La Francia s’è desta e anziché verso l’idolo della laicité corre verso il fonte battesimale

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA FRANCIA S’È DESTA E ANZICHÈ VERSO L’IDOLO DELLA LAICITÉ CORRE AL FONTE BATTESIMALE

Nelle lettere inviate ai vescovi dai giovani francesi battezzati questa Pasqua in età adulta, essi parlano prima di tutto di un cammino personale, spesso iniziato nell’infanzia. «Cristiani non si nasce, si diventa» scriveva Tertulliano, al quale fa eco Sant’Agostino: «non è la generazione che fa cristiani, ma la rigenerazione».

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Ha suscitato stupore e gioia la notizia che durante le recenti Veglie Pasquali nelle chiese di Francia oltre 17000 persone hanno ricevuto il Battesimo.

Al di là del dato o di altre considerazioni che però esulano questo scritto, riporto soltanto un’informazione che emerge dai giovani di quel gruppo di battezzati: nelle lettere da loro inviate ai vescovi, essi parlano prima di tutto di un cammino personale, spesso iniziato nell’infanzia. «Cristiani non si nasce, si diventa» scriveva Tertulliano, al quale fa eco Sant’Agostino: «non è la generazione che fa cristiani, ma la rigenerazione»; infatti già nei tempi antichi il processo di catecumenato era lungo e in alcuni casi poteva durare diversi anni. Così, sempre fin dall’antichità, il periodo pasquale, scandito dalle sue domeniche, era divenuto il tempo della mistagogia, utile cioè a introdurre i neo battezzati nei misteri più profondi della vita cristiana. Per questo a loro, come agli altri cristiani, veniva offerto un cibo più solido, come quello contenuto nel testo evangelico di oggi, porzione del famoso capitolo 10 di San Giovanni, che presenta Gesù Buon Pastore. Come è stato scritto: «Nessuna immagine di Cristo nel corso dei secoli è mai stata più cara al cuore dei cristiani di quella di Gesù buon Pastore» (A.J. Simonis). Leggiamo il brano di questa Domenica:

«In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 27-30).

Per comprendere un po’ questi appena quattro versetti dobbiamo inquadrarli nell’insieme più ampio della sezione che va dal capitolo 7 al capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, nella quale si trovano. Gesù gravita attorno al Tempio per l’occasione della festa dei Tabernacoli (Gv 7,14). Abbiamo quindi un’unità di spazio, il Tempio di Gerusalemme, e di tempo, la festa che durava otto giorni, in particolare la metà della festa e soprattutto l’ultimo giorno della stessa che comprende la sezione più lunga dei capitoli giovannei (Gv 7,37-10,21) con all’interno la promessa dell’acqua viva dello Spirito, la rivelazione di Gesù luce del mondo, la guarigione del cieco nato e il discorso, appunto, sul Buon Pastore. Infine l’ultima parte del capitolo 10, che interessa i nostri versetti, si colloca sempre nel Tempio della città santa, ma per un’altra festa, quella della Dedicazione, tre mesi dopo gli eventi sopra elencati. Gesù si sta rivelando al mondo, ma in perenne contrasto con esso, in particolare coi giudei. E poiché a partire dall’esilio quelle feste avevano assunto una connotazione messianica ed escatologica il discorso sul Buon Pastore serve a Gesù per far capire il senso della sua opera messianica.

Dapprima Gesù definisce se stesso come «la porta delle pecore», una metonimia utilizzata per comunicare che Egli è effettivamente il nuovo recinto per le pecore ed il nuovo tempio. A differenza di quelli che lo hanno preceduto, in particolare di coloro che incarnano un falso messianismo, sia religioso che politico, quello di Gesù va nella direzione dell’amore verso le pecore. Con Gesù non sono asservite a nessuno, per questo le pecore «non li hanno ascoltati» quelli venuti prima (v. 8); possono uscire e soprattutto entrare attraverso di Lui, per avere vita, una vita che Egli come Figlio condivide in una perfetta e profonda comunione con il Padre. A questo punto Gesù dice di se stesso, marcando ancora di più il discorso: «Io sono il Buon Pastore» (v. 11).

Il tema del pastore, riservato al nuovo Davide, arriva dall’Antico Testamento dove diviene un elemento della speranza escatologica.  Ezechiele infatti fa dire al Signore: «Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore» (Ez 34,23). E l’aggettivo «Buono, Kalos», non ha qui una connotazione morale, quasi una qualità soggettiva di Gesù, perché ovunque nel quarto Vangelo si riferisce alle opere di Gesù (v. 32.33 e Gv 2,10: il vino buono delle nozze di Cana) e cioè lo caratterizza per ciò che porta agli uomini. Gesù è il Buon pastore perché «depone» (v.17-18) la sua vita per le pecore e instaura con esse rapporti nuovi di conoscenza reciproca: l’aggettivo mira dunque a mettere in luce l’opera salvifica compiuta dal Pastore messianico.

Senza esagerazione si può affermare che tutto il capitolo sul Buon Pastore e quindi anche i versetti del Vangelo di questa Domenica costituiscono una vera e propria sintesi della teologia giovannea. Quel che colpisce è che questa teologia non è esposta solo in un discorso astratto o teoretico, ma prende avvio da una situazione storica e concreta della vita di Gesù. La situazione storica è quella della rivelazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme durante la celebrazione di una festa solenne che si conclude con la guarigione del cieco nato che porterà ad una discriminazione degli uomini di fronte a Gesù. Da una parte i credenti, rappresentati dal cieco, guarito da Gesù; dall’altra i giudei che hanno respinto la luce del mondo. Il discorso sul Buon Pastore è un parlare simbolico attraverso il quale Gesù lascia intendere che sta conducendo fuori dal recinto del giudaismo le sue pecore, alcune appartenenti a quell’ovile ed altre verranno in seguito, i cosiddetti gentili, al fine di costituire un nuovo gregge, la comunità messianica.

Lui, Gesù, sarà la porta delle pecore, quella che da accesso alla salvezza e sarà il Buon Pastore che comunica la vita in abbondanza.  La docilità delle pecore nei confronti del Pastore è espressa dalle parole «ascoltano la mia voce». Questa formula riceve qui un senso più profondo rispetto a quello di una semplice attenzione come poteva essere al v. 3 dell’inizio, poiché esprime la futura docilità delle pecore, ormai uscite dal recinto, verso il pastore Gesù che le condurrà. Nel corso della Passione Gesù dirà che per ascoltare la voce si deve «essere dalla verità» (Gv 18,37) e la ragione di ciò è ovvia: la docilità delle pecore verso il Pastore è infatti un frutto della fede, è essenzialmente ormai una realtà della Chiesa dei tempi messianici.

Queste pecore sono «sue», hanno dunque una relazione speciale con Lui, intessuta di libertà, ed Egli le conosce e questa reciproca conoscenza è a immagine di quella esistente fra Gesù ed il Padre (vv.14-15). Non si tratta di una conoscenza in senso greco, ti tipo intellettuale, ma biblico, ovvero relazionale ed esistenziale. Conoscere nella Bibbia vuol dire avere dell’oggetto un’esperienza concreta e conoscere qualcuno significa entrare il rapporti personali con lui. Qui si parla della relazione e dell’intimo possesso di Gesù delle sue pecore: «Il Signore conosce i suoi» (2Tim 2,19). Solo qui, per due volte nel capitolo 10 di San Giovanni, si dice che Gesù conosce i suoi per significare che questa particolare «intelligenza» è una conoscenza di amore in virtù della quale Gesù invita i suoi a seguirlo ed essa si esprime nel dono della vita eterna, che non inizierà dopo la morte, ma già da ora. I discepoli conoscono Gesù e la loro conoscenza scaturisce dalla loro fede in Lui (cfr. Gv 14,7.9). Poiché essa implica la comunione con Cristo e, grazie a Lui, con il Padre, costituisce l’essenza stessa della «vita eterna», della partecipazione alla vita stessa di Dio (Gv 17,3). Già all’inizio del Vangelo Giovanni Battista aveva detto di Gesù: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35); ora qui è Gesù stesso che afferma delle pecore sue: «nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Così la nuova comunità non è più un recinto del tipo di quello che le pecore hanno abbandonato, ormai è una comunione, consiste nella conoscenza reciproca tra le pecore ed il Pastore, nei loro rapporti personali con Lui, e, tramite Lui, con il Padre. E poiché l’opera compiuta dal Figlio non è che l’esecuzione della volontà del Padre, dobbiamo affermare che il Padre stesso è contemporaneamente origine e termine di tutta l’opera della salvezza.

Siccome ho parlato, a proposito di questo capitolo di San Giovanni, di sintesi teologica, possiamo affermare senza dubbio che la figura del Buon Pastore riunisce qui nel Vangelo temi di cristologia, ecclesiologia e soteriologia che si richiamano a vicenda, ma tuttavia è la cristologia a operare l’unità di tutto l’insieme. Si vede ancora una volta come l’insieme del quarto Vangelo ha come fondamentale centro di interesse la persona del Cristo.

Dall’Eremo, 11 maggio 2025

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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