Eutanasia come sconfitta antropologica e fallimento moderno della pietas e della cura

— Pastorale sanitaria —

EUTANASIA COME SCONFITTA ANTROPOLOGICA E FALLIMENTO MODERNO DELLA PIETAS E DELLA CURA

Sarebbe interessante far notare, ai laicisti sostenitori dell’eutanasia, che grazie all’opera Dei Delitti e delle Pene dell’illuminista Cesare Beccaria si inizia ad abolire, già nel 1786, la pena di morte dal sistema giudiziario di alcuni stati e regni. Oggi in nome di quello stesso pensiero illuminista la pena di morte viene reintrodotta come conquista della scienza e comminata quale misericordioso rimedio non più a dei delinquenti pubblici ma a dei pubblici innocenti.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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in foto: Marco Cappato. La vita ci appartiene veramente?

Le recenti e indecenti prese di posizione di alcuni esponenti politici “cattolici” [vedi QUI] così come di alcuni religiosi sui generis [vedi QUI] che appoggiano il referendum sull’eutanasia legale aprono diversi e preoccupanti scenari sull’etica della vita che riguardano i diritti e la tutela della salute dei malati. «L’eutanasia e il suicidio assistito sono infatti una palese sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica» [cfr. Lettera Samaritanus bonus, V.1; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 170] introducendo di fatto il malato all’interno di quel fallimento antropologico moderno che non è più in grado di riconoscere la bellezza e la dignità della vita umana anche quando questa è gravata dall’infermità o dall’handicap.

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Ci si costringe, perciò, a condividere delle derive ideologiche che incentivano sempre più la cultura dello scarto e della morte in cui l’uomo finisce per essere visto e percepito solo in base a quello che può dare, a ciò che può fare e al suo autonomo sostentamento dentro la comunità civile. L’essere umano che nella malattia o nell’handicap ha perso la speranza in una guarigione si vede disconosciuto e limitato, in modo del tutto arbitrario, della propria qualità di vita da parte di coloro che non lo considerano più soddisfacente e degno di stare nel mondo dei sani e dei validi.

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La cosa più evidente in queste derive etiche consiste nella perdita completa della speranza che è chiamata a illuminare il futuro, anche quando si presenta incerto. La Cristianità ha assunto la speranza come virtù teologale che procede direttamente da Dio in quanto la sua Provvidenza opera sia negli ultimi istanti della vita dell’uomo così come nei primi. Nella speranza cristiana tutto è grazia, anche quella di un corpo infermo [Cfr. 2 Cor 12, 9] in cui risplendono i patimenti del Salvatore crocifisso [Cfr. Col 1, 24]. Così, se la speranza nella guarigione è andata perduta è possibile ancora riaccendere la speranza della cura che è la stessa che il Salvatore rivendica per sé stesso nella persona degli affamati, degli assetati, dei forestieri, degli indigenti, dei carcerati e degli infermi e moribondi [cfr. Mt 25, 31-46]. L’inciso matteano del «l’avete fatto a me» ha il merito di farci capire che cosa sia la pietas in cui si sviluppano tutti quei doveri sacri che l’uomo esercita verso gli altri uomini e che nel Vangelo diventa grazia provvidenziale in cui il Dio fatto uomo si rivela come soggetto della cura pietosa. Per questo motivo, da cristiani, è necessario ribadire senza paura di smentita che l’eutanasia non è quello che si vorrebbe far credere oggi, cioè una morte degna ma solo un modo ingannevole di vivere la compassione e l’empatia verso il malato sfuggendo la fatica del prendersi cura di lui.

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L’individualismo reale del mondo moderno, assunto a stile di vita ordinario, impoverisce le relazioni reciproche aumentando la solitudine dell’uomo durante il tempo della malattia, conducendo così il morente alla disperazione più totale che gli fa desiderare una risoluzione rapida e indolore della propria condizione di infermità arrivando a scegliere, quasi come una liberazione, l’eutanasia. Ecco il motivo per il quale oggi, davanti a un offuscamento dei più basilari principi etici e religiosi, i malati terminali rappresentano oggi la categoria più fragile ed esposta. Siamo di fronte a una reale emergenza umanitaria che non può essere più ignorata, visto che la civiltà di un popolo e la sua pietas si misurano ― anche prima dell’avvento del Cristianesimo ― in base all’accudimento portato verso i deboli, i bambini, gli anziani, i malati e i moribondi.

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LA TUTELA DEI MALATI TERMINALI E DIVIETO DI UCCIDERE

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È necessario ad ogni costo tutelare i malati terminali evitando di trasformare gli ultimi giorni della loro vita terrena in una sorta di battaglia politica o, peggio ancora, in una sorta di rivendicazione sociale fatta dai soliti volti noti che, guarda caso, sono più che mai attaccati alla loro esistenza terrena. E sì, perché tra le tante contraddizioni del pensiero laicista moderno, i fautori dell’eutanasia legale si augurano per sé stessi una lunga aspettativa di vita e ragionano da perfetti ipocondriaci nel tentativo di allontanare ed esorcizzare le malattie e gli interventi sanitari. Così è anche per i fautori dell’aborto che sono al mondo grazie a delle madri che non si sono vergognate a scegliere la vita per loro rifiutando la tanto civile e responsabile interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Già questo basterebbe per mettere in luce la sragionevolezza e l’illogicità di certi personaggi la cui linea di pensiero tenta di guadagnarsi un posto di rilievo nella grande arena dell’opinione pubblica nazionale ed estera ma che sarebbe meglio accantonare per il bene di tutti.

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Lasciando da parte queste contraddizioni laiciste, iniziamo a ragionare secondo un pensiero cristiano solido. andando alla fonte che è la Sacra Scrittura che ammonisce:

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 «Figlio, non trascurarti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà» [Sir 38, 9].

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Questo l’invito del Siracide che non è affatto un cieco fideismo come qualcuno potrebbe pensare. Affermare «non trascurarti nella malattia» significa due cose essenziali: consapevolizzarsi sulla cura del proprio corpo donato in modo gratuito dal Signore; prendere parte a un’azione di cura che si esplicita dentro un cammino di fede nel Dio della vita e della risurrezione, con segni sacramentali che sono anche terapeutici e dentro un’azione caritativa fattiva che si affianca come compagna di viaggio al malato, soprattutto quando questo è orientato verso la fase terminale dell’esistenza.

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Il nostro corpo non ci appartiene, ci è stato donato da Dio per una missione e si realizza con la collaborazione dei genitori nell’opera generativa. Come realtà che è stata concessa in prestito, il corpo ha la necessità di essere custodito e preservato da tutti quegli eventi avversi che attentano alla propria integrità e incolumità fisica e spirituale. E questo non si applica al solo caso della malattia ma soprattutto ai disperati tentativi eutanasici che sono essi stessi eventi patogeni, davanti ai quali è necessario interrogarsi a partire da quel quinto comandamento del Decalogo che dice: «Non ucciderai» [cfr. Es 20, 13].

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Il comandamento che vieta di uccidere fa parte sia del diritto divino che di quello naturale. È immutabile e inderogabile e nessun legislatore umano può abrogarlo senza cadere dentro un illecito di auctoritas e di potestas. Cosa questa che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha spiegato chiaramente quando afferma:

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«Nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente» [Istruzione Donum Vitae, n. 5].

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Perciò, nessun essere umano innocente può essere violato con la morte procurata sia quando esso si trova nel seno materno sia quando si trova in un letto di malattia. L’innocenza e l’incolpevolezza del feto, come quella del moribondo terminale rendono tutti gli atti abortivi, eugenetici ed eutanasici gravidi di quel sangue di Abele che grida dal suolo ancora vendetta davanti al trono del giudice divino [Cfr. Gn 4, 10].

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Sarebbe interessante far notare, ai laicisti sostenitori dell’eutanasia, che grazie all’opera Dei Delitti e delle Pene dell’illuminista Cesare Beccaria si inizia ad abolire, già nel 1786, la pena di morte dal sistema giudiziario di alcuni stati e regni. Oggi in nome di quello stesso pensiero illuminista la pena di morte viene reintrodotta come conquista della scienza e comminata quale misericordioso rimedio non più a dei delinquenti pubblici ma a dei pubblici innocenti.

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DIRITTO ALLA VITA E DIRITTO ALLA MORTE

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Davanti a queste dolorose considerazioni è necessario riflettere e partire per poter formulare una nuova idea di qualità della vita, di salute e di cura. Logica vuole che se il corpo diviene un possesso personale, un oggetto, esso può anche essere (ab)usato in modo egoistico e dispotico, anche da terze parti, fino al suo completo esaurimento, morte compresa.  Così come non può esistere un dispotico e arbitrario “diritto alla vita” a ogni costo e a qualunque prezzo, non può esistere neanche un “diritto alla morte” che includa pratiche eutanasiche anche qualora fossero molto rare e sporadiche. Il diritto alla vita è susseguente alla disposizione provvidenziale che Dio predispone, il quale non intende dare la vita all’uomo come un oggetto di cui si possa disporre arbitrariamente. La vita è orientata a un fine verso cui l’uomo ha la responsabilità di dirigersi: la propria perfezione personale secondo il disegno e la chiamata di Dio [Cfr. Pontificio Consiglio Cor Unum per la promozione umana e cristiana, Documento Dans le Cadre, n. 2.1.1.]. Questo è l’approccio cristiano alla vita che si basa sul fatto che

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«l’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio» [Cfr. Evangelium Vitae n. 2].

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Questa chiamata-vocazione soprannaturale all’oltre di Dio costituisce la grandezza e la preziosità dell’umana esistenza anche nella sua fase terminale che per il credente non può mai essere considerata come una realtà «ultima», ma semmai «penultima» perché in cammino verso quella dimensione escatologica che si apre alla vita piena in cui Dio sarà tutto in tutti [cfr. 1Cor 15,20-28]. Per questo motivo, appare evidente, come la vita di ogni individuo è realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell’amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli: dal riconoscimento della pietas alla cura e dalla cura alla pietas.

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IL BUON SAMARITANO E LA CHIESA OSPEDALE

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Ecco perché la Chiesa nella sua tradizione bimillenaria ha sempre attuato, sulla scorta di Cristo Buon Samaritano [cfr. Lc 10, 29-37], tutte quelle opere di misericordia corporali e spirituali che sono servite a soccorrere l’uomo durante il suo pellegrinaggio terreno. Uomo che, il più delle volte, si trova a doversi confrontare con la propria nativa fragilità che comporta sia i mali fisici che quelli dell’anima. Il Buon Samaritano è l’icona della custodia alla vita e dell’esercizio pietoso della cura fino alla fine. Esso non giudica gli assalitori dell’uomo ma si dà da fare affinché questi non perisca, sebbene già altri abbiano rinunciato ad assisterlo e a donargli una speranza di sopravvivenza. Il Samaritano si prende in carico l’uomo ferito e lo consegna a sua volta, affinché altri in sua vece ne abbiano cura per lui. Egli non è quello che noi oggi definiremmo un caregiver, non opera da solo ma dentro una comunità sanante a cui l’immagine della locanda rimanda. Introduciamo così una chiara immagine ecclesiologica in cui la comunità di fede, la Chiesa, accoglie dalle mani del Samaritano il ferito per condurlo verso un accompagnamento senza tempo: «Abbi cura di lui… fino… al mio ritorno» [Lc 10, 35]. E questo ritorno escatologico non è solo quello del Figlio di Dio nella sua gloria ma anche l’incontro escatologico in cui l’uomo, terminata la sua vita terrena, si ricongiunge con il Creatore.

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È senza dubbio interessante questa visione ecclesiologica che anche il Pontefice regnante nella sua prima intervista alla rivista Civiltà Cattolica [vedi QUI; QUI], richiama, definendo e presentando la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. Similitudine questa che è tristemente decaduta, in otto anni di pontificato, dentro una serie di luoghi comuni. Privando questa bella immagine del suo significato originario, ci si è spinti al parossismo includendo termini marcatamente cristiani ― come ospitalità, accoglienza e cura ― dentro un’ermeneutica svuotata del senso ecclesiologico a favore di quello socio partitico e sociopolitico. Non a caso oggi siamo circondati da slogan che inneggiano all’accoglienza, alla cura e al prendersi carico degli abbandonati, però, nello stesso tempo, vediamo il moltiplicarsi di slogan sull’eutanasia. Davanti a questa illogicità di pensiero diventa impossibile e ipocrita parlare di accoglienza senza riserve, di cura amorevole e disinteressata per finire all’ospitalità del cuore che ha la pretesa di abbattere i muri divisori. Non è difficile capire che tutte queste cose vengono decantate a scopo propagandistico e solo per esclusive e determinate categorie di persone. Impossibile, perciò, la conciliazione degli opposti, di chi da una parte lotta per i più deboli ma a nome di quegli stessi deboli è pronto a proporre la morte quando la debolezza della malattia rende impossibile ogni guarigione.

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VERSO DUE OBIETTIVI: «N’EBBE COMPASSIONE» E «SI PRESE CURA DI LUI» [LC 10,33-34].

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Dopo queste considerazioni e analisi appare necessario e urgente ritornare all’esempio unico e vero del Buon Samaritano, che è Cristo Signore, il quale insegna ai suoi discepoli a prendersi cura della totalità dell’uomo ferito introducendolo in quella locanda ospedale da campo che è la madre Chiesa che, così come genera alla vita dal fonte battesimale, così immerge nella grazia della misericordia il morente. Mi piace dare due spunti di lavoro che hanno il compito di scongiurare nei cristiani la tentazione all’eutanasia, non sono come pratica in sé ma soprattutto come visione etica del fine vita.

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Per sfuggire all’eutanasia dobbiamo avere la compassione del Buon Samaritano che non si può spiegare in altri termini se non come quell’amore materno che si lascia ferire. Il Samaritano si lascia vulnerare da quel malcapitato che gli si para sul cammino, le ferite di quell’uomo colpito dai briganti si imprimono nelle sue viscere in una sorta di pietosa transverberazione del cuore. Egli arriva addirittura a rischiare di perdere i propri affari pur di soccorrere chi gli è di fronte. C’è una necessità impellente che lo porta a con-patire la debolezza e la sofferenza dell’uomo ferito, così come c’è una volontà di stare lì in quel momento di sofferenza e di croce, così come vediamo nell’esempio di Maria Santissima sul Golgota. Siamo di fronte a un imperativo morale che diventa anche imperativo di assistenza che crea una sensibilità profonda verso chi è debole o ferito, con il desiderio fattivo di alleviarne realmente le pene. La vera compassione e il vero compassionevole adottano azioni e soluzioni concrete con cui è possibile intervenire soccorrendo l’infermo [cfr. B. Moriconi (1997), Compassione, In Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, pp. 227-234, Ed. Camilliane].

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Capiamo bene che come cristiani il nostro sostare davanti al malato terminale non può che essere quello di chi vuole con-patire la conclusione naturale di una esistenza umana in cui Dio si è rivelato. Se la condizione terminale del malato non ferisce le nostre viscere tanto da assumerne il peso non proveremo mai la compassione del Buon Samaritano che apre a una fattiva assistenza umana e spirituale. Consapevoli che

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«arriva un momento nel quale non c’è che da riconoscere l’impossibilità di intervenire con terapie specifiche su una malattia, che si presenta in breve tempo come mortale» [Lettera Samaritanus bonus, I]

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Il cristiano inizia a farsi carico del morente con quell’assistenza materna che è vicinanza, allontanamento della paura e dell’abbandono, incoraggiamento e fiducia nel Signore risorto vincitore di ogni angoscia mortale. Solo in questo modo l’ammalato si sentirà circondato da una presenza amorevole, materna, umana e cristiana e non cede alla depressione e all’angoscia di chi sentendosi abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte chiede di porvi fine [Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 170].

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Dopo aver avuto la giusta compassione verso il morente è necessario darsi da fare con il prendersi cura di lui, sempre infatti è possibile curare anche quando non è più possibile guarire. È bene differenziare quelle che sono le competenze e i campi di assistenza del personale specialistico, della famiglia e della comunità ecclesiale. Da un punto di vista medico le strutture dove sono trattati i malati terminali, gli hospice, Case di Cura, devono poter garantire quelle cure mediche essenziali, palliative che escludano ogni forma di accanimento. Stessa cosa quando il malato terminale si trova ancora nella sua casa, i medici e gli specialisti devono potersi attivare per garantire una necessaria assistenza medico-infermieristica limitando tutte quelle condizioni di dolore e di sofferenza che sono collegate con gli stati terminali di una malattia. A ogni modo, sia nelle strutture sanitarie come nelle case private, le cure palliative rappresentano la risposta migliore di assistenza ai bisogni fisici del malato e di fatto scongiurano la scelta eutanasica che riformula il concetto di cura in una morte anticipata e medicalmente assistita [cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 147; Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno Internazionale sull’assistenza ai morenti (17 marzo 1992), n. 5].

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Il prendersi cura del malato terminale include non solo i bisogni medici ma psicologici e spirituali, cosa che la comunità cristiana deve poter fare con sollecitudine e premura. Annunciare il Vangelo al morente è fondamentale per aprire a quella speranza che non delude. Amministrare in tempo i sacramenti dell’Unzione degli Infermi, a cui è annessa l’assoluzione dei peccati con l’indulgenza plenaria, e la somministrazione del Santo Viatico è il modo ordinario con cui un cristiano battezzato si congeda da questo mondo per risvegliarsi in Dio.

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L’esercizio della carità verso il malato terminale si realizza vedendo in lui il volto del Cristo sofferente e morente. Cosa che porta la comunità ecclesiale a pregare per il morente e a chiedere per lui, all’Eterno Padre, la misericordia del perdono e la grazia della riconciliazione dell’intera vita. È un momento forte in cui è indispensabile lasciare cadere le colpe del passato, i peccati, i nodi che si sono accumulati è un modo per cercare e donare pace gli uni agli altri. Perdonando i debiti al morente e permettendo che lui perdoni i nostri si crea quella comunione vicendevole di carità di cui tutti abbiamo bisogno per riconoscerci cristiani e figli del Padre che è nei cieli, in cui si rende visibile quella perfezione che non opera in virtù di quella logica non priva di interessi di chi non conosce Dio [Cfr. Mt 5, 43-48].

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La famiglia del malato terminale è senza dubbio la più esposta, ma anche quella su cui ricadono le maggiori aspettative del morente. Morire circondati da coloro che abbiamo amato e che hanno condiviso con noi l’esistenza è una grazia senza fine. Allo stesso modo, stare vicino nella morte a chi abbiamo amato come genitore, figlio, fratello, amico è la forma di comunione di amore più perfetta che possiamo umanamente realizzare nella nostra esperienza terrena. Ecco perché la presenza della famiglia vicino al morente deve essere costante e privilegiata, nessuno può sostituirsi a essa. Nonostante questo, la famiglia ha bisogno di essere intelligentemente supportata per non soccombere alla fatica del distacco dal proprio caro e dall’agonia successiva alla perdita. La comunità cristiana, come comunità sanante ― healing community , si affianchi in modo discreto a queste famiglie provate, supportandole in tutto e per tutto così da imitare la sollecitudine del Cireneo che aiuta a portare per un tratto il peso della croce di Cristo quando questo si accascia al suolo. La comunità cristiana è Serva e Guaritrice, è presente premurosamente nella sofferenza ma agisce nella cura che è diaconia della carità per favorire la salute integrale (salvezza) delle persone. 

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Noi Padri de L’Isola di Patmos, a livello umano e sacerdotale condividiamo fraternamente e serbiamo nei nostri cuori il tenero ricordo di numerosi malati terminali, o di anziani che si stavano a poco a poco spegnendo come candele giunte alla fine. Questo perché condividiamo anche un altro elemento: chiunque voglia fare veramente teologia o approfondire certi particolari rami di studio e di ricerca, deve sempre farlo partendo dalla preghiera e dal materiale umano. Noi siamo Sacerdoti di Cristo istituiti e consacrati medici per curare le anime degli uomini. Il più giovane tra di noi, Padre Gabriele, si occupa dei temi della vita e delle disabilità sin da quando era novizio nell’Ordine dei Frati Predicatori. Chi scrive queste righe ha trascorso anni della propria vita nelle corsie di un grande ospedale. Padre Ariel, che non ha mai svolto il ministero di parroco e che si è sempre dedicato ad altre mansioni, ha amministrato più unzioni degli infermi ed è stato seduto al capezzale degli ammalati più di quanto spesso non facciano parroci di parrocchie di 10.000 battezzati, semmai perché … impegnati in riunioni del consiglio parrocchiale. E quando noi entriamo dentro un confessionale, spesso ne usciamo fuori dopo ore, supplendo alla “mancanza di tempo” di svariati parroci che, impegnati in non meglio precisate “attività pastorali”, non hanno tempo per confessare, immemori che noi siamo stati consacrati presbiteri per celebrare il Sacrificio Eucaristico, predicare il Santo Vangelo, rimettere i peccati e assistere gli ammalati e i morenti, tutto il resto viene in secondo piano, dalle riunioni del consiglio parrocchiale sino alle più alte speculazioni teologiche. È partendo da queste basi che si può spiegare a tutti coloro che pensano di fuggire il dolore della morte con l’eutanasia, che spesso nel dolore e nella sofferenza è racchiusa quella grande sapienza che ci rende uomini migliori. Risolvere tutto fuggendo la malattia e il dolore con una “dolce morte”, vuol dire non avere compreso perché si è nati, per cosa valga la pena vivere e come mai, un giorno, bisogna morire, semmai anche soffrendo.

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Non è facile parlare dell’elemento salvifico del dolore e della sofferenza a questa società ormai degenere, se però non lo facciamo, anche a costo di non essere compresi, o più facilmente a rischio d’essere presi a male parole, tradiremo nel peggiore dei modi la missione a noi affidata da Cristo che ha sconfitto la morte e che ci ha resi partecipi della sua risurrezione.

Laconi, 25 settembre 2021

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