La sostituzione del peccato con il reato d’opinione nella società contemporanea – The replacement of sin with the crime of opinion in contemporary society – La sustitución del pecado por el delito de opinión en la sociedad contemporánea
Italian, english, español
LA SOSTITUZIONE DEL PECCATO CON IL REATO D’OPINIONE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
La morale pubblica, svincolata dal peccato ma ossessionata dalla colpa, finisce per produrre una nuova forma di puritanesimo, più crudele di quella che essa credeva di aver superato. Perché il puritanesimo moderno non nasce più da un eccesso di religione, ma da un difetto di fede; non mira alla santità, ma alla conformità. E in questa nuova ortodossia civile, il peccatore non può più convertirsi: può solo tacere.
— Theologica —
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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo
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Nel momento in cui il concetto di peccato viene espulso dal linguaggio e dal pensiero collettivo, la società — privata della sua dimensione teologica — non smette tuttavia di giudicare. Anzi, paradossalmente giudica più di prima.

Rifiutato il giudizio di Dio, l’uomo si pone come misura assoluta del bene e del male. E così, nel nome della libertà, si erigono nuovi tribunali morali che non ammettono appello. Oggi basta affermare che l’aborto non è una «grande conquista sociale» ma una vile strage degli innocenti, per essere accusati di odio; basta mettere in discussione la cultura omosessualista per essere dichiarati nemici della libertà e del progresso, o bollati come oscurantisti per avere osato difendere l’istituzione della famiglia naturale, o semplicemente esprimere la verità che la vita umana è dono di Dio per essere sospettati di fanatismo religioso.
In questo modo, alla teologia del peccato inteso come atto della volontà che separa l’uomo da Dio e da cui deriva la volontaria e libera privazione della grazia, la società sostituisce la sociologia della colpevolezza. Non è più il peccato a offendere Dio, ma l’opinione “eretica” ad offendere la sensibilità collettiva. Si crea così un sistema di sanzioni simboliche che, pur non avendo la forma del diritto, agisce con la medesima forza coercitiva: l’emarginazione, la censura, la perdita di parola. Un docente che osi discutere criticamente i “dogmi” del pensiero unico viene sospeso o isolato; un artista che rappresenti la fede cristiana fuori dai canoni dell’estetica laicista viene tacciato di provocazione; un sacerdote che ricordi la necessità del giudizio morale viene accusato di fomentare odio. Anche una semplice citazione evangelica — come «io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) — può essere letta come un atto di presunzione o di offesa. I processi non si svolgono più nei tribunali, ma negli studi televisivi e nei social network, dove la colpa si misura in secondi e la condanna si pronuncia in massa.
I talk show televisivi sono ormai una vera piaga: in essi non si dibatte, neppure attraverso confronti, volendo anche polemici, ma articolati su domande e risposte. Tutt’altro: si sollevano temi — spesso anche molto delicati e complessi — per scatenare risse al termine delle quali non si giunge ad alcuna conclusione. Tutto ciò è studiato e voluto. Si invitano esperti e studiosi nei vari campi del sapere, ai quali i conduttori chiedono, senza pena d’umano ridicolo, di rispondere in mezzo minuto a questioni controverse che le scienze e la filosofia dibattono da secoli. Se lo studioso osa superare i trenta o quaranta secondi, giunge l’inderogabile stacco pubblicitario; terminato il quale inizia un nuovo blocco di programma e lo studioso invitato è scomparso frattanto dal parterre televisivo. In compenso, però, a inizio serata, il conduttore adesso pacato — in un atteggiamento di deferenza quasi genuflessa — lascia parlare senza alcun contraddittorio il politico in carica particolarmente gradito a quell’azienda, al quale è concesso un monologo di quaranta minuti ininterrotti, con cinque o sei quesiti posti in modo amabile e sommesso, palesemente concordati in anticipo onde evitare domande sgradite. In queste circostanze non esistono impellenze pubblicitarie di alcun genere, le stesse giustificate sino a poco prima con la necessità di sostenere l’azienda televisiva che vive di proventi pubblicitari. Tutto è rinviato ai blocchi successivi, dove sono mandati in onda giornalisti particolarmente aggressivi che rincorrono privati o pubblici amministratori periferici con microfoni e telecamere intimando in severo tono perentorio: «Lei deve rispondere … lei deve rispondere!». Ignorando che la facoltà di non rispondere — e non a un giornalista, ma a un magistrato inquirente —, è uno dei fondamentali diritti costituzionali riconosciuto all’indagato e all’imputato. Segue poi il blocco successivo nel quale non si esita a chiedere a un filosofo di spiegare in quattro parole — per un massimo di trenta secondi — i principi della metafisica “in modo comprensibile a tutti”, o a un astrofisico di chiarire in pochi istanti le dinamiche dell’espansione dell’universo.
In un simile contesto, lo schermo televisivo diventa la nuova cattedra morale del mondo: da esso si pronunciano assoluzioni e condanne, si decide chi è degno di parola e chi deve essere ridotto al silenzio. Nella modernità non si cerca più il perdono, ma l’esposizione pubblica del colpevole. La penitenza non è più il frutto della conversione, ma la cancellazione sociale. Apparentemente sembra una forma di giustizia, ma in realtà è solo un nuovo rituale sacrificale senza redenzione. È il confessionale rovesciato della modernità, dove non si cerca il perdono ma l’esposizione pubblica del colpevole. E la penitenza non è più la conversione, ma la cancellazione. In apparenza, sembra una conquista di libertà: eliminato il peccato, l’uomo si crede sciolto da ogni giudizio morale. Ma in realtà, proprio negando il peccato, egli ha cancellato la possibilità stessa del perdono. Infatti, se non esiste più un Dio che giudica e redime, non esiste più nemmeno un atto di misericordia che possa perdonare e cancellare il peccato. Resta soltanto il senso di colpa come condizione permanente, un marchio sociale che non si cancella, perché nessuno ha più l’autorità né la volontà di perdonare.
Purtroppo, negli ultimi anni, anche all’interno della Chiesa si è talvolta ceduto alla medesima logica mondana, assumendo espressioni e criteri propri delle piazze mosse da emotività forcaiola. Dopo i gravi scandali che hanno coinvolto e spesso travolto vari membri del nostro clero — scandali che il diritto canonico definisce propriamente delictis gravioribus — si è cominciato a usare, persino ai più alti livelli, una formula che suona come un insulto alla fede cristiana: «tolleranza zero». Un simile linguaggio, mutuato dal lessico politico e mediatico, rivela una mentalità estranea al Vangelo e alla tradizione penitenziale della Chiesa. È ovvio che dinanzi a certi crimini — come gli abusi sessuali su minori — l’autore debba essere immediatamente neutralizzato e posto nella condizione di non nuocere più, quindi sottoposto a una pena giusta, proporzionata e, secondo la dottrina canonica, medicinale, ossia orientata al suo recupero e alla sua conversione. Per questo l’espressione «tolleranza zero» risulta aberrante sul piano dottrinale e pastorale, perché non appartiene al linguaggio della Chiesa, ma a quello delle campagne populiste che puntano e giocano sugli umori di pancia delle masse.
Dichiarando che ad avere bisogno del medico sono i malati e non i sani (cfr. Mt 9, 12), Gesù ci indica e affida una precisa missione, non ci invita alla «tolleranza zero».
Dinanzi a queste nuove tendenze emerge un paradossale corto circuito morale: le stesse coscienze che per anni hanno nascosto la sporcizia sotto i tappeti con rara e omertosa malizia clericale, oggi si mostrano zelanti nel proclamare pubblicamente la loro severità, quasi a purificarsi davanti al mondo. Si colpiscono talvolta gli innocenti o i semplicemente sospettati per dimostrare rigore, mentre i veri colpevoli — in altri tempi protetti — restano spesso impuniti e, talvolta, promossi ai più alti vertici ecclesiali ed ecclesiastici, perché è proprio lì che li troviamo tutti «per giudicare i vivi e i morti», quasi come se il loro regno ― quello della falsità e dell’ipocrisia ― «non avrà fine», in una sorta di Credo al contrario. Tutto questo viene presentato come prova di una «nuova Chiesa» che avrebbe finalmente abbracciato la politica della fermezza. E la tanto decantata misericordia, che fine ha fatto? Se andiamo a vedere scopriremo che per poter beneficiare della misericordia pare sia necessario essere neri che commettono violenze nelle zone più centrali delle città, comprese aggressioni alle stesse Forze dell’Ordine, pur malgrado prontamente giustificati che non commettono delitti perché violenti e propensi a delinquere, ma a causa della società rigorosamente colpevole di non averli adeguatamente accolti e integrati. Chiediamoci: quale credibilità può avere un annuncio evangelico che predica la misericordia solo per certe “categorie protette” e nello stesso tempo adotta la logica della cosiddetta «tolleranza zero» per chi, al proprio interno, ha gravemente sbagliato? È qui che si manifesta l’esito più drammatico della secolarizzazione interna: la Chiesa che per compiacere il mondo rinuncia al linguaggio della redenzione per assumere quello della vendetta forcaiola, mostrandosi misericordiosa solo con ciò che corrisponde alle tendenze sociali del politicamente corretto.
Nel Cristianesimo, il peccato era una ferita che poteva essere guarita; nell’antropologia secolarizzata, la colpa è una macchia indelebile. Il peccatore poteva convertirsi e rinascere, il colpevole contemporaneo può soltanto essere punito o rieducato. La misericordia, privata del suo fondamento teologico, diventa un gesto amministrativo, una concessione paternalista, un atto di clemenza pubblica che non rigenera ma umilia. Perché la vera misericordia non nasce da un moto d’animo o da un atto di indulgenza, ma dalla giustizia redentrice di Dio, che si manifesta nel sacrificio del Figlio e trova compimento nella Croce, dove la giustizia e la misericordia si abbracciano. Essa non è il contrario della giustizia, ma la sua pienezza, come afferma il Salmo: «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11).
Quando questo fondamento viene smarrito, la misericordia si riduce a tolleranza, la giustizia a vendetta, il perdono perde la sua forza salvifica e la giustizia si fa spietata perché è priva di grazia e l’uomo, che credeva di liberarsi dal peccato, scopre di essere prigioniero della colpa.
È la logica rovesciata del Vangelo: dove Cristo diceva «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11), il mondo secolarizzato dice «Hai peccato, dunque non meriti più di parlare». Là dove la Chiesa annunciava la possibilità della redenzione, la nuova morale civile proclama l’irredimibilità del colpevole. È questo il vero dramma della modernità: non aver sostituito Dio con l’uomo, ma aver sostituito la misericordia con la vendetta. E la misericordia divina non è debolezza ma la forma più sublime della giustizia[1]. Senza la misericordia, la giustizia degenera in punizione e la verità si trasforma in strumento di condanna. San Tommaso d’Aquino aveva colto questa verità essenziale: misericordia veritatis — la misericordia della verità — è la sola che salva, perché non sopprime la giustizia, ma la compie nella carità. Quando la verità viene separata dalla misericordia, resta soltanto la crudeltà del giudizio umano.
Sant’Agostino ammoniva che eliminando Dio resta il peccato, ma senza perdono»[2]. Quando si rimuove questa verità, resta soltanto il potere di alcuni di dichiarare reato ciò che un tempo si chiamava peccato. È l’esito ultimo di quella “libertà senza verità” che costituisce la più pericolosa delle illusioni moderne[3].
Non si tratta, dunque, di un superamento del giudizio morale, bensì della sua secolarizzazione estrema. L’uomo moderno non ha smesso di distinguere tra ciò che ritiene giusto e ciò che reputa ingiusto; ha solo mutato il fondamento e la sanzione di tale distinzione. Là dove un tempo il peccato veniva confessato e redento, oggi l’errore di pensiero dev’essere denunciato e punito. La redenzione cristologica è sostituita dalla rieducazione sociale. E questo passaggio è stato graduale, ma inesorabile. La cultura della colpa senza Dio ha generato un sistema morale chiuso, che funziona con la stessa logica inquisitoria delle eresie antiche, ma con segni rovesciati. Il tribunale non è più quello della Chiesa che mirava a includere l’errante nel cammino di salvezza, ma quello dei media che condannano all’esclusione senza appello; la penitenza non è più la conversione del cuore, ma la pubblica abiura delle proprie idee; il perdono non è più grazia, ma reintegrazione condizionata nella comunità ideologicamente corretta. In tal modo, la società post-cristiana ha creato una nuova teologia civile, fatta di dogmi inviolabili e di liturgie collettive. Chi li contesta diviene apostata della nuova religione secolare, un deviante da espellere. È qui che il concetto di libertà subisce il suo rovesciamento: ciò che un tempo era libertà di coscienza diviene oggi libertà vigilata dell’opinione. Si può dire tutto, purché si dica nel linguaggio autorizzato.
La morale pubblica, svincolata dal peccato ma ossessionata dalla colpa, finisce per produrre una nuova forma di puritanesimo, più crudele di quella che essa credeva di aver superato. Perché il puritanesimo moderno non nasce più da un eccesso di religione, ma da un difetto di fede; non mira alla santità, ma alla conformità. E in questa nuova ortodossia civile, il peccatore non può più convertirsi: può solo tacere.
dall’Isola di Patmos, 16 novembre 2025
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Note
[1] Cfr. San Giovanni Paolo II, Dives Misericordia, n. 14.
[2] Cfr. Sant’Agostino, Confessiones, II, 4,9
[3] Cfr. San Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, 84.
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THE REPLACEMENT OF SIN WITH THE CRIME OF OPINION IN CONTEMPORARY SOCIETY
Public morality, detached from sin yet obsessed with guilt, ends by producing a new form of puritanism, more cruel than the one it believed it had overcome. For modern puritanism no longer arises from an excess of religion, but from a defect of faith; it no longer aims at holiness, but at conformity. And in this new civil orthodoxy, the sinner can no longer convert; he can only remain silent.
—Theologica—
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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo
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At the very moment when the concept of sin is expelled from language and from collective thought, society — stripped of its theological dimension — does not cease to judge. On the contrary, paradoxically, it judges more than before. Having rejected God’s judgement, man places himself as the absolute measure of good and evil. Thus, in the name of freedom, new moral tribunals are erected—tribunals that admit of no appeal. Today it is enough to affirm that abortion is not a “great social achievement” but a vile massacre of the innocent, to be accused of hatred; it is enough to question the homosexualist culture to be declared an enemy of freedom and progress; or to be branded as obscurantist for having dared to defend the institution of the natural family; or simply to express the truth that human life is a gift of God, to be suspected of religious fanaticism.
In this way, to the theology of sin understood as an act of the will that separates man from God and from which there follows the voluntary and freely chosen deprivation of grace, society substitutes a sociology of guilt. It is no longer sin that offends God, but the “heretical” opinion that offends collective sensitivity. Thus a system of symbolic sanctions is created which, although it does not have the form of law, acts with the same coercive force: marginalisation, censorship, and the loss of the right to speak. A lecturer who dares to discuss critically the “dogmas” of single thought is suspended or isolated; an artist who represents the Christian faith outside the canons of secularist aesthetics is accused of provocation; a priest who recalls the necessity of moral judgement is charged with fomenting hatred. Even a simple Gospel quotation — such as “I am the way, the truth, and the life” (Jn 14:6) — can be read as an act of presumption or of offence. Trials are no longer held in courts of law, but in television studios and on social networks, where guilt is measured in seconds and condemnation is pronounced by the crowd.
Television talk shows have by now become a veritable plague: in them there is no real debate, not even through exchanges that, even if polemical, are articulated in questions and answers. Quite the contrary: topics are raised — often very delicate and complex ones — in order to trigger brawls at the end of which no conclusion is ever reached. All this is studied and intended. Experts and scholars from various fields of knowledge are invited, and the presenters ask them, without the slightest sense of human absurdity, to respond in half a minute to controversial questions that the sciences and philosophy have been debating for centuries. If the scholar dares to exceed thirty or forty seconds, the unavoidable commercial break arrives; once it is over, a new segment of the programme begins and the invited scholar has in the meantime disappeared from the television panel.
By contrast, at the beginning of the evening, the now calm presenter — in an attitude of almost genuflecting deference — allows the politician in office particularly favoured by that network to speak without any contradiction, granting him a forty-minute uninterrupted monologue, with five or six questions posed in a pleasant and subdued manner, clearly agreed in advance so as to avoid unwelcome questions. In such circumstances there are no advertising emergencies of any sort, the very same that only a short while before were justified by the alleged necessity of supporting the television company that lives on advertising revenue. Everything is postponed to the subsequent segments, where particularly aggressive journalists are put on air, chasing private citizens or local public administrators with microphones and cameras, commanding them in a stern and peremptory tone: “You must answer… you must answer!” They ignore the fact that the faculty of not answering — and not to a journalist, but to an investigating magistrate — is one of the fundamental constitutional rights recognised to the person under investigation and to the defendant. Then there follows yet another segment in which one does not hesitate to ask a philosopher to explain in four words — for a maximum of thirty seconds — the principles of metaphysics “in a way that everyone can understand,” or to ask an astrophysicist to clarify, in a few moments, the dynamics of the expansion of the universe.
In such a context, the television screen becomes partly the chair of modern non-knowledge and partly the new moral chair of the world: from it are pronounced absolutions and condemnations, and it is decided who is worthy of speech and who must be reduced to silence. In modernity one no longer seeks forgiveness, but the public exposure of the guilty. Penance is no longer the fruit of conversion, but social erasure. In appearance, it seems a form of justice, but in reality it is only a new sacrificial ritual without redemption. It is the inverted confessional of modernity, where one does not seek forgiveness but the public exposure of the guilty. And penance is no longer conversion, but erasure. In appearance, it seems a victory for freedom: with sin eliminated, man believes himself freed from all moral judgement. Yet in reality, precisely by denying sin, he has erased the very possibility of forgiveness. For if there is no longer a God who judges and redeems, there is no longer any act of mercy that can forgive and wipe away sin. What remains is only guilt as a permanent condition, a social brand that cannot be erased, because no one any longer possesses either the authority or the will to forgive.
Unfortunately, in recent years, even within the Church there has at times been a yielding to this same worldly logic, adopting expressions and criteria proper to squares moved by a lynch-mob emotionality. After the grave scandals that have involved — and often overwhelmed various members of our clergy — scandals that canon law properly defines as delicta graviora, a formula has begun to be used, even at the highest levels, which sounds like an insult to the Christian faith: “zero tolerance.” Such language, borrowed from the political and media lexicon, reveals a mentality foreign to the Gospel and to the Church’s penitential tradition. It is obvious that in the face of certain crimes — such as sexual abuse of minors — the perpetrator must be immediately neutralised and placed in the condition of no longer being able to cause harm, and therefore subjected to a punishment that is just, proportionate and, according to canonical doctrine, medicinal, that is, directed to his recovery and conversion. For this reason, the expression “zero tolerance” is aberrant on the doctrinal and pastoral plane, because it does not belong to the language of the Church, but to that of populist campaigns that aim at and play upon the gut instincts of the masses.
By declaring that it is the sick and not the healthy who are in need of a physician (cf. Mt 9:12), Jesus indicates and entrusts to us a precise mission; He does not invite us to “zero tolerance.”
Before these new tendencies, a paradoxical moral short circuit emerges: the very same consciences that for years have hidden the filth under the carpets with rare and conspiratorial clerical malice now show themselves zealous in publicly proclaiming their severity, as though purifying themselves before the world. At times the innocent, or the merely suspected, are struck down in order to demonstrate rigour, while the true guilty — once protected — often remain unpunished and, at times, are promoted to the highest ecclesial and ecclesiastical positions, for it is precisely there that we find them all, “to judge the living and the dead,” almost as though their kingdom — the kingdom of falsehood and hypocrisy — “will have no end,” in a kind of inverted Creed. All this is presented as proof of a “new Church” that would at last have embraced the politics of firmness.
And what of the much-vaunted mercy, what has become of it? If we look closely, we shall discover that, in order to be able to benefit from mercy, it seems necessary to be black people who commit acts of violence in the most central areas of the cities, including assaults against the very Forces of Order, yet who are promptly justified, not because they do not commit crimes, but because, being violent and inclined to delinquency, it is said that they act on account of a society strictly guilty of not having adequately welcomed and integrated them.
Let us ask ourselves: what credibility can a Gospel proclamation have that preaches mercy only for certain “protected categories” and at the same time adopts the logic of so-called “zero tolerance” towards those who, within its own ranks, have gravely erred? It is here that the most dramatic outcome of internal secularisation is manifested: the Church which, in order to please the world, renounces the language of redemption to assume that of lynch-mob vengeance, showing herself merciful only with that which corresponds to the social tendencies of political correctness.
In Christianity, sin was a wound that could be healed; in secularised anthropology, guilt is an indelible stain. The sinner could convert and be reborn; the contemporary culprit can only be punished or re-educated. Mercy, deprived of its theological foundation, becomes an administrative gesture, a paternalistic concession, a public act of clemency that does not regenerate but humiliates. For true mercy is not born from an emotion or from an act of indulgence, but from the redemptive justice of God, which is manifested in the sacrifice of the Son and finds its fulfilment in the Cross, where justice and mercy embrace. It is not the opposite of justice, but its fullness, as the Psalm affirms: “Love and truth will meet, justice and peace will kiss” (Ps 85:11).
When this foundation is lost, mercy is reduced to tolerance, justice to vengeance; forgiveness loses its saving power and justice becomes pitiless because it is deprived of grace, and man, who believed he was freeing himself from sin, discovers that he is a prisoner of guilt.
It is the inverted logic of the Gospel: where Christ said, “Go, and from now on do not sin any more” (Jn 8:11), the secularised world says, “You have sinned, and therefore you no longer deserve to speak”. Where the Church once proclaimed the possibility of redemption, the new civil morality proclaims the irredeemability of the guilty. This is the true drama of modernity: not having replaced God with man, but having replaced mercy with vengeance. And divine mercy is not weakness, but the most sublime form of justice¹. Without mercy, justice degenerates into punishment and truth becomes an instrument of condemnation. Saint Thomas Aquinas had grasped this essential truth: misericordia veritatis — the mercy of truth — is the only mercy that saves, because it does not suppress justice but fulfils it in charity. When truth is separated from mercy, there remains only the cruelty of human judgement. Saint Augustine warned that, by eliminating God, sin remains — but without forgiveness². When this truth is removed, what remains is only the power of some to declare as a crime what was once called sin. This is the ultimate outcome of that “freedom without truth” which constitutes the most dangerous of modern illusions³.
It is not, therefore, a surpassing of moral judgement, but its extreme secularisation. Modern man has not ceased to distinguish between what he considers just and what he deems unjust; he has only changed the foundation and the sanction of that distinction. Where once sin was confessed and redeemed, today error of thought must be denounced and punished. Christological redemption is replaced by social re-education. And this passage has been gradual, but inexorable. The culture of guilt without God has generated a closed moral system, which functions with the same inquisitorial logic as the ancient heresies, but with reversed signs. The tribunal is no longer that of the Church, which aimed to include the erring within the path of salvation, but that of the media, which condemn to exclusion without appeal; penance is no longer the conversion of the heart, but the public recantation of one’s own ideas; forgiveness is no longer grace, but conditional reintegration into the ideologically correct community. In this way, post-Christian society has created a new civil theology, made up of inviolable dogmas and collective liturgies. Whoever contests them becomes an apostate of the new secular religion, a deviant to be expelled. It is here that the very concept of freedom is overturned: what was once freedom of conscience becomes today supervised freedom of opinion. One may say everything, provided it is said in the authorised language.
Public morality, detached from sin yet obsessed with guilt, ends by producing a new form of puritanism, more cruel than the one it believed it had overcome. For modern puritanism no longer arises from an excess of religion, but from a defect of faith; it no longer aims at holiness, but at conformity. And in this new civil orthodoxy, the sinner can no longer convert; he can only remain silent.
From the Island of Patmos, 13 November 2025
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Notes
¹ St John Paul II, Dives in Misericordia, n. 14.
² St Augustine, Confessiones, II, 4, 9.
³ St John Paul II, Veritatis Splendor, 84.
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LA SUSTITUCIÓN DEL PECADO POR EL DELITO DE OPINIÓN EN LA SOCIEDAD CONTEMPORÁNEA
La moral pública, desligada del pecado pero obsesionada con la culpa, termina produciendo una nueva forma de puritanismo, más cruel que aquella que creía haber superado. Porque el puritanismo moderno ya no nace de un exceso de religión, sino de un defecto de fe; no apunta a la santidad, sino a la conformidad. Y en esta nueva ortodoxia civil, el pecador ya no puede convertirse: solo puede callar
— Theologica—
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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo
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En el momento en que el concepto de pecado hacido expulsado del lenguaje y del pensamiento colectivo, la sociedad — privada de su dimensión teológica — no deja, sin embargo, de juzgar. Es más, paradójicamente, juzga más que antes. Rechazado el juicio de Dios, el hombre se pone a sí mismo como medida absoluta del bien y del mal. Y así, en nombre de la libertad, se erigen nuevos tribunales morales que no admiten apelación. Hoy basta afirmar que el aborto no es una «gran conquista social» sino una vil matanza de inocentes para ser acusado de odio; basta poner en cuestión la cultura homosexualista para ser declarado enemigo de la libertad y del progreso, ser tachado de scurantista por haber osado defender la institución de la familia natural, o simplemente expresar la verdad de que la vida humana es don de Dios para ser sospechoso de fanatismo religioso.
A la teología del pecado entendido como acto de la voluntad que separa al hombre de Dios y del cual deriva la privación voluntaria y libre de la gracia, la sociedad sustituye la sociología de la culpabilidad. Ya no es el pecado el que ofende a Dios, sino la opinión “herética” la que ofende la sensibilidad colectiva. Así se crea un sistema de sanciones simbólicas que, aun sin tener forma jurídica, actúan con la misma fuerza coercitiva: la marginación, la censura, la pérdida de la palabra. Un docente que ose discutir críticamente los “dogmas” del pensamiento único es suspendido o aislado; un artista que representa la fe cristiana fuera de los cánones de la estética laicista es acusado de provocación; un sacerdote que recuerda la necesidad del juicio moral es acusado de fomentar el odio. Incluso una simple cita evangélica — como «Yo soy el camino, la verdad y la vida» (Jn 14,6) — puede ser leída como un acto de presunción o de ofensa. Los procesos ya no se celebran en los tribunales, sino en los estudios televisivos y en las redes sociales, donde la culpa se mide en segundos y la condena se pronuncia en masa.
Los talk show televisivos se han convertido en una verdadera plaga: en ellos no se debate, ni siquiera mediante confrontaciones que, aun siendo polémicas, se articulan en preguntas y respuestas. Todo lo contrario: se plantean temas — a menudo muy delicados y complejos — para desencadenar riñas al término de las cuales no se llega a conclusión alguna. Todo ello está estudiado. Se invita a expertos y estudiosos de los diversos campos del saber, a los cuales los presentadores piden, sin el menor reparo de humano ridículo, que respondan en medio minuto a cuestiones controvertidas que las ciencias y la filosofía debaten desde hace siglos. Si el estudioso se atreve a superar los treinta o cuarenta segundos, llega el inaplazable corte publicitario; concluido este, comienza un nuevo bloque del programa y el estudioso invitado ha desaparecido entretanto del estudio televisivo.
En compensación, sin embargo, al inicio de la velada, el presentador, ahora sosegado — en una actitud de deferencia casi genuflexa — deja hablar sin ningún tipo de contradicción al político en ejercicio particularmente grato a aquella cadena, al cual se le concede un monólogo de cuarenta minutos ininterrumpidos, con cinco o seis preguntas formuladas de modo amable y en tono sumiso, evidentemente acordadas de antemano para evitar cuestiones incómodas. En estas circunstancias no existen urgencias publicitarias de ningún género, las mismas que poco antes se justificaban con la necesidad de sostener la empresa televisiva que vive de los ingresos publicitarios. Todo se remite a los bloques sucesivos, donde se emiten periodistas particularmente agresivos que persiguen a privados o a administradores públicos periféricos con micrófonos y cámaras, intimándoles en tono severo y perentorio: «¡Usted debe responder … usted debe responder!». Ignorando que la facultad de no responder — y no a un periodista, sino a un magistrado instructor — es uno de los derechos constitucionales fundamentales reconocidos al investigado y al imputado. Sigue luego el bloque sucesivo en el cual no se vacila en pedir a un filósofo que explique en cuatro palabras — por un máximo de treinta segundos — los principios de la metafísica «de modo comprensible para todos», o a un astrofísico que aclare en pocos instantes las dinámicas de la expansión del universo.
En un contexto semejante, la pantalla televisiva se convierte en parte en la cátedra del moderno no-saber y en parte en la nueva cátedra moral del mundo: desde ella se pronuncian absoluciones y condenas, y se decide quién es digno de palabra y quién debe ser reducido al silencio. En la modernidad ya no se busca el perdón, sino la exposición pública del culpable. La penitencia ya no es fruto de la conversión, sino la cancelación social. En apariencia parece una forma de justicia, pero en realidad no es más que un nuevo ritual sacrificial sin redención. Es el confesionario invertido de la modernidad, donde no se busca el perdón, sino la exposición pública del culpable. Y la penitencia ya no es la conversión, sino la cancelación. En apariencia, parece una conquista de libertad: eliminado el pecado, el hombre se cree liberado de todo juicio moral. Pero en realidad, precisamente al negar el pecado, ha borrado la posibilidad misma del perdón. En efecto, si ya no existe un Dios que juzga y redime, tampoco existe ya un acto de misericordia que pueda perdonar y borrar el pecado. Solo queda el sentimiento de culpa como condición permanente, una marca social que no se borra, porque nadie posee ya la autoridad ni la voluntad de perdonar.
Por desgracia, en los últimos años, también dentro de la Iglesia se ha cedido a veces a la misma lógica mundana, adoptando expresiones y criterios propios de las plazas movidas por la emotividad de linchamiento. Tras los graves escándalos que han implicado y a menudo arrasado a varios miembros de nuestro clero — escándalos que el derecho canónico define propiamente como delictis gravioribus —, se ha comenzado a usar, incluso en los más altos niveles, una fórmula que suena como un insulto a la fe cristiana: «tolerancia cero». Un lenguaje semejante, tomado del léxico político y mediático, revela una mentalidad ajena al Evangelio y a la tradición penitencial de la Iglesia. Es obvio que ante ciertos crímenes —como los abusos sexuales a menores — el autor debe ser inmediatamente neutralizado y puesto en la condición de no poder hacer más daño, y por tanto sometido a una pena justa, proporcionada y, según la doctrina canónica, medicinal, es decir, orientada a su recuperación y conversión. Por ello, la expresión «tolerancia cero» resulta aberrante en el plano doctrinal y pastoral, porque no pertenece al lenguaje de la Iglesia, sino al de las campañas populistas que apuntan y juegan con las vísceras de las masas.
Al declarar que quienes necesitan del médico son los enfermos y no los sanos (cf. Mt 9,12), Jesús nos indica y confía una misión precisa, no nos invita a la «tolerancia cero».
Ante estas nuevas tendencias surge un paradójico cortocircuito moral: las mismas conciencias que durante años han escondido la suciedad bajo las alfombras con rara y omertosa malicia clerical hoy se muestran celosas al proclamar públicamente su severidad, casi como para purificarse ante el mundo. A veces se golpea a los inocentes o a los simplemente sospechosos para demostrar rigor, mientras que los verdaderos culpables — en otros tiempos protegidos — suelen quedar impunes y, en ocasiones, son promovidos a los más altos vértices eclesiales y eclesiásticos, porque es precisamente allí donde los encontramos a todos, «para juzgar a vivos y muertos», casi como si su reino — el de la falsedad y de la hipocresía — «no tuviera fin», en una suerte de Credo al revés. Todo esto se presenta como prueba de una «nueva Iglesia» que habría abrazado por fin la política de la firmeza.
¿Y la tan decantada misericordia, qué hasido de ella? Si vamos a ver, descubriremos que para poder beneficiarse de la misericordia parece necesario ser negros que cometen violencias en las zonas más céntricas de las ciudades, incluidas agresiones a las mismas Fuerzas del Orden, y sin embargo prontamente justificados, no porque no cometan delitos, sino porque, siendo violentos y propensos a delinquir, se afirma que la culpa recae en una sociedad rigurosamente culpable de no haberlos acogidos e integrados adecuadamente. Preguntémonos: ¿qué credibilidad puede tener un anuncio evangélico que predica la misericordia solo para ciertas “categorías protegidas” y al mismo tiempo adopta la lógica de la llamada «tolerancia cero» para quienes, en su propio seno, han errado gravemente? Aquí se manifiesta el resultado más dramático de la secularización interna: la Iglesia que, para complacer al mundo, renuncia al lenguaje de la redención para asumir el de la venganza de los linchamientos, mostrándose misericordiosa solo con aquello que corresponde a las tendencias sociales de lo políticamente correcto.
En el cristianismo, el pecado era una herida que podía ser curada; en la antropología secularizada, la culpa es una mancha indeleble. El pecador podía convertirse y renacer; el culpable contemporáneo solo puede ser castigado o reeducado. La misericordia, privada de su fundamento teológico, se convierte en un gesto administrativo, una concesión paternalista, un acto de clemencia pública que no regenera, sino que humilla. Porque la verdadera misericordia no nace de un movimiento del ánimo ni de un acto de indulgencia, sino de la justicia redentora de Dios, que se manifiesta en el sacrificio del Hijo y encuentra cumplimiento en la Cruz, donde la justicia y la misericordia se abrazan. No es lo contrario de la justicia, sino su plenitud, como afirma el Salmo: «El amor y la verdad se encontrarán, la justicia y la paz se besarán» (Sal 85,11).
Cuando se pierde este fundamento, la misericordia se reduce a tolerancia, la justicia a venganza; el perdón pierde su fuerza salvífica y la justicia se vuelve despiadada porque carece de gracia, y el hombre, que creía haberse liberado del pecado, descubre que es prisionero de la culpa.
Es la lógica invertida del Evangelio: donde Cristo decía «Vete, y de ahora en adelante no peques más» (Jn 8,11), el mundo secularizado dice: «Has pecado, y por tanto ya no mereces hablar». Allí donde la Iglesia anunciaba la posibilidad de la redención, la nueva moral civil proclama la irredimibilidad del culpable. Este es el verdadero drama de la modernidad: no haber sustituido a Dios por el hombre, sino haber sustituido la misericordia por la venganza. Y la misericordia divina no es debilidad, sino la forma más sublime de la justicia. Sin misericordia, la justicia degenera en castigo y la verdad se transforma en instrumento de condena. Santo Tomás de Aquino había captado esta verdad esencial: misericordia veritatis — la misericordia de la verdad — es la única que salva, porque no suprime la justicia, sino que la cumple en la caridad. Cuando la verdad se separa de la misericordia, solo queda la crueldad del juicio humano¹.
San Agustín advertía que, eliminando a Dios, permanece el pecado, pero sin perdón. Cuando se elimina esta verdad, solo queda el poder de algunos para declarar delito lo que en otro tiempo se llamaba pecado². Es el resultado último de esta “libertad sin verdad” que constituye la más peligrosa de las ilusiones modernas³.
No se trata, pues, de una superación del juicio moral, sino de su secularización extrema. El hombre moderno no ha dejado de distinguir entre lo que considera justo y lo que reputa injusto; solo ha cambiado el fundamento y la sanción de tal distinción. Allí donde en otro tiempo el pecado se confesaba y se redimía, hoy el error de pensamiento debe ser denunciado y castigado. La redención cristológica es sustituida por la reeducación social. Y este paso ha sido gradual, pero inexorable. La cultura de la culpa sin Dios ha generado un sistema moral cerrado, que funciona con la misma lógica inquisitorial de las herejías antiguas, aunque con signos invertidos. El tribunal ya no es el de la Iglesia, que buscaba incluir al errante en el camino de la salvación, sino el de los medios de comunicación, que condenan a la exclusión sin apelación; la penitencia ya no es la conversión del corazón, sino la abjuración pública de las propias ideas; el perdón ya no es gracia, sino readmisión condicionada en la comunidad ideológicamente correcta. De este modo, la sociedad poscristiana ha creado una nueva teología civil, hecha de dogmas inviolables y de liturgias colectivas. Quien los cuestiona se convierte en apóstata de la nueva religión secular, un desviado que debe ser expulsado. Es aquí donde el concepto de libertad sufre su inversión: lo que en otro tiempo era libertad de conciencia se convierte hoy en libertad vigilada de opinión. Se puede decir todo, con tal de que se diga en el lenguaje autorizado.
La moral pública, desligada del pecado pero obsesionada con la culpa, termina produciendo una nueva forma de puritanismo, más cruel que aquella que creía haber superado. Porque el puritanismo moderno ya no nace de un exceso de religión, sino de un defecto de fe; no apunta a la santidad, sino a la conformidad. Y en esta nueva ortodoxia civil, el pecador ya no puede convertirse: solo puede callar.
Desde la Isla de Patmos, 13 de noviembre de 2025
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Notas
¹ San Juan Pablo II, Dives in Misericordia, n. 14.
² San Agustín, Confesiones, II, 4, 9.
³ San Juan Pablo II, Veritatis Splendor, 84.
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