Francesco d’Assisi santo mistico, non santino, è una figura molto complicata

Padre Ivano

FRANCESCO D’ASSISI SANTO MISTICO, NON SANTINO, È UNA FIGURA MOLTO COMPLICATA

Francesco è per la teologia, ma rassicura il suo frate che questa non deve portarlo a elucubrazioni, a intellettualismi fini a sé stessi, o a una realtà che potrebbe allontanarlo dal Signore anziché avvicinarlo, che lo elevi a livello intellettuale ma non a livello mistico-spirituale. Ecco perché Francesco si può permettere di correggere ed esortare anche un raffinatissimo teologo come Sant’Antonio da Padova; ecco perché Francesco resta figura molto complessa e complicata da capire, spiegare e trasmettere, soprattutto da seguire.

— Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Questo articolo sul Padre Serafico ― che a suo modo potrebbe essere definito “reattivo” in quanto “ispirato da” ― lo devo all’espressione di uno dei vari giovani vescovi di nuova nomina, che rispondendo a un intervistatore ha illustrato la propria personalità e le sue prospettive pastorali affermando che si sarebbe ispirato alla «teologia di San Francesco d’Assisi». Indubbiamente il giovane vescovo avrà cercato di dire qualche cosa di coinvolgente, con trasporto e animo sincero, forse però ignorando che non tanto il Francescanesimo, ma lo stesso Francesco d’Assisi sono qualche cosa di parecchio complesso, per noi francescani per primi.

Bartolomé Esteban Murillo (Siviglia 1618 – 1682), San Francesco abbraccia Cristo crocifisso, olio su tela, collezione privata – Foto © Christie’s

La redazione dei Padri de L’Isola di Patmos è anche e soprattutto luogo di spirituale confronto pastorale e di discussione teologica tra confratelli. E così, Padre Ariel e Padre Gabriele, entrambi teologi dogmatici di formazione, a me Frate minore cappuccino e presbitero francescano hanno chiesto:

«Quale sarebbe “la teologia di San Francesco”? San Francesco era forse un teologo? E da quando? A noi risulta che i teologi francescani siano stati Antonio da Padova, oggi dottore della Chiesa, che poté esercitare il magistero di teologo con il permesso di Francesco che lo dette con non poca ritrosia iniziale; Bonaventura da Bagnoregio (dottore della Chiesa) che dei teologi è patrono. Per seguire con Arlotto da Prato e Matteo d’Acquasparta, ma soprattutto il grande doctor subtilis Duns Scoto, noto anche come dottore dell’immacolata concezione di Maria».

È sempre nostro dovere spiegare con veritiero rigore storico e teologico cosa è reale e cosa surreale, cosa storicamente autentico e cosa adulterato a livello leggendario, a volte anche ideologico. Per questo è ragionevole e realistico dire che oggi, molti di coloro che si ispirano al nostro Serafico Padre, di San Francesco dimostrano di sapere veramente poco. Purtroppo i fatti dimostrano ― e lo dimostrano i fatti, non i giudizi temerari ― che più che al pauperismo certi soggetti sono molto vicini a quel poverilismo ideologico di stampo socio-politico che sia Francesco d’Assisi sia la sapienza della Chiesa hanno combattuto sin dal XIII secolo, sconfessandolo apertamente e opponendosi a un concetto di povertà che non apriva alla trascendenza e al rapporto con Dio, ma diventava una povertà violenta, accusativa e punitiva verso coloro che possedevano dei beni materiali. Esattamente quella che in epoca post-industriale e post-marxista sarà definita e indicata dai sociologi come invidia sociale.

Per essere precisi bisognerebbe parlare di vecchie eresie di ritorno, a partire da quella di Frate Dolcino, preceduto da Gherardo Segarelli e molti altri più o meno illustri facenti parte di quel movimento ereticale d’inizi XIV secolo noto come Fraticelli. Francesco, a seguire il Francescanesimo che da lui prese vita e poi forma, costituirono la più eclatante sconfessione e implicita lotta contro queste correnti ereticali, nella piena aderenza alla dottrina della Chiesa e all’obbedienza alle sue autorità costituite.

Francesco è estremamente complicato, come Santo e come uomo, pur essendo il Santo da tutti riconosciuto come più semplice, in verità è estremamente complesso. Spesso, i primi a non comprenderlo, siamo stati proprio noi francescani, che più volte lo abbiamo riciclato nel corso della storia a nostro vario uso e consumo, oppure “mitigato” e “addolcito”, come fecero in modi diversi ma di fondo simili Tommaso da Celano e Bonaventura da Bagnoregio.  

Figure complicate da comprendere e interpretare esistono da sempre nella storia della Chiesa, anche se talvolta il popolino le ha snaturate attraverso le proprie devozioni più o meno surreali. Una di queste figure, che in tal senso possiamo portare come esempio, è Padre Pio da Pietrelcina, per capire il quale è necessario interpretarne la figura alla luce della teologia mistica in cui Dio attrae a sé l’uomo nella totalità del suo essere e divenire presente e futuro. In caso contrario San Pio da Pietrelcina diverrà una figura popolare scaramantica alla cui immagine sarà riservato il posto sul tir del camionista rigorosamente meridionale, accanto alle foto erotiche del calendario dell’anno solare in corso dove spiccano le figure di dodici fotomodelle ammalianti. Dico «camionista rigorosamente meridionale» per un discorso puramente sociologico, perché quello altoatesino compie una scelta coerente: o sul proprio camion ci mette San Pio da Pietrelcina oppure il calendario erotico dell’anno solare in corso, ma non tutti e due assieme. 

San Francesco di Assisi suscita da circa nove secoli l’interesse non solo delle persone devote, ma anche di studiosi, storici, letterati, teologi e naturalmente artisti, a motivo della straordinarietà della sua esperienza di vita cristiana; una testimonianza del Vangelo che è stata capace di informare e trasformare la nostra società e, naturalmente, la Chiesa. Le povere parole che seguiranno non hanno alcuna pretesa poiché già tanti, è stato premesso, e di gran levatura culturale hanno parlato di Francesco mettendo in luce tutti gli ambiti della sua vita e la sua singolare personalità. L’intento semplice di questo scritto è quello di mettere in risalto il singolo aspetto della sua esperienza mistica, angolo di visuale attraverso il quale potrebbe anche essere letta tutta la sua esistenza di cristiano e di santo.

È lo stesso Francesco a ricordare l’inizio della sua nuova vita come un’esperienza mistica e un dono di Dio. Vent’anni dopo i fatti della sua conversione descrive nel Testamento ormai morente quell’evento, il suo cambiamento di vita, racchiudendolo entro queste poche, densissime parole:

«Il Signore concesse a me, Frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E poi, stetti un poco, e uscii dal mondo».

Francesco non è un teologo, almeno non come siamo abituati a pensare. Non elabora una concezione sistematizzata dell’esperienza cristiana, né scrive trattati o saggi sulla fede e le sue verità. Ciononostante quando Dante, nella Divina Commedia, parla degli Ordini mendicanti e specificatamente di Francesco, l’elogio di lui viene da colui che è considerato come uno dei più grandi, se non il più grande teologo che la Chiesa abbia avuto: San Tommaso D’Aquino. D’altro canto, l’elogio di San Domenico, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, noti come domenicani, l’altro Ordine mendicante per eccellenza, verrà dalla bocca di San Bonaventura, il teologo per antonomasia dei francescani, colui che stigmatizzò per sempre l’immagine di Francesco fino a farlo apparire praticamente quasi inimitabile. Il grande poeta fiorentino, nei due canti gemelli, l’XI e il XII del Paradiso, mette dolorosamente in risalto che entrambi i movimenti hanno perso lo smalto iniziale, essendosi discostati dagli insegnamenti e dalle regole dei loro fondatori. Perciò Dante, attraverso San Tommaso, fa il racconto della vita di Francesco iscrivendolo tutto in una dimensione mistica e spirituale, come dimostra il lungo preambolo che si muove interamente nell’ambito della metafora. Parla dell’unione dell’assisiate con una donna che, nonostante le sue virtù, era rimasta sola per più di millecento anni dopo la morte del primo «marito» e nessun altro uomo aveva voluto prenderla in sposa e che per amor di lei egli, Francesco, andò incontro all’ira paterna. San Tommaso scioglierà la lunga metafora solo nella terzina dove espliciterà finalmente che i due sposi di cui parla sono Francesco e Monna Povertà.

Questo suo itinerario spirituale, fatto di incontri, abbraccio della povertà, fedeltà estrema al Vangelo e tanta preghiera, Francesco lo leggerà, lo abbiamo già accennato, come un dono del Signore. Ci sono tre verbi nel Testamento che sono a riguardo indicativi. Cinque volte ripeterà che «Dominus dedit mihi» di fare penitenza, di aver fede nelle chiese e nei sacerdoti, di avere dei fratelli e di scrivere la Regola per loro. Di seguito affermerà che sempre il Signore «revelavit mihi» quanto doveva fare e di presentarsi col saluto divenuto celebre: «Il Signore ti dia pace». Ed infine «conduxit me» fra i lebbrosi.

A tal proposito Francesco, come si sa, non offre una risposta politica alle ingiustizie sociali, al problema del male nel mondo. Non ha progetti di fattivi e concreti cambiamenti, non medita lotte e ribellioni; Francesco, per intendersi, non è né un hippy né un Che Guevara del Medioevo, né un contemporaneo di certi odierni preti cosiddetti molto sociali. Francesco risponde con la fede, quando riesce a penetrare fino in fondo, con una adesione totale e impetuosa, il sacrificio di Cristo. Cerchiamo di seguirlo nei suoi pensieri: Dio, l’Altissimo, il padrone dell’universo, di tutto il creato, ha sacrificato il Figlio unico e prediletto per non perdere la sua creatura, l’uomo, capace solo di peccare. E se Cristo che è Dio è venuto sulla terra trascinato da un immenso amore, e si è fatto povero e pellegrino, ha sofferto la fame e il freddo, il tradimento e l’abbandono degli amici, fino a dare la sua vita sulla croce pur di ridare la salvezza all’umanità, la gioia eterna del Paradiso, che altro resta da fare all’uomo se non seguire, per quanto possibile, le orme del Salvatore, il Vangelo, se non rispondere all’amore divino con il povero amore umano, cercando di amarsi l’un l’altro come fratelli? E chi, se non il povero e il derelitto, ripetendo nella sofferenza l’esperienza terrena di Cristo, può meglio capire l’ardente carità divina e accettare con gratitudine angosce e patimenti, rimettersi, come Cristo, alla volontà del Padre?

I Fioretti di san Francesco, una meravigliosa raccolta in volgare dell’ultimo quarto del Trecento di «miracoli ed esempi devoti» della sua vita, gli fanno dire, a proposito di che cosa sia la virtù della perfetta letizia:

«Sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo, e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio, onde dice l’Apostolo (Paolo, nella 1Cor 4, 7 n.d.r.): “Che hai tu, che non abbi da Dio? E se tu l’hai avuto da lui, perché te ne glorii, come se tu l’avessi da te?”. Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo (sempre Paolo, in Gal 6,14 n.d.r): Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo».

E così la croce fin dall’incontro coi lebbrosi, all’inizio della sua conversione, forma parte dell’esperienza di Francesco, del suo orizzonte spirituale. Se proprio volessimo individuare una teologia di San Francesco, potremmo definirla come una «Scientia Crucis». Egli abbraccia la croce come abbraccia il lebbroso poiché ormai ciò che era amaro gli si era tramutato in dolcezza e può udire la voce di Cristo che dalla croce lo chiama, nella chiesetta di San Damiano. Lì, il Redentore, secondo l’iconografia del Cristo trionfante, senza segni di sofferenza fisica, fissa l’osservatore con quieta dolcezza. Francesco credette che l’immagine si rivolgesse proprio a lui e gli parlasse: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va dunque a ripararla». Ma Francesco fraintende il significato simbolico delle parole, crede di dover salvare dalla rovina l’edificio materiale, non sospetta quale compito lo attenda: salvare l’edificio spirituale, la Chiesa. Esce tutto lieto, gli sembra che la vita abbia finalmente uno scopo. Ora sa cosa fare, le parole misteriose del precedente sogno di Spoleto, quello del palazzo e della sposa che saranno suoi, cominciano a chiarirsi; per questo, può vedere per la prima volta chi lo chiama e sentire pronunciare il proprio nome. Quello è dunque l’ordine che aspettava. E così Francesco, «munendosi col segno della croce», incominciò la sua missione.

L’afflato mistico di Francesco rintracciabile in moltissime sue opere, dalla Regola non bollata, l’Epistola ai fedeli o Le lodi del Dio Altissimo si coniugano da ora in poi con la devozione per la Croce di Cristo. Nelle Lodi conservate nella Chartula fratri Leonis leggiamo queste famosissime parole rivolte al Signore:

«Tu sei santo, o Signore, solo Dio, che compi cose meravigliose. Tu sei forte, tu sei grande, tu sei altissimo, tu sei onnipotente, tu Padre Santo, re del cielo e della terra. Tu sei trino e uno, Signore, Dio degli dei. Tu sei il bene, ogni bene, il sommo bene, il Signore Dio vivo e vero. Tu sei amore, carità; tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei mansuetudine, tu sei sicurezza, tu sei quiete, tu sei gioia, tu sei nostra speranza e letizia, tu sei giustizia, tu sei temperanza, tu sei ogni nostra ricchezza in sovrabbondanza. Tu sei bellezza, tu sei mansuetudine; tu sei protettore, tu sei nostro custode e difensore, tu sei fortezza, tu sei refrigerio. Tu sei la nostra speranza, tu sei la nostra fede, tu sei la nostra carità, tu sei tutta la nostra dolcezza, tu sei la nostra vita eterna, o Signore grande e mirabile, Dio onnipotente, misericordioso salvatore».

Come pure nel capitolo terzo dei Fioretti viene narrata la profonda devozione che il Santo assisiate riservava alla Croce di Gesù:

«Viene il dì della santissima Croce, e Santo Francesco la mattina per tempo, innanzi dì, si getta in orazione dinnanzi all’uscio della sua cella, volgendo la faccia verso l’oriente, e pregava in questa forma: O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti prego che tu mi faccia, innanzi che io muoia; la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione; la seconda, che io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quel grandissimo amore del quale tu, Figlio di Dio, eri acceso per sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori».

Questi aspetti della spiritualità di Francesco saranno poi figurativamente rappresentati dagli artisti, a cui si accennava all’inizio. Se ne potrebbero citare molti e fra questi il Maestro di San Francesco, il cui nome deriva da una tavola con il Santo e due angeli oggi conservata nel Museo della basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Di lui possiamo ricordare l’imponente crocifisso nella Basilica dedicata al Santo, in Arezzo. La Croce dipinta, riprende la tipologia del Christus Patiens, d’ispirazione bizantina, dove il dolore e la morte di Gesù sono sottolineati dalla testa reclinata sulla spalla e dal corpo inarcato. Mentre la maggior parte delle croci dipinte venivano lette dal basso verso l’alto e terminavano con un’Ascensione e un Cristo in gloria, qui il messaggio va letto dall’alto verso il basso, secondo i dettami della spiritualità francescana. Questo Cristo morente, non più Triumphans, è una novità introdotta dai francescani che coltivano l’elemento del patetico, nel senso di invito alla compassione. Ormai la parola misteriosa, depositaria del segreto del Cristianesimo, non è più «amare» ma «soffrire». Invece di apparire in piedi sulla Croce, Risorto e trionfante come in San Damiano, Gesù è raffigurato con gli occhi chiusi e la testa reclinata lateralmente su una spalla. Senza negare la resurrezione, i fedeli si affezionano di più all’Uomo della sofferenza. Il vero messaggio di questa croce è quindi che Gesù è sceso dal cielo e ha sopportato la passione inflittagli da Ponzio Pilato per gli uomini e per la loro salvezza. La devozione lascia spazio alla compassione, alla partecipazione di ciascuno alla sofferenza di Gesù. E il primo di questi devoti è proprio Francesco raffigurato sotto la croce piccolino, che poi così amava chiamarsi, il quale prende fra le mani un piede sanguinante del crocifisso e lo bacia. Un’altra opera a mio avviso capace di descrivere la «Scientia Crucis» francescana è il San Francesco che abbraccia Cristo crocifisso del Murillo. Dipinto realizzato all’incirca nel 1668 e conservato nel Museo di belle arti di Siviglia in Spagna. L’opera faceva parte di un ciclo commissionato al pittore spagnolo dai Cappuccini per una cappella della chiesa del loro convento a Siviglia. Queste opere dovevano esaltare gli elementi distintivi della spiritualità francescana. Il quadro è di una bellezza sconvolgente; commuove lo spettatore che davanti a una simile tela rimane in silenzio, come in preghiera. Il dipinto simboleggia il momento culminante della vita di Francesco: la rinuncia ai suoi beni materiali per abbracciare la vita religiosa. La composizione è armonica. Accanto alla croce, due angeli reggono un libro aperto che reca in latino il passo del Vangelo secondo Luca: «Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 25-27).

Ai piedi del Santo vi è un mappamondo, un globo terrestre; Francesco sembra allontanarlo con un piede, metafora del suo rifiuto di ogni vanità. Ma veniamo al fatto più eclatante, ed anche il più controverso almeno nelle testimonianze che lo riportano, per il quale l’afflato mistico di San Francesco si coniuga con la sua profonda devozione per la Croce di Cristo Gesù. Sto parlando dell’episodio de La Verna in Toscana, la visione del serafino e l’impressione delle stimmate. Per rendere palpabile la straordinarietà dell’evento riviviamolo attraverso le parole del biografo del Santo, Tommaso da Celano, uno che lo conobbe personalmente, il quale fu chiamato da Papa Gregorio IX a redigerne la biografia raccogliendo testimonianze sugli eventi. Anche e soprattutto su quello delle stimmate, prima che con la Legenda major San Bonaventura da Bagnoregio sostituisse le precedenti Vite, imponendone la distruzione. Come noto e risaputo Bonaventura, ministro generale dell’Ordine, fece pervenire a tutti i conventi francescani un comando preciso e tassativo: distruggere tutti i manoscritti sulla vita e le gesta del Padre Serafico. Diversi di questi manoscritti si trovavano però anche in alcune abbazie e monasteri benedettini e cistercensi, che si guardarono bene dal dare esecuzione a simile comando. È a loro che gli storici debbono grazie se da qualcuna di queste biblioteche monastiche sono stati poi dissepolti secoli dopo i manoscritti delle Vite narrate da altri autori prima di Bonaventura da Bagnoregio, considerato da taluni storici della Chiesa come il secondo fondatore, o cosiddetto ri-fondatore dell’Ordine Francescano.

Tommaso da Celano nella Vita prima conosceva certamente sui fatti de La Verna la versione di Frate Leone e ovviamente anche la lettera di Frate Elia. Il biografo non poteva permettersi di trascurare né il più caro amico del Santo e suo confessore né il potente capo dell’Ordine. Come raccordare due testimonianze così divergenti? Aggirò la difficoltà raccontando con abili aggiustamenti il miracolo delle stimmate due volte, una prima collocandolo sulla Verna, una seconda al momento dell’esposizione della salma di Francesco. Rileggiamo cosa scrive Tommaso da Celano:

«Due anni prima che Francesco morisse, passando un periodo nel romitorio che dal nome del luogo è chiamato Verna, vide in una visione mandata da Dio un uomo, quasi fosse un Serafino con sei ali, stare sopra di sé, con le mani aperte e i piedi congiunti, confitto ad una croce. Due ali salivano sopra il capo, due si stendevano al volo e due infine coprivano tutto il corpo. Vedendo questo il beato servo dell’Altissimo fu invaso da grandissimo stupore ma non riusciva a capire che cosa volesse dire quella visione. Godeva moltissimo e con grande allegrezza si allietava nel sentirsi guardare con uno sguardo benigno e dolce dal Serafino, la cui bellezza era veramente inimmaginabile, ma al tempo stesso era atterrito dall’affissione alla croce e dalla crudezza della sofferenza di lui. Così si alzò, per così dire, triste e lieto, e in Francesco si alternavano gioia e dolore. Continuava a rimuginare con ansia cosa potesse voler dire la visione, e il suo spirito era terribilmente teso a cercare di coglierne il significato. Poiché ragionando non arrivava ad alcuna interpretazione sicura e si sentiva pervaso e moltissimo agitato nel cuore dalla novità di quella visione, cominciarono ad apparire nelle mani e nei piedi i segni dei chiodi come poco prima aveva visto nell’uomo crocifisso sopra di sé. Le sue mani e i suoi piedi sembravano trafitti nel centro da chiodi: nella parte interna delle mani e su quella superiore dei piedi si vedeva la testa dei chiodi, e dalla parte opposta la punta. Quei segni erano rotondi dalla parte interna delle mani e allungati dalla parte opposta e formavano quasi una escrescenza carnosa e rilevata, come fosse la punta dei chiodi ripiegata e ribattuta. Ugualmente nei piedi erano impressi i segni dei chiodi sporgenti sul resto della carne. Anche il lato destro, quasi fosse stato trafitto da una lancia, mostrava un’ampia cicatrice che spesso emetteva sangue cosicché la tunica e i panni da gamba erano macchiati di frequente del suo santo sangue. Ah, quanti pochi finché il servo di Dio crocifisso visse, ebbero la fortuna di potere vedere la sacra ferita del costato! Ma felice Elia che mentre viveva il Santo meritò in qualche modo di vederla e non meno felice Rufino che poté almeno toccarla».

Più avanti sempre Tommaso da Celano, parlando della gioia e della mestizia delle persone e dei frati al cospetto del corpo ormai defunto del Santo così riporta:

«Pure, una gioia inaudita temperava la loro mestizia e la novità del miracolo riempiva le loro menti di straordinario stupore. Così il lutto si cambiò in canto festoso e il pianto in giubilo. Infatti mai avevano udito né letto nelle Scritture quello che ora vedevano con i loro occhi, e a stento ci avrebbero creduto se non ne avessero avuto davanti una testimonianza così probante e sicura […] Si coglieva in lui la forma della croce. Sembrava infatti appena deposto dalla croce con le mani e i piedi trafitti dai chiodi e il lato destro ferito dalla lancia. Vedevano ancora la sua carne, che prima era scura, risplendere ora di un luminoso candore e la bellezza sovrumana comprovava già il premio della beata resurrezione. Il suo volto, infine, era come quello di un angelo […] Mentre risplendeva davanti a tutti per sì meravigliosa bellezza, la sua carne si faceva sempre più luminosa. Era davvero un miracolo scorgere al centro delle mani e dei piedi non i fori dei chiodi ma i chiodi medesimi formati dalla sua stessa carne, del color scuro come il ferro e il costato a destra imporporato di sangue. E quei segni di martirio non incutevano timore e orrore a chi li vedeva, bensì conferivano decoro e ornamento, come tessere nere in un pavimento candido».

Potremmo fermarci qui e non aggiungere altro al cospetto di un così commovente racconto. Basti sottolineare che a La Verna Francesco visse infine la sua personale e straordinaria identificazione col Cristo e con questi crocifisso. Ma in quale contesto ciò avvenne? Sul finire della vita Francesco si sentiva sempre più incalzato dalla Chiesa preoccupata di normalizzare un progetto di vita cristiana, praticare la povertà e l’amore evangelici, che, se davvero attuato, sarebbe stato rivoluzionario e pericoloso per la stessa struttura ecclesiastica, se male interpetato. Si sentiva anche incompreso da una grande parte dei frati e questo aumentava il suo scoramento. Cresciuti a dismisura non tutti erano capaci di condividere scelte tanto difficili, uomini a volte di limitate virtù o troppo colti, lontani dai purissimi ideali del loro capo spirituale. Come Cristo sempre più solo al traguardo della croce, a circa quarantaquattro anni Francesco prese con sé pochissimi compagni, intimi e partecipi, e si trasferì, come sappiamo, sulla Verna, per un lungo ritiro di solitaria contemplazione. Contava di superare quella profonda crisi; chiedeva continuamente a Dio di illuminarlo, che gli indicasse come sarebbe stata la fine della sua vita. In effetti cominciò a vedere diradarsi il buio nell’anima solo quando comprese di dover rimettere alla decisione di Dio i problemi dell’Ordine e del suo futuro, sopportando, scrive Tommaso da Celano, che «si compisse in lui totalmente la misericordiosa volontà del Padre celeste». Il biografo pensa al fondatore come a un «altro Cristo» sullo sfondo del Monte degli Ulivi. Il Santo, tuttavia, avrebbe voluto almeno conoscere che fine lo attendesse, pur essendo ormai sicuro di non ribellarvisi. Un giorno, dopo avere a lungo pregato, ricorse alla triplice apertura dei Vangeli, che mostrarono sempre lo stesso passo o uno molto simile. Lo sguardo si posò: «sulla Passione di Cristo, ma solo nel tratto in cui viene predetta». Quando Tommaso da Celano scriveva questa parte dell’opera evidentemente conosceva già il seguito, sapeva che di lì a poco avrebbe raccontato dell’apparizione del Serafino e delle stimmate. Deliberatamente costruì l’episodio della triplice apertura con citazioni evangeliche che si riferiscono all’agonia di Cristo secondo Luca (22, 43-45). Cristo, al colmo della sofferenza chiede al Padre: «Allontana da me questo calice», ma comprende di dover accettare tutte le sofferenze della imminente Passione. Nel Vangelo, dopo la visione dell’angelo Gesù si sentì momentaneamente consolato; ma subito dopo ripiombò in una grande angoscia, tanto da sudare sangue. Anche Francesco è sul monte, il monte de La Verna; vede il Serafino e trova consolazione nel momento in cui accetta tutte le sofferenze che ancora lo attendono prima della morte. L’angoscia porta Cristo a sudare sangue; Francesco, scomparsa la visione del Serafino, sente così vicino il Monte degli Ulivi a tal punto che i chiodi di carne, copia dei chiodi della Croce si rendono visibili. Come tutti i grandi santi mistici anche Francesco su La Verna è immerso nel buio della cosiddetta «notte oscura», neanche supportato dal suo caro amico e compagno Leone che viveva, lui stesso, un momento di crisi. Dopo un lungo periodo di ritiro spirituale Francesco ha finalmente un’illuminazione, intravvede la soluzione: se Cristo, che è Dio, si è rimesso alla volontà del Padre, non dovrà fare altrettanto lui stesso? Si compie così quella immedesimazione col Modello che si inscrive non solo nell’animo del Santo, ma anche nella sua carne. Gesù consola Francesco e gli rivela la giustezza del suo cammino che ebbe scaturigine e prima assicurazione dall’altra croce, quella di San Damiano; e gli fa dono anche del suo amore, adesso nel momento terminale della sua vita ed esperienza cristiana. Da questa conoscenza profonda, non intellettuale, ma mistica, della croce di Cristo sgorgheranno dal cuore di Francesco quelle parole che sopra abbiamo riportato e qui condensiamo. Testimonianza di quella «scientia» del mistero cristiano che ci fa ancora oggi emozionare per il modo come Francesco l’ha compresa e vissuta:

«Tu sei amore, carità; tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei mansuetudine, tu sei sicurezza, tu sei quiete, tu sei gioia, tu sei nostra speranza e letizia, tu sei giustizia, tu sei temperanza, tu sei ogni nostra ricchezza in sovrabbondanza».

In una lettera di Francesco ad Antonio da Padova in cui si rivolge a lui chiamandolo «Frate Antonio mio vescovo» diceva:

«Fai pure teologia, ma attenzione che questa non spenga lo spirito di orazione e di contemplazione».

Francesco è per la teologia, ma rassicura il suo frate che questa non deve portarlo a elucubrazioni, a intellettualismi fini a sé stessi, o a una realtà che potrebbe allontanarlo dal Signore anziché avvicinarlo, che lo elevi a livello intellettuale ma non a livello mistico-spirituale. Ecco perché Francesco si può permettere di correggere ed esortare anche un raffinatissimo teologo come Sant’Antonio da Padova; ecco perché Francesco resta figura molto complessa e complicata da capire, da spiegare e trasmettere, soprattutto da seguire. Anche per questo non è facile parlare di «teologia di San Francesco».

 

Sanluri, 17 luglio 2024

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