Gli scappati di canonica sono peggiori degli scappati di casa: i pretini trendy nel ruolo di star televisive alla scialba insegna del clericamente corretto
— Attualità ecclesiale —
GLI SCAPPATI DI CANONICA SONO PEGGIORI DEGLI SCAPPATI DI CASA: I PRETINI TRENDY NEL RUOLO DI STAR TELEVISIVE ALLA SCIALBA INSEGNA DEL CLERICAMENTE CORRETTO
Non ho nulla contro i pretini social ben ordinati, puliti, instagrammabili, con il sopracciglio ben ridisegnato a dovere dall’estetista. Gel tra i capelli, quattro colpi di sole sbarazzini sulla chioma, sguardo trasognato, malinconico e assente, in cui il misticismo da immaginetta si confonde con la sicurezza di una improbabile Chiesa calda da Mulino Bianco, manca solo la voce dello speaker della Barilla che cambiando soggetto dello spot annunci: «Dove c’è Chiesa c’è casa».
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Qualche giorno fa, un nostro caro lettore de L’Isola di Patmos mi ha inviato via e-mail una riflessione del presbitero Luigi Maria Epicoco sulla figura del prete con un evidente stile retorico di circostanza, tendente ― a mio personale avviso ― al clericalmente corretto.
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Se devo essere sincero, mi sento di dire che non vado per nulla pazzo verso il presbitero Luigi Maria Epicoco e la sua recente poesiola sui preti. E lo dico con la consapevolezza di essere un peccatore e forse, non altro per questo, sarebbe meglio non ascoltarmi.
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Con cattolica franchezza mi sento di esprimere che sebbene oggi questo giovane pretino vada per la maggiore in tutti gli ambienti clericalmente corretti, sicuramente ha trovato un buon “diavolo che lo porti”, tanto da apparire in molti contesti come una sorta di “prete immagine” che si usa come una volta si usava il vestito buono della domenica. Sia chiaro, non ho nulla contro i pretini social ben ordinati, puliti, instagrammabili, con il sopracciglio ben ridisegnato a dovere dall’estetista. Gel tra i capelli, quattro colpi di sole sbarazzini sulla chioma, sguardo trasognato, malinconico e assente, in cui il misticismo da immaginetta si confonde con la sicurezza di una improbabile Chiesa calda da Mulino Bianco, manca solo la voce dello speaker della Barilla che cambia soggetto dello spot annuncia: «Dove c’è Chiesa c’è casa», il tutto con il sottofondo musicale «Scatenate la gioia, oggi qui si fa festa».
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No, non vado pazzo per queste riflessioni da poesiola languida che mi sembrano estremamente fuori dalla realtà, da quella realtà che tocchiamo quotidianamente con mano in mezzo ai nostri fedeli sempre più refrattari, diffidenti e disamorati per una Chiesa che pareggia nella corsa per stare al mondo, a volte per essere meglio del mondo. Per questo non mi preoccuperei tanto di che cosa pensa la gente del prete, come scrive il caro Luigi Maria Epicoco nella sua struggente poesiola da Baci Perugina, piuttosto mi preoccuperei di che cosa pensa il prete di sé stesso e della sua vita, per che cosa valga la pena vivere e un giorno morire.
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Spesso vedo sacerdoti diocesani che già dai 40 anni sono in crisi di identità, costantemente in lite con il proprio vescovo, che non riescono ad andare d’accordo con i propri condiocesani, refrattari a trovarsi per pranzare insieme, per pregare insieme, e che a volte hanno la pretesa di voler insegnare ai fedeli quello che loro, con olimpionica faccia tosta, non riescono ancora a fare. Per queste ragioni, prima di pensare a cosa fa il prete, bisognerebbe “ripensare il prete” in toto, fin dal tempo del seminario in cui si cresce nell’individualismo e nel carrierismo più competitivo. Seminari dove non di rado, se un rettore osa rimproverare un seminarista, questi corre a protestare dal vescovo che non esita a rimuovere il rettore del seminario. O può forse, il vescovo, presentarsi alle assemblee con gli altri vescovi e dire che purtroppo si ritrova con il seminario vuoto? Ma che ciò malgrado preferisce avere il seminario vuoto, anziché correre il rischio di portare al sacerdozio soggetti egocentrici affetti da incorreggibile spirito narcisistico?
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Sì, riflessioni da Baci Perugina emotivamente nutrienti come un cioccolatino della Ferrero, quelle di Luigi Maria Epicoco, dinanzi alle quali è di rigore la domanda: quanto tempo il prete passa in confessionale, a fare direzione spirituale, quanto al capezzale degli ammalati, quanto a trovare i confratelli anziani e soli, quanto a pregare e meditare la Parola e insegnarla al suo popolo anche quando è scomoda, anzi: soprattutto quando è scomoda e pericolosa per il mondo? Perché in cima al Monte Calvario non c’è un barattolo di Nutella in premio per il gioioso scalatore peace and love, ma Cristo crocifisso. E quanto tempo trascorrono, questo genere di pretini trendy, a difendere la Verità anche quando questa può costargli visibilità?
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Quando questi pretini trendy partecipano ai vari talk show, con quanta e quale conigliesca maestria, evitano di toccare argomenti che scatenerebbero le ire delle soubrette messe in studio nel ruolo di opinioniste? Ne ricordo uno, tempo fa, che dinanzi al tema dell’aborto che fu toccato solo di straforo, dinanzi a una soubrette che prima si dichiarò cattolica credente, poi precisò che proprio come tale non avrebbe mai impedito ad altre ragazze la libertà di poter abortire, il pretino trendy, lungi dal dire all’oca giuliva che poteva proclamarsi cattolica nella stessa misura in cui Jack lo Squartatore poteva proclamarsi pacifista non-violento, non trovò di meglio da fare che ingurgitare il cioccolatino Bacio Perugina e leggere velocemente il pensiero impresso nella cartina: «L’importante è accogliere queste donne senza giudicarle ma stringendole solo al cuore». E tutti in studio applaudirono, la sedicente cattolica abortista per prima in testa a tutte. Superflua la mia domanda: questo pretino trendy, un vescovo ce l’ha? E perché, il vescovo, prendendo atto di quella rappresentazione, si è ben guardato dal dirgli: “Tu, in uno studio televisivo, a partire da oggi non devi azzardarti a metterci più piede”? Ovvio il motivo: ma perché il vescovo sapeva sicuramente benissimo che il pretino trendy gli avrebbe caricato contro i mass media. Dunque coniglio il prete e più coniglio ancora il vescovo, altro che struggenti poesiole!
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Ammetto che forse sarò demodé. Poi, se essere demodé fosse peccato, ammetto altresì di essere un ostinato nel peccato, perché ai pretini social preferisco quel santo presbitero di Dolindo Ruotolo, che da religioso lazzarista fu cacciato dalla propria congregazione religiosa con accuse pesanti di eresia e finanche di essere indemoniato e che da prete diocesano, con la talare impolverata, sdrucita e un po’ sporca e unta, faceva venire il desiderio di Dio. Al contrario invece, se guardo questi preti 2.0, attenti sempre e di rigore a non urtare la suscettibilità delle masse, disposte al massimo ad accettare un Vangelo annacquato con l’emotività, potrei finire tentato di andare anch’io dall’estetista a farmi la ceretta, alla beauty farm a farmi i massaggi e in palestra a esercitare i bicipiti.
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Sarò per caso invidioso? Forse, semmai anche bruttarello, ma pure tra il clero è sempre più emergente l’immagine del prete di successo, che non deve chiedere mai, come la vecchia pubblicità di Denim musk. Prete ridotto a ingranaggio di un organismo perfetto – quasi sempre questi preti gravitano dentro a qualche movimento ecclesiale ben strutturato e protetto – che hanno trovato il modo di essere à la page. Forse quando li vedrò presi a urla da atei anticlericali dentro una corsia di ospedale, o presi per pedofili ingiustamente all’interno di una parrocchia, o sbeffeggiati per strada da giovani appena adolescenti, o a sperimentare la solitudine della chiesa vuota come nella parrocchia guareschiana di Montenara in cui il povero Don Camillo fu mandato per punizione dal suo vescovo, allora forse riuscirò ad apprezzare queste riflessioni. Però, come dicevo sin dall’inizio, sicuramente lo strano sono io, il tutto con una aggravante: se rispettare, vivere e praticare il Santo Vangelo, implica essere strani, prego Dio che mi dia la grazia di vivere da strano, quindi da strano di morire, per quant’è vero che in cima al Calvario, non c’è un barattolo di Nutella in premio che ci attende.
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dall’Isola di Patmos, 18 febbraio 2022
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