«Se tu non guarisci tuo fratello che è malato, sei responsabile del suo sangue». La ospitalità come identità di una comunità sanante

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— pastorale sanitaria —

«SE TU NON GUARISCI TUO FRATELLO CHE È MALATO, SEI RESPONSABILE DEL SUO SANGUE». LA OSPITALITÀ COME IDENTITÀ DI UNA COMUNITÀ SANANTE. 

[…] molto tempo prima della frase di Papa Francesco sulla immagine della Chiesa come ospedale da campo, le prime comunità cristiane sono state sollecitate dallo Spirito Santo verso questa forma di cura e di assistenza nella forma dell’ospitalità. La Chiesa nasce come comunità ospitale – cioè ospedaliera – luogo accogliente in cui riconoscersi bisognosi di cure, di guarigione e di riconciliazione con Dio e i fratelli: «Per questo, è importante tendere la mano ai malati, far loro percepire la tenerezza di Dio, integrarli in una comunità di fede e di vita in cui possano sentirsi accolti, capiti, sostenuti, degni, in una parola, di amare e di essere amati. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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foto: Ivano Liguori, Ofm. Capp. Veglia di Pasqua, processione con il Lumen Christi nelle corsi dell’Ospedale Brotzu di Cagliari

L’Apostolo Paolo, ci invita a essere premurosi nella ospitalità con queste parole: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» [R 12, 1]

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Nel primo secolo d.C all’ingresso di alcune chiese vi era questo avviso:

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«Se tu non guarisci tuo fratello che è malato, sei responsabile del suo sangue» [cf. Beppino Cò Le 7 tappe spirituali della guarigione fisica, pg. 6 ed. Villadiseriane].

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Apro questo nuovo articolo partendo da questa suggestione che ho trovato in un libricino che tratta della guarigione fisica inserita all’interno di un percorso di risanamento spirituale. Pur non potendo verificarne la fonte storica in modo più preciso, quello che mi ha colpito di questa frase non è tanto l’invito alla guarigione del fratello o il riferimento al carisma stesso di guarigione, bensì l’affissione di tali parole reingresso di una chiesa.

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Riflettendo su questo, sono stato folgorato da questa certezza: la Chiesa è nata per essere comunità sanante, via santa dove liberarsi delle proprie infermità e gustare la salute e la salvezza che Dio dona premurosamente ai suoi figli. In questo è possibile vedere la realizzazione di quelle parole di profezia di Isaia:

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«Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore

e verranno in Sion con giubilo;

felicità perenne splenderà sul loro capo;

gioia e felicità li seguiranno

e fuggiranno tristezza e pianto» (cf. Is 35,10)

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È quanto mai necessario realizzare un cammino missionario che metta in crisi certe scelte odierne che spesso – come comunità dei credenti – preferiamo. Il magistero pontificio ci aiuta a fare chiarezza in tal senso:

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«Di fatto, la Chiesa nel corso dei secoli ha fortemente avvertito il servizio ai malati e sofferenti come parte integrante della sua missione e non solo ha favorito fra i cristiani il fiorire delle varie opere di misericordia, ma ha pure espresso dal suo seno molte istituzioni religiose con la specifica finalità di promuovere, organizzare, migliorare ed estendere l’assistenza agli infermi. I missionari, per parte loro, nel condurre l’opera dell’evangelizzazione, hanno costantemente associato la predicazione della Buona Novella con l’assistenza e la cura dei malati.» (cf. Dolentium Hominum, 1)

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Dobbiamo perciò prendere atto di come molto tempo prima della frase di Papa Francesco sull’immagine della Chiesa come ospedale da campo, le prime comunità cristiane sono state sollecitate dallo Spirito Santo verso questa forma di cura e di assistenza nella forma dell’ospitalità.

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La Chiesa nasce come comunità ospitale – cioè ospedaliera – luogo accogliente in cui riconoscersi bisognosi di cure, di guarigione e di riconciliazione con Dio e i fratelli:

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«Per questo, è importante tendere la mano ai malati, far loro percepire la tenerezza di Dio, integrarli in una comunità di fede e di vita in cui possano sentirsi accolti, capiti, sostenuti, degni, in una parola, di amare e di essere amati. Per loro – come per ciascun altro – contemplare Cristo e lasciarsi “guardare” da Lui è esperienza che li apre alla speranza e li spinge a scegliere la vita (cf. Dt 30,19)» (cf. Tarcisio Mezzetti, Accogliere lo stanco e l’oppresso, ed. Elledici, pag. 11]. 

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Inoltre:

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«Nella comunione con il Cristo morto e risorto, con colui che ha vissuto significativamente il dolore e la morte, la Chiesa diventa locanda ospitale, grembo accogliente dove la vita, nella sua interezza, è rispettata, difesa, amata e servita, luogo di speranza, dove qualsiasi pellegrino stanco e malato, ricercatore del senso di ciò che sta sperimentando, può vivere in modo salutare e salvifico il suo soffrire e il suo morire, e scrivere un capitolo significativo della sua storia di alleanza con gli altri e con Dio» [cf. Luciano Sandrin, Chiesa, comunità sanante, pg 77, Ed. San Paolo].

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La Chiesa non può rinunciare a questo tratto essenziale della sua identità, che rappresenta un modello si servizio essenzialmente terapeutico attraverso la diaconia della comunione ecclesiale.

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La comunione ecclesiale – per la Chiesa di ogni tempo – è la sfida più grande e difficile per generare un discepolato che sia conforme all’immagine di Cristo [cf. Rm 8,29]. La comunione ecclesiale costituisce di fatto certezza della presenza di Cristo, non solo segno della sua premurosa assistenza [cf Mt 18,20].

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Per essere in comunione tra noi – e quindi attivare le risorse per poter procurare la guarigione agli altri – è essenziale essere in comunione con Cristo, pacificarmi con lui.

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Madre Teresa di Calcutta, rivolgendosi al cardinale Angelo Comastri, era molto chiara a tal proposito: «Figlio mio, senza Dio siamo troppo poveri per aiutare i poveri!», volendo parafrasare queste parole secondo l’orientamento della nostra riflessione arriviamo ad affermare come: senza Dio siamo troppo malati per aiutare i malati!

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Gesù ci dona un suggerimento per guarire e capire se siamo arrivati ad essere in piena comunione con lui: l’amore vicendevole [cf. Gv 13,35]. Possiamo anche stupirci, ma non costituisce segno rivelatore della presenza di Cristo nel discepolo il numero di comunioni ricevute o di pellegrinaggi compiuti o di elemosine elargite, non perché queste cose non abbiano valore, anzi! Infatti nella scelleratezza umana, posso accostarmi alla comunione in stato di disordine spirituale, fare un pellegrinaggio con animo dissipato, oppure elargire elemosine per un tornaconto personale.

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Ma mai e poi mai riuscirò ad amare l’altro e a provare stima per lui se non sono in comunione con Cristo. Sarò facilmente smascherabile e preda delle mie debolezze se non vivo questa comunione nell’autenticità.

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Gesù ci sfida su un terreno dove è impossibile barare. Per questo motivo, la comunione ecclesiale costituiva il vanto e il tormento dei primi cristiani, il beato apostolo Pietro la raccomanda nel cammino dell’ospitalità: «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare» [cf. 1Pt 4,9], e Paolo nel cammino della stima vicendevole:

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«amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda» [cf. Rm 12,10].

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La Chiesa ospedale, diventa luogo di accoglienza quando Cristo vi è accolto con tutte le premure; luogo di stima e di rispetto, quando ci riconosciamo figli beneamati dal Padre [cf. Mc 1,11].

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La terapeuticità della Chiesa è data dall’obbedienza alla Parola, come ho avuto modo di dire in un altro mio contributo, [cf. articolo, QUI], che mentre viene proclamata suscita la fede, aumenta la speranza, invita alla carità e produce benefici terapeutici. Dice l’evangelista Marco:

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«Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» [cf. Mc 16,20].

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Quest’affermazione che conclude il secondo Vangelo è un unicum in tutto il Nuovo Testamento, Cristo agisce insieme alla comunità dei credenti affinché nella comunione ecclesiale la predicazione scaturisca fruttificando con il dono della fede e delle guarigioni.

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Nella comunità cristiana post pasquale una delle manifestazioni più eloquenti della presenza del Risorto era costituita proprio dalle guarigioni – come ristabilimento fisico – e dalle liberazioni – come ristabilimento spirituale –.

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Stare nella Chiesa significa percepire chiaramente la presenza viva di Gesù che ci ricostituisce in salute affidandoci a una comunità che è resa dallo Spirito Santo capace di  custodirci dopo essere stati raccolti dal Signore.

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È l’immagine evocativa del buon Samaritano che Sant’Agostino riassume così:

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«Questa locanda sarà la casa dalla quale non migreremo finché, pienamente rifatti nella salute, non saremo giunti nel regno dei cieli» [cf. Sant’Agostino, Sermo, 131, 6, PL 38, 732].

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Sull’esempio del buon Pastore che lascia le novantanove pecore per cercare quella smarrita [cf. Lc 15,6], è necessario che tutta la Chiesa, nella sua componente laica e ministeriale, trovi e torni a cercare i malati con la freschezza e l’entusiasmo dei tempi apostolici.

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Una Chiesa veramente ospitale, dilata il suo grembo affinché i deboli, gli infermi e i denutriti possano ristabilirsi alla luce del Risorto. La Chiesa deve rispondere ad un imperativo divino: prendere per mano e accudire gli infermi in attesa di Cristo [cf. Lc 10,35].

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La Chiesa comunità ospitale e sanante, riunita attorno al Salvatore nella comunione ecclesiale, acquisisce uno stile pastorale che intende operare e interagire secondo la dignità del sacerdozio battesimale e ministeriale poiché

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«Nell’uno e nell’altro caso, il ministero si realizza come un carisma in stato di servizio, recepito dalla comunità: la ricchezza dei doni dello Spirito nel Corpo ecclesiale è tale che non soltanto la Chiesa intera viene a caratterizzarsi come una comunità ministeriale, ma le varie forme personali o anche comunitarie di ministerialità non esauriscono mai da sole le possibilità carismatiche di cui i credenti sono investiti da  colui che soffia dove vuole» [cf. Bruno Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione, pag. 304, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995].

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Il Cardinale Elio Sgreccia amplifica e definisce meglio queste parole, riferendole allo specifico della pastorale sanitaria:

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«È certamente più ecclesiale portare l’aiuto dell’evangelizzazione, della grazia sacramentale, della carità cristiana, del fatto redentivo ai pazienti attraverso sacerdoti, diaconi, religiosi/e, laici che non attraverso il solo cappellano. Al punto che, se anche i sacerdoti non mancassero, noi dovremmo preferire questa formula a quella che vede soltanto i cappellani operare nell’ospedale» [cf. Elio Sgreccia, La cappellania ospedaliera, un progetto di comunità pastorale, in Insieme per servire, 3 (1990), pag. 43]».

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Come all’interno della comunità cristiana nessuno – ma proprio nessuno – deve sentirsi in diritto di escludersi accudimento dei sofferenti: poiché questa esclusione apporterebbe una ferita mortale alla comunione, all’azione dello Spirito Santo, alla presenza reale di Cristo tra i suoi, all’anelito impellente di ogni uomo che – fin dai tempi di Abele – interpella la fede circa le ragioni della sofferenza, del sangue innocente, del dolore che ha il diritto di trovare un cuore accogliente e braccia spalancate.

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Cagliari, 25 maggio 2019

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1 commento
  1. Attilio sacco
    Attilio sacco dice:

    Bellissimo articolo grazie mille. Il tema che lei propone è folgorante e l’immagine della Chiesa come comunità sanante ci aiuta ad evangelizzare, il malato abbandonato nelle case di cura o negli ospedali. Forse, il suo richiamo ci spinge anche a “sanare” l’amico vittima del divorzio, dell’abbandono, della propria solitudine, dell’anoressia, dei propri vizi che lo rendono schiavo e di tutto ciò che rende la sua anima sofferente, sebbene spesso questa loro sofferenza sia ben coperta da una finta felicità ostentata a tutti. Grazie di nuovo

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