Gli studi televisivi di Mediaset sono quel «Monte» da sopra il quale, come prete e teologo, mi accontento di far brillare anche la luce di un solo fiammifero acceso, affinché brilli per … dritto e rovescio

— società e attualità ecclesiale—

GLI STUDI TELEVISIVI DI MEDIASET SONO QUEL «MONTE» DA SOPRA IL QUALE, COME PRETE E TEOLOGO, MI ACCONTENTO DI FAR BRILLARE ANCHE LA LUCE DI UN SOLO FIAMMIFERO ACCESO, AFFINCHÉ BRILLI PER … DRITTO E ROVESCIO

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Se in questo momento di grande crisi e decadenza ecclesiale ed ecclesiastica cerco di accendere anche un solo fiammifero, forse meriterei il sostegno da parte di quei cattolici che non sanno com’è fatto un monte, come ci si sale sopra e, soprattutto, come si accende un semplice ma prezioso fiammifero dallo studio televisivo di una Rete di Mediaset. Spesso a Dio basta davvero poco, perché anche attraverso la luce di un fiammifero, un’anima può decidere di essere salvata, attraverso quel misterioso dono della libertà e del libero arbitrio donato all’uomo dall’Eterno Creatore. 

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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puntata del 13 febbraio, ultimo blocco della serata. Per vedere la registrazione cliccare sull’immagine

È doveroso rispondere a coloro che non essendosi mai ritrovati dinanzi alla luce rossa di una telecamera che ti manda in diretta, mi hanno scritto per darmi consigli. Per rispondere è però necessaria una premessa che narri il “dietro le quinte”. Leggendo certi consigli si comprende come essi siano dati da persone che ignorano quella che è la complessa struttura della redazione di un programma televisivo ideato e condotto da ottimi professionisti di prim’ordine. Esempio: in un programma già pianificato da giorni possono subentrare cambi dovuti a imprevisti che impongono di montare un servizio in pochi minuti, rivoluzionando tutta la scaletta studiata nei precedenti giorni di meticoloso lavoro.

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Sullo schermo i telespettatori vedono Paolo Del Debbio che conduce, coadiuvato nello studio di trasmissione dal giornalista Giorgio Tosi che dà la parola a qualche membro del “pubblico parlante” per commenti o domande. Spesso vediamo sullo schermo i servizi di collegamento di Henri Kociu, altro bravo professionista che assieme alla brava Ilaria Mura e altri loro colleghi curano gli esterni da varie parti d’Italia. Pochi sanno però che per questi professionisti, realizzare collegamenti implica spostamenti, spesso lunghi viaggi, semmai per trasmettere in diretta le risposte a due domande rivolte a un singolo interlocutore, o per documentare, in quindici secondi, immagini che servono per supportare ciò che viene dibattuto in studio.

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Sempre da dietro le quinte ho assistito a un cambio dettato da un’emergenza improvvisa: nel corso della puntata del 17 gennaio Paolo Del Debbio fu colto da un malore dovuto a un problema alla gamba, sostituito seduta stante da Marcello Vinonuovo, responsabile della direzione e produzione del programma, che portò avanti l’intera diretta televisiva con tutta la professionalità a lui propria.

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Ho visto il giovane giornalista Edoardo Dallari destreggiarsi velocemente nel realizzare in pochi minuti un collegamento dallo studio di Milano all’Ospedale Spallanzani di Roma per consentire al conduttore di rivolgere domande a un insigne virologo, dopo che era giunta notizia di un nuovo caso di infezione da coronavirus. Inutile a dirsi: tra gli spettatori che seguivano da casa, nessuno può sapere o immaginare che lavoro comporti improvvisare da un momento all’altro un collegamento durato poi tre minuti, per non dire quante persone hanno lavorato per quei tre minuti di collegamento in diretta negli interni e negli esterni.

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Anche nella puntata del 6 febbraio il programma subì cambiamenti: fu necessario inserire in prima serata la notizia del Treno Frecciarossa deragliato a Lodi. Pure in quel caso furono improntati servizi e collegamenti in un breve spazio di tempo, cercati e poi prelevati e condotti in studio alcuni testimoni. Anche in quell’occasione mi trovavo in redazione per partecipare al programma e ho potuto assistere dal vivo a come il tutto si è svolto e con quale velocità e bravura professionale è stato realizzato. Questo per spiegare ai Lettori, nella mia veste di testimone e di partecipante, che dietro questo programma c’è un lavoro che pochi immaginano; lavoro che richiede le capacità di ottimi professionisti, posto che un incapace potrebbe recare in simili contesti danni enormi, specie a una società come Mediaset, che non beneficia di alcun canone televisivo coatto, che per intendersi equivale a dire: tu voglia o no, te lo metto … nella bolletta della luce, così devi pagarlo per forza.

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Mediaset vive di ascolti, di pubblicità. E per produrre quella pubblicità che produce danaro, sono appunto necessari gli ascolti. Questo complesso insieme di cose nelle quali mercato e informazione si fondono di necessità assieme, comporta regole precise che si estendono anche a coloro che partecipano in veste di ospiti o di opinionisti a questi programmi.

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Le persone della mia età ricordano come nacquero le tre reti televisive della Rai e come per anni andarono avanti. La Rai è sempre stata una azienda politicizzata nella quale il primo canale era della Democrazia Cristiana, il secondo canale del Partito Socialista, il terzo canale del Partito Comunista e dei suoi partiti amici di minoranza. Di conseguenza, fatte salve diverse figure professionali di indubbia eccellenza, questa Azienda di Stato ha sempre brulicato anche un esercito di incapaci e figure parassitarie che avevano come solo merito di essere gli amici degli amici di quel potente politico che li aveva piazzati alla Rai. Tutto questo, una grande azienda privata non se lo può permettere. Certo, anche la grande azienda privata assume l’amico dell’amico di quel potente politico, ma a patto che sia capace, perché pagando coi soldi propri e non con quelli pubblici, immettere al proprio interno incapaci o nullafacenti parassitari nelle grazie dei politici, non sarebbe un semplice danno, bensì un pericolo che potrebbe portare al vero e proprio fallimento.

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Una delle critiche a me rivolte è stata: «Perché non parli in modo elevato e teologico come fai in altri tuoi scritti o in diverse tue video-conferenze?». Altra critica: «Non devi animarti e alzare la voce». Infine il consiglio drastico e deciso: «No, non andarci più, perché non serve a niente, è tutto inutile» …

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Partiamo per ordine con le risposte: anzitutto faccio notare che in modo «elevato» e «teologico» non ci parlano più neppure i nostri attuali vescovi italiani, emblema triste di un episcopato precipitato in una mediocrità desolante, considerando che nella Chiesa italiana in particolare, il concetto di «amico dell’amico del potente» ― che nel nostro caso non è il «potente politico» ma il ben più dannoso potente vescovo o cardinale ―, è applicato in modo peggiore di come lo applicavano i vecchi democristiani, socialisti e comunisti con i loro uomini o con i loro parassiti nullafacenti piazzati alla Rai. Infatti, dall’alto delle cattedre delle loro chiese cattedrali, i nostri sommi maestri della fede e della dottrina ― casomai certi miei critici non lo avessero afferrato ―, lungi dal parlare dei grandi Santi Padri e Dottori della Chiesa e del loro sapiente insegnamento teologico, parlano ormai solo di migranti e di una carità annacquata e adulterata che niente ha da spartire con quanto insegna il Beato Apostolo Paolo [cfr. I Cor 13, 13]. Triste e amara verità: dai pulpiti episcopali anche più blasonati oggi è smerciato perlopiù un concetto mondano che niente ha da spartire con la virtù teologale della carità, molto invece col filantropismo suicida alla volemose b’bene.

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Chiarito che fare del bene non implica esercitare la somma virtù della carità cristiana, è necessario rammentare appresso che Cristo Dio, a coloro che praticavano il buonismo già nell’antica Giudea di duemila anni fa, disse in modo chiaro: «Non fanno così anche i pagani?» [cfr. Mt 5, 47]. E aggiunse: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» [cfr. Mt 5, 48]. Ossia: la carità non è nei vezzi emotivi del mondo, o in ciò che al mondo piace, risiede nelle azioni di grazia del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La fede, come ci insegna l’Autore della Lettera agli ebrei, lungi dall’essere impulso emotivo «[…] è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» [Eb 11, 1]. Dunque perché, in uno studio televisivo, dovrei fare quelle lectiones magistrales d’alta teologia che i nostri vescovi, nella loro conformistica e bassa arte omiletica, non fanno dai pulpiti delle loro chiese cattedrali durante le grandi solennità dell’anno liturgico, posto che il Santo Natale e la Santa Pasqua, da anni a questa parte, anziché essere le rispettive celebrazioni del Verbo di Dio incarnato e del Cristo risorto che sconfigge la morte, paiono diventate il teatrino emotivo-ossessivo della più mondana e filantropica migrantopoli?

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Nella puntata del 6 febbraio sono stato molto chiaro a spiegare in brevi parole che era necessario rivolgersi in modo semplice e comprensibile a un pubblico che in numero sempre maggiore, cattolici inclusi, non conosce più neppure i fondamenti del Catechismo. Un problema oggettivo e triste dinanzi al quale, pensare di poter fare «alta teologia» da uno studio televisivo, implica davvero vivere fuori dal mondo del reale, o perlomeno avere con esso un pessimo rapporto.

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I miei critici non hanno colto che al contrario di certi miei confratelli radical chic, negli spazi concessi non ho mai mancato di fare riferimenti alla dottrina, alla morale e al magistero della Chiesa, con le parole semplici e le frasi brevi che sono consentite non a me, ma a chiunque partecipi. Anzi, lamentare che «non ti hanno dato spazio per approfondire quel tema», come taluni hanno scritto, è cosa ingiusta e falsa. È vero infatti l’esatto contrario: mi hanno sempre concesso ampio spazio, assieme a un sincero rispetto tributato alla mia figura di sacerdote, sia in diretta sia dietro a delle quinte popolate di belle persone umane, con diverse delle quali ho stabilito rapporti di sincera amicizia, incluse persone che da molti anni non scambiavano una parola con un prete. Detto questo si tenga conto che il programma è diviso in quattro blocchi la cui durata è di circa 40 minuti ciascuno. Nel parterre ci sono solitamente dai quattro ai sei ospiti, ciascuno dei quali deve parlare almeno una volta. In questo lasso di tempo vi sono delle presentazioni al tema attraverso filmati introduttivi, vi sono quasi sempre vari collegamenti esterni, alcune persone che commentano o che rivolgono domande dal pubblico e alcuni stacchi pubblicitari. Qualsiasi mente dotata di comune buon senso e di minimo spirito di analisi, dovrebbe comprendere che se uno degli ospiti del parterre riesce a parlare per un totale di tre minuti, ha avuto davvero un grande spazio, a me peraltro sempre concesso, cosa di cui sono grato a Paolo Del Debbio e alla Redazione.

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Riguardo all’invito a me rivolto di «non urlare», desidero chiarire quelli che sono i meccanismi di una comunicazione veloce mirata di necessità all’essenziale. Anzitutto, animarsi e alzare la voce come ho fatto in alcune occasioni, non è stato un eccesso ma una necessità. Può infatti accadere che dinanzi a certi argomenti sensibili, uno o più interlocutori tentino di deviare dal tema allo scopo di non farti parlare, impedendoti di fatto di lanciare un messaggio, per esempio chiarendo che cosa insegnano a tal proposito la dottrina e la morale cattolica, oppure che cosa è realmente accaduto nella storia. In una situazione simile, se non mi prendessi il diritto di concludere un discorso o di replicare brevemente dicendo cosa è vero e cosa è falso, farei la figura del soggetto non solo cedevole, ma ometterei proprio di chiarire ciò che per la Chiesa è sbagliato. Detto questo si tenga conto che in quel delicato contesto, per coloro che mi ascoltano da casa, io non sono il libero professionista della propria personale opinione, ma un membro della Chiesa Cattolica e del suo Collegio Sacerdotale. Domando quindi ai miei critici così sensibili dinanzi a un prete che in caso di necessità si anima nel corso di un discorso: per voi, è più importante dire e chiarire cosa è giusto o sbagliato, cosa è vero o falso, oppure, per un’idea distorta di galateo clericale, tacere mentre uno o più interlocutori affermano cose fuorvianti o storicamente errate? Detto questo aggiungo: come sacerdote vivo in una Chiesa che sta attraversando un momento di terribile decadenza sul piano ecclesiale ed ecclesiastico. Una Chiesa all’interno della quale ho visto fin troppi preti, vescovi e cardinali mettere in atto ingiustizie e autentici abominî che gridano vendetta al cospetto di Dio, il tutto con sorrisi diafani impressi sui volti, voci mielose, toni contenuti e parole suadenti. È forse questo, il genere di clero “misurato” e “compassato” che piace a certi miei critici, o che certi miei critici augurano alla Chiesa di Cristo di poter avere o di seguitare ad avere?

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Le persone che mi hanno invitato a «non andare più», perché a loro dire «non serve a niente», sono gli stessi che poi si lamentano delle figure di certi sacerdoti mediatici del passato e del presente che, di piacioneria in piacioneria vanno a braccetto col mondo, al quale mostrano sempre accondiscendenza, costasse pure affermare, come più volte accaduto dinanzi a milioni di telespettatori: «… è vero, la Chiesa dice questo, però io la penso in altro modo, ho un’altra opinione». Ebbene, vi risulta forse che dinanzi al pubblico televisivo io abbia emesso anche un solo sospiro contrario alla dottrina, alla morale e al magistero della Chiesa? Sicché certi critici dovrebbero comprendere che se io non partecipo, dicendo ciò che è possibile dire entro tempi e regole degli spazi televisivi, la cosiddetta scena sarà solo calcata da quei preti in maglione e scarpette da ginnastica che danno al pubblico una immagine di sacerdote laicizzato e non propriamente edificante, il quale spesso e volentieri non trasmette quel che insegna la Chiesa, ma quello che pensa lui dall’alto del proprio egocentrismo, spesso purtroppo anche dall’alto della sua ignoranza sui fondamenti del Catechismo della Chiesa Cattolica, oggi tanto diffusa persino tra il nostro clero. A che vale dunque rinchiudersi, come fa il cattolico depresso, nel proprio ghetto fatto di madonnine e sedicenti veggenti che annunciano catastrofi imminenti, mentre fuori tutto crolla attorno a noi? Piuttosto invece bisognerebbe riflettere sulla profonda tenerezza che Cristo Dio provò per quella folla di persone che apparvero ai suoi occhi come pecore senza pastore:

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«[…] e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» [cfr. Mc 6, 34].

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Oggi più che mai, quante sono queste «pecore senza pastore» che da noi aspettano, anzi spesso implorano, solo una semplice parola di buon conforto?

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Cristo Signore ci invita con parole chiare a essere «la luce del mondo», ed a tal proposito ci spiega:

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«[…] non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» [Mt 5, 14-16].

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Non capisco davvero come certi cattolici leggano il Santo Vangelo, che non è un fenomeno da ghetto chiuso escluso dal mondo, è la luce del Verbo incarnato, come spiega il Beato Apostolo Giovanni nel Prologo al suo Vangelo, dove la luce è usata come metafora per indicare la «luce da luce» che è Cristo Verbo di Dio incarnato [cfr. Gv 1, 1-18]. E quella di Cristo non è una luce che si accende «per metterla sotto il moggio», cari cattolici depressi da ghetto, che tra madonnine e sedicenti veggenti che vi eccitano con annunci di catastrofi imminenti, dimenticate ― o forse non sapete ― che il Libro della Apocalisse del Beato Apostolo Giovanni racchiude al suo interno il più grande messaggio di speranza. Basterebbe conoscere il semplice significato delle parole: la parola di derivazione greca, apocalisse, significa “scoprire”, “svelare” ciò che è nascosto. Il messaggio apocalittico ci rassicura che il bene ha già vinto sul male, che Cristo Dio ha già trionfato. L’Apocalisse è il messaggio della gioia della fede, non delle cupe eccitazioni a uso degli irredimibili pessimisti cronici che abbondano anche nel Popolo Santo di Dio.

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Ciò che in doni di grazia mi è stato dato in luce da Cristo Dio che è «luce da luce», debbo farlo risplendere in tutti i modi, come sta scritto in quel severo monito che è la Parabola dei Talenti [cfr. Mt 25, 14-30]. All’occorrenza salendo tranquillamente con la mia lucerna sul «monte» di Mediaset e cercando di accendere anche un solo fiammifero dentro lo studio numero 11 dal quale sono trasmesse le dirette di Dritto e Rovescio condotte da Paolo Del Debbio e organizzate da una redazione di eccellenti professionisti. Perché, con i tempi che corrono, riuscire a far vedere al mondo anche la luce di un solo fiammifero, è un’autentica grazia di Dio, per chi come me prova cristologica tenerezza per tutti voi, che mi sembrate sempre più come «pecore senza pastore».

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Anche per questo sono grato agli amici della redazione del programma Dritto e Rovescio per avermi dato l’opportunità di essere me stesso, ossia un prete, di poter andare all’occorrenza contro le tendenze di questo mondo, di poter esercitare il diritto a quella scorrettezza politica che è tutta quanta scritta e indicata parola per parola dentro il Santo Vangelo, di cui sono maestro e annunciatore per sacro mandato ricevuto mediante consacrazione sacerdotale. Tutto questo in una società nella quale, del prete e della fede cattolica, si tende a dare ormai un’immagine grottesca e falsata. È infatti tristemente noto che noi, per meritarci di essere trattati in modo grottesco, abbiamo lavorato a lungo, dando spesso al mondo il meglio del peggio dell’immagine di Chiesa e di clero che potevamo dare. E oggi, il mondo, ci sta ripagando rovesciando il meglio del ridicolo sulle nostre peggiori miserie.

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Se in questo momento di crisi e decadenza ecclesiale ed ecclesiastica cerco di accendere anche un solo fiammifero, forse meriterei il sostegno da parte di quei cattolici che non sanno com’è fatto un monte, come ci si sale sopra e, soprattutto, come si accende un semplice ma prezioso fiammifero dallo studio televisivo di una Rete di Mediaset. Spesso a Dio basta davvero poco, perché anche attraverso la luce di un fiammifero, un’anima può decidere di essere salvata, attraverso quel misterioso dono della libertà e del libero arbitrio donato all’uomo dall’Eterno Creatore. 

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dall’Isola di Patmos, 17 febbraio 2020

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È in distribuzione il nuovo libro di Ariel S. Levi di Gualdo: Nada te turbe, un’opera di spiritualità sul martirio scritta in forma di romanzo storico e ambientata in un’epoca di feroce persecuzione della Chiesa. Opera che potrebbe edificare e aiutare molte persone, soprattutto in questo momento. Potete acquistarlo presso il nostro negozio dove sono disponibili tutte le nostre pubblicazioni [vedere QUI].

 

 

 

 

 

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