Amoris Laetitia. Concupiscenza e matrimonio. Il pensiero dell’Apostolo Paolo

Padre Giovanni

AMORIS LÆTITIA. CONCUPISCENZA E MATRIMONIO. IL PENSIERO DELL’APOSTOLO PAOLO

 

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In San Paolo è evidente che per lui il rapporto uomo-donna corrisponde al rapporto superiore-inferiore [I Cor 11, 7-9; 14,34; I Tm 2, 11-14]. Ma queste sono idee sue. La dottrina invece del marito «capo della moglie» [Ef 5, 22-33] è un’altra cosa. Mentre infatti sul tema generale “uomo-donna” sentiamo Paolo col suo misoginismo rabbinico, nella dottrina del rapporto marito-moglie risplende certamente la bellezza della Parola di Dio, che non passa e che è stata confermata ed approfondita dal Concilio, che è giunto ad affermare che «la loro unione costituisce la prima forma di comunione delle persone»

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Autore Giovanni Cavalcoli OP

Autore
Giovanni Cavalcoli OP

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Scrive Giovanni Cavalcoli: «Purtroppo non ci si è accorti per molti secoli che qui Paolo non riflette autenticamente la visione del Genesi e neanche quella evangelica» [ndr. QUI]. Ecco, ci voleva Giovanni Cavalcoli per dire che San Paolo, l’Apostolo delle genti, il più grande missionario ed evangelizzatore della storia della Chiesa «non riflette autenticamente la visione del Genesi e neanche quella evangelica». E allora chi, di grazia, la riflette autenticamente? Chi, dopo 2000 anni, si è accorto che San Paolo non era ispirato dallo Spirito Santo ma dalla foia quando scrisse le sue epistole? Ma Giovanni Cavalcoli, ovviamente! Più dotto di San Girolamo, più profondo di Sant’ Agostino, più arguto più di San Tommaso, più sottile di San Bonaventura. Più ispirato dello Spirito. Ecco, ho una proposta. Propongo di modificare una rubrica del messale secondo il rito romano della Santa Messa. Quando si darà lettura di 1Cor 7,9, anziché «Parola di Dio», si dirà «Qui Paolo non riflette autenticamente la visione del Genesi e neanche quella evangelica» oppure «Parola della foia»”. Al che i fedeli risponderanno con giubilo «Rendiamo grazie a Cavalcoli!».

Matteo

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4. bergoglionate

stile, classe e soprattutto “alta catechesi” del blog Bergoglionate

Partiamo dal metodo della esegesi biblica, visto che essendomi permesso d’aver notato che in San Paolo sussistono alcune idee discutibili sulla concupiscenza sessuale, legate al suo anti-femminismo, sono stato attaccato da più parti con accuse di modernismo e rahnerismo [cf. QUI]. Ritengo bene rispondere ai miei oppositori, perché ciò mi dà occasione di spiegarmi ulteriormente.

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Ricordo anzitutto ai miei oppositori che ho scritto un libro di critica a Rahner, frutto di trent’anni di studi. Li invito a leggerlo [1]. E invece di perdere del tempo con me, provino loro a scrivere una critica a Rahner come quella che ho fatto io!

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Comincio dunque con un discorso sul metodo. Nell’esegesi della Sacra Scrittura bisogna distinguere ciò che è veramente Parola di Dio dalle idee proprie dell’agiografo o della cultura propria del suo tempo. L’inerranza della Scrittura si riferisce evidentemente a quei passi, nei quali l’agiografo, ispirato da Dio, enuncia verità rivelate da Dio, ossia verità di fede.

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Senonché, però, è inevitabile che l’agiografo, essere umano limitato e fallibile, come tutti, lasci trapelare anche opinioni sue o del suo tempo, che non sono Parola di Dio, ma possono essere o idee molto arretrate o addirittura sbagliate, ovviamente senza alcuna intenzione di ingannare, ma semplicemente o per ignoranza o per i limiti del suo sapere.

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In tal modo, il progresso della conoscenza degli insegnamenti biblici comporta il fatto che, mentre ciò che appartiene alla Rivelazione resta sempre immutato, essendo Parola di Dio, le idee dell’agiografo possono essere accettate anche per lungo tempo; ma è possibile che a un certo punto la Chiesa si accorga, alla luce della stessa Parola di Dio, che esse sono superate o da correggere.

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Si trattava, in fin dei conti, di opinioni umane, che la Chiesa accetta non nel senso di dogmatizzarle – cosa che non potrebbe mai fare –, ma nel senso che per un certo tempo, anche molti secoli, non le disapprova e le lascia circolare. Quando però, col progresso dell’esegesi e della vita stessa della Chiesa, appare chiaro che queste idee sono superate o errate, la Chiesa interviene sposando la nuova e migliore interpretazione, che meglio riflette la verità della Parola di Dio.

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L’antichità, anche millenaria, di una dottrina biblica, non depone sempre a favore della sua immutabilità; occorre verificare nei singoli casi se si tratta di un dato di fede o di un’opinione dell’agiografo. Se la Chiesa si accorge e quando si accorge che era una semplice idea dell’agiografo o del suo ambiente culturale, non esita ad abbandonarla o addirittura ad escluderla esplicitamente, anche se lo fa con ogni riguardo, per non mancare di rispetto all’agiografo.

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I difetti dei modernisti e della loro cosiddetta esegesi modernista, al riguardo, non sono dati da questo principio della distinzione tra dato rivelato e idee dell’agiografo, ma da due cose:

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Prima cosa. I modernisti sono degli storicisti o evoluzionisti, vale a dire che non ammettono verità universali ed immutabili, neppure quelle di fede. Per loro tutto muta, anche Dio. Quindi, non mutano solo le idee dell’agiografo, ma anche il dato rivelato, nel senso che noi oggi non crediamo più alle stesse verità di fede, alle quali credeva San Paolo, perché anche la verità di fede cambia col passare del tempo e varia a seconda delle varie culture, per cui per loro non si dà un’unica fede, ma una pluralità di “fedi”. Secondo loro, non esistono verità eterne e sovratemporali, ma veritas est filia temporis. Quello che era vero ieri, è falso oggi e viceversa. Pertanto, la Chiesa sbaglia nel ripetere sempre le stesse dottrine o gli stessi dogmi, perché in tal modo essa resta indietro rispetto al progresso storico.

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Secondo i modernisti, per esempio Schillebeeckx, l’identità del contenuto di fede nel corso del tempo non è assicurato da concetti dogmatici, che non sono fissi, ma mutano e devono mutare, a seconda delle circostanze e delle situazioni storico-culturali. Infatti, per Schillebeeckx, il concetto non coglie il reale in se stesso, ma soltanto vi tende senza raggiungerlo. Il reale è colto invece da una «esperienza atematica preconcettuale», concreta, globale ed esistenziale, che però in se stessa è inesprimibile. Dobbiamo esprimerla; ma, per la natura stessa del nostro conoscere, nel momento in cui lo facciamo, siamo obbligati ad usare semplici, incerti e precari «modelli interpretativi», che sono solo delle immagini o metafore o paragoni, sostanzialmente soggettivi, almeno in relazione ad un dato tempo o una data cultura.

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Chi pretende di possedere, in materia di fede, verità universali, assolute ed eterne, è una persona rigida ed intollerante, non sa apprezzare il pluralismo, non ha senso storico, è un arretrato, non capisce il proprio tempo, è un presuntuoso, e un fondamentalista. e da questa gnoseologia relativista ed evoluzionista segue, nel campo della conoscenza di fede, che il contatto conoscitivo con Cristo non è assicurato, come nei dogmi, da idee astratte, ma dalla suddetta esperienza atematica, implicante la prassi, esperienza che sarebbe la stessa fede, per la quale attingiamo al mistero di Cristo. Senonché, però, per Schillebeeckx, nel momento in cui lo interpretiamo, esprimiamo e comunichiamo nei concetti, questi concetti non sono e non devono essere sempre gli stessi, ma sono e devono cambiare ed esser diversi, ossia adatti al mistero che intendiamo cogliere ed esprimere, a seconda dei tempi, delle circostanze e delle persone, alle quali ci rivolgiamo. Se uno resta attaccato ad un concetto superato o del passato, vive fuori del proprio tempo ed usa un linguaggio incomprensibile ai suoi contemporanei.

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Per esempio, per esprimere oggi il mistero di Cristo, Schillebeeckx propone di smettere di dire che «Gesù è Dio», perché questa espressione, secondo lui, sarebbe un avanzo della antica mitologia pagana dell’«uomo divino» (theiòs anèr), sarebbe meglio invece designare Cristo come «profeta escatologico». E similmente, invece di parlare, come fa il Concilio di Calcedonia, di «una persona in due nature», sarebbe meglio parlare di «una natura in due persone». E così via.

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Seconda cosa. Nell’interpretare la Scrittura, i modernisti, come i protestanti, non tengono conto di quei passi che la Chiesa ha già interpretato o addirittura servono come giustificazione, prova o fondamento scritturistici di un insegnamento dogmatico, e quindi essi non rispettano l’interpretazione fatta dalla Chiesa, ma li interpretano a modo loro, facilmente cadendo nell’eresia.

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Facciamo un esempio. La Chiesa, fondandosi su quei passi della Scrittura, dove si parla dell’anima umana, insegna 1. la distinzione fra anima e corpo [Concilio Lateranense IV del 1215; 2]; che l’anima è forma sostanziale del corpo [Concilio di Viennes del 1312; 3]; che l’anima è immortale [Concilio Lateranense V del 1513]. Ebbene, Rahner, negando esplicitamente questi dogmi della Chiesa, sostiene che quando la Bibbia parla dell’anima, intende sempre l’uomo intero.

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Nella questione in esame, il caso di San Paolo è di certo particolarmente delicato, trattandosi non di un semplice agiografo come altri, ma di un eminente Apostolo. Ma la Chiesa, che bada solo alla verità, non ha problemi a superare e correggere anche le idee umane, storicamente condizionate, di un San Paolo. Questo fatto è testimoniato con estrema chiarezza proprio riguardo al nostro tema della concupiscenza sessuale, strettamente connesso con quello della dignità della donna e del matrimonio, tanto che è bene trattarli assieme.

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La dottrina paolina del matrimonio come «rimedio alla concupiscenza», effettivamente è stata insegnata dai moralisti fino al Concilio Vaticano II, il quale, viceversa, trattando del matrimonio, non parla assolutamente di questa cosa. E da allora, i grandi documenti pontifici, come la Humanae Vitae del Beato Paolo VI, la Familiaris consortio di San Giovanni Paolo II, fino alla Amoris laetitia del Pontefice Regnante, sono su questa linea. Il che dimostra chiaramente che quella idea di San Paolo è superata, e se è superata, evidentemente lì Paolo di fatto non parla a nome di Dio, ma a nome proprio, o forse scambia in buona fede la sua idea per rivelazione divina.

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Non si tratta qui evidentemente di mettere in dubbio o di negare l’esistenza della concupiscenza sessuale, o la possibilità di annullarla nella vita presente. Essa invece è un lascito del peccato originale presente in tutti, e che consiste in una spinta irrazionale verso il piacere sessuale e l’atto che vi corrisponde. La ricerca del piacere è un impulso naturale nell’uomo e nell’animale. Il problema, per l’uomo, è che questa ricerca deve essere razionalmente motivata; e se così non è, è peccaminosa. Ebbene, la concupiscenza fa sì che la persona dell’altro sesso ci attiri a lei con una tale forza, che in certi casi è assai difficile frenare.

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San Paolo dice: chi non ce la fa a trattenersi, si sposi. Se invece ce la fa, è meglio che resti vergine. Oggi, come ho detto nel mio articolo [cf. QUI], da dopo il Concilio, la Chiesa parla diversamente: tutti, con una buona disciplina, l’esercizio e l’aiuto della grazia, dobbiamo essere in grado di dominarci, di regolarci, di controllarci e di frenarci, chè poi non si tratta altro che della virtù cardinale della temperanza, obbligatoria per tutti, sia che siamo chiamati al matrimonio, sia che siamo chiamati alla vita religiosa. Anche Paolo, in altri luoghi, ammette ciò senza problemi. E questa è certamente Parola di Dio.

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La scelta della propria vocazione, nella spiritualità di oggi, si tratti di matrimonio o di vita consacrata o di sacerdozio, non va più intesa rispondendo alla domanda se riesco o non riesco a trattenermi dal sesso. Ma, nel presupposto che io abbia raggiunto quel grado di temperanza, che mi rende padrone del mio istinto, questa scelta va fatta per motivi ben più alti: ossia la risposta al dono di Dio, ciò che del resto Paolo stesso riconosce: «Ciascuno ha il proprio dono da Dio» [I Cor 7,7].

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Ciò vuol dire che l’atto coniugale non dev’esser visto come conseguenza dell’apertura delle cateratte matrimoniali, per la quale il torrente della passione irrompe tumultuoso, ma legalizzato, nella vita coniugale. Non va visto come un soddisfacimento, uno sfogo e nel contempo un argine legittimo e tollerato, della concupiscenza, che diversamente dilagherebbe irrefrenabile, per cui la sua repressione sarebbe insopportabile o impossibile, come credeva Lutero.

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L’atto sessuale invece dev’essere espressione del dono di sé, volontà di far felice l’altro e accoglienza grata del dono che l’altro fa di se stesso. Atto, che, come ho detto nel mio precedente articolo, esprime l’amore ed accresce l’amore. L’assolvimento stesso del debito coniugale, che è dovere di giustizia e servizio all’altro, più frequente negli anziani, nei quali è indebolita la spinta dell’eros, deve continuare ad esser più che mai espressione dell’amore. Si potrebbe addirittura dire, pensando al sacramento del matrimonio, che l’atto coniugale è segno ed incentivo di santità.

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Il mutamento nella concezione del matrimonio avviato dal Concilio consiste in una visuale più ottimista e più nobile, più fedele alla Genesi ed al Vangelo: mentre prima del Concilio il matrimonio era posto accentuatamente nell’orizzonte della natura decaduta col peccato originale e dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo, la visione nuova si pone decisamente nell’orizzonte della risurrezione e dell’uguaglianza di natura specifica fra i due e di mutua complementarità.

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La dignità della donna oggi viene meglio alla luce, le sue qualità morali sono meglio evidenziate, le sue attitudini spirituali più esaltate, mentre per converso diminuiscono le ragioni o i pregiudizi, che in passato, come nello stesso Antico Testamento, facevano vedere nella donna quasi un minus habens, un minore, con limitata responsabilità. Essa era vista come una creatura fragile, impulsiva, emozionabile, facile alle illusioni, suggestionabile, poco affidabile, da guidare, educare, controllare, correggere e tenere a bada; oppure un pericolo: una seduttrice, quasi una maliarda, dalla quale occorre guardarsi. In sostanza, la donna era vista nella luce di Eva peccatrice e non della Madonna.

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In San Paolo è evidente che per lui il rapporto uomo-donna corrisponde al rapporto superiore-inferiore [I Cor 11, 7-9; 14,34; I Tm 2, 11-14]. Ma queste sono idee sue. La dottrina invece del marito «capo della moglie» [Ef 5, 22-33] è un’altra cosa. Mentre infatti sul tema generale “uomo-donna” sentiamo Paolo col suo misoginismo rabbinico, nella dottrina del rapporto marito-moglie risplende certamente la bellezza della Parola di Dio, che non passa e che è stata confermata ed approfondita dal Concilio, che è giunto ad affermare che «la loro unione costituisce la prima forma di comunione delle persone» [GS, 12].

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Questi limiti che troviamo nella concezione paolina della donna non impediscono all’Apostolo di enunciare alcuni princìpi fondamentali della concezione cristiana della donna, princìpi, che certamente sono oggetto della Rivelazione: il principio della reciprocità: «Nel Signore, né la donna è senza l’uomo; né l’uomo è senza la donna» [I Cor 11,11]; e la prospettiva dell’unione escatologica, nella quale è implicita la risurrezione dei sessi, della quale ha parlato ampiamente San Giovanni Paolo II nelle catechesi sulla teologia del corpo: «Non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» [Gal 3,28]. Questo è il chiaro recupero di Gen 1-2, dove è insegnata l’uguaglianza di dignità e natura specifiche.  

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Col Concilio, comunque, è avvenuto un miglioramento nella visione della donna, per cui ella, senza che per questo cadiamo in facili ottimismi, è vista di più nella luce della Madonna che non di Eva. Il Concilio ha confermato la sostanza della sublime dottrina paolina sul matrimonio come immagine mistica (“mysterium magnum”!) e segno sacramentale nientedimeno che dell’unione di Cristo con la Chiesa. In questa dottrina – e qui siamo veramente nella Parola di Dio –, dove non traspare nulla della disistima di Paolo per la donna e della sua dottrina sulla concupiscenza sessuale, non ci pare di trovare neppure lo stesso autore. Del resto, una nota stonata dello stesso Paolo pare trovarsi nel c.7 della Prima Lettera ai Corinzi, dove si fatica a mettere d’accordo il suddetto sublime paragone mistico con la nota forse troppo umana, secondo la quale «la donna sposata si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito» [v.34]. Ma se il marito è immagine di Cristo, che ne è allora di questa immagine? Siamo ancora daccapo col remedium concupiscentiae?

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È evidente il legame tra la donna vista in questa luce e il problema del controllo del sesso. Il progresso nella conoscenza della dignità femminile lungo i secoli è andato di pari passo con una prospettiva più elevata del matrimonio e della sessualità. È altresì evidente che, quanto più l’uomo abbandona il suo complesso di superiorità e vede nella donna non tanto la tentatrice o la minus habens, quanto piuttosto la compagna di viaggio verso il cielo, l’unione coniugale diventerà sempre meno la valvola di sicurezza e lo sfogo legittimato e tollerato dell’istinto e sempre più dono disinteressato d’amore: amoris laetitia!

Varazze, 10 maggio 2016

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Note

[1] Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.

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4 commenti
  1. Beppe1944 dice:

    L’atto sessuale invece dev’essere espressione del dono di sé, volontà di far felice l’altro e accoglienza grata del dono che l’altro fa di se stesso.

  2. Paolo dice:

    Tra chi insulta e chi applaude (in entrambi i casi, forse, un po’ a priori) credo ci sia anche chi come me resta turbato nel leggere questi articoli di teologia.

    Da un po’ di giorni penso agli ultimi due concili ecumenici, vi leggo e sento una profonda tristezza.

    Rimpiango i tempi andati, quando queste discussioni teologiche rimanevano tra voi addetti ai lavori e del Sommo Pontefice si conosceva a malapena il nome.

    Solo il pensiero che Lui salva mi rasserena. Con l’aiuto di Sua madre, chiaro.

    Un piccolo sfogo.

    Cordiali saluti,
    Paolo.

  3. fabriziogiudici dice:

    Caro Padre Cavalcoli,

    ho veramente difficoltà a conciliare la sua affermazione su Paolo “ma queste sono idee sue” con quanto afferma la “Providentissimus Deus” in questi passaggi:

    “Ma non è assolutamente permesso o restringere l’ispirazione soltanto ad alcune parti della sacra Scrittura, o ammettere che lo stesso autore sacro abbia errato. […] Perciò non ha qui valore il dire che lo Spirito Santo abbia preso degli uomini come strumenti per scrivere, come se qualche errore sia potuto sfuggire non certamente all’autore principale, ma agli scrittori ispirati. […] Questo sempre ritennero i santi padri: “Dunque – dice sant’Agostino -, dal momento che essi scrissero ciò che egli mostrava e diceva, in nessun modo può dirsi che non sia stato lui a scrivere, quando le sue membra operano ciò che conobbero sotto la parola del capo”. E san Gregorio Magno dice: “E’ davvero vano il voler cercare chi abbia scritto tali cose, quando fedelmente si creda che autore del libro è lo Spirito Santo. Scrisse dunque tali cose chi le dettò perché si scrivessero; scrisse colui che anche nell’opera di quello, fu l’ispiratore”.

    Va letto nel contesto, ho dovuto elidere per questioni…

    • Padre Ariel
      Giovanni Cavalcoli, OP dice:

      Caro Fabrizio.

      Il Papa si riferisce all’agiografo in quanto ispirato da Dio a scrivere ciò che Dio ha voluto che scrivesse, per insegnare le immutabili verità di fede, non all’agiografo in quanto uomo fallibile legato alle mutevoli idee del suo tempo.

      A questo riguardo, sia nel campo degli insegnamenti speculativi che nel campo di quelli morali, la Bibbia dà testimonianza di un continuo progresso e revisione delle idee degli agiografi, progresso che appunto dipende dal loro progressivo adeguarsi a quelle verità di fede, che essi stessi insegnano in quanto ispirati da Dio.

      C’è da considerare, inoltre, che il magistero pontificio ci aiuta a discernere ciò che nella Bibbia riflette le idee personali dell’agiografo o del suo tempo da ciò che l’agiografo insegna in quanto ispirato da Dio, ossia le verità di fede.

      Altrimenti, se dovessimo elevare a Parola di Dio le idee dei buoni agiografi, certamente in buona fede, dovremmo considerare rivelazione divina i sette giorni della creazione, i giganti “figli di Dio”, che si uniscono alle belle donne (Gn 6,2), i nonni che vivono ottocento anni, la zoologia veterotestamentaria, interessante, ma non più attendibile, la concezione tolemaica dell’universo, l’arca di Noè, il passaggio del Mar Rosso tra due altissime barriere d’acqua, il sole che si ferma nel racconto di Giosuè, l’etica godereccia e materialista di Qoelet, la soggezione della donna, lo sterminio del nemico (herem), la pena di morte, la teocrazia, la distruzione dei templi pagani, le 24 generazioni da Adamo a Cristo, tutti i fatti, nessuno escluso, annunciati dall’Apocalisse e così via.

      Porto due esempi. Primo, la concezione della donna. Secondo, la questione del remedium concupiscentiae.

      Per quanto riguarda il primo punto, è ormai noto il progresso negli insegnamenti pontifici sulla donna, avvenuto già da Pio XII fin dal 1939, ma soprattutto da dopo il Concilio quando si sa benissimo, quanto duri e – diciamo puri, ingiusti, almeno agli occhi di oggi -, siano certi giudizi sulla donna presenti nell’Antico Testamento, come per esempio questi: «trovo che amara più della morte è la donna, la quale è tutta lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma il peccatore ne resta preso». L’uomo è peccatore; ma la donna è molto peggio: «Quello che io cerco ancora» (cioè la bontà) «è questo: un uomo su mille lo trovato. Ma una donna fra tutte non l’ho trovata» (Qo 7,26-27).

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