Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo: una regalità eretta sulla carità

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO: UNA REGALITÀ ERETTA SULLA CARITÀ  

Tanto splendida è questa pagina dell’Evangelo proclamata oggi nelle nostre chiese, che ogni commento sembra sciuparla un poco. Meglio lasciarla così com’è, semplicemente, ad indicare alle persone che la vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro. Tragedia allora non sarà il conflitto, l’alterità, la differenza bensì i due estremi che negano questo rapporto: la confusione e la separazione

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In un breve ma celebre apologo dal titolo Il Natale di Martin lo scrittore russo Lev Tolstòj1 raccontò di uomo, un ciabattino di nome Martin, che aveva misteriosamente incontrato il Signore nelle persone bisognose che durante la giornata erano passate davanti la sua bottega e citò espressamente la pagina del Vangelo di questa domenica.

San Martino dona parte del mantello al povero (dipinto, elemento d’insieme) di Bartolomeo Vivarini (sec. XV)

La letteratura non è stata l’unica arte che questa mirabile pagina di Matteo ha ispirato, basti pensare agli affreschi del Buonarroti nella Cappella Sistina. Leggiamola:

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”».

Con il brano di oggi finisce non solo, per quanto riguarda la liturgia, l’anno liturgico in corso, che lascia il passo all’Avvento, ma anche l’insegnamento di Gesù nel Vangelo secondo Matteo. Subito dopo la nostra pericope infatti l’evangelista da inizio al racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, con queste parole: «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli» (Mt 26,1). Gesù insegnerà d’ora in poi in un altro modo, soprattutto con i gesti e l’obbedienza al Padre nella prova suprema della croce. Per questa ragione è rivestita di particolare importanza la pericope di oggi, l’ultimo discorso fatto da Gesù in Matteo, senza contare, l’invito del Risorto a fare discepoli e a battezzare in 28,18-19, e le poche ma importanti parole dette durante la passione, a partire dall’ultima cena.

Solo en passant occorre anche dire che nonostante una prassi interpretativa consolidata che prende l’avvio dai Padri della Chiesa e che porta a definire la scena come il giudizio “universale”, a partire dal XVIII secolo vengono sottolineati i tanti e buoni indizi nel testo, non solo di tipo lessicale, per ritenere che anziché di un giudizio per tutta l’umanità, il testo implichi, al contrario, un giudizio solo per i pagani, ma non è possibile in questo contesto esplicitare questa interpretazione che richiederebbe troppo spazio.

La scena del giudizio è esclusivamente matteana, ed è costruita in modo magistrale, con l’uso di vari espedienti quali ad esempio la ripetizione, utili per la memorizzazione. Molti sono i confronti che possiamo fare con il linguaggio e la simbologia di stampo apocalittico correnti al tempo di Gesù che appaiono di volta in volta nella letteratura canonica ― Daniele e Apocalisse ― ma anche in quella apocrifa. Il dato originale, rivoluzionario, invece, la novità che apporta il discorso di Gesù è che lo stesso giudice, il Re, si consideri oggetto di tali azioni: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare», oppure, «non mi avete dato da mangiare». Questo crea un effetto di sorpresa sia in quelli che gli hanno usato misericordia sia in quelli che gliel’hanno negata. Mentre nell’Antico Testamento il giorno del Signore è decretato da Dio stesso ed è quindi Lui l’unico che giudica, nella logica del Nuovo Testamento è Gesù, il Messia, che può intervenire in questo giudizio. Di conseguenza Dio compirà il giudizio, ma questo in nuce avviene già nel modo in cui ci siamo rapportati al suo Figlio in questo mondo, al Gesù presente nei poveri che hanno avuto fame e sete e che sono stati assistiti o meno da noi. Ecco perché alla fine dei tempi, sarà Cristo, l’Agnello, a prendere in mano il libro della nostra vita, quello che nemmeno noi siamo capaci di leggere e comprendere fino in fondo, e ad aprirne i sigilli (cfr. Ap 5).

Colpisce poi che la grandiosa visione che abbraccia l’intera umanità si accompagni allo sguardo posato su ciascuno e, in particolare, su quelle persone che normalmente sono le più invisibili: poveri, malati, carcerati, affamati, assetati, stranieri, ignudi. Non a caso il nostro testo li chiama «minimi» (vv. 40.45). La carità verso il bisognoso, il gesto di condivisione che è così semplice, umano, quotidiano, alla portata di tutti, credenti e non credenti, diviene ciò su cui si esercita il giudizio finale. L’esempio di Martino di Tours, secondo la narrazione agiografica di Sulpicio Severo2, è emblematico. Dopo aver diviso con la spada il suo mantello per coprire la nudità di un povero mendicante alle porte di Amiens, in un rigido inverno, Martino ebbe la visione in sogno di Cristo che gli diceva: «Martino, tu mi hai rivestito con il tuo mantello». Cristo è identificato con il povero, come nella nostra pagina evangelica.

Tanto splendida è questa pagina dell’Evangelo proclamata oggi nelle nostre chiese, che ogni commento sembra sciuparla un poco. Meglio lasciarla così com’è, semplicemente, ad indicare alle persone che la vita dell’uomo non è mai concepibile senza l’altro. Tragedia allora non sarà il conflitto, l’alterità, la differenza bensì i due estremi che negano questo rapporto: la confusione e la separazione3. Gli altri, soprattutto se bisognosi, non costituiranno per me l’inferno quanto una benedizione: «Venite benedetti perché…». Due celebri pieces teatrali, una di Sartre4 con all’interno la famosa espressione: «L’inferno sono gli altri»; l’altra di Pirandello, Vestire gli ignudi5, che nel titolo fa diretto riferimento al nostro brano evangelico, ci hanno raccontano drammaticamente che non escludendo l’Altro dal proprio mondo il problema sarebbe facilmente risolvibile e l’inferno cesserebbe di esistere. Quegli autori hanno inteso, al contrario, constatare l’impossibilità di un’esistenza che escluda l’Altro. In altri termini, l’enfer, c’est les autres, perché dall’alterità non si può uscire, ci si rende conto che l’Altro detiene il segreto del proprio essere e, nel contempo, che senza l’Altro questo essere non sarebbe possibile.

Così il Signore Gesù, anche nell’ultimo suo discorso, ci ha sorpreso ancora una volta dando un nuovo significato alle ‘opere di misericordia’, già note nel giudaismo coevo, dove erano, però, intese come una sorta di imitatio Dei, nel senso di un fare agli altri ciò che Dio stesso ha fatto per l’uomo. Non prevedevano invece che il giudice eterno si celasse dietro esistenze umilissime, disagiate e sconfitte. Nell’altro, nel fratello, c’è Gesù il quale aveva detto ai suoi discepoli: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato… Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Mentre ora estende questa visione all’intera umanità – panta ta ethne, πάντα τὰ ἔθνη del v.22: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Perché come recita un antico inno adoperato nella liturgia del Giovedì Santo: «Ubi caritas et amor, Deus ibi est».

Buona Domenica a tutti!

Dall’Eremo, 25 novembre 2023

 

NOTE

[1] La rielaborazione di Tolstòj apparve per la prima volta anonima sulla rivista “Russkij rabocij” (L’operaio russo), nr. 1 del 1884, col titolo “Djadja Martyn” (Zio Martyn). Nel 1886 il racconto, col titolo “Dove c’è amore c’è Dio”, fu inserito in un volume edito a Mosca da Posrednik assieme ad altri otto, tutti con la firma di Lev Tolstòj

[2] Severo Sulpicio,Vita di Martino, EDB, 2003

[3] Michel de Certeaux, Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, 1983

[4] J.P. Sartre, Porta chiusa, Bompiani, Milano 2013

[5] Pirandello L., Maschere nude. Vol. 5: Enrico IV – La signora Morli, una e due – Vestire gli ignudi, Mondadori, 2010

 

 

Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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