Con León XIV Obispo de Roma, resurge el título de Primado de Italia
CON LEÓN XIV, OBISPO DE ROMA, RIEMERGE IL TITOLO DI PRIMATE D’ITALIA
Questa definizione, permaneció en silencio durante mucho tiempo en los textos oficiales, vuelve ahora a la vida en la voz del Pontífice como signo de orientación para la Iglesia y para Italia. Dopo anni di interpretazioni prevalentemente universali del papato, Leone XIV ha voluto rinnovare la dimensione originaria del suo ministero: il Sommo Pontefice è Vescovo di Roma e, para esto, guida e padre delle Chiese d’Italia.
- Topicalidad eclesial -

Autor
Teodoro Beccia
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Tra le parole pronunciate dal Sommo Pontefice Leone XIV nel suo recente discorso al Quirinale, el 14 El pasado octubre, una in particolare ha risuonato con forza teologica e con intensità storica: «Come Vescovo di Roma e Primate d’Italia».
Questa definizione, permaneció en silencio durante mucho tiempo en los textos oficiales, vuelve ahora a la vida en la voz del Pontífice como signo de orientación para la Iglesia y para Italia. Dopo anni di interpretazioni prevalentemente universali del papato, Leone XIV ha voluto rinnovare la dimensione originaria del suo ministero: il Sommo Pontefice è Vescovo di Roma e, para esto, guida e padre delle Chiese d’Italia.
Il titolo di Primate d’Italia esprime la verità ecclesiologica che unisce la Chiesa universale alla sua radice concreta, riconducendo il primato di Pietro alla sorgente sacramentale e alla comunione delle Chiese locali (cf.. lumen gentium, 22; Pastor aeternus, gorra. II). Nella visione del Concilio Vaticano II, la funzione petrina non è mai disgiunta dalla dimensione episcopale e collegiale: el Obispo de Roma, Como el sucesor de Pietro, esercita una presidenza di carità e di unità (lumen gentium, 23), la quale si radica nella sua stessa sede episcopale. En tal sentido, il titolo di Primate d’Italia non rappresenta un privilegio di tipo giuridico, ma un segno teologico ed ecclesiale che manifesta l’intima connessione tra il primato universale del Romano Pontefice e la sua paternità sulle Chiese d’Italia. Come ricorda San Giovanni Paolo II, il ministero del Vescovo di Roma «è al servizio dell’unità di fede e di comunione della Chiesa» (Para uno;, 94), e proprio da questa comunione scaturisce la dimensione nazionale e locale della sua sollecitudine pastorale.
Nella gerarchia cattolica della Chiesa latina, agli inizi del secondo millennio, sono previsti anche vescovi primati, prelati che con quel titolo — soltanto onorifico — sono preposti alle diocesi più antiche e più importanti di Stati o di territori, senza prerogativa alcuna (cf.. Annuario Pontificio, ed. 2024). Il Vescovo di Roma è il Primate d’Italia: titolo antico, attuato nei secoli e tuttora vigente, sebbene con prerogative diverse che si sono succedute nel tempo.
A través de los siglos altri vescovi nella Penisola hanno avuto il titolo onorifico di Primate: l’Arcivescovo metropolita di Pisa mantiene il titolo di Primate delle isole di Corsica e Sardegna, l’Arcivescovo metropolita di Cagliari porta il titolo di Primate di Sardegna, l’Arcivescovo metropolita di Palermo mantiene il titolo di Primate di Sicilia, e l’Arcivescovo metropolita di Salerno quello di Primate del Regno di Napoli (cf.. Annuario Pontificio, salpicadura. “Sedi Metropolitane e Primaziali”).
Vario è stato l’ambito territoriale riferito al termine Italia: dall’Italia suburbicaria dei primi secoli cristiani, all’Italia gotica e longobarda, hasta el Regnum Italicum incorporato nell’Impero romano-germanico, sostanzialmente costituito dall’Italia settentrionale e dallo Stato Pontificio. Questa primazia non riguardava i territori dell’ex patriarcato di Aquileia, né i territori facenti parte del Regnum Germanicum — l’attuale Trentino-Alto Adige, Trieste e l’Istria —, in seguito appartenuti all’Impero austriaco. Oggi la primazia d’Italia viene attuata su un territorio corrispondente a quello della Repubblica Italiana, della Repubblica di San Marino e dello Stato della Città del Vaticano (cf.. Annuario Pontificio, ed. 2024, salpicadura. “Sedi Primaziali e Territori”).
La nozione di “Italia” applicata alla giurisdizione ecclesiastica non ha mai avuto un valore politico, ma un significato eminentemente pastorale e simbolico, connesso alla funzione unificante del Vescovo di Roma come centro di comunione tra le Chiese particolari della Penisola. Fin dall’epoca tardo-antica, de hecho, la suburbicaria regio designava il territorio che, per antica consuetudine, riconosceva la diretta dipendenza dalla Sede romana (cf.. Liber Pontificalis, vol. E, ed. Duchesne). A través de los siglos, pur mutando le circoscrizioni civili e gli assetti statali, la dimensione spirituale della primazia è rimasta costante, come espressione dell’unità ecclesiale e della tradizione apostolica della Penisola.
Nei duemila anni di Cristianesimo, i popoli della Penisola e lo stesso episcopato hanno costantemente guardato alla Sede Romana, sia in ambito ecclesiastico sia in quello civile. En el 452 el Obispo de Roma, Leone I, su richiesta dell’imperatore Valentiniano III, fece parte dell’ambasceria che si recò nell’Italia settentrionale per incontrare il re degli Unni Attila, nel tentativo di dissuaderlo dal procedere nella sua avanzata verso Roma (cf.. Prosper d’Aquitania, Chronicon, ad annum 452).
Sono i Papi di Roma che, los siglos, sostengono i Comuni contro i poteri imperiali: il partito guelfo — e in particolare Carlo d’Angiò — diviene lo strumento del potere pontificio in tutta la Penisola. Il Romano Pontefice apparirà come l’amico dei Comuni, il protettore delle libertà italiche, contribuendo a dissolvere l’idea stessa di Impero inteso come detentore della piena sovranità, a favore di una sovranità diffusa e molteplice.
El concepto de iurisdictio sarà espresso con chiarezza da Bartolo da Sassoferrato (1313-1357): essa non è intesa soltanto come potestas iuris dicendi, ma soprattutto come il complesso di poteri necessari al governo di un ordinamento che non si accentra nelle mani di una sola persona o ente (cf.. Bartolus de Saxoferrato, Tractatus de iurisdictione, en Opera omnia, nueva York, 1588, vol. IX). In questa visione pluralistica del diritto, la Sede Apostolica rappresenta il principio di equilibrio e di giustizia tra le molteplici forme di sovranità che si sviluppano nella Penisola, ponendosi come garante dell’ordine e della libertà delle comunità cristiane.
Ancora nel XIX secolo, Vincenzo Gioberti propose l’ideale neo-guelfo e una confederazione degli Stati italiani sotto la presidenza del Romano Pontefice, delineando una visione nella quale l’autorità spirituale del Papa avrebbe dovuto fungere da principio d’unità morale e politica della Penisola (cf.. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli ItalianRe, Bruxelles 1843, liberación. II, gorra. 5). In sintonia, anche Antonio Rosmini riconosceva nella Sede Apostolica il fondamento dell’ordine politico cristiano, pur distinguendo tra potere spirituale e potere temporale, in una prospettiva che intendeva sanare la frattura tra Chiesa e nazione (cf.. A. Rosmini, Las cinco llagas de la Santa Iglesia, Lugano 1848, parte II, gorra. 1).
Il titolo di Primate d’Italia, nell’età moderna, si riferiva dunque al Vescovo di Roma, sovrano di un vasto territorio e capo di uno Stato che si estendeva, como otros, nella Penisola. Il territorio della primazia, como consecuencia, non si identificava con quello di un solo Stato, ma si sovrapponeva alla pluralità delle giurisdizioni politiche dell’epoca. Si él Concordato di Worms (1122) aveva attribuito ai Papi di Roma la facoltà di confermare la nomina dei vescovi, in Italia — o meglio nel Regnum Italicum, comprendente l’Italia centro-settentrionale —, nel corso dei secoli la scelta dei vescovi venne concordata con i sovrani territoriali, secondo le consuetudini proprie degli Stati europei: o tramite presentazioni di terne, il primo dei quali era generalmente il prescelto, oppure con un’unica designazione da parte del principe titolare del diritto di patronato, come accadeva anche per il Regno di Sicilia (cf.. Bullarium Romanum, t. V, Roma 1739).
Il coinvolgimento dell’autorità statale determinava spesso un sostanziale equilibrio tra Stato e Chiesa, nel quale il riconoscimento delle rispettive sfere d’azione permetteva alla Sede Apostolica di mantenere la propria influenza sulle nomine episcopali, pur entro i confini dei concordati e dei privilegi sovrani.
In pienaepoca giurisdizionalista del secolo XVIII, nell’episcopato della Penisola non trovarono spazio né le rivendicazioni episcopaliste, né quelle gallicane o germaniche, nonostante alcuni principi italiani tentassero di assecondare, se non patrocinare, tali teorie (cf.. Por. Prodi, Il giurisdizionalismo nella storia del pensiero politico italiano, Bologna 1968). In Toscana, l’ingerenza statale in materia religiosa raggiunse la sua piena attuazione sotto il granduca Pietro Leopoldo (1765-1790). Animato da sincero fervore religioso, il Granduca credette di compiere opera di vera devozione e pietà quando si adoperò per combattere gli abusi della disciplina ecclesiastica, le superstizioni, la corruzione e l’ignoranza del clero.
In un primo tempo nessuna protesta venne elevata dall’episcopato toscano, o perché vedeva l’inutilità di opporsi, o perché approvava quelle misure; tal vez incluso por qué, nell’episcopato toscano come nel clero, covava un’antipatia verso gli Ordini religiosi e si accettava volentieri una forma di autonomia dalla Santa Sede. Sin embargo, nel sinodo generale di Firenze del 1787, tutti i vescovi dello Stato — tranne Scipione de’ Ricci e altri due — respinsero tali riforme, riaffermando la fedeltà alla comunione con il Romano Pontefice e difendendo l’integrità della tradizione ecclesiastica (cf.. Acta Synodi Florentinae, 1787, arch. curiae Florentiae).
La Chiesa Cattolicaha sempre combattuto il formarsi di chiese nazionali, poiché tali tentativi risultano in aperto contrasto con la struttura stessa della comunione ecclesiale e con l’antica disciplina canonica. Già il can. XXXIV dei Canones Apostolorum — una raccolta risalente al IV secolo, attorno all’anno 380 — prescriveva un principio fondamentale di unità episcopale:
Episcopus gentium singularum scire convenit, quia inter eos primus habeatur, quem velut caput existiment et nihil amplius praeter eius consientiam gerant, quam illa sola singuli, quae paroeciae [in greco τῇ παροικίᾳ] propriae et villis quae sub ea sunt competant. Sed nec ille praeter omnium conscientiam faciat aliquid; sic enim unanimitas erit et glorificatur Deus per Christum in Spiritu Sancto (“Bisogna che i vescovi di ciascuna nazione sappiano chi tra di loro sia il primo e lo considerino come il loro capo, e non facciano nulla di importante senza il suo assenso; ciascuno si occuperà solo di ciò che riguarda la propria diocesi e i territori che da essa dipendono; ma anche colui che è primo non faccia nulla senza l’assenso di tutti: così regnerà la concordia e Dio sarà glorificato per Cristo nello Spirito Santo.”)
Questa norma, di sapore apostolico e di matrice sinodale, afferma il principio di unità nella collegialità, dove il primato non è dominio, ma servizio di comunione. Tal concepción, assunta e approfondita nella tradizione cattolica, ha trovato la sua piena espressione nella dottrina del primato romano. Come insegna Papa Leone XIII:
«la Chiesa di Cristo è una per natura, e come uno è Cristo, così uno deve essere il suo corpo, una la sua fede, una la sua dottrina, e uno il suo capo visibile, stabilito dal Redentore nella persona di Pietro» (Satis cognitum, 9).
como consecuencia, ogni tentativo di fondare chiese particolari o nazionali indipendenti dalla Sede Apostolica è stato sempre respinto come contrario alla una, sancta, catholica et apostolica Ecclesia. La subordinazione del collegio episcopale al primato petrino costituisce infatti il vincolo di unità che garantisce la cattolicità della Chiesa e preserva le singole Chiese particolari dal rischio di isolamento o di deviazione dottrinale (cf.. Lumen gentium, 22; cristo el señor, 4).
Il titolo di Primate, attribuito ad alcune sedi, era in realtà un mero titolo onorifico, al pari di quello di Patriarca conferito ad alcune sedi episcopali di rito latino (cf.. Codex Iuris Canonici, lata. 438). Tale dignità, di natura esclusivamente cerimoniale, non comportava potestà giurisdizionale effettiva, né un’autorità diretta sulle altre diocesi di una determinata regione ecclesiastica. Il titolo aveva lo scopo di onorare la vetustà o la particolare rilevanza storica di una sede episcopale, secondo una prassi consolidata nel secondo millennio.
Diversa è invece la posizione e soprattutto le prerogative delle due sedi primaziali di Italia e Ungheria, che conservano una fisionomia giuridico-ecclesiale singolare all’interno della Chiesa latina. Secondo una tradizione secolare, il Principe-Primate d’Ungheria è rivestito sia di funzioni ecclesiastiche sia di compiti civili. entre éstos, il privilegio di incoronare il sovrano — privilegio esercitato l’ultima volta il 30 diciembre 1916 per l’incoronazione di re Carlo IV d’Asburgo da parte di S. Y. Mons. János Csernoch, allora Arcivescovo di Esztergom — e di sostituirlo in caso di impedimento temporaneo (cf.. Acta Sanctae Sedis, vol. XLIX, 1917).
La primazia ungherese è attribuita alla sede arcivescovile di Esztergom (oggi Esztergom-Budapest), la cui antica dignità primaziale risale al secolo XI, quando re Stefano I ottenne dal Papa la fondazione della Chiesa nazionale ungherese sotto la protezione diretta della Sede Apostolica. L’Arcivescovo di Esztergom, come Primate d’Ungheria, gode di una posizione speciale su tutti i cattolici presenti nello Stato e di una potestà quasi-governativa sui vescovi e metropoliti, compresa la metropoli di Hajdúdorog per i fedeli ungheresi di rito bizantino. Presso di lui esiste un tribunale primaziale, da lui sempre presieduto, che giudica le cause in terza istanza: un privilegio fondato su una consuetudine immemorabile, più che su una norma giuridica espressa (cf.. Codex Iuris Canonici, lata. 435; Annuario Pontificio, salpicadura. “Sedi Primaziali”, ed. 2024). Egli è un cittadino ungherese, residente nello Stato, e spesso ricopre anche la carica di Presidente della Conferenza Episcopale Ungherese, esercitando una funzione di mediazione tra la Sede Apostolica e la Chiesa locale.
La primazia italiana, attribuita alla Sede Romana, possiede una configurazione del tutto particolare: il suo titolare, el Obispo de Roma, può essere — e in effetti negli ultimi pontificati è stato — un cittadino non italiano. Egli è sovrano di uno Stato estero, Estado de la Ciudad del Vaticano, non facente parte dell’Unione Europea, e non appartiene alla Conferenza Episcopale Italiana, pur mantenendo su di essa un’autorità diretta. In virtù del suo titolo di Primate d’Italia, il Romano Pontefice nomina infatti il Presidente e il Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana, come previsto dall’art. 4 §2 dello Statuto della CEI, che richiama espressamente «il particolare legame che unisce la Chiesa in Italia al Papa, Vescovo di Roma e Primate d’Italia» (cf.. Statuto della Conferenza Episcopale Italiana, approvato da Paolo VI il 2 De julio 1965, aggiornato nel 2014).
Questa singolare configurazione giuridica mostra come la primazia italiana, pur priva di struttura amministrativa autonoma, conservi una funzione ecclesiologica reale, quale espressione visibile del legame organico tra la Chiesa universale e le Chiese d’Italia. In ciò si manifesta la continuità del primato petrino nella sua duplice dimensione: universal, come servizio alla comunione di tutta la Chiesa, e locale, come paternità pastorale esercitata sul territorio italiano (lumen gentium, 22–23).
Si delinea così un’apertura del finis Ecclesiae ai problemi d’ordine internazionale e mondiale, cosa che è anche riscontrabile in alcuni paragrafi del Catechismo della Chiesa Cattolica, dedicati ai diritti umani, alla solidarietà internazionale, al diritto alla libertà religiosa dei vari popoli, alla tutela degli emigranti e dei profughi, alla condanna dei regimi totalitari e alla promozione della pace. Ciò che poi è maggiormente rilevante è che l’invito, incitación, della Chiesa a perficere bonum non è solamente ancorato alla salus aeterna, al raggiungimento del fine ultramondano, ma anche al contingente, alle necessità immanenti dell’uomo bisognoso di aiuto materiale.
In base alla rivendicata primazia e ai sensi dell’art. 26 del Trattato Lateranense, l’azione pastorale dello stesso Pontefice si attua in più regioni d’Italia, tramite visite in molte città e santuari, effettuate senza che queste si presentino come viaggi in Stati esteri. L’uso invalso di considerare il Papa di Roma come il primo Vescovo d’Italia fa sì che i fatti d’Italia siano spesso presenti nelle sue allocuzioni o discorsi. Sovente egli visita zone della Penisola dove si sono verificati eventi dolorosi, e la presenza del Papa è vista dalle popolazioni come doverosa, richiesta come segno di conforto e di aiuto. Rientra inoltre, nel senso lato della primazia, il ricevere delegazioni degli organismi statali italiani. En esta perspectiva, la figura del Romano Pontefice come Primate d’Italia assume il valore di un segno di comunione tra la Chiesa e la Nazione, nella linea della missione universale che egli esercita quale successore di Pietro. La dimensione nazionale della sua sollecitudine pastorale non si oppone, ma anzi si integra, con la missione cattolica della Sede Apostolica, perché il Papa è insieme Vescovo di Roma, Padre delle Chiese d’Italia e Pastore della Chiesa universale (Predicar el evangelio, Arte. 2).
La triplice dimensione del suo ministero — diocesana, nazionale e universale — rende visibile quella unitas Ecclesiae che la fede professa e la storia testimonia. Così il titolo di Primate d’Italia, riemerso nella voce di Leone XIV, non appare come un residuo di onori passati, ma come un richiamo vivo alla responsabilità spirituale del Papato verso il popolo italiano, in continuità con la sua missione apostolica verso tutte le genti.
Velletri de Roma, 16 de Octubre del 2025
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