I divorziati risposati e quei teologi che strumentalizzano la “Familiaris consortio” di San Giovanni Paolo II
I DIVORZIATI RISPOSATI E QUEI TEOLOGI CHE STRUMENTALIZZANO LA FAMILIARIS CONSORTIO DI SAN GIOVANNI PAOLO II
.
La Familiaris consortio, appunto perché tocca solo il foro esterno, non sfiora neppure la questione in esame, caratteristica del foro interno, ossia della condizione o dello stato o del dinamismo interiore della volontà dei conviventi e lascia quindi aperta la porta alla legittimità della discussione in atto nel Sinodo, se, in certi casi gravi, ben precisati e circostanziati, con forti scusanti, i divorziati possano o non possono accedere ai Sacramenti.
.
.
. Pat
Nota introduttiva — I Padri dell’Isola di Patmos non fanno “polemica”, ma il loro “mestiere”: diffondere e difendere la dottrina e il Magistero della Chiesa. Nell’affrontare gli ultimi temi trattati su queste nostre colonne telematiche, Giovanni Cavalcoli ed io ci siamo trovati a essere attaccati da laici intransigenti e sedicenti cattolici che mostrano inquietante propensione a confondere la politica con la teologia, i quali ci hanno bordato accuse di eresia, incluso l’essere eretici modernisti e diffusori di dottrine moderniste. E come tutti gli addetti ai lavori sanno, il modernismo, secondo la definizione oggi più che mai attuale del Santo Pontefice Pio X, non è una semplice eresia, ma la sintesi di tutte le eresie. Appresso hanno fatto seguito articoli firmati dall’utile testa di legno che ha speso il proprio nome per sostenere motivazioni ad esso fornite da un teologo, il quale poteva procedere in prima persona nell’esporre teorie legittime, che però costituiscono contraddizioni in termini nell’ambito delle discipline dogmatiche, di quelle morali e del sentire pastorale impresso nei principali documenti degli ultimi cinque decenni di magistero. Che dire poi del rigore “morale” usato in modo tutto politico su temi variamente legati alla delicata sfera della sessualità umana, per opera di soggetti che non mostrano interesse a tenere in considerazione i princìpi di umanità ed i criteri fondanti della carità cristiana, specie di fronte a situazione di sofferenza umana che reclamano sempre attenzione e rispetto, oltre alla ricerca di soluzioni che competono al sapiente ministero della Chiesa, non alle supposte pretese di chi urla più forte nel tentativo di mutare in dottrine dogmatiche le cieche opinioni del proprio “io“. A inquietarci non poco sono stati scritti e interventi intrisi di rigore farisaico dai quali emerge lo spirito di un’eresia antica ma sempre insidiosa: il manicheismo. Ecco il motivo di questa nuova risposta data da Giovanni Cavalcoli, che non chiama per nome il suo interlocutore per il rispetto ch’egli intende tributare alla libera scelta di chi ha deciso di presentarsi attraverso dei prestanome anziché in prima persona. Personalmente colgo l’occasione per rendere grazia a Dio per avermi donato il privilegio dell’amicizia di un galantuomo sapiente come Giovanni Cavalcoli, al quale sono legato in divina parentela fraterna dal Sangue Redentore di Cristo Signore attraverso il Sacro Ordine Sacerdotale.
Ariel S. Levi di Gualdo
.
Caro Confratello.
Rispondo alle tue obiezioni alle mie idee sulla questione dei divorziati risposati. Tu mi addebiti «la falsa teoria secondo la quale la considerazione pastorale e canonica dei divorziati risposati come di fedeli tenuti a uscire dal loro «stato di peccato» sarebbe un errore teologico e un «giudizio temerario». Tu sai benissimo che quella non è una mia opinione ma la dottrina di san Giovanni Paolo II ― Familiaris consortio e Veritatis splendor ―, per di più riguardante il foro esterno e non la coscienza dei singoli (ossia, il foro interno, dove la guida e il consiglio sono affidati alla prudenza del confessore), in linea peraltro con la tradizionale dottrina circa lo “stato di grazia” (e del suo contrario, riscontrabile anche recentemente negli studi di teologia morale di teologi e Pastori come il Cardinale Carlo Caffarra, che tu ben conosci.
Rispondo col dirti che vedo chiaramente che tu mi ha frainteso e dovresti accorgertene anche tu. Infatti, se tu leggi bene che cosa ho scritto, come anche i miei recenti interventi sull’Isola di Patmos, quello che io definisco «giudizio temerario», non è affatto «la considerazione pastorale e canonica dei divorziati risposati come di fedeli tenuti a uscire dal loro “stato di peccato”», ma bensì la pretesa da parte di alcuni di ritenere che certi conviventi, che per il momento non possono uscire dal loro stato illegittimo e irregolare, si trovino necessariamente in uno stato permanente, inespiabile ed insopprimibile di colpa mortale, quasi che fossero privi del libero arbitrio e la grazia perdonante non esistesse. Questo è un giudizio allucinante di chi non sa né che cosa è il libero arbitrio né che cosa è la grazia. Infatti, l’incentivo al peccato non è ancora il peccato. L’incentivo può essere non voluto, inevitabile ed invincibile. Il peccato è invece un atto voluto, evitabile e vincibile. Altrimenti, facciamo come Lutero, che confondeva la concupiscenza, che è solo tendenza a peccare o desiderio di peccare, col peccato, cadendo con ciò sotto la netta condanna del Concilio di Trento.
Da questa eresia di Lutero sorge tanto il rigorismo che il lassismo. Infatti, come si sa, la concupiscenza è invincibile. Che si dice allora? Si possono fare cose: o accusare farisaicamente ed implacabilmente di peccato a tempo pieno, come fosse un’anima dannata, chi, per questo semplice fatto, è sotto lo stimolo della concupiscenza. Oppure ci si scusa ipocritamente dal peccare, perché si dice: «Non sono io a peccare, ma è la concupiscenza che mi fa peccare. Quindi io non ho colpa e posso continuare a peccare. Dio è buono e mi perdona sempre».
I conviventi certamente sono tenuti, se possono, a interrompere la loro relazione, che costituisce per loro una tentazione forte e continua al peccato. Ma non sempre questa interruzione è possibile, anche nonostante ogni buon volere, e questo per cause di forza maggiore ed anche per ragionevoli motivi, come è noto in certi casi particolari intricati e complessi, dove occorre tener conto di dati oggettivi ineliminabili, per esempio la presenza di figli od obblighi civili o vantaggi economici o il convivente ammalato. In tal caso i due si trovano in uno stato di vita che certo permane, ma questo non vuol dire che si trovino necessariamente in uno «stato di peccato» permanente, se con questa espressione intendiamo il rimanere prolungatamente e volontariamente nella colpa. Infatti, in forza del liberto arbitrio e dell’azione della grazia, essi possono in qualunque momento e in qualunque situazione o condizione, interiore o esteriore, attuale o abituale, ambientale o psicologica, giuridica o morale, anche molto sfavorevole, annullare la colpa e tornare in grazia, senza che ciò richieda un’impossibile interruzione della convivenza e senza la pratica del sacramento della penitenza, che è stato loro negato. Dio, infatti, come tu sai bene, può dare la grazia anche senza i Sacramenti.
La Familiaris consortio, appunto perché tocca solo il foro esterno, non sfiora neppure la questione in esame, caratteristica del foro interno, ossia della condizione o dello stato o del dinamismo interiore della volontà dei conviventi e lascia quindi aperta la porta alla legittimità della discussione in atto nel Sinodo, se, in certi casi gravi, ben precisati e circostanziati, con forti scusanti, i divorziati possano o non possono accedere ai Sacramenti.
Giovanni Paolo II si limita a ribadire la norma vigente, espressione di un’antichissima tradizione, sia pur corredandola di alti motivi teologici. Ma trattandosi di norma certo fondata sul dogma, ma non necessariamente connessa con esso, questo insegnamento del Papa non è da considerarsi immutabile, come non lo sono generalmente le norme positive, giuridiche e pastorali della Chiesa, senza che ciò comporti un insulto al dogma sul quale si basano. Infatti, un medesimo principio morale può avere diverse applicazioni. Non sarebbe saggio né prudente attaccarsi ostinatamente ad una sola delle possibili applicazioni, per il semplice fatto che essa si fonda su di un valore assoluto, il quale, viceversa, ammette una pluralità di diverse applicazioni, salvo restando il principio.
Ora, il timore di alcuni che un mutamento della disciplina vigente possa intaccare il dogma, è infondato, perché l’attuale normativa non è così connessa al dogma come fosse la conclusione di un sillogismo dimostrativo, dove la premessa sarebbe il dogma; ma la detta normativa ha solo una connessione di convenienza col dogma, tale da ammettere anche altre possibili conclusioni. Similmente, dal proposto di vivere cristianamente ― valore assoluto ed irrinunciabile ― non discende necessariamente soltanto la vita laicale, come credeva Lutero, ma può scaturire anche la scelta sacerdotale o religiosa.
Così in teologia, tu me lo insegni, il teologo, quando spiega un dogma, non adduce ragioni necessarie del contenuto dogmatico, perché il dogma non si può dimostrare razionalmente, ma avanza motivi di convenienza, che rendono il dogma conciliabile con la ragione, e che ammettono altre possibili spiegazioni. Se invece il dogma si potesse dimostrare razionalmente, non esisterebbe altro che una sola conclusione dimostrativa ― la verità è una sola ―, mentre ogni altra sarebbe falsa. Quindi ci sono consentiti ed anzi possono essere utili la discussione e il contradditorio, ma nel rispetto reciproco delle nostre opinioni, ed evitiamo per ciò di assolutizzare la nostra personale opinione facendola passare per “dottrina della Chiesa”, come se quella contraria fosse contro il dogma. Altrimenti, se il Papa deciderà che si conceda la Comunione ai divorziati risposati, che diremo? Che il Papa è eretico? Che è cambiata la dottrina della Chiesa?
.
Varazze, 23 ottobre 2015
.
_______________________________
cliccando sopra al logo di inBlu Radio, potete aprire e ascoltare l’intervista radiofonica fatta a Giovanni Cavalcoli il 22.10.2015
.
.
.
.
Rev. Padre,
avevo già segnalato gli scritti sul tema di Padre Michelet, discorde nelle posizioni , ora Magister ne propone un nuovo.
Sinodo discorde. Verso uno “scisma di fatto” nella Chiesa?
Il teologo domenicano Thomas Michelet mette a nudo le ambiguità del testo sinodale. Che non ha fatto unità ma ha coperto le divisioni. Il conflitto tra “ermeneutica della continuità” ed “ermeneutica della rottura”. Il dilemma di Francesco
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351170
Se nel pensiero di padre Cavalcoli la eventuale concessione della comunione ai divorziati risposati dovrebbe essere comunque vincolata alla previa confessione, si potrebbe parlare di un ipotetico “accesso alla confessione” come sinonimo di “accesso alla comunione” – forse sarebbe meno irritante per molti che leggono, e quindi potrebbe aiutare a capire (posto che l’irritazione ostacola la riflessione).
Caro Andrea.
Secondo le norme generali della Chiesa, la Confessione è condizione necessaria per fare la Comunione, se il soggetto si trova in uno stato di peccato mortale.
Nelle condizioni ordinarie di una normale vita cristiana, il peccato mortale può essere evitato anche per lungo tempo. Restano invece i peccati veniali, che sono frequenti ed inevitabili. Tuttavia, possono essere tolti anche con atti penitenziali personali, anche senza la previa Confessione.
In ogni caso, la Chiesa approva e consiglia la Confessione frequente, anche se vi sono solo peccati veniali. D’altra parte, anche una Comunione ben fatta è sufficiente a togliere i peccati veniali.
Questa regola comune potrebbe essere estesa anche ai divorziati risposati, una volta che il Papa decida di accordar loro i sacramenti.
Si parla solo di “Comunione” per queste coppie, in quanto la Comunione, che è comunione sacramentale con Dio e con i fratelli, comunione con la Chiesa, come dice la parola, corrisponde al vertice ed alla pienezza della vita di grazia: fons et culmen totius vitae christianae, come dice il Concilio Vaticano II.
Ma è chiaro che, se la coppia è ammessa alla Comunione, è perchè è ammessa alla Confessione.
Tuttavia, parlare della Confessione da sola non è così chiaro come parlare della sola Comunione, perchè questa suppone quella, ma quella non dice ancora necessariamente questa, benchè quella abbia per fine questa.
La concessione dei sacramenti a queste coppie sembra d’altra parte poter offrir loro un notevole vantaggio, così come un aumento di supporto terapeutico risulta utile nei casi di frequenti cadute in un certo stato morboso. Non per nulla la teologia morale tradizionale parla di grazia sanante o medicinale.
Proprio perchè la coppia si trova in una situazione pericolosa, c’è da immaginare che essa possa cadere spesso nel peccato mortale, sicchè il soccorso di un supplemento di grazia può difenderla di più dal peccato.
Il che naturalmente non dispenserebbe la coppia dal dovere di rafforzare l’impegno morale, evitando quella sottile forma di tentazione d Dio che conduce gettarsi nel precipizio con la vana speranza nell’aiuto divino.
Rev. Padre Cavalcoli,
il suo confratello Fr. Riccardo Barile OP in questo articolo del 29-10-2015:
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-leucarestia-il-peccato-e-la-coscienza-note-oltre-il-sinodo-14237.htm
pur usando estrema delicatezza nei suoi riguardi, confuta quanto da Lei qui pubblicato e ribadito poi nelle interviste.
Una singolar tenzone d’altri tempi, una disputazione teologica difficile da dirimere.
è probabile che il Padre Giovanni Cavalcoli gli risponda punto per punto …
Ma insomma, fatemi capire, aveva ragione Kasper?
‘Nnamo bbene. Proprio bbene!
Caro Giacarlo.
Le faccio capire subito ripetendo quanto già detto: nessuno ha ragione, nessuno ha torto, nessuno ha vinto e nessuno ha perso, anche perché non sono queste questioni di vincita o perdita, ragione o torto.
Per adesso nulla è stato in alcun modo corretto o modificato dell’attuale prassi che resta quella, tale e quale, a meno che il Santo Padre, nella sua Esortazione Apostolica, che è tutta quanta da scrivere, non decida diversamente.
http://www.fidesetratio.it/28.10.2015-monsignor-livi-risponde-a-padre-cavalcoli-e-don-ariel-levi..html
Grazie.
Appena avremo tempo lo leggeremo con grande interesse.
Il Sinodo è giunto alla conclusione. Meno eclatante del previsto.
Della vexata quaestio si parla solo ai paragrafi 84,85 e 86, senza mai citare la parola Comunione.
Sulla carta, apparentemente, nulla di cambiato, rispetto agli insegnamenti di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, Nel confessionale, con lungimirante prudenza, il sacerdote aiuterà il penitente a discernere esaminando in rassegna la propria vita e a consigliarlo per fargli ritrovare la “salutem animae suae”, la pace con Dio, via, verità e vita. Giustappunto quanto professiamo, pentimento, misericordia e perdono per i peccati nostri e dei nostri fratelli, e come dovremmo implorare nelle nostre preghiere affidandoci all’intercessione di Maria, Refugium peccatorum, Consolatrix afflictorum,
A mio modesto parere, del tutto personale e soggettivo, e che come tale esprimo, penso che nessuno, in queste ultime settimane di “fuoco sinodale” (reso fuoco all’esterno e dall’esterno), abbia fatto il servizio che avete fatto voi con i vostri articoli equilibrati, illuminanti e soprattutto pieni di tanto buon senso cristiano.
e di questo non penso d’esser l’unico a ringraziarvi.
“se il Papa deciderà che si conceda la Comunione ai divorziati risposati, che diremo? Che il Papa è eretico? Che è cambiata la dottrina della Chiesa?”
Riprendo una osservazione fatta qualche giorno fa, persa per un motivo tecnico, come mi ha spiegato Don Ariel. È ben documentato, nella storia della Chiesa, che qualche Papa applicò atti di governo sbagliati (Liberio durante l’eresia ariana), altri avrebbero voluto approvare riforme teologiche che sarebbero state errate (Giovanni XXII). Quest’ultimo espresse un’idea erronea sul giudizio delle anime, per tre volte in tre omelie; fu sottoposto alla Santa Inquisizione e ritrattò. Cosa è successo nel frattempo tanto da poter categoricamente escludere questa eventualità?
A Don Andrea vorrei far presente che chi sta esprimendo critiche non sono solo un paio di siti, né un paio di comunità. Ci sono vescovi e cardinali che hanno evidentemente esperienze pastorali (in ambienti anche molto difficili, come in certi paesi africani) e scritto libri a proposito. Non sta nei fatti voler ridurre tutto a una banda di “iper-conservatori”.
Caro Fabrizio.
I rarissimi casi nei quali può sorgere il dubbio che il Papa possa avere errato nell’interpretare la Sacra Tradizione, son ben noti agli studiosi seri, e sono stati attentamente vagliati, cosa che lei può verificare consultando una buona storia dei Papi o l’Enciclopedia Cattolica o un buon trattato di Apologetica: non bisogna quindi dare ascolto ai sofismi e alle falsità di modernisti come Hans Küng o di certi tradizionalisti, che non sanno che cosa è la Sacra Tradizione, e che su di essa tendono a fare e seminare confusione.
Si tratta di casi che, per lo più – come appunto lei dice -, non toccavano la dottrina, e quindi l’interpretazione della Tradizione, ma il governo della Chiesa, dove certamente il Papa non è infallibile.
Quanto a Giovanni XXII, fu effettivamente un caso di errore dottrinale, ma che egli sostenne non come Papa, ossia maestro della fede, ma come dottore privato, dove anche il Papa può sbagliare. E del resto si ritrattò.
Reverendo Padre, quanti problemi sarebbero evitati, se i politologi facessero i politologi e non i teologi, e se i teologi facessero i teologi e non i politologi. E che dispiacere, vedere voi, che fate i teologi, finire gonfiati a bastonate come zampogne di natale!
Gentile Daniela, anche noi abbiamo le nostre colpe: una volta, i laici, con la sola esclusione di quelli preposti al servizio dell’altare, non potevano oltrepassare lo spazio della balaustra, davanti alla quale si inginocchiavano al momento opportuno per ricevere la Comunione. Ricordo che nel 1975 (avevo 30 anni ed ero prete da 4 anni), venne il vescovo ad amministrare le cresime nella piccola parrocchia di cui da 2 anni ero parroco, una piccola e caratteristica chiesa di montagna, tenuta dai fedeli come un gioiello, chiesa del ‘400 rifatta all’interno nel ‘700, in uno stile barocco molto sobrio, a navata unica. Il vescovo disse che “andava tolta la balaustra”, perché “era un segno di divisione tra presbitero e fedeli”, e che “andava voltato l’altare verso il popolo”. Io risposi che, la balaustra, mi avevano insegnato fosse un “segno di rispetto” e non un “segno divisorio”, e aggiunsi che era impossibile sostituire l’altare a oriente che con la balaustra formava, nel piccolo presbiterio, un blocco unico di marmo pregiato.
Due anni dopo fui spostato in una parrocchia più grande, in città, e il mio successore, appena giunto, demolì la balaustra e fece smontare l’altare di marmo, sostituito con una “tavola da bar”, come dissero i fedeli. E la chiesa fu irreparabilmente danneggiata, con la gente e il consiglio comunale che protestarono presso il vescovo per quello scempio. Se infatti fosse stato possibile voltare l’altare verso il popolo, senza danneggiare la chiesa, lo avrei fatto io stesso.
Spesso ho usato l’immagine di quella balaustra per spiegare che è stato “abolito” il rispetto, che sono stati aboliti “i ruoli”. Lo disse il card. Ratzinger prima e poi Benedetto XVI dopo (cito a memoria): “Si sta assisento a una laicizzazione dei chierici e ad una clericalizzazione di laici”.
Oggi ho 70 anni, sono prete da 44, e da sempre sono parroco, e penso di poter dire, con desolazione, che certi fedeli, anche giovani, che giungono in chiesa un giorno alla settimana, ti si “impogono” proprio, sul presbiterio, e, ragazzi e ragazze, di cui io potrei essere nonno, ti vengono a dire cosa vogliono fare loro, e cosa devi fare tu, e come lo devi fare.
La vera balaustra (che era un segno di rispetto), non era, quindi, quella visibile, quella in marmo, che volendo poteva anche essere tolta (a patto che ciò non deturpasse la struttura architettonica naturale delle chiese), la vera balaustra era quella invisibile, e quel genere di balaustra, non doveva essere tolto.
E sia chiaro: tutto questo non ha niente a che fare con il Vaticano II, ma con la sua cattiva applicazione, o con la sua mancata applicazione.
Don Bruno
Rev. e caro Don Bruno.
Prendo questa sua risposta, di cui mi sento onorata, come delle perle di saggezza donate a chiunque voglia ascoltare e capire il mondo del reale.
Un profondo ringraziamento.
Quelli che parlano nei toni in cui parlano i “laici”, e ribadisco ancora “i laici”, di Riscossa Cristiana e di Corrispondenza Romana, et similia et similia … et cetera et cetera … a parte lo spirito impietoso e duro del linguaggio, non hanno proprio la più pallida idea che cosa sia, ad esempio per un sacerdote parroco, il delicato contatto con la concreta, con la reale dimensione pastorale, nei rapporti con i singoli e la comunità dei credenti. Questi personaggi parlano di una chiesa che non esiste, e di una pastorale davanti alla quale impallidirebbe il codice penale di un regime dittatoriale. Il problema, non è quello che certe persone esprimono, ma la confusione che fanno, le anime che disorientano, e anche, soprattutto, le accuse che lanciano ai sacerdoti ed ai teologi preparati ed equilibrati come voi.
Sincera grazie, Padre Giovanni.
Caro Padre, il farisaismo è una malattia talmente grave dalla quale nemmeno Gesù riuscì a curare e guarire molti che ne erano affetti, stando ai vangeli. Interessante, e inquietante, perché vero, ciò che sostenete entrambi, lei e padre Ariel, riguardo il rigurgito di manicheismo.
Caro Padre Giovanni, un caso concreto: una mia parrocchiana sposò in giovane età un uomo che poco dopo risultò un “animale” aggressivo, violento, traditore, ma più di tutto pericoloso. Lei si separò, e tornò a casa dei genitori con il bambino, rimanendo per anni sola, dedicandosi nel tempo libero al volontariato in parrocchia. Poi si diplomò all’istituto superiore di scienze religiose e divenne un’ottima catechista. Nel mentre, il tribunale ecclesiastico, rispose che non c’erano gli elementi per la nullità del matrimonio. Conobbe, poi, un uomo meraviglioso, rivelatosi ottimo uomo, ottimo marito, ottimo padre, con il quale si sposò civilmente, e dal quale ha avuto un altro figlio. A un certo punto, persone che per la parrocchia, per gli anziani e per i bambini non hanno mai fatto neanche una millesima parte di quello che negli anni ha fatto lei, principiano a dire che una divorziata risposata non può insegnare catechismo. Lei lo seppe, e con mio gran rammarico, smise di fare la catechista. Due anni fa, il tribunale ecclesiastico, riconobbe implicitamente che la pratica, in precedenza, non era stata vagliata a dovere, e nel giro di soli 6 mesi riconobbe la nullità del matrimonio, e una mattina alle 7.30 di un giorno feriale alla presenza di sole 6 persone si è sposata in chiesa.
I cattolici “per caso” che la misero nella condizione di non insegnare più catechismo, hanno quasi tutti figli conviventi, divorziati, risposati, ecc ..
Ha sempre seguitato a dedicarsi agli anziani ammalati in difficoltà, creando un gruppo di efficientissimi volontari, ma non ha mai più voluto insegnare catechismo. E la parrocchia ha perduto la migliore catechista che aveva.
In una situazione del genere, seguendo il rigore dei moderni farisei, come parroco, avrei dovuto:
a) dirle di tornare con il suo legittimo marito, a prescindere dai rischi e pericoli?
b) avrei dovuto trattare lei e il marito come concubini in “permanente” stato di peccato mortale?
b) avrei dovuto negarle la Comunione?
c) avrei dovuto estrometterla dall’insegnamento del catechismo?
Quando mi consultai con il vescovo, lui mi precisò, in forma del tutto privata, che negare la Comunione a una coppia di cristiani così esemplari, sarebbe stata una crudeltà, e precisò: fai in coscienza come ritieni opportuno fare, perché è un caso tutto a sé.
Ho forse sbagliato e contravvenuto alla … legge dei farisei?
Grazie Padre!
Aggiungo la mia breve testimonianza: ho avuto a che fare nell’arco degli ultimi 10 anni con 5 casi diversi ma del tutto anloghi a quello riportato da don Roberto e di fronte ai quali, con parole diverse ma simili, in modo discreto e privato, il mio vescovo, mi dette la stessa risposta.
P.S.
Gli attacchi che vi hanno rivolto in questi ultimi giorni, per gli articolo dei padri patmosiani, sono semplicemente vergognosi, ma soprattutto sono conseguenza di una cecità veramente preoccupante.
Alla Legge Divina, lei ha contravvenuto, Don Roberto, non alla ……legge dei farisei. Anche lei come Bergoglio e tanti altri confondono la Legge Divina con quella dei farisei e di questo ne risponderanno.
[ è tornato Gianluca Bazzorini ! ]
Caro Sig. Bazzorini.
Forse nessuno l’ha mai informata che il Codice di Diritto Canonico – che non prevede certo il divorzio – prevede e regolamenta però la separazione dei coniugi.
Can. 1153 – §1. Se uno dei coniugi compromette gravemente il bene sia spirituale sia corporale dell’altro o della prole, oppure rende altrimenti troppo dura la vita comune, dà all’altro una causa legittima per separarsi, per decreto dell’Ordinario del luogo e anche per decisione propria, se vi è pericolo nell’attesa.
Separazione che in alcuni casi, proprio i pastori in cura d’anime devono sollecitare e raccomandare, come più volte ho fatto io in foro interno e in foro esterno; e come me in altrettanti fori hanno fatto vari miei confratelli in situazioni ad oggettivo e alto rischio.
Le rivolgo allora una domanda chiara e precisa: dinanzi a una donna che dopo il matrimonio ha la sventura di ritrovarsi con un marito adultero, aggressivo, violento e per questo pericoloso nei riguardi della moglie e della sua incolumità fisica, con tutti i gravi danni di carattere psicologico che da ciò possono derivare ai figli, se la prende lei la responsabilità di dirle: «Devi rimanere in tutti i modi con tuo marito e tenertelo com’è»? E pastoralmente, ci dica, come intende confortarla, forse dicendole: «Offri le tue sofferenze per la salvezza delle anime del Purgatorio»?
Si consulti, semmai, anche col suo teologo di fiducia, poi ci faccia sapere.
E’ una domanda precisa che le rivolgo dinanzi al suo infelice commento e la prego di rispondere nel merito.
Caro padre Ariel. Hai detto tutto quello che c’era da dire e molto meglio di come lo avrei detto io.
Ciò che di queste persone mi amareggia (e che mi amareggia di coloro che li “caricano”), è il danno immane che ci recano. Mi spiego: un soggetto del genere che entro questi termini si qualifica non solo come “cattolico”, ma come autentico interprete del vero cattolicesimo, può vanificare l’intero lavoro che, semmai per anni, noi sacerdoti abbiamo portato avanti nel tentativo di recuperare persone che si sono allontanate dalla Chiesa, ma che sono aperte comunque al dialogo, a ragionare e, eventualmente, a tornare sui loro passi. Ecco, soggetti di questo genere, possono, a volte, azzerare anni di nostro lavoro con una sola loro battuta infelice, toccando con essa le sfere più sensibili e spesso dolorose delle persone, quindi allontanandole di nuovo dopo avere confermato la loro opinione, che “con i cattolici non si ragiona”.
La moglie tradita e fatta oggetto di violenza è legittimo che si separi. Quello che non è secondo la Legge Divina è che questa donna si risposi (civilmente) o conviva a meno che con il nuovo “compagno” non viva da “fratello e sorella”. Uno tra i “miei teologi” di fiducia è Mons Livi il quale proprio oggi mi ha fatto sapere di aver rotto i rapporti dottrinali con Padre Cavalcoli per le gravissime affermazioni di quest’ultimo in merito al comunione ai divorziati risposati.
p.s: per gravissime si intende eretiche
Caro Sig. Bazzorini.
Se Padre Giovanni Cavalcoli avesse fatto pubbliche affermazioni gravissime, addirittura ereticali, sarebbe stato anzitutto richiamato dal Maestro Generale dell’Ordine dei Frati Predicatori, delle sue affermazioni avrebbero chiesto conto alla Congregazione per la Dottrina della Fede e, ultima ma non certo secondaria cosa, lo avrebbero sicuramente dimesso seduta stante dalla Pontificia Accademia di Teologia, di cui è membro ordinario.
Le consiglio la lettura della fiaba di Esopo, quella nella quale la volpe, non potendo arrivare all’uva, se ne va’ in giro dicendo che l’uva è cattiva.
Cari Padri.
Io so che voi sapete nuotare, e piuttosto bene.
A pensarci bene, sono gli altri che affogano.
Reverendi Padri,
sono un giovane laico e vorrei esprimere il mio forte dissenso per quanto state dicendo.
Mi sembra che stiate giustificando la donna di cui sopra, per il motivo che “conobbe un uomo meraviglioso, rivelatosi ottimo uomo, ottimo marito, ottimo padre”.
Il suo cuore lo conosce solo Dio, ma per quanto vediamo lei ha preferito unirsi a un’“ottima persona” piuttosto che stare in grazia di Dio. I presupposti di questa scelta sono pensare:
1) che questa persona potesse darle un’amore più grande di quello che poteva darle Dio;
2) che Dio è un avversario e dà una legge nemica dell’uomo.
Se quest’uomo era così ottimo, e se lei lo amava con vero amore, non ci si sarebbe mai messa insieme mentre era impegnata in un precedente matrimonio (per quanto ne sapeva).
Le persone “che per la parrocchia, per gli anziani e per i bambini non hanno mai fatto neanche una millesima parte di quello che negli anni ha fatto lei” hanno – per quanto ci è dato vedere – servito Dio meglio di lei, che ha preferito perdere la grazia santificante e rovinare tutto.
Dire le cose in un certo modo può mandare all’aria il lavoro di anni? Allora ditele nel modo giusto, ma ditele.
Giovanni 7,53-8,11
7,53 E tornarono ciascuno a casa sua.
8,1 Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. 2 Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. 3 Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, 4 gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5 Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6 Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.
7 E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».
8 E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9 Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. 10 Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?».
11 Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Un modesto suggerimento: non si attacchi alla frase “Va’ e d’ora in poi non peccare più”, per sostenere il suo “io” anziché la parola di Dio, ma piuttosto si domandi questo: ma Gesù, che cosa scriveva, per terra?
Non lo sappiamo, a nessuno è forse dato saperlo, ma sicuramente non scriveva ciò che ci ha scritto lei nel suo commento.
Caro P. Ariel,
sono peccatore e non scaglio pietre contro nessuno; il giudizio è di Dio e lo darà lui, a me e agli adulteri. Però devo chiamare peccato il peccato, e non mi permetto di presumere quando Dio conceda la grazia all’infuori dei mezzi ordinari.
Quell’adultera è stata perdonata da Dio che le ha detto sia “neanch’io ti condanno”, che “d’ora in poi non peccare più”. Le assicuro che non lo dico per sostenere il mio “io”, ma se anche lo facessi rimane il fatto che così ha detto il Cristo.
Mi sembra che tutta l’argomentazione si regga sul sentimentalismo dell’“uomo meraviglioso”. Tanto meraviglioso da venir preferito al Dio vivo?
Caro Riccardo.
E’ proprio di fronte al peccato che interviene la grazia e la misericordia di Dio, che non segue né le logiche nostre né le logiche dei moralisti duri e puri che agitano la “lettera” e la “legge” come fosse una clava. E la misericordia di Dio non ascolta le ragioni, per quanto umanamente ragionevoli, del figlio rimasto fedele a casa con il padre che accoglie in festa il figliol prodigo che s’era dato a ogni dissolutezza, il quale non tornò perchè pentito, ma perché era nel bisogno; il suo pentimento si sviluppa solo dopo, dinanzi alla grande misericordia del padre.
Ovviamente, inutile ricordare che, predicando inutilmente alle sabbia del deserto, ho spiegato in tutti i modi nei miei ultimi articoli che quelli variamente legati alla lussuria, non sono “il peccato dei peccati” e che nel sesso e nella sessualità umana non risiede l’intero mistero del male, perché molti peccati peggiori esistono, anche se non se ne parla affatto.
Ho indicato, uno a uno, i vezzi e i malvezzi praticati nelle loro vite matrimoniali e sessuali proprio dai più duri paladini della difesa della famiglia e del matrimonio; ma nessuno ha replicato, nessuno mi ha smentito, tutti hanno sorvolato.
Ho spiegato – rigor morale alla mano – che un imprenditore che sfrutta in nero 20 lavoratori sottopagati e senza copertura assicurariva, per lucrare sulla loro pelle e sul loro bisogno, commette un peccato molto peggiore di un rapporto pre-matrimoniale o di una scappatella adulterina, che sono e restano peccati, ma molto meno gravi di quello appena raffigurato.
E nessuno ha risposto, morale alla mano, che avevo torto; anzi tutto hanno seguitato a fare le pulci al sesso.
Va bene, caro Riccardo, ha ragione lei: conduca una vita sessuale improntata sul rispetto di tutte le norme morali legate solo ed esclusivamente alla sfera sessuale, ed avrà l’anima salva, a prescindere da tutto il resto, che è moralmente secondario, anzi, che moralmente proprio non conta.
Per questo, Gesù, si mise a scrivere a terra …
Che il Signore mi conceda di seguire lui e tutte le sue parole.
P. Ariel, per me è un onore potermi confrontare con lei, ma avrei preferito che rispondesse ai miei argomenti e non che attaccasse le persone. Persone con cui fra l’altro non ho nulla a che fare.
Secondo voi si possono concedere i rapporti extramatrimoniali e l’infedeltà coniugale nel caso in cui il complice sia una persona “meravigliosa”.
A questo punto se va bene l’uomo “meraviglioso” va bene anche un poco di buono: se una si accontenta di vivere con un poco di buono sono affari suoi, no? E perché i rapporti occasionali no?
E se lei conoscesse una donna “meravigliosa” con cui farsi una famiglia e generare dei figli, si sentirà legittimato a venir meno ai suoi impegni?
Caro Riccardo.
Qualsiasi rigorismo applicato con rigore matematico rende disumana e immorale la morale.
Io non le rispondo male, le ho risposto, forse è lei che non vuole proprio capire, visto che da una mia risposta lei ha estrapolato un periodo col quale pensa di lanciare una domanda secca dinanzi alla quale l’intercutore è attaccato al muro con quattro chiodi dalla sua sagace bravura. Atteggiamento tipico, questo, di chi si è messo in testa di avere colto l’altro come suol dirsi “in castagna”, quindi che il soggetto intrappolato dall’altrui sagacia cerchi di divincolarsi in modo disperato come un sofista professionista.
Non è così, perché la cosa è più complessa di quanto lei possa “laicamente” immaginare; e le spiego come mai le dico “laicamente”, visto che si parla anzitutto della più delicata disciplina di quei Sacramenti che lei, fino a non facile prova contraria, riceve, ma non amministra.
Pertanto mi lasci supporre che lei non abbia mai fatto i corsi di istruzione promossi per i confessori dalla Penitenzieria Apostolica, nei quali si parla anche e soprattutto dei “casi difficili” e delle “situazioni extra ordinarie”, ecc…
Mi lasci suppore che lei non abbia mai avuto a che fare con le situazioni, tutt’altro che accademiche, dei cosiddetti “casi morali difficili”, quindi mi lasci infine supporre che lei non abbia mai fatto né il prete, né il direttore spirituale né il confessore.
E tutto questo lo si capisce proprio dal modo in cui ella pone domande stile … “‘mo ti colgo in castagna”.
Io mi rifiuto di parlare sia dei “casi difficili” sia dei “casi extra ordinari”, di fronte allo spirito di chi insiste con l’atteggiamento di chi nel fondo afferma: “Sul codice della strada è scritto questo, in modo chiaro e preciso, quindi?”.
Prendiamo allora come esempio un peccato gravissimo: l’aborto, la cui assoluzione sarebbe di per sé riservata al vescovo, salvo diverse disposizioni date o delega conferita al penitenziere maggiore o ad altri sacerdoti e via dicendo.
Lei lo sa che vi sono casi molto complessi e particolari nei quali, questo peccato in sé e di per sé gravissimo, può attenuarsi sino a rango di peccato veniale, tanto la persona era realmente e oggettivamente priva di volontà, di deliberato consenso ma, soprattutto, priva della reale percezione della vita e di quello che veramente stava facendo?
Libero lei di applicare il “codice della strada” pretendendo con esso di rivolgere domande che inchiodano, libero io di non rispondere a questioni che richiedono tanto buon senso e tanta delicata e accurata analisi di casi molto particolari. E questo lo sanno bene coloro che come confessori devono talvolta gestire situazioni veramente molto difficili, dinanzi alle quali spesso, più volte, non pochi sacerdoti hanno dovuto sospendere la confessione, chiedere parere al proprio vescovo, prima di dare l’assoluzione al penitente.
L’adulterio esiste, ed è un grave peccato, ma possono esservi situazioni nelle quali le responsabilità dell’adultero o dell’adultera si attenuano moltissimo per fatti, circostanze e situazioni molto complesse, anzi: sempre e di rigore molto complesse. E dico l’adulterio come tanti altri peccati, compreso lo stesso omicidio e via dicendo.
Dinanzi a certi problemi, non si può installare l’autovelox e dire poi: il limite era 130, tu stavi andando a 140, quindi sei in torto, ti prendi la multa la paghi e chiusa la questione.
Nella morale cattolica le cose non funzionano propriamente così e, se così qualcuno pretende di farle funzionare, in tal caso va applicata la saggia massima che «qualsiasi rigorismo applicato con rigore matematico rende disumana e immorale la morale».
Reverendo P. Ariel,
le sue supposizioni sono corrette. Il caso di cui si parlava però era molto diverso dall’esempio dell’aborto, perché quella persona ha intenzione di continuare a vivere così. Piuttosto, non sarebbe da paragonare col caso di una donna che ha abortito, pur con tutte le attenuanti possibili, e dichiarasse di voler abortire nuovamente?
Le dò l’impressione di volerlo “cogliere in castagna” perché mi sembra di parlare di cose del tutto ovvie. Ma lei mi dice che non lo sono. Per arrivare al nocciolo della questione, mi sembra che l’impossibilità di ammetterla ai sacramenti si fondi su queste questioni:
a) il matrimonio non è solvibile;
b) i rapporti extramatrimoniali, i rapporti adulterini e impegnarsi con un’altra persona essendo sposati sono peccati oggettivi;
c) non dovremmo permetterci di presumere un’innocenza soggettiva;
d) chi vuole continuare a peccare non può essere assolto validamente;
e) chi non confessa i peccati mortali non può fare la S. Comunione.
Vorrei sapere rispetto a quale di queste cose, o ad altre, vuole piegare quello che chiama il “codice della strada”.
Caro Riccardo.
Io proseguo, per le già spiegate ovvie ragioni, a risponderle con dei quesiti basati su esempi pertinenti, allo scopo di provarle che la morale è molto complessa, come lo è l’analisi del peccato con tutte le sue variabili conseguenze che possono rendere lo stesso identico peccato di una gravità tale da compromettere la salute dell’anima, oppure renderlo un peccato veniale, ripeto: il tutto sullo stesso identico peccato.
Prendiamo questo suo enunciato: «chi non confessa i peccati mortali non può fare la S. Comunione».
Questa è la sana e santa prassi suggerita e da seguire, però … ci sono molti però. Per esempio: supponiamo che io sia un sacerdote missionario e che mi occupi di una comunità disseminata in vari villaggi delle Ande dove per mesi e mesi c’è la neve che rende impossibile per altrettanti mesi le comunicazioni e gli spostamenti sul territorio. Io sono in stato di peccato mortale, ma non posso però confessarmi prima di due o tre mesi, fino a quanto non saranno ristabilite le comunicazioni e resi possibili gli spostamenti, solo allora potrò incontrare il più vicino confratello che mi assolverà dai peccati.
Stando a certi rigori “logico morali”, io non potrei fare la Santa Comunione, di conseguenza, per due o tre mesi, non dovrei celebrare la Santa Messa, visto e considerato che il sacerdote non può celebrare la Santa Messa senza fare la Comunione. Il tutto avvisando semmai i fedeli che “Siccome sono in stato di peccato mortale, fino a che non mi sarò confessato non potrò riprendere le celebrazioni”, anche perché lei capisce che, in tal caso, essendo in stato di peccato mortale, anziché nutrirmi del cibo di vita eterna mangerei la mia condanna.
Reverendo Padre Ariel,
mi corregga se mi sbaglio, ma mi sembra che quello da lei citato sia uno dei pochi casi in cui il sacerdote possa fare la S. Comunione facendo un atto di contrizione perfetta e posticipando la Confessione.
Vorrei sapere però a quali principi esattamente si possa fare eccezione in un caso analogo a quello dell’adultera presentato sopra.
Le dico molto schiettamente che non vedo nessuna possibilità plausibile, ed è proprio per questo che vorrei capire su quali principi si basano le sue affermazioni.
Caro Don Roberto,
le norme ecclesiastiche sono direttive prudenziali, ispirate a considerazioni di comune saggezza, che discendono certo dalla legge generale carità e ne sono un’applicazione o determinazione nei casi comuni, in settori particolari della vita cristiana, come può essere il rapporto di coppia.
Queste leggi, dettate dalla prudenza umana della Chiesa, non hanno l’assolutezza e l’indispensabilità delle leggi divine o della legge naturale, per cui possono capitare o ammettere casi eccezionali, nei quali il ministro di Dio, soprattutto se in cura di anime, deve saper valutare se la situazione, che si suppone eccezionale, richieda una decisione ad hoc, magari solo per quel caso, per cui egli può, per non dire deve adottare di sua iniziativa davanti a Dio, sull’esempio di Cristo buon pastore, chiedendo luce allo Spirito Santo, un modo di agire diverso o contrario, e quindi una sospensione della legge.
In tal caso egli è autorizzato a decidere il da farsi secondo coscienza e prudenza, se questa decisione di scostarsi dal dettato della legge, ha per fine ed ottiene il rispetto di valori essenziali e superiori, quali sono appunto i divini comandamenti, che si riassumono nella legge della carità.
Sinceramente reverendo Don Roberto, non ho capito molto bene il caso da lei proposto. Come ha spiegato Don Ariel al lettore, ovviamente la separazione canonica è prevista e consentita, e nessuno qui può certo sindacarla, ci mancherebbe. Posto che dopo la dichiarazione di nullità, il problema non si pone, si evince che lei abbia ammesso ai Sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia la signora poiché evidentemente ebbe ad aderire ad un giudizio in foro interno della predetta che era in qualche modo certa della nullità del precedente matrimonio, anche e persino se vi era stata una pronuncia negativa del tribunale ecclesiastico in merito. I fatti poi le hanno dato ragione. Strano caso, direi, e comunque piuttosto eccezionale. Sicuramente, in presenza di quel dato negativo (del Tribunale che aveva rifiutato la nullità) un altro sacerdote avrebbe potuto rifiutare penitenza e comunione,in assenza di mutamento dei presupposti (Penitenza). Lei invece ha fatto diversamente,e ci aveva “visto giusto”. Ma questo caso molto particolare, mi consenta, non rileva molto nell’odierna discussione sinodale,ove non si parla di matrimoni nulli, ma “falliti”.E di concedere la Comunione ai divorziati risposati …