La falsità della supposta mutabilità della dottrina della Humanae Vitae. Circa le tesi di Maurizio Chiodi: il Magistero della Chiesa non s’interpreta con la menzogna

LA FALSITÀ DELLA SUPPOSTA MUTABILITÀ DELLA DOTTRINA DELLA HUMANAE VITAE. CIRCA LE TESI DI MAURIZIO CHIODI: IL MAGISTERO DELLA CHIESA NON S’INTERPRETE CON LA MENZOGNA

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Il discorso farneticante, opportunista ed adulatorio di Maurizio Chiodi si inquadra nel clima intellettuale ed emotivo, rivoluzionario in senso negativo, di crescente eccitazione collettiva e falsa devozione al Papa, fomentate dalle sinistre, che da alcuni anni si sta rapidamente diffondendo nella Chiesa, da quando Eugenio Scalfari, nella famosa intervista degli inizi del pontificato, ha lanciato l’elogio di successo del Papa rivoluzionario

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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la sofferta ultima enciclica del Beato Pontefice Paolo VI, che mai più dette alle stampe altre encicliche nei successivi nove anni del suo pontificato.

La Nuova Bussola Quotidiana del 2 febbraio riporta col commento di Renzo Puccetti ― «Si scrive proibito si legge lecito: è la poetica di Chiodi» [cf. articolo QUI] ―, alcune dichiarazioni del moralista Maurizio Chiodi sul lavoro della Commissione Pontificia che riprenderà in considerazione la enciclica Humanae vitae del Beato Pontefice Paolo VI in vista di una sua applicazione nel contesto ecclesiale e sociale contemporaneo.

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Come io e Padre Ariel abbiamo di recente spiegato, l’autorità dottrinale di questa enciclica non dev’essere né sopravvalutata ― quasi a farne un dogma ―, né sottovalutata, tanto da considerarla mutabile o, come disse Karl Rahner, addirittura sbagliata [cf. nostri precedenti articoli, QUI e QUI]. Al contrario, si tratta di dottrina infallibile, ossia assolutamente vera, immutabile e non falsificabile, benché, come ha precisato Padre Ariel nel suo recente articolo, non si tratti di dogma definito. Non è dottrina definita, eppure è definitiva, per esprimerci con la Lettera Apostolica Ad Tuendam Fidem del Santo Pontefice Giovanni Paolo II del 1998 e citata nell’articolo del Padre Ariel. Infatti, la materia della quale tratta l’enciclica è di etica naturale, che stabilisce la legge morale naturale, oggetto della ragion pratica, legge che, applicata o messa in pratica dalla virtù della prudenza, guida l’azione umana al conseguimento del suo fine ultimo naturale, ossia Dio sommo Bene dell’uomo.

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Tuttavia, come fa notare il Papa nella medesima enciclica, la Chiesa ha avuto bensì da Cristo il mandato di rivelare all’uomo la via della salvezza eterna, sicché i doveri cristiani sono oggetto di fede e possono essere dogmatizzati; ma, dato che l’osservanza dei precetti rivelati soprannaturali presuppone l’osservanza della legge naturale, oggetto del ragione naturale, la Chiesa ha anche il diritto-dovere di insegnare agli uomini anche i precetti della legge naturale, sprezzando i quali, gli è impossibile raggiungere la salvezza.

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Se la Chiesa volesse o lo ritenesse opportuno, potrebbe elevare a dogmi anche i doveri della legge naturale, ma non lo fa, dato che essi, per loro natura, sono comprensibili e dimostrabili per la semplice ragione naturale. Per questo il Papa motiva la proibizione degli anticoncezionali con argomenti razionali, accettabili anche da non credenti, purché uomini ragionevoli, benché il cattolico sia tenuto ad assoggettarsi alla prescrizione papale non con fede divina, come fosse un dogma definito, ma con fede ecclesiastica, che si addice alla dottrina della Chiesa. Tuttavia, l’eventuale rifiuto di obbedienza non costituirebbe vera e propria eresia, ma errore prossimo all’eresia. Dice infatti Paolo VI:

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«Nessun fedele vorrà negare che al Magistero della Chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale. È infatti incontestabile, come hanno più volte dichiarato i nostri Predecessori, che Gesù Cristo, comunicando a Pietro e agli Apostoli la sua divina autorità ed inviandoli ad insegnare a tutte le genti i suoi comandamenti, li costituiva custodi ed interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale, essa pure espressione della volontà di Dio, l’adempimento fedele della quale è parimenti necessario alla salvezza» [n. 4, vedere testo QUI].

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La legge naturale non ammette deroghe o eccezioni. Se esistono le condizioni della sua applicabilità, non si danno casi nei quali essa possa venir sospesa, come può capitare per un consuetudine o una norma positiva o convenzionale, che possa ammettere dispense o sospensioni o mutamenti o abrogazioni. Se essa è inapplicabile è solo perchè mancano le condizioni per essere applicata, condizioni che in certi casi si verificano.

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L’applicazione della legge naturale assomiglia alla soggezione logica assoluta dell’individuo alla specie o del particolare all’universale. Nessun caso può sfuggire o fare eccezione. Sarebbe assurdo pensare che possa esistere un uomo che non sia un animale ragionevole o che possa darsi la somma di 2+2 che non faccia 4. Infatti, la legge naturale è legge dell’agire dell’uomo come tale, dotato di una natura specifica, che è la stessa in tutti gli individui. Se un atto della legge naturale è buono, esso è sempre buono. Se un atto è cattivo rispetto alla legge naturale, è sempre cattivo. Non può darsi che un atto buono diventi cattivo o che un atto cattivo diventi buono. Adorare Dio od onorare i genitori o esser sinceri è sempre bene. Rubare o uccidere o fornicare è sempre male.

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Bisogna tuttavia notare che i valori morali sono ordinati gerarchicamente rispetto al sommo Bene o Fine ultimo, Dio, e che nella vita presente, segnata dal disordine e dalla conflittualità conseguenti al peccato originale, l’affermazione del valore superiore spesso non avviene in armonia con l’inferiore, ma a sue spese. Bisogna esser pronti, come dice Cristo, con forte linguaggio, che va rettamente inteso, ad «odiare» per Lui la propria anima, a rinunciare ad un occhio o a una mano, pur di poter entrare nel regno dei cieli. Occorre lottare contro il mondo e vincerlo. Per salvare la vita, occorre la morte. Ciò vuol dire, allora, che se un valore è assoluto, non ammette deroghe o eccezioni, ma il fatto è che, se questo valore impaccia od ostacola un valore superiore assolutamente necessario e vitale, non si tratta di fare un’eccezione alla regola, ma semplicemente di accantonarla per far spazio ad una regola superiore.

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La rivisitazione dell’Humanae Vitae da parte della Commissione Pontificia [cf. QUI] s’inquadra probabilmente in questo ordine di considerazioni, ma che non ci passi per la mente credere, come fa Chiodi, che la Chiesa s’incammini ad abbracciare quell’etica evoluzionista da lui prospettata, la quale fu già condannata dal Santo Pontefice Pio X nella Pascendi Dominici Gregis come del tutto contraria alla ragione ed alla fede.

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Critica alle posizioni  Chiodi

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Primo punto. Come riferisce Puccetti, la coscienza, secondo Chiodi «coincide con la totalità del sé (persona) ― Cartesio, la singola autocoscienza ― nella sua valenza insieme teoretica e pratica» [cf. QUI].

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Rispondiamo dicendo che la coscienza non coincide affatto con la totalità del sé o della persona. La coscienza è atto dell’intelletto riflesso, che è potenza della persona. Questa è sostanza spirituale, composta di anima e corpo, il cui essere supera l’essere della coscienza, che, da quanto risulta da quanto detto sopra, è soltanto un’emanazione o atto della persona, e quindi parte e manifestazione spirituale della persona. Quanto al sé, esso è la manifestazione del proprio io all’egli, che è la persona della quale si parla nella proposizione enunciativa, come quando per esempio dico: Cartesio era cosciente di sé. Quel è Cartesio stesso o meglio l’io di Cartesio così come appariva a Cartesio. Dunque il sé non è la persona, ma l’apparire intenzionale della persona a se stessa, nell’auto-coscienza della persona.

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Ma l’errore più grave di Chiodi, conseguenza del precedente, è che egli confonde la persona umana con la persona divina. Infatti non la persona umana, ma Dio stesso è Autocoscienza sussistente. Ciò fa comodo a Chiodi, perché egli, per sostenere che la dottrina dell’Humanae Vitae può cambiare, vorrebbe dar fondamento alla sua tesi proponendo un concetto di persona, per la quale la legge morale non è più stabilita immutabilmente da una volontà divina trascendente, alla quale l’uomo debba adeguarsi, ma è libera espressione della stessa volontà della persona umana come autocoscienza sussistente, pareggiata a Dio, e quindi come principio della stessa legge morale, il cui contenuto non è determinato da una volontà divina trascendente, creatrice e norma della natura umana, ma è lo stesso soggetto umano che determina la propria natura e per conseguenza la legge del suo agire. Invece la dottrina della legge naturale contenuta nella Humanae Vitae suppone la persona concepita come sussistenza di una natura umana singola, creata ad immagine di Dio, un soggetto sostanziale concreto, il cui agire, proposto alla ragione pratica ed attuato dalla volontà, è regolato appunto da questo comando pratico della ragione, che è la legge naturale, nota alla coscienza di ogni uomo, ed impressa nella ragione umana dalla Ragione divina.

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Secondo punto. Puccetti riferisce che Chiodi scrive che «le norme morali non sono riducibili ad una oggettività razionale, ma chiedono di essere inscritte nella vicenda umana, intesa come storia di grazie e di salvezza». Puccetti commenta dicendo che «con discrezione poetica Chiodi afferma la sua visione soggettivistica della moralità».

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Grave errore è quello di Chiodi, di sottrarre la norma morale al giudizio della ragione, per sostituire la funzione della ragione con la «vicenda umana», come se questa potesse essere umana senza la guida della ragione, non rendendosi conto che l’agire irrazionale non è quello dell’uomo, ma quello delle bestie. Vano e insensato, allora, in queste condizioni, continuare a parlare di «grazie» e di «salvezza», doni divini, che sono concessi non alle bestie, ma all’animale ragionevole.

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Terzo punto. Riferisce Puccetti che per Chiodi le norme morali «custodiscono il bene», ma precisa che si tratta di un bene «che si dà nelle esperienze della vita». Falso. Il bene morale, prima che nelle «esperienze della vita»,  è proposto da Dio alla ragion pratica illuminata dalla fede, partendo dall’esperienza sensibile. Se poi la volontà mette in pratica il bene concepito dalla ragione secondo il comando della virtù, allora, ma solo allora il soggetto fa esperienza del bene fatto o amato, compiuto nell’azione comandata dalla ragion pratica.

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Puccetti ha ragione nel rilevare che Chiodi rimarca così, di queste esperienze, «il carattere soggettivistico, non da perseguire come bene in sé, ma come bene esperienziato e com’è noto, ciascuno fa le proprie esperienze» [cf. Pascendi Dominici Gregis, testo QUI]. Infatti, il bene custodito dalle norme morali naturali si dà già da sé e di per sé nella loro intellegibilità e razionalità universale, astraendo dalle esperienze della vita e precedentemente ad esse, le quali, per essere moralmente buone, lecite e lodevoli, devono misurarsi su quelle norme, che altrimenti non sarebbero “norme”, ossia regole di condotta; devono, cioè, essere la loro applicazione fedele e concreta nelle varie circostanze e situazioni della vita, dopo essere state intellettualmente concepite e comprese nella loro universalità e razionalità.

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In sostanza, Chiodi concepisce l’agente morale che a suo dire soggiace alla dottrina della Humanae Vitae come un’autocoscienza irrazionale in una «vicenda umana, intesa come storia di grazie e di salvezza»: un personaggio mostruoso, metà divino e metà animale, come nella mitologia greco-romana, salvo ad essere soggetto ― non si sa come ― ad una «vicenda o storia di grazie e di salvezza», dal che risulta che Chiodi non sa né che cosa è la grazia, né che cosa è la salvezza.

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Chiodi sembra voler far soggiacere alla concezione morale della Humanae Vitae una visione dell’agire morale basato su di un concetto cartesiano di persona come autocoscienza, il cui dinamismo pratico, però, non è guidato, come in Cartesio, dal concetto razionale, e quindi dall’universale oggettivo, ma dalla tendenzialità storica ed esperienziale, ossia esistenziale e soggettiva, alla maniera di Heidegger, come osserva giustamente Puccetti. Si tratta dunque di un’azione basata non sull’essenza immutabile, ma sul divenire dell’auto-coscienza, fattore a sua volta di divenire e mutamento. Quello che conta è mutare e trasformare. Non c’è allora da meravigliarsi se Chiodi immagina che il Papa muterà la dottrina della Humanae Vitae. Ma si illude completamente, perché il Papa, qualunque Papa, anche Bergoglio, indicato come”papa rivoluzionario”, sa benissimo che la legge naturale è immutabile e non è un prodotto mutevole della volontà umana eretta ad auto-coscienza esistenziale. Ma Chiodi va avanti lo stesso e giunge così all’idea di un’etica senza una regola fissa, ma radicalmente trasformatrice, esistenziale, esperienziale e rivoluzionaria, sul tipo di quella di Nietzsche.

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Un’etica rivoluzionaria

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Per capire allora la radice prima della visione di Chiodi, fermiamoci sulla tematica della rivoluzione, oggi tornata di moda addirittura in rifermento all’insegnamento del Papa. La rivoluzione dunque comporta l’idea di una radicale trasformazione, di un profondo mutamento o rivolgimento. Esso può essere, è vero, sovvertimento, ma anche rinnovamento. Può comportare distruzione, ma anche conquista. Essa fa pensare alla violenza, ma anche alla forza rigeneratrice. Tuttavia, “rivoluzione”, nel senso più corrente ― riconosciamolo ― soprattutto sociale, non gode di una buona nomea; dice più un male che un bene. Dice novità, che non comporta però solitamente, come forse alcuni intendono, crescita, perfezionamento e progresso nel vero e nel bene già posseduti e conservati, ai quali si conferma la propria fedeltà, che viene così anzi rafforzata e accresciuta, mentre si abbandona il vecchio inutile, ci si libera dal male e si rompe col peccato e la falsità.  Ma per lo più la rivoluzione, nella concezione più radicale, consiste nella pretesa arbitraria e nichilistica di voler cancellare o annullare tutto il pensiero e i valori, se fosse possibile, tutto il reale precedenti già stabilmente trovati e fondati, per rifare tutto a proprio arbitrio e di propria volontà: quella che Nietzsche chiamava la «trasvalutazione di tutti i valori», effetto della «volontà di potenza». Il primo atto rivoluzionario dell’uomo, in questo senso, è stato il peccato originale.

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Notiamo allora che la forza velenosa e distruttiva del principio rivoluzionario non sta affatto nell’azione insurrezionale come tale, che in casi eccezionali è giustificata persino da San Tommaso d’Aquino [1] e dal Beato Pontefice Paolo VI [2] e non sta neppure in un radicale rinnovamento o palingenesi del pensiero e della vita, come avviene nella conversione dei grandi peccatori o è avvenuto nel passaggio dall’Antica alla Nuova Alleanza o avverrà alla fine dei tempi col Ritorno di Cristo: quella «ricapitolazione (apokefalàiosis) di tutte le cose», ad opera di Cristo, della quale parla San Paolo [cf. Ef 1,10]. Per questo, nella Bibbia, nella Tradizione, nei Padri, nel Magistero della Chiesa il termine “rivoluzione” non esiste o ha un senso spregiativo di rivolta, sedizione, sommossa, sovversione. Quello che forse più gli si avvicina in senso positivo è quello della metànoia, ossia quel salutare mutamento di pensiero e di condotta, alla luce della Parola di Dio, che viene tradotto col termine conversione, la quale crea il figlio di Dio e l’ «uomo nuovo», risorto con Cristo.

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Invece dobbiamo dire con dispiaciuta franchezza che purtroppo il discorso farneticante, opportunista ed adulatorio di Maurizio Chiodi si inquadra nel clima intellettuale ed emotivo, rivoluzionario in senso negativo, di crescente eccitazione collettiva e falsa devozione al Papa, fomentate dalle sinistre, che da alcuni anni si sta rapidamente diffondendo nella Chiesa, da quando Eugenio Scalfari, nella famosa intervista degli inizi del pontificato, ha lanciato l’elogio di successo del Papa rivoluzionario, [cf. video QUI] appellativo molto imprudente, che il Papa avrebbe dovuto smentire, cosa che purtroppo non ha. Così è accaduto che pochi giorni fa, il mito del Papa rivoluzionario, è stato rilanciato in grande stile addirittura da Antonio Spadaro ne La Civiltà Cattolica, col presentare il Papa come «il rivoluzionario che sta cambiando il mondo utilizzando il marxismo» [cf. QUI], guarda caso proprio in occasione delle trattative della Santa Sede col governo comunista di Pechino, mentre di rincalzo S.E. Mons. Marcelo Sánchez Sorondo, attuale Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, con incredibile sfrontatezza ha osato affermare che il regime cinese è «la migliore attuazione della dottrina sociale della Chiesa e dell’enciclica Laudato sì», suscitando le vive preoccupazioni e proteste di molti in Cina e all’estero, tra i quali spicca per autorevolezza e prestigio internazionale l’anziano e saggio Cardinale Joseph Zen Ze-kiun, coraggioso portavoce e difensore dei cattolici perseguitati in Cina [cf. QUI].

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Qualificare un Papa come “rivoluzionario”, come fosse un titolo di merito, vuol dire mancare di un sano criterio di giudizio, assumendo una categoria quanto meno profana, del tutto inadatta a far le lodi di un Papa. Sorprende poi ancora di più il fatto che il Papa si lasci tranquillamente qualificare in questo modo, senza almeno ridimensionare tale titolo sconveniente, ma quasi compiacendosene, cosa che non depone certo a favore della sua saggezza.

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Questa pericolosa infatuazione per la rivoluzione, ben contrastante col misericordismo e pacifismo di Jorge Mario Bergoglio, rischia di evocare tutti i fantasmi del passato: rivoluzione francese, rivoluzione russa, rivoluzione fascista, rivoluzione spagnola, rivoluzione maoista, fino alle innumerevoli rivoluzioni africane e sudamericane, culminanti in quella di Fidel Castro o di August Pinochet.

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La mentalità sessantottina

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Lo stesso Sessantotto fu una scriteriata rivoluzione, che introdusse nella Chiesa un principio dissolvente modernistico, sotto false apparenze di progresso e di applicazione del Concilio Vaticano II. Il messaggio del Sessantotto era fondato su di una visione hegeliano-marxista della realtà e dell’agire umano, che dà il primato al mutevole rispetto all’immutabile, esalta il cambiamento contro la fedeltà, il progresso contro la conservazione. Il messaggio del Sessantotto era che occorre «abbandonare le proprie certezze», tutto doveva essere messo in discussione, la libertà permissiva del «vietato vietare», l’immaginazione al posto della ragione mediante «l’immaginazione al potere», l’autoproduzione della cultura attraverso la soppressione dell’insegnante, con conseguente soppressione buonistica dei meriti, sino a giungere al “sei politico” ed al tutti promossi, aprirsi al nuovo rivoluzionario, inteso come rottura con la tradizione e rifiuto dell’immutabile.

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Tutto muta e Dio stesso muta.

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Dio non sta immobile lassù, minaccioso di castighi, ma diviene in noi e con noi. Non aggrapparsi a niente perché tutto passa. Niente è stabile, ma tutto diviene. La regola dell’agire è la storia e l’esperienza, è modernità assunta e vissuta, come dice Rahner, «nella sua totalità», senza discussioni e senza critiche alla luce di una verità immutabile, che non esiste. La Chiesa e il mondo si identificano. Tutta l’azione si risolve nel politico, ma nel contempo l’individuo è legge a se stesso. L’agire non dev’essere obbedienza a una legge astratta e immutabile, ma creazione concreta e storica sempre nuova della libertà nell’evolversi delle situazioni. La conseguenza ovvia del tutto fu il rifiuto del Magistero della Chiesa col suo monotono ripetere e proporre sempre le stesse cose, schemi vuoti, noiosi ed ammuffiti del passato, per ascoltare i nuovi profeti, che in realtà non erano altro che eretici e ciarlatani, i quali, spacciati come interpreti del Concilio, non facevano altro che riproporre sotto una verniciatura linguistica il brodo riscaldato del vecchio modernismo dei tempi di San Pio X, bevuto avidamente dalle folle hegelianamente adoratrici della storia, ma incapaci di apprendere le lezioni della storia. Così è successo che il Sessantotto ha introdotto nella Chiesa la psicosi, per non dire l’ossessione del cambiamento e del ”progresso”, che poi in sostanza, disgiunto dal rispetto per la tradizione sulla quale deve fondarsi, e che deve esplicitare e sviluppare, non è affatto progresso, ma egoismo, scetticismo, erotismo, relativismo, distruzione e nichilismo.

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Un patrimonio immenso di cultura teologica faticosamente e diligentemente elaborato dai padri nei secoli passati, da sempre raccomandato dalla Chiesa e dallo stesso Concilio Vaticano II, da conservare e custodire gelosamente e fedelmente e da consegnare alle future generazioni, è così stato dimenticato, dilapidato e rimasto chiuso ed inutilizzato ― quando è andata bene ― nelle biblioteche, a meno che adesso questi nuovi barbari non vogliano distruggere anche le biblioteche per sostituirle con la teologia narrativa di Topolino, Paperino, Pulcinella, i dischi volanti e Babbo Natale.

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L’affascinante alternativa teologica e spirituale, offerta dal modernismo più aggiornato, col suo sguardo rivolto al futuro della Chiesa, il suo pungiglione di rinnovata vita cristiana, aperta al soffio dello Spirito, sta offrendo ormai una molteplicità di chances e di imputs, dei quali posso citare qui solo alcuni esempi, come il nuovo corso della Congregazione per la dottrina della fede di non condannare più le eresie, ma solo il conservatorismo e la rigidezza; consentire a un luterano l’accesso al pontificato il progetto dei Vescovi italiani di osservare la regola del silenzio, ad imitazione dei Trappisti; l’idea del quotidiano Avvenire di dedicare una rubrica settimanale alla teologia della masturbazione; il progetto dei Gesuiti di sostituire alla Gregoriana al corso ormai vecchio, ripetitivo, stantio, consunto, astratto e superato sulla Trinità, un corso di laurea ben più attuale e coinvolgente di immigratologia; la decisione dei Domenicani di chiedere alla Santa Sede la nomina di Schillbeeckx a Dottore della Chiesa in occasione della prossima chiusura del convento di San Marco a Firenze; il permesso della Congregazione per il Culto Divino dell’uso della bicicletta in chiesa sull’esempio dell’Arcivescovo di Palermo e l’uso delle chiese per il riposo notturno degli omosessuali senza fissa dimora; la sostituzione, nella Messa, al Credo, assemblaggio incomprensibile di formule astratte e metafisiche, del ben più attraente e significativo Dolce sentire [cf. QUI, QUI]; elevare la pedofilia a libera espressione dell’amore;  porre Radio Maria sotto il controllo della Massoneria; la raccomandazione degli studi di S.E. Mons. Angelo Becciu sulla sapienza teologica di Marcione [cf. QUI]; ascoltare al registratore le lezioni di cristologia di Padre, Arturo Sosa [cf. QUI], o quelle di Andrea Grillo sulla Messa ecumenica [Cf. QUI], o quelle del Cardinale Walter Kasper sull’immutabilità del dogma e della morale, oppure le meditazioni sull’Eucaristia mangereccia di Ermes Ronchi [cf. QUI] o sull’Eucaristia erotica di Timothy Radcliffe [cf. QUI, QUI] o sull’Eucaristia del bottone di Manuel Belli, oppure il ciclo di conferenze di S.E Mons Nunzio Galantino su «Lutero, dono dello Spirito Santo» [cf. QUI] o di S.E. Mons. Vincenzo Paglia sulla spiritualità di Marco Pannella [cf. QUI], oppure le lezioni del Cardinale Gianfranco Ravasi sulla massoneria [cf. QUI, QUI] o le profezie di Enzo Bianchi sul carisma dell’omosessualità [cf. QUI, QUI], mentre i nostri politici cattolici dovrebbero fare un viaggio in Cina per constatare de visu la migliore applicazione della dottrina sociale della Chiesa o allearsi col partito della Bonino e della Cirinnà per la riforma dell’istituto familiare.

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Quel che invece oggi occorre con urgenza indilazionabile è smetterla una buona volta con questa unilaterale, faziosa, falsa, gretta, bolsa e dannosa retorica del ”progresso” e decidersi vigorosamente ad attuare un vero progresso, che ― come ci ricorda per esempio il teologo domenicano Servo di Dio Tomas Tyn ― non può che essere in armonia con la conservazione e il recupero dei valori immutabili, stabili e perenni, anzi eterni, che sono alla base della civiltà e del cristianesimo e che fondano un vero progresso, che non ci faccia ricadere nella barbarie.

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Non si tratta di tornare a ciò che è stato superato ed è ormai inutile, morto, inservibile o dannoso. Si tratta di ricostruire ciò che di valido è stato distrutto, di recuperare preziosi valori, ancora utili o sempre utili, che sono stati dimenticati. Con Cartesio ci si è illusi di rifare le fondamenta del pensiero già gettate dalla Bibbia e da  Aristotele. Ma questo è illusione e stoltezza, perché le fondamenta non sono dedotte, ma sono date. Su quelle si costruisce. È inevitabile usarle, anche se le si vuol distruggere. Saggezza vuole che le si usi semplicemente senza dubitare. Sono il modernista e il rivoluzionario che retrocedono e regrediscono, fino a tornare alla barbarie, proprio perché il nuovo che propongono è distruzione dell’antico da conservare. Chi invece si chiude a ciò che è autenticamente nuovo e avanzato, non ha ragione di appellarsi alla tradizione o all’immutabile, perché il nuovo autentico e benefico non è altro che conferma e sviluppo dell’antico. È chiaro d’altra parte che bisogna sapere che cosa può mutare e che cosa no. Si può anche ammettere, essendo benevoli nel linguaggio, una novità rivoluzionaria; ma quando ci viene annunciata, occorre verificare se si tratta di una novità autentica o è una bufala, confrontando l’enunciato col sapere certo e incorruttibile che abbiamo già acquisito.

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Una novità che contraddicesse anche duemila anni di credenza o pratica cristiana, non necessariamente è eretica o da respingere. Occorre verificare se essa si riferisce o no a valori umani o cristiani che possono mutare o cessare. Mentre le leggi naturali e divine non possono mutare, ma solo esser meglio conosciute ed applicate, le leggi positive e canoniche della Chiesa possono mutare per disposizione del Sommo Pontefice, anche fossero in vigore da duemila anni. Ma anche in tal caso sarebbe sconveniente parlare di un Papa “rivoluzionario”, ma tutt’al più riformatore o innovatore. Se poi ci si immagina che un Papa “rivoluzionario” possa mutare la legge naturale o divina, come per esempio dichiarare non più valida la dottrina della Humanae Vitae, vuol dire che si ha perso il senno.

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Così, il fatto che per duemila anni la Chiesa non abbia permesso alle donne di distribuire la Comunione o di leggere le Letture della Messa, non ha impedito alla Chiesa di dare oggi alla donna questo permesso, perché si tratta di un campo ― la potestas clavium ―, nel quale Chiesa può liberamente legiferare come meglio crede. Non è la durata temporale che fa l’autorità della tradizione, ma la sua fondatezza dogmatica o meno. Il permesso alla donna di dare la Comunione o di leggere alla Messa è Tradizione, anche se ha solo trent’anni di vita. Invece la tesi della mutabilità della legge naturale sostenuta da Chiodi è assolutamente inaccettabile non tanto perché contraddice a duemila anni di insegnamento della Chiesa, ma per il fatto che è filosoficamente errata e quindi prossima all’eresia.

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Purtroppo, invece, la mentalità sessantottina si riscontra nella pastorale del Papa attuale. Si spiega allora come di recente egli abbia potuto fare un elogio estremamente imprudente del Sessantotto. E il quotidiano Avvenire, di rincalzo, nel numero del 14 febbraio scorso, a pag. 21, ha avuto l’infelice idea di rievocare la simpatia per il Sessantotto che aveva il Cardinale Carlo Maria Martini, elogiandolo con queste parole: «L’Arcivescovo di Milano non si riferiva a valori o a princìpi, ma a pungiglioni nella carne del secolo» [cf. QUI], senza rendersi conto, l’infelice quotidiano, della pessima metafora adottata, giacché, per la verità, sono proprio i valori universali e perenni e i princìpi evidenti, incontrovertibili ed  immutabili, quelli che muovono l’intelligenza e la volontà alla verità e al bene, mentre i pungiglioni servono a smuovere la cocciutaggine dei somari. E, se vogliamo, il Sessantotto è stato effettivamente un “pungiglione nella carne del secolo”, che però, ben lungi da averlo beneficato, lo ha illuso, straziato e corrotto con la prospettiva di un falso rinnovamento, che finisce nel nichilismo.

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È sorprendente e doloroso constatare come ancor oggi, dopo ben cinquant’anni, nel corso dei quali sono apparsi i frutti amari di questa rivoluzione,  vi sia ancora chi si ostina ciecamente a percorrere una strada senza sbocco, anziché correggere la rotta e imboccare la via della vera attuazione del Concilio, rettamente interpretato e libero dall’ipoteca modernista, che è basata sulla falsa ed hegeliana contrapposizione fra essere e divenire, conservazione e progresso, tempo ed eternità. La vera attuazione del Concilio comporta, invece, la sapiente congiunzione di essenza ed esistenza, conservazione e progresso, fermezza e duttilità, astratto e concreto, stabilità e slancio, rinnovamento e fedeltà, metafisica e storia, movimento e saldezza, permanenza e sviluppo, identità e crescita.

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La forza sovversiva neomodernista, apparentemente affidabile ed innovatrice, ma in realtà illusoria e distruttiva, traeva origine ― come traspare dalle parole stesse di Chiodi ― dallo spirito cartesiano e luterano, maturato nell’hegelismo e nel marxismo, ed iniziò da allora con ferrea determinazione e crescente successo, non ostacolato da un episcopato dormiente, una scalata al potere ecclesiastico, che, iniziato negli ambienti operai e studenteschi, tra i teologi e gli intellettuali e nel basso clero, in anni recenti ha contaminato gli stessi vescovi, fino a giungere ai cardinali, agli stessi ambienti della Santa Sede e degli istituti accademici pontifici, senza che il Papato, benchè retto da degnissimi Pontefici, sia riuscito a fermare questa marea montante per mancanza di una sufficiente collaborazione da parte dell’episcopato.

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Il compito che oggi si impone per la Chiesa e il Santo Padre, è quello di conservare e sviluppare sia i buoni frutti del Concilio, sia di correggere le persistenti sue cattive interpretazioni e sia di recuperare i valori dimenticati. Lasciamo stare la rivoluzione. E’ sufficiente la “metànoia”, la conversione e la penitenza, moti dello spirito e della vita, sostenuti dalla grazia, ben più intelligenti, radicali e salutari della rivoluzione, giacchè questa si limita, quando va bene e non combina guai, ad operare in questa vita mortale, mentre quella opera in vista della vita eterna.

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Nessuno v’inganni con argomenti seducenti [Col 2,4]. La tua gente riedificherà antiche rovine, ricostruirai le fondamenta di epoche lontane [Is 58,12].

 

Varazze, 27 febbraio 2018

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NOTE

[1] Summa Theologiae, II-II, q.42, a.2, 3m.

[2] Cf. S.S. Paolo VI, Enciclica Populorum progressio del 1967, n.31. 

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