo” Islam onirico «è una religione di pace», non ha da dirci proprio niente, a tal proposito? Perché per quanto mi riguarda, avrò invece molto da dire, basandomi di rigore sul mondo del reale, non certo sul mondo fantasioso dei sogni adolescenziali surreali di una “cristiana anonima” musulmana.

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Per sintetizzare lo spirito e l’atteggiamento di questa tenera giovane surreale dedita allo spaccio di morfina, vorrei usare una frase estrapolata dal XXXIII Canto del Paradiso di Dante Alighieri: «All’alta fantasia qui mancò possa». Frase che nell’odierno italiano suona: «Alla più grande fantasia mancò la capacità». Vale a dire: siamo proprio al di là delle capacità della stessa fantasia umana.

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Abissale è infatti la differenza tra il Cristianesimo e l’Islamismo, sebbene gli spacciatori di morfina non intendano coglierla: se in nome del Cristianesimo qualcuno desse vita a forme di violenza, tradirebbe l’essenza del suo messaggio e il suo agire sarebbe smentito e condannato dai contenuti delle nostre Sacre Scritture. Se in nome del falso profeta Maometto, gruppi tutt’altro che minoritari, danno invece vita a forme di pericolosa violenza, nel farlo adempiono a quanto contenuto e racchiuso nel Corano, che comanda di aggredire, piegare e sottomettere gli infedeli, indicando persino in che modo uccidere chi si rifiuta di sottostare alla conversione forzata. Pratica violenta da sempre esercitata dall’Islam «religione di pace», che in modo molto urbano e liberale ti lascia all’occorrenza due scelte: o ti converti o ti ammazzo.

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La tenera Chaimaa Fatihi, quale Corano ha letto? E se lo ha letto, ritiene di averlo capito? O Più semplicemente: pensa davvero di poter prendere facilmente in giro i cristiani, senza tenere in minima considerazione che noi, alle spalle, non abbiamo uno scaltro cammelliere nato nella penisola arabica che s’è fatto grande profeta, ma il Verbo di Dio fatto uomo? A questo vanno poi aggiunti venti secoli di storia e cultura, oltre al modo in cui abbiamo fatto tesoro, conservato e sviluppato al meglio anche il patrimonio della sapienza ebraica, greca e romana.

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Babbo Natale, alla tenera Chaimaa Fatihi, ha già portato in regalo un’altra testa decapitata, questa volta dentro i sacri spazi della Basilica di Notre Dame di Nizza, sulla quale potrà tornare a rassicurarci che l’Islam «è una religione di pace», mentre dal canto mio auguro buona morfina all’Europa affetta da metastasi diffuse e da implacabile odio e rifiuto verso le proprie radici cristiane.

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dall’Isola di Patmos, 29 ottobre 2020

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