Storia di un amore tradito che non si è mai spento: è morto Luigi Negri, fu vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro e poi Arcivescovo di Ferrara. Un disastro di vescovo ma un autentico credente e un uomo di fede

—  Attualità ecclesiale — 

STORIA DI UN AMORE TRADITO CHE NON SI È MAI SPENTO: È MORTO LUIGI NEGRI, FU VESCOVO DELLA DIOCESI DI SAN MARINO-MONTEFELTRO E POI ARCIVESCOVO DI FERRARA. UN DISASTRO DI VESCOVO MA AUTENTICO CREDENTE E UOMO DI FEDE

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In queste luttuose circostanze l’ipocrisia clericale degli ecclesiastici riesce sempre a dare il meglio di sé, seguita appresso da quella dei clericali laici che la supera di gran lunga. Così, avvolti per qualche giorno dal senso di insano ossequio verso la morte che a dire di taluni cancellerebbe tutto, si procede con la beatificazione del defunto, magnificando anzitutto le virtù che non aveva.

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Roma, 1° maggio 2010, sacrestia di Santa Prisca all’Aventino, Luigi Negri, Vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro, poco prima della consacrazione sacerdotale di Ariel S. Levi di Gualdo

Il 31 dicembre 2021 è morto Luigi Negri, che fu vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro (2005-2012), poi Arcivescovo di Ferrara (2013-2017). Personalità complessa e contraddittoria, con un carattere impulsivo e passionale che creò non pochi problemi a lui, a chi gli è stato vicino e alle due diocesi che ha governato.

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In queste luttuose circostanze l’ipocrisia clericale degli ecclesiastici riesce sempre a dare il meglio di sé, seguita appresso da quella dei clericali laici che la supera di gran lunga. Così, avvolti per qualche giorno dal senso di insano ossequio verso la morte che a dire di taluni cancellerebbe tutto, si procede con la beatificazione del defunto, magnificando anzitutto le virtù che non aveva.

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Ho conosciuto molto bene Luigi Negri, perché le sue passionalità e imprudenze, che spesso hanno generato un pessimo governo pastorale, le ho sperimentate sulla mia pelle e, in un certo senso, le pagherò nel corso di tutta la mia vita sacerdotale, pur non avendone colpa e responsabilità personale alcuna, né io né il mio attuale Vescovo, che in perfetta antitesi a Luigi Negri è un pastore in cura d’anime a tal punto premuroso e amorevole che di sé lascerà un ricordo indelebile per lunghi decenni a seguire.

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Come a volte può accadere con certi padri, anziché un’eredità Luigi Negri mi ha lasciato dei debiti da pagare a dei creditori inavveduti che non sono stati contratti da me, finito nell’ingrata condizione di doverli estinguere e pagarne quindi tutte le conseguenze. Questo è stato per me Luigi Negri, lo sanno bene i miei confratelli della Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro, nessuno dei quali pare essersi mai chiesto come mai, nella mia Diocesi di appartenenza, in 12 anni di sacerdozio non ho mai celebrato la Santa Messa neppure una volta, né mai ho partecipato alla Santa Messa del Crisma, o all’assemblea del clero. Ciò detto chiarisco: nemmeno lo farò, perlomeno sino al giorno in cui non mi saranno presentate quelle scuse che dalla prima all’ultima mi sono dovute. Non per me, ma per il sacro rispetto dovuto al ministero sacerdotale, perché se i primi a non rispettare il sacerdozio sono vescovi e preti, non ci si può certo lamentare che il sacro ministero sacerdotale non sia rispettato dai fedeli. E sono scuse dovute specie da parte di questa Santa Chiesa così piaciona e politicamente corretta che si strugge il cuore anche per l’ultimo degli ex galeotti tunisini che sbarcano clandestini sulle nostre coste per finire a spacciare droga sulle strade delle città italiane, ma che ritiene di poter trattare in modo così barbaro dei presbiteri che alla prova provata dei fatti non hanno mai dato problemi di natura morale, dottrinale e patrimoniale. E, considerati i tempi che corrono, è proprio il caso di dire ― senza alone di presunzione ― che un presbitero come me andrebbe portato come esempio di vita sacerdotale, sino a non facile prova contraria. E chi prova contraria l’avesse, che la sventoli ai quattro venti sulla pubblica piazza.

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È da questo che, per apparente paradosso, derivano i miei guai originati tutti dalle imprudenze e dal mancato accudimento di Luigi Negri. Infatti, non solo la prova contraria di quanto ho appena affermato non esiste, perché c’è di peggio: non ho scheletri negli armadi, quindi non posso essere ricattato sul piano morale ed economico. E oggi, se un prete non può essere ricattato, non può essere neppure intruppato in certe diocesi che sul meccanismo del ricatto stabiliscono i loro strani equilibri, che alla prova dei fatti stiamo pagando con le nostre chiese sempre più vuote e con una crisi di credibilità nella quale il clero non versava neppure nell’XI secolo, all’epoca in cui San Pier Damiani scriveva il suo Liber Gomorrhianus. Siamo noi preti, con le nostre inadeguatezze e pigrizie, con il nostro quieto vivere e con le nostre carenze dottrinali e morali, che le abbiamo svuotate, non la pandemia da Covid-19.

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Per comprendere il gran cuore di padre e pastore di Luigi Negri narrerò una scena della mia consacrazione sacerdotale, avvenuta a Roma nella Chiesa di Santa Prisca all’Aventino il 1° maggio 2010. Sin dal mese precedente pregai il vescovo di potermi intrattenere a colloquio con lui per una mezz’ora prima della sacra ordinazione. La sera del 30 aprile giunse a Roma alle 21,30 presso la casa sacerdotale internazionale dove alloggiavo, mi salutò e chiese di ritirarsi. Al che lo accompagnai presso la camera a lui riservata, il tutto nello spazio di cinque minuti. Prima di chiudermi la porta in faccia mi disse: «Ci vediamo domani mattina dopo colazione». Alle 8 del mattino successivo gli servii la colazione, ma senza poter parlare con lui, perché c’erano tutti gli altri sacerdoti della casa. Poi si ritirò dicendomi: «Ci vediamo alle 9.30». Alle 10 mi chiama il suo accompagnatore che mi annuncia: «Il vescovo mi ha detto di riferirti che vi vedrete direttamente in chiesa». Cinque minuti prima delle 11 giunge in chiesa, accolto sulla porta dal rettore, da me e dagli accoliti dell’Almo Collegio Capranica che prestarono servizio liturgico, mentre 92 sacerdoti concelebranti e quattro diaconi assistenti lo attendevano già parati nella sacrestia. Il tempo di pararsi e partiamo in processione, senza avere scambiato neppure due parole tra di noi.

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Dopo la proclamazione del Santo Vangelo fece un’omelia nella quale mise in luce persino le virtù che io non sapevo nemmeno di avere, solo in quel momento ne presi atto, debbo dire anche con grande felicità, appunto perché le ignoravo del tutto. I concelebranti ― che ripeto erano 92 presbiteri provenienti da varie parti del mondo ― rimasero colpiti e per giorni si dissero tra di loro:

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«Capita di rado che un vescovo dica parole simili su un suo presbitero dimostrando una volontà così determinata a ordinarlo con profondo orgoglio episcopale».

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Terminato il solenne pontificale, mentre in sacrestia ricevevo gli abbracci dei numerosi confratelli, il Vescovo sparisce. In seguito mi fu raccontata una scena rimasta purtroppo agli annali: mio fratello Paolo, con il suo bambino per mano, all’epoca 5 anni, corse verso l’auto del Vescovo per salutarlo, perché Luigi Negri se ne stava andando senza neppure degnare di un saluto mia madre e mio fratello.

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Lo attendeva forse il Santo Padre in udienza privata? No, aveva appuntamento con il senatore di Forza Italia Marcello Pera, un socio-politologo fatto passare per grande filosofo, uno dei vari amici di Luigi Negri, al quale tre mesi dopo, quand’ebbi modo di vederlo per cinque minuti scarsi, lamentando quel suo comportamento dissi:

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«Se un peccatore incallito che non si confessa da trent’anni ha un rigurgito di coscienza, o se un morente ha bisogno di essere confortato con i Sacramenti, ci mandi Marcello Pera, oppure, sa che le dico: ci mandi direttamente Silvio Berlusconi, così la salvezza eterna dell’anima sarà garantita al cento per cento».

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Caratterialmente più permaloso di una scimmia, la conseguenza fu che per un anno non mi rispose neppure al telefono. Potrei seguitare con molti altri racconti, dinanzi ai quali il romanzo Cuore, nota opera strappalacrime scritta da Edmondo De Amicis nel 1886, a confronto di certi episodi molti tristi e penosi da me vissuti risulterebbe più spassoso di uno spettacolo comico-teatrale esilarante portato in scena al Teatro Brancaccio dal grande e compianto Gigi Proietti.

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Cristo Dio mi ha voluto davvero suo sacerdote a tutti i costi, perché subito dopo la mia sacra ordinazione fui messo in condizioni non solo insostenibili, ma in condizioni che valicavano la capacità di sopportazione umana, come ammisero due miei formatori, uno dei quali vescovo di lunga esperienza. Per molto meno si sono visti presbiteri abbandonare il sacerdozio su due piedi dopo un paio d’anni, anche dopo un anno, o persino dopo soli sei mesi. Che io abbia un carattere molto forte è riconosciuto da tutti, ma neppure un carattere forte è sufficiente in certe situazioni. È in questo che ho visto la prorompente azione della grazia di Dio su di me, perché lei e lei sola mi ha sostenuto, io non ho meriti. E se un merito ce l’ho, è uno soltanto: avere liberamente accolta la grazia operante e trasformante di Dio. Solo oggi capisco i motivi che ieri non potevo comprendere, questi: ormai da anni, come confessore e direttore spirituale, svolgo un delicato e intenso lavoro pastorale a sostegno di sacerdoti che versano in gravi difficoltà. Come si può comprendere il dolore della croce senza averla portata sulle spalle ed esserci poi stati inchiodati sopra? Sì, sono occorsi anni, ma alla fine ho capito il mio ruolo nella economia della salvezza, che doveva passare dalla croce mia per poter svolgere il ruolo di colui che aiuta a portare la croce agli altri, anziché dire, con lo stile dei vescovi migrazionisti nuova generazione: «Forse hai bisogno dell’aiuto di un bravo psicologo». No, scellerati che non siete altro! Un prete in difficoltà, sempre e di rigore ha bisogno di un altro prete in grado di sostenerlo, oltre che di un vescovo degno di questo nome, ma oggi sempre più difficile da trovare, tanto sono impegnati a piangere sui barconi dei clandestini o sui poveri ideologici. O qualcuno conosce forse altre vie, al presente, per diventare vescovi e rimanere poi sulla propria cattedra episcopale, se non la piaggeria ruffiana e la avvilente e spersonalizzante omologazione a certe odierne tendenze pastorali tanto devastanti quanto fallimentari sulle quali, seppure consapevoli dell’immane danno, nessuno fiata e alle quali tutti si omologano?

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Con buona pace dei laudatori post mortem e delle tifoserie cielline che per qualche giorno si scateneranno narrando meraviglie a non finire sul grande Luigi Negri allievo della prima ora del grandissimo Luigi Giussani, posso e devo dire, con tutto lo spirito di verità più realistico e purtroppo impietoso, che come vescovo è stato un disastro. Perché questo è il problema di fondo: Luigi Negri non andava proprio fatto vescovo. Non si catapulta un uomo, a 64 anni d’età, da una cattedra dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano alla cattedra episcopale di una diocesi rurale tra le più piccole d’Italia, tutta disseminata tra le disabitate pianure e montagne del Montefeltro. Però, quando ciò per errore avvenne, Luigi Negri avrebbe potuto cogliere l’occasione per santificarsi e santificare il suo clero e il Popolo di Dio a lui affidato, perché non di rado la Divina Grazia si serve anche degli errori, per inserirci sulla via verso la santità. Invece, trascorsi neppure due anni, Luigi Negri già scalpitava tra la Congregazione per i Vescovi e i membri del collegio cardinalizio affinché gli fosse data una diocesi alla sua altezza, possibilmente una di quelle che erano anche sedi cardinalizie residenziali. D’altronde era il minimo dovuto, per un vescovo giunto a oltre sessant’anni d’età totalmente digiuno di concrete esperienze pastorali e che da subito si mostrò incapace a governare una piccola diocesi, lasciata in mano ai capricci e al libero arbitrio del vicario generale, mentre lui girava come una trottola da una parte all’altra dell’Italia a tenere conferenze e incontri. Sia chiaro: per un presbitero, avere fatto esperienza pastorale, al punto da essere idoneo all’episcopato, non vuol certo dire avere passato la vita a brigare di politica tra l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e il Movimento laicale di Comunione e Liberazione. Tutt’altra cosa è la pastorale per un prete, soprattutto per un vescovo. Infatti, quando il governo della Diocesi di San Marino Montefeltro passò da Luigi Negri a quel sant’uomo di Dio di Andrea Turazzi ― che per quarant’anni ha fatto il parroco e il formatore di sacerdoti ― dalle fitte tenebre si è passati alla luce del sole che risplende nel cielo a mezzogiorno.

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Quando un vescovo è un ambizioso in carriera che non si sente a proprio agio in una diocesi, ben presto il clero e i fedeli lo avvertono. La conseguenza sarà la sfiducia e la disaffezione del clero e dei fedeli verso il vescovo.

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Per parlare delle due grandi virtù di Luigi Negri, pessimo vescovo e pessimo pastore in cura d’anime, bisogna dipingere la realtà di un uomo che ha trascorso la sua vita a intrufolarsi in tutti i modi e per tutti i versi nella politica, sua grande e insopprimibile passione, senza che mai abbia capito né mai voluto capire che un vescovo deve essere padre premuroso sia degli appartenenti alla Destra che degli appartenenti alla Sinistra, evitando di creare, come di prassi ha fatto lui, inutili polemiche che hanno sempre rivelato il suo essere uomo di parte, anziché al di sopra delle parti. Compito di un vescovo è annunciare il Santo Vangelo, non fare campagne elettorali, evitando sempre di usare il Santo Vangelo a fini politici, propagandistici e soprattutto elettorali. Dicevo poc’anzi che per parlare delle virtù di questa personalità complessa e contraddittoria bisogna partire dai suoi gravi difetti. Correva l’anno 2011 quando, sfumato ormai il sogno della sede vescovile di Milano — che il buon Luigi Negri riteneva gli spettasse quasi di diritto —, dava ormai per certo il suo spostamento a Venezia al posto di Angelo Scola, promosso alla Sede Ambrosiana. Fu allora che lo presi di petto e gli dissi:

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«Vostra Eccellenza mi ha insegnato molto di più con i suoi difetti che con le sue virtù. Lei mi ha data una lezione che mi accompagnerà per tutta la mia vita sacerdotale, questa: se il Demonio riesce a prenderci nella vanità e nell’ambizione può fare di noi letteralmente ciò che vuole, anzitutto togliendoci la libertà, di conseguenza condizionando i nostri comportamenti. A lei è stata affidata una Chiesa da amare e accudire, che è sua sposa. Pertanto cerchi di essere un marito fedele, proprio lei che parla a destra e a sinistra dei grandi valori della famiglia, che non sono solo dei meri valori politici utili per inscenare polemiche con le Sinistre post-comuniste o liberiste, ma sono valori cristiani basilari. Quindi non aspiri ad avere una moglie più ricca e altolocata, come fanno quei mariti che mollano la moglie e i figli per fuggire con un’altra donna, perché vede, forse lei non se ne rende conto, ma il tradimento e l’adulterio hanno tante facce, ed anche i vescovi possono essere traditori e adulteri».

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Da allora a seguire, in pratica non l’ho più sentito e, quando alcune volte ebbi modo d’incontrarlo, feci appena in tempo a baciargli la mano e a porgergli un saluto. Eppure, tra i diversi presbiteri che ha consacrato nel corso del suo episcopato, non pochi dei quali hanno detto in giro su di lui cose terribili ― salvo magnificare in occasione della sua morte delle straordinarie virtù di cui mai si erano accorti prima ―, io ritengo di essere stato tra tutti il più fedele e veritiero. Più volte gli ho detto in faccia che stava per commettere gravi sbagli, altrettante gli ho rimproverato di avere sbagliato, anche gravemente. E dopo avergli detto questo l’ho sempre ubbidito, gli sono stato fedele e ho pagato i suoi errori, soprattutto l’ho sempre difeso dinanzi a preti e a vescovi chiacchieroni che alle sue spalle lo prendevano in giro per le sue smodate ambizioni di carriera, che con ingenuità quasi infantile non riusciva neppure a celare, perché Luigi Negri, quello che voleva, lo diceva pubblicamente, come la sede vescovile di Milano, che riteneva spettare a lui pressoché di diritto. Una volta, prendendo a male parole il classico monsignorino velenoso del Vicariato di Roma, in modo molto severo e arrabbiato gli intimai:

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«Non ti permettere mai più di ironizzare sul mio vescovo e di mancargli di rispetto dinanzi a me, che sono un suo presbitero, perché corri il serio rischio che io ti spacchi persino qualche osso».

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L’inferno che questo grigio impiegato piazzato nelle stanze di comando mi creò, risultò terribile, basti dire che per due anni mi fu possibile celebrare la Santa Messa solo nelle Catacombe di Priscilla, mentre un esercito di preti dediti all’alcol, qualcuno anche alle droghe, molti a una turbolenta vita notturna fatta di immorali dissolutezze, celebravano tranquillamente nelle principali parrocchie romane. Ma io sono un prete “vecchia scuola”, quindi il vescovo non si tocca, perché a prescindere dai suoi meriti o demeriti, è colui che regge e unisce assieme tutte le membra del Corpo Mistico di Cristo. Infatti, come spesso ho detto e spiegato, specie in questa nostra epoca dove tutto si gioca sulle passioni emotive, sul “mi piace” o “non mi piace”, il vescovo è sacro, fosse anche il peggiore episcopo dell’intera Chiesa universale. A un vescovo indegno o non all’altezza del proprio ruolo, io potrei anche dire di non nutrire alcuna stima nei suoi riguardi, mai però metterei in discussione la sua legittima autorità, né mai mancherei di rispetto alla sua sacra persona. Perché al vescovo ho promesso solennemente filiale rispetto e devota obbedienza. La stima no, quella non gliel’ho promessa. Pertanto, se la vuole, deve guadagnarsela, perché non gli è dovuta. Mentre il rispetto e l’obbedienza sì, quella gli è dovuta, sempre, a prescindere dai suoi meriti o demeriti.

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A Luigi Negri, mio vescovo consacrante, l’ho venerato, rispettato, ubbidito e al momento opportuno difeso a spada tratta. Stimare no, non l’ho stimato, gliel’ho anche detto, ma di ciò lui non si è mai curato. A lui interessava la stima dei vari Marcello Pera, dei Gianni Letta e dei maggiorenti del Centro Destra a seguire più o meno in affari con le cordate politiche di Comunione e Liberazione. Poi, che il più cattolico di costoro avesse almeno due divorzi alle spalle e che all’età di sessant’anni convivesse con una fidanzata di venticinque, non era cosa che interessasse questo indomito difensore dei politici valori supremi della famiglia. Questo il motivo per il quale un prete coerente e fedele per Luigi Negri non aveva alcun valore, per lui che sull’incoerenza e il palese spirito di contraddizione aveva costruito il proprio insopprimibile essere politico in grave danno al suo essere pastorale.

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Sono cristianamente fiero di essere stato consacrato sacerdote da lui, l’ho sempre detto a tutti e oggi lo ribadisco. Fierezza che si regge sulla oggettiva sussistenza di due grandi virtù di cui Luigi Negri era dotato, come dissi al Cardinale Carlo Caffarra in uno dei nostri numerosi colloqui privati:

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«Luigi Negri è un castello di contraddizioni e incoerenze, un uomo rivelatosi non all’altezza del ruolo pastorale di un vescovo, ma è un autentico credente e un uomo di fede. E io andrò sempre fiero di essere stato consacrato sacerdote da un credente e da un uomo di fede. Cosa di questi tempi affatto scontata, essere consacrati sacerdoti da vescovi che siano credenti e uomini di fede».

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Quello che mi rispose il Cardinale Carlo Caffarra me lo porterò nella tomba con me, posso solo dire che le sue furono parole di risposta date dal cuore sensibile di un grande e vero pastore.

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Io ho amato Luigi Negri nella verità, l’ho amato accettandolo con tutto il complesso bagaglio dei suoi difetti, molti dei quali derivanti da evidenti complessi inconsci di inferiorità che hanno condizionato la sua intera esistenza. E sono certo che in cuor suo abbia sempre ammirato in me l’ossequio alla verità e la coerenza, consapevole che se avessi accettato certi compromessi e chiuso gli occhi su tante tristi vicende che ammorbano la Chiesa, oggi il mio stato ecclesiastico sarebbe del tutto diverso, però, come molti miei confratelli in carriera, avrei pagato una veste violacea o rossa a prezzo dell’eterna dannazione della mia anima, non mi sarei santificato e non avrei potuto santificare i Christi fideles. E quando un giorno, appena dopo avermi ordinato diacono, dando per scontata la mia inevitabile carriera ecclesiastica Luigi Negri mi disse:

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«Ti ricorderai di me, quando io sarò un vecchio vescovo emerito dimenticato da tutti e tu sarai in chissà quali alti ruoli all’interno della Chiesa?».

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Facendogli una risata in faccia, come sovente si fa a coloro che delle persone non hanno capito niente, o comunque molto poco, risposi:

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«Io sarò sempre un prete tenuto agli estremi margini, perché se dovrò scegliere tra la scomoda verità, la mia quiete e il mio tornaconto personale, sempre sceglierò la verità, che ha dei prezzi parecchio elevati da pagare, per quant’è vero che Gesù Cristo è morto in croce».

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Quel primo maggio 2010, nella sua omelia per la mia consacrazione sacerdotale, Luigi Negri disse:

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«… in me abbonda la gioia di donare oggi alla Chiesa un presbitero fedele alla verità, alla sana dottrina e pronto veramente a dare la sua vita per la Chiesa e per il Papato fino all’estremo sacrificio».

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Un vescovo che afferma cose del genere, come può non fermarsi neppure a parlare mezz’ora con l’ordinando prima della sacra ordinazione e come può fuggire cinque minuti dopo, da perfetto e rozzo cafone ― tale Luigi Negri di fatto era ― senza neppure salutare i suoi familiari che, per inciso, mi hanno donato gratis alla Chiesa, all’interno della quale ho sempre pagato tutto e a prezzo pieno, senza essere costato un solo centesimo alla mia Diocesi nel corso di tutti gli anni della mia formazione al sacerdozio, svolti a Roma a prezzo caro, a prezzo totale e a prezzo pieno? Come può un vescovo dire queste parole e poi abbandonare un suo presbitero in pasto alle belve e disinteressarsi totalmente di lui? Semplice la risposta: perché in quel momento a parlare non era Luigi Negri ma lo Spirito Santo che è Spirito di Sapienza e di Verità e perché io, sacerdote, sono stato consacrato da Cristo, che ha usato le mani e la bocca di quel vescovo, che è stato solo e null’altro che uno strumento.

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Ti saluto, amato e venerato Vescovo mio, puoi contare su un presbitero che celebrerà sempre delle Sante Messe di suffragio per te, che dal tuo leggero Purgatorio mi sarai sicuramente grato. Contrariamente a coloro che ti hanno tirato addosso di tutto e di più, in palate di fango, mormorando come donnette tra i salotti privati e le chiuse sacrestie, ma che al tuo funerale narreranno su di te meraviglie tali da far impallidire le virtù dei Santi Vescovi e Padri della Chiesa, in testa a tutti proprio quei vescovi che ti hanno irriso per anni di salotto in salotto con battute velenose del tipo: «Se non lo faranno cardinale, il povero Negri morirà depresso».

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Se non vi saranno impedimenti dovuti alle rigide restrizioni per il Covid-19 che limita al minimo gli assembramenti, parteciperò anch’io al funerale. Mi metterò a sedere tra le panche con i fedeli, se ci sarà posto, altrimenti rimarrò a pregare fuori dalla porta della Chiesa. Perché coerente sono vissuto e coerente intendo morire, pagando sino all’ultimo centesimo i debiti che il mio Vescovo ha contratto e che mi ha lasciato poi da pagare.

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Visti i tempi che corrono, forse disporrò che le mie future esequie funebri, il giorno che sarà, si svolgano alle luci dell’alba in forma strettamente privata, per evitare che un uomo coerente, ma ormai ridotto a cadavere inerme, debba subire l’immondo florilegio di stupidità che riescono a dire i preti in certe circostanze, ma peggio ancora i vescovi. Poi mi farò seppellire in un piccolo cimitero, in una frazione sperduta della mia Diocesi di appartenenza, dove nella totale indifferenza dei preti, oggi tutti pronti con la lacrima all’occhio a tirare l’acqua al mulino dell’ideologia dei poveri e dei migranti, non ho mai celebrato la Santa Messa neppure una volta.

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Poco male, ci andrò da morto, semmai facendo scrivere sulla lapide tombale:

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«Qui giace un peccatore che per tutta la vita ha peccato in pensieri, parole e opere, non però in omissioni, perché nulla di ciò che era tanto vero quanto scomodo ha mai omesso di dire finché Dio gli ha concesso fiato. Chi passa dinanzi a questa tomba preghi per l’anima del Padre Ariel».

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dall’Isola di Patmos,  1° gennaio 2022

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