La gnoseologia teologia di Walter Kasper, che di questi tempi si diletta anche a dare degli gnostici agli altri

— Theologica —

 LA GNOSEOLOGIA TEOLOGICA DI WALTER KASPER, CHE DI QUESTI TEMPI SI DILETTA ANCHE A DARE DEGLI GNOSTICI AGLI ALTRI

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Seguendo la dialettica hegeliana, Walter Kasper si è allontanato dal cristianesimo ancor più di Lutero, perché Lutero, almeno, aveva visto, seppur maldestramente, i rischi di una ragione superba e, seppur in modo arrogante, l’importanza fondamentale dell’obbedienza alla Parola di Dio, mentre la dialettica hegeliana trasforma Dio in un sillogismo e dissolve il Mistero nel divenire della storia.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

Il nostro modo di concepire l’agire morale e la nostra stessa condotta morale  dipendono dalla nostra concezione della realtà e da come concepiamo la conoscenza della realtà, cioè dalla nostra “gnoseologia”. Questo vale per tutti e quindi vale anche per il famoso teologo Walter Kasper. E in questo saggio vedremo come funziona in lui questo rapporto.

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Da molti decenni il Cardinale Walter Kasper, in qualità di guida delle attività ecumeniche della Chiesa, svolge un modo di fare ecumenismo, che non avvicina i fratelli separati alla piena comunione con la Chiesa, ma al contrario li lascia nei loro errori e nella loro condizione di separatezza, come se tale condizione non fosse un difetto da riparare, ma semplicemente il segno di un modo di essere cristiano diverso da quello cattolico e altrettanto legittimo, anzi complementare.

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Ma così è successo e succede che non solo i protestanti non si convertono al cattolicesimo, ma molti cattolici, attratti dagli errori di Lutero, e visto che non vengono più corretti come un tempo, e che è cessata l’opera dei cattolici di convertire i protestanti, si fanno l’idea che la Chiesa abbia corretto il suo giudizio su Lutero, ed abbia scoperto che aveva ragione lui, o che quanto meno il suo modo di concepire il cristianesimo può essere oggetto di scelta facoltativa anche per i cattolici. Così questi cattolici si sentono autorizzati a scegliere almeno qualcuna delle posizioni di Lutero, nella convinzione di poter continuare a dirsi cattolici, anzi forse pensano di potere essere considerati “progressisti” ed  “avanzati”. Ma l’insidia più sottile è il fatto che certi errori di Lutero vengono presentati come verità cattoliche, per cui molti cattolici ignari e ingenui ci cascano. E bevono il veleno senza accorgersene. Uno dei più abili operatori di questa colossale truffa è Karl Rahner.

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A questo punto occorre trovare una via di uscita a questa situazione, perché la fede cattolica si sta affievolendo, mentre è in aumento l’influsso di Lutero. Occorrerebbe pertanto che il Sommo Pontefice fermi questa interpretazione modernistica dell’ecumenismo e promuova l’attuazione dell’autentico ecumenismo, così come risulta dal vero insegnamento del Concilio.

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Il rapporto tra metafisica e dottrina della Chiesa

Nella teologia di Walter Kasper, come in ogni sistema teologico, il tutto risulta dalla coesione consequenziale delle parti tra loro connesse: se si mina il fondamento, crolla tutto il resto, come la statua della visione di Daniele [Dn 2, 21-31]. Tutto parte dalla conoscenza. Se questa è sana, tutto il resto regge; altrimenti tutto crolla. Dedichiamo allora questo saggio alla sua gnoseologia, senza mancar di far vedere la verità di questo assunto. Diciamo allora che è falso dire che «la Chiesa non sostiene una determinata metafisica» [1], giacché essa invece raccomanda da secoli quella di San Tommaso d’Aquino. Ma lo fa sulla base della convinzione che la metafisica è una scienza certa, perenne, incontrovertibile, oggettiva ed universale, sapere fondamentale, frutto immarcescibile della ragione umana come tale, adatta a tutti gli uomini e a tutte le culture, in ogni tempo e luogo.

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La Chiesa crede non in una data metafisica, ma nella metafisica come tale, così come essa non promuove la ragione di Tizio o di Caio, ma la ragione umana come tale, di qualunque persona umana, in ogni tempo e in ogni luogo. Per questo, nelle sue istituzioni educative, culturali ed accademiche, la Chiesa promuove la metafisica nella sua perfezione epistemologica e nel suo progresso, volendola esente da errori e difetti, nella libertà della discussione, della ricerca e dell’insegnamento. Essa sa bene che esistono diverse forme, sistemi od orizzonti di pensiero metafisico, alcuni validi, che essa ammette nella sue scuole, soprattutto il sistema di San Tommaso, ma poi anche quello, ad esempio, di Sant’Agostino o di Sant’Anselmo o di San Bonaventura, o di Alessandro di Hales o del Beato Duns Scoto o di Francesco Suarez; mentre altri, invece, pericolosi, essa li guarda con riserva o sospetto, come per esempio quello di Scoto Eriugena o di Guglielmo di Ockham o di Nicolò Cusano o di Marsilio Ficino, o di Campanella o di Cartesio o di Leibniz o di Wolff o del Beato Antonio Rosmini, benchè veneri la santità di quest’ultimo. Altri sistemi essa li respinge senz’altro, benché nella sua magnanimità, esorti i   teologi a recuperare in essi quanto può esserci di valido. Sono le dottrine che si trovano in contrasto col realismo della sana ragione, e che quindi contrastano con la fede, come per esempio le idee di Giordano Bruno o di Spinoza o di Kant o di Fichte, o di Schelling o di Hegel o di Gentile o di Heidegger o di Severino o di Rahner.

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Per quanto riguarda gli eretici, la Chiesa, nel momento in cui ne condanna gli errori, chiede ai teologi di evidenziare in essi quanto è rimasto del comune patrimonio di fede, nella speranza che essi si correggano e vogliano riunirsi alla Chiesa. Con tutti gli uomini, credenti e non credenti, la Chiesa dialoga sulla base della ragione naturale, al fine di introdurli, se possibile, al mistero di Cristo. Tuttavia, non esistono diverse o differenti metafisiche, così come esistono diverse o differenti opinioni. Infatti, lo ripetiamo, la metafisica è una scienza e non un’opinione, così come, per esempio, non sono opinioni la geometria, la fisica, la botanica, la geografia o l’anatomia.

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La Chiesa raccomanda l’uso della metafisica di San Tommaso d’Aquino

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La Chiesa, pertanto, tra le diverse metafisiche prodotte nel passato, a seguito dell’apparire della sistemazione teologica di San Tommaso d’Aquino nel XIII secolo, ha scelto ed ha preferito certamente una data metafisica, appunto quella di San Tommaso [2], ma non come avesse scelto un’opinione tra altre dottrine discutibili o caduche. Ciò naturalmente non vuol dire che la metafisica di Tommaso sia priva di difetti o non sia perfezionabile, o che non possa sorgerne in futuro una migliore [3]. Questa preferenza della Chiesa è motivata dal modo eccellente col quale San Tommaso sa motivare l’armonia tra ragione e fede [4], in ordine alla elaborazione di una apologetica, di una teologia razionale e di un’etica naturale, nonché all’interpretazione della Scrittura ed alla formulazione e spiegazione del dogma.

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Prima della comparsa di San Tommaso, la Chiesa si dava premura certamente che la Sacra Scrittura fosse commentata ed interpretata utilizzando sani concetti razionali e filosofici, mentre i dogmi che erano stati definiti in precedenza, come per esempio i dogmi cristologici, erano stati formulati con l’utilizzo di categorie metafisiche, dovutamente adattate, ricavate dalla filosofia greca, come del resto avevano già fatto i Santi Padri della Chiesa e Sant’Agostino servendosi della filosofia platonica per la elaborazione della loro teologia.

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Ma prima di San Tommaso non era sorto nessun teologo che fosse stato capace di organizzare con tanta sapienza tutto il sapere teologico in un unico sistema razionale. Questa esigenza cominciò a farsi sentire a partire dal XIII secolo [5]. Ci si era accorti infatti che gli insegnamenti biblici e i dogmi che la Chiesa aveva ricavato da essi, benché si trovassero sparsi in documenti che si erano susseguiti nel corso di secoli e benché molti di questi documenti avessero ad oggetto la narrazione di fatti riflettenti l’azione divina nella storia ― per esempio il passaggio dall’Antica alla Nuova Alleanza, l’Incarnazione e la Redenzione, la fondazione e lo sviluppo della Chiesa ―, contenevano però anche delle verità speculative, razionalmente collegabili tra di loro; verità universali, immutabili ed eterne, razionali e rivelate «cielo e terra passeranno; ma le mie parole non passeranno» [Mt 24, 35], verità che si riferiscono soprattutto a Dio, Che, nella sua purissima spiritualità, immutabilità ed eternità, è in Se stesso al di là dello spazio e del tempo, trascende la storia e il divenire del mondo, benché, con l’Incarnazione del Figlio di Dio, Dio abbia unito a Sé in Cristo una singola umanità nell’unità di una sola Persona divina, e per conseguenza, per il tramite di quest’uomo Gesù, abbia unito a Sé, «senza confusione» e o senza mutazione», come si deduce dal dogma cristologico di Calcedonia, ogni uomo, la storia, il tempo e il mondo.

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Per questo, il Concilio Vaticano II ha potuto dire che «con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» [GS 22], non certamente nel senso rahneriano che tutti gli uomini siano in grazia, ma in quanto Cristo offre a tutti la possibilità di unirsi a Lui e così di salvarsi, come sappiamo bene dagli insegnamenti evangelici e dogmatici concernenti le condizioni per salvarsi. E’ quello che dice Cristo: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» [Gv 12,32]. Ma non tutti si lasciano attrarre.

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La Chiesa si guarda bene dall’imporre a tutto il popolo di Dio, come fosse sua dottrina ufficiale, qualunque teoria, idea o scelta mutevole, contingente o limitata al campo della particolarità o dell’opinabilità, si tratti di una tendenza politica, di una corrente culturale o artistica o di culto o devozioni o spiritualità o modo di vivere la fede e la condotta morale. Ma essa lascia in ciò a tutti piena libertà di scelta. Essa, invece, in base all’autorità che le è stata conferita da Cristo, impone assolutamente a tutti i credenti, pena la dannazione eterna, solo ciò che, per comando di Cristo, è universalmente necessario ed obbligatorio per la salvezza di tutti. Ma nessuno le impedisce di proporre anche dottrine umane ben fondate ed universalmente valide, connesse con le verità di fede, al fine di facilitarne l’apprendimento [catechesi] o di introdurre ad esse [apologetica] o di trarne delle conclusioni o di favorire lo sviluppo dogmatico [teologia speculativa o morale] o di consentire buoni commenti alla Scrittura [esegesi biblica] o di favorire la pietà e la santità [teologia spirituale].

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In nome di questa sua facoltà, che è anche suo dovere, la Chiesa raccomanda soprattutto ai pastori e ai teologi San Tommaso [6], non ovviamente perchè la sua dottrina sia necessaria alla salvezza, ma per la validità, l’utilità e l’universalità del suo pensiero in ordine ai suddetti scopi. Per questo, della dottrina dell’Aquinate, Pio XI disse che la Chiesa l’ha fatta sua, edixit esse suam. E Tommaso è stato chiamato dalla Chiesa Doctor communis Ecclesiae.

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L’analogia dell’ente secondo Kasper

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Kasper pensa di poter fare un collegamento fra analogia, dialettica e pensiero storico. L’idea non è male; ma purtroppo il risultato, come vedremo, è deludente. Egli dice:

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«La struttura dell’ “in-al di sopra di” è caratterizzante sia per l’analogia, sia per la dialettica, sia per il pensiero storico. Se ora mettiamo a confronto dialettica e analogia, questo non vuol significare che l’analogia entis sia la ‘forma del pensiero cattolica’ [7]. Non può e non potrà darsi ‘la forma di pensiero cattolica’ per la ragione che la Chiesa non ha sostenuto una determinata metafisica. La Chiesa deve testimoniare il Vangelo e certamente assolve a questo compito usando il linguaggio umano. Ha dunque bisogno, a tal fine, della filosofia come riflessione critico-metodologica e come interpretazione dell’esperienza umana dell’essere. Tale pensiero è ancora profondamente storico» [8].

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Osserviamo che è vero che l’analogia unisce e collega l’ente immanente, mondano, all’ente trascendente, divino. Ma il rapporto immanenza-trascendenza è ben distinto nel caso della dialettica e della storia. La dialettica, infatti, non conosce una trascendenza, perché resta sul piano dell’univocità e si limita all’opposizione fra l’essere e il non-essere, tra l’affermazione e la negazione. Essa resta sul piano mondano e delle opinioni. Per salire a Dio, all’intelletto non servono concetti opposti tra di loro, oltre a tutto limitati all’ambito delle apparenze, come quelli dialettici, sia perché Dio, benché trascendente, non si oppone al mondo, non è nemico del mondo, ma, al contrario, è in armonia col mondo, è in comunione con esso, avendolo creato Lui; e sia perché, per spiegare le certezze mondane, abbiamo bisogno di un fondamento primo e certissimo e non oscillante come quello dialettico. Se il fondamento vacilla, che sarà del resto?

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Per salire dunque dal mondo a Dio, occorre un concetto che, pur applicandosi al mondo, abbia la duplice qualità di essere da una parte in continuità con la nozione di Dio e quindi predicabile anche di Dio; ma dall’altra bisogna che la nozione o il livello che tale concetto raggiunge non sia troppo basso e non resti al livello dell’essere mondano, al fine di poter esprimere la trascendenza o la superiorità di Dio rispetto al mondo. Altrimenti, invece di raggiungere Dio, avremmo solo un idolo o un dio pagano. Inoltre, occorre una nozione sufficientemente universale, che sia applicabile a tutte le cose, perché Dio deve spiegare l’esistenza di tutto il mondo. Occorre dunque utilizzare il concetto più vasto e più universale che possediamo. Ma questa nozione deve anche essere sufficientemente elevata, perché non deve spiegare solo l’esistenza delle cose materiali, ma anche il mondo dello spirito. Occorre dunque che essa astragga, trascendendole, dalle cose materiali e quindi anche dallo spazio, dal tempo, dal divenire e dalla storia, per poter considerare lo spirito, che è immateriale e che, pur potendo operare nella storia, tocca però realtà e valori sovrastorici, immutabili e incorruttibili. Il semplice pensiero storico non è sufficiente per ottenere o avere un concetto di Dio. Benché infatti indubbiamente Dio abbia creato la storia e la governi, e benché Si sia incarnato in Gesù Cristo, ed abbia vissuto tra noi, resta sempre in Se stesso immutabile e al di sopra della storia e la natura umana storica di Cristo è distinta dalla natura divina.

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Peraltro, la suddetta operazione astrattiva, come dimostra il Cardinale Gaetano [9], comporta tre gradi di superamento della materia: fisico, matematico e metafisico [10]. Al termine di tale operazione, siamo in possesso della nozione che è dotata di tutti i precedenti requisiti: la nozione analogica, metafisica e trascendentale dell’ente come ente [ens ut ens] e delle sue proprietà trascendentali [unum, verum, bonum, pulchrum, res, aliquid]. Il pensiero del Gaetano è importante nel mostrare come procede l’intelletto nel raggiungere il sapere metafisico. Si tratta di un’elevazione dell’intelletto, per la quale esso, formando il concetto metafisico dell’ente, è in grado di costruire la teologia speculativa, concependo Dio come Primo e Sommo Ente. Per questo, è rimasta famosa l’esortazione del Gaetano: «Disce elevare ingenium, aliumque rerum ordinem ingredi».

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Questa è la nozione migliore per distinguere Dio e mondo e, nel contempo, per passare dal mondo a Dio e da Dio al mondo. E c’è da notare che qui il movimento intellettuale non ha nulla a che vedere con la «oscillazione», della quale parla Kasper, perché qui non si tratta di oscillare tra il sì e il no, ma di passare da un sì più basso a un altro sì supremo. Negando la possibilità dell’utilizzo di un unico concetto analogico dell’ente per congiungere Dio e mondo, Dio e storia, Kasper dimostra di fraintendere o di non aver capito che cosa è l’analogia entis, perché, certo, mentre l’ente reale è molteplice, il concetto analogico dell’ente o è uno [11] o non è niente, benché anch’esso sia internamente diversificato, appunto per riflettere la realtà molteplice dell’ente. Questa mancata percezione dell’unità dell’ente trascendentale spiega alcuni errori di Kasper.

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Primo, il rifiuto della teologia sistematica. Egli ha presente i sistemi razionalisti ed immanentistici idealisti e fa bene a rifiutarli. Ma egli sbaglia nel rifiutare il sistema come tale, che è invece un bisogno imprescindibile della ragione e della scienza. Sapientis est ordinare, come dice San Tommaso. E la teologia è una scienza e una sapienza. E come tale, la teologia non è un semplice convergere, incontrarsi e discutere fra teologi; non è un semplice scambio di opinioni; non è una semplice ricerca personale o comune. Queste certamente sono cose buone. Ma la teologia, in quanto servizio al Magistero della Chiesa e alle anime e introduzione all’accoglienza dello stesso Magistero, deve avere una forma scolastica, metodica, educativa e formativa, soprattutto in ordine alla formazione del clero. Si tratta di trasmettere ai discepoli nozioni ormai acquisite, certe e definitive, utili al ministero e alla vita di pietà, fondate sul dogma, sulla Scrittura e sulla Tradizione.

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Il problema per l’edificazione di una teologia sistematica è su quale principio fondarsi o da dove partire. L’errore degli idealisti non è stato quello di voler costruire un sistema unitario, deduttivo ed universale. L’errore è stato quello di fondarsi sul cogito cartesiano, anziché sull’ente. E la teologia sistematica si fonda appunto su Dio come Ens primum et summum, come Ipsum Esse per se subsistens.

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Così si spiega la presente dichiarazione di Kasper:

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«La teologia deve rimanere ancorata alla follia della predicazione, aperta e non chiusa al dialogo, che qui diviene rimando all’apertura e alla temporaneità della nostra situazione escatologica, e rende impossibile un ampio sistema teologico» [12].

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Questa impostazione occamistica comporta incresciose conseguenze nella teologia dogmatica, che viene privata delle sue fonti, che sono appunto gli insegnamenti della Chiesa, della Scrittura e della Tradizione. Dice Kasper:

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«Non esiste un indice ufficiale dei dogmi della Chiesa […] Perciò la domanda che talvolta viene posta ingenuamente, quanti dogmi propriamente esistano, non può avere assolutamente risposta» [13].

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Rispondiamo dicendo che non è affatto un’ingenuità chiedersi quanti e quali siano i dogmi e non è affatto impossibile, ma è di interesse vitale per la salvezza, rispondere con certezza a tale domanda, così come è del tutto legittimo chiedersi quali e quanti siano gli organi vitali del corpo umano. E a tale domanda risponde la Chiesa stessa nei suoi documenti ufficiali, soprattutto negli insegnamenti dei Papi e dei Concili. All’uopo, occorre però anzitutto possedere un giusto concetto di “dogma” [14], conforme alla dottrina cattolica, distinguendolo dai gradi superiori e da quelli inferiori del dato rivelato. Il grado supremo sono gli stessi espliciti insegnamenti del Signore contenuti nella Sacra Scrittura e nella Tradizione, che sono le fonti stesse della Rivelazione, e sono quindi i fondamenti dei dogmi [15], che invece sono interpretazioni infallibili della Parola di Dio, proposte dalla Chiesa. I dogmi sono gli articoli della fede. Esso sono riassunti nel Simbolo della Fede. Il loro numero a qualità sono contenuti nel Catechismo e sono illustrati dalla teologia dogmatica.

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Secondo, nella linea della gnoseologia occamista, che fu propria anche di Lutero, Kasper non riesce a superare e ad unificare la struttura molteplice del pensiero, segno, anche questo, che non ha compreso l’analogia dell’ente, perché appunto la nozione dell’ente è la più universale e quella che, come abbiamo visto, consente all’intelletto di congiungere Dio e il mondo. Si spiegano così la mentalità dialettica e lo storicismo di Kasper. Infatti, sia la dialettica che il pensare storico, per la loro stessa essenza, hanno a fondamento una dualità concettuale: la dialettica, fa il confronto tra il sì e il no; lo sviluppo storico, ha la dualità atto-potenza.

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Terzo, l’assunzione della dialettica hegeliana comporta due conseguenze nefaste, già presenti in essa, e cioè da una parte, una deleteria opposizione tra il vero e il vero e, dall’altra, la ipocrita sintesi [«oscillazione»] tra il vero e il falso. Le conseguenze in teologia sono gravissime, addirittura blasfeme: da una parte l’ostilità tra Dio e l’uomo, mancando una nozione di ente che colleghi l’Uno all’altro; dall’altra, un’orrenda alleanza tra Cristo e Beliar, per cui si spiega perché Cristo, quando raccomanda di non oscillare tra il sì e il no, fa presente che «il di più viene dal maligno» [Mt 5,37]. Questo «di più» è l’aggiunta di un terzo termine, la «sintesi» hegeliana del sì e del no.

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Si badi bene che la suddetta oscillazione non ha nulla a che vedere con l’oscillazione propria dello stato di dubbio, nel quale il pensiero si muove disagiato tra il sì e il no senza sapersi decidere, perché non ha ragioni né per l’uno né per l’altro. Ma il desiderio del soggetto è di trovare la verità e di fermarsi in essa, non interessa se essa è nel sì o nel no. Invece l’oscillazione dell’ipocrita è studiata e voluta, col preciso scopo di ingannare e di apparire o far apparire quello che non è. Il linguaggio dell’ipocrita non avanza una possibilità di scelta tra il sì e il no, ma pretende di affermare e negare simultaneamente. Egli si ritiene dispensato dall’osservare il principio di non-contraddizione.

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L’oscillazione della quale parla Kasper comporta dunque una trasgressione del principio di non-contraddizione, già presente nella astuta dialettica hegeliana, maestra di doppiezza, e per nulla richiesta dalla onesta e leale dialettica aristotelico-tomista [16], la quale comporta non un abbinamento, ma un semplice confronto tra l’affermazione e la negazione, al fine di chiarire, se possibile, che scelta fare, in ciò simile al dubbio, con la differenza che qui il pensiero si sposta continuamente tra i due poli, mentre nella dialettica il pensiero si ferma  debolmente e provvisoriamente in uno dei due.

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L’idea, sposata da Kasper, col pretesto del “mistero”, che Dio sia al di sopra e indipendente dal principio di non-contraddizione, ha avuto le sue prime avvisaglie nel XIII secolo con la teoria della «doppia verità», per cui ciò che è vero in filosofia può esser falso in teologia e viceversa. Guglielmo di Ockham, dal canto suo, ammette che Dio, de potentia absoluta, non fa nulla di contradditorio, ma questo può farlo nella creazione, ossia de potentia ordinata, per cui, se Lui volesse, l’adulterio potrebbe essere ad un tempo lecito e illecito.

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Ma chi crede che la contraddizione sia risolvibile in Dio, sempre col pretesto della mistica, è Nicolò di Cusa nel XV secolo, con la sua famosa coincidentia oppositorum. Osserviamo che se in Dio il sì e il no coincidono, allora vuol dire che non vale più il comando di Cristo di tenerli separati e di non congiungerli, il che ovviamente è blasfemo

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Lutero e Hegel partono da qui e purtroppo Kasper li segue nel momento in cui fa propria la dialettica hegeliana. In tal modo Dio entra in contraddizione con Se stesso e si verificano le assurdità che abbiamo visto circa la teoria kasperiana degli attributi divini. Le conseguenze morali di questa “teologia mistica” si possono immaginare e sono oggi sotto i nostri occhi. Le vedremo al termine di questo saggio.

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Sulla sua già accennata linea di pensiero, Kasper afferma altresì:

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«Il cristianesimo, per la sua universalità, non può vincolarsi a una determinata filosofia, anzi spezzerà e metterà in crisi ogni categoria filosofica. Proprio la teologia biblica, come osserva Fuhrmans, ha giustamente posto in luce che il pensiero cristiano è pensiero storico-dinamico» [17].

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Rispondiamo ricordando che il cristianesimo è una vita soprannaturale, che nasce da una verità divina rivelata da Cristo alla ragione umana, che viene coltivata, educata, purificata ed elevata dalla filosofia. Certamente, la verità cristiana non è dedotta dalla verità di ragione, né questa può avere la pretesa di fondarla o dimostrarla. Tuttavia, l’esercizio della ragione, meglio se educata dalla filosofia, è condizione indispensabile per la conoscenza e l’approfondimento della verità cristiana, la quale si aggiunge a quelle già note dalla ragione, e quindi per l’esistenza stessa del cristianesimo, il quale è stato fondato da Cristo per il bene dell’uomo, animale razionale.

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Dunque, in realtà, il cristianesimo, benché per sua essenza trascenda ogni filosofia e non sia il parto di alcuna filosofia o di alcuna mente umana, è tuttavia sostanzialmente vincolato non a una determinata filosofia, ma alla filosofia, in ordine alla sua stessa esistenza o per lo meno al suo melius esse. E il minimo che si possa dire è che il cristianesimo è vincolato all’uso della retta ragione, come condizione di possibilità dello stesso cristianesimo, perché esso è attuazione dell’uomo in quanto essere ragionevole. Nulla peraltro, in questa ottica, impedisce alla Chiesa, di scegliere, tra le varie filosofie, quella che maggiormente favorisce l’accesso della ragione alla fede. Per questo la Chiesa, come ho detto sopra, raccomanda in modo speciale la filosofia di San Tommaso.

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Il pensiero cristiano non può essere assolutamente ridotto a un «pensiero storico-dinamico» ma è anche un pensiero speculativo-sistematico, necessario alla formulazione dei dogmi ed alle scienze teologiche. Questo esclusivismo di Kasper dipende dal fatto che il suo non è un semplice onesto pensare storico, ma è un pensiero storicistico, negatore dell’immutabilità della verità, secondo il modulo modernista, già a suo tempo condannato dal Santo Pontefice Pio X.

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Il relativismo filosofico provoca il relativismo dogmatico

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Questa mancata percezione dell’universalità del sapere filosofico ridotto a una contingente molteplicità di «forme di pensiero», ossia di opinioni mutevoli, relativizza al mutare dei contesti storici non solo la teologia, ma anche il dogma, dato che la Chiesa, nel definire un dogma, utilizza nozioni della ragione naturale giustificate dalla filosofia.

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Kasper intende l’universalità del cristianesimo non come fondata su verità universali ― i dogmi della fede ―, ma su quella che egli chiama «cattolicità originaria» o «ecumenica», che abbraccia in sé, come momenti «particolari», che egli chiama «confessionali» [18], le due dogmatiche del cattolicesimo e del protestantesimo. Solo che ci si domanda quali sarebbero i contenuti di questo cattolicesimo sopradogmatico. Evidentemente anche qui c’è il retroterra del denken hegeliano, che costituisce la totalità dialettica onnicomprensiva del pensiero, che nega, sintetizza e supera in sé i momenti delle Vorstellungen, che sono i dogmi o le «confessioni» delle varie religioni positive.

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Kasper rifiuta l’idea della Chiesa come comunità diffusa nel mondo, effetto della predicazione di una verità unica ed universale — il Vangelo —, che, partendo da Roma, come centro della missione, sede del Successore di Pietro, si diffonde a cerchi concentrici nel mondo, ma come un «poliedro a molte facce» [19], ossia come una collezione o federazione di diverse interpretazioni particolari ed opinabili del Vangelo, magari in contrasto le une con le altre.

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È chiaro qui l’influsso della gnoseologia occamista [20], nella quale l’universale non irraggia da un’unità d’essenza a tutti comune ― unum in multis ―, ma è una semplice collezione di individui allo stesso livello, indipendenti l’uno dall’altro e connessi tra di loro solo in un’immagine confusa. Si tratta di un’universalità non formale o speculativa, ma meramente materiale e collettiva, come quando diciamo: un “consenso universale” per dire: “di tutti”.

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Kasper vorrebbe evidenziare il fatto del progresso dogmatico, ma lo intende alla maniera modernista, non come esplicitazione o spiegazione di una verità immutabile, ma come superamento dialettico di una tesi opposta del passato. Infatti, come vedremo, secondo lui, per interpretare la Parola di Dio, non si deve usare la filosofia di San Tommaso, ma la dialettica hegeliana.

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Per Kasper il dogma non riflette una realtà oggettiva, esterna al soggetto, ma, alla maniera idealista, «il dogma ha valore solo in quanto esprime l’interno» [21]. Esso non è una mediazione o interpretazione infallibile della Parola di Dio fatta dal Magistero della Chiesa, una volta per tutte, ma una tesi del Magistero, che dev’essere vagliata e controllata, confrontandola con la Scrittura. È il metodo di Lutero: «Il dogma ― dice Kasper ― dev’essere compreso alla luce della Testimonianza della Scrittura» [22]. Egli approva Rahner, il quale afferma che «un dogma può benissimo essere vero e tuttavia umanamente prematuro, colpevole, pericoloso, ambiguo, tentatore, temerario» [23]. Non faccio commenti. Secondo il suo linguaggio dialettico che dice e non dice, il dogma può essere ad un tempo «definitivo» e «provvisorio»:

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«Un dogma è la forma provvisoria in cui la verità escatologico-definitiva di Cristo diviene evento. Provvisorio è il termine con cui si vuole esprimere il carattere di anticipazione proprio del dogma; quindi non è da intendere proprio in opposizione a ‘definitiva’, bensì nel senso originario della parola, quale anticipo precursore degli escata» [24].

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Osserviamo ancora che l’universalità del messaggio evangelico e del dogma cattolico non è data, come crede Kasper, dalla semplice convergenza pragmatica, dialogica o dialettica, in perenne evoluzione, di una pluralità di particolari «forme di pensiero» e di modi incoerenti e contrastanti di intendere o interpretare il dogma, il Vangelo e la Tradizione, ma dalla universalità di un certo numero di precisi contenuti di fede, immutabili e assolutamente veri, universalmente condivisibili ed effettivamente e comunemente condivisi e accettati da ogni fedele.

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Bisogna dunque sostenere l’esatto opposto di quanto sostiene Kasper, e cioè che il cristianesimo, proprio per la sua universalità e per favorire al meglio tale universalità, e la sua diffusione in tutti i tempi e un tutti i luoghi,  soprattutto nelle sue forme più colte ed elevate, è istituzionalmente ed essenzialmente vincolato e debitore alla filosofia e precisamente, tra le varie filosofie, a quella o a quelle che meglio aiutano la ragione ad accedere alla conoscenza di fede. Infatti, il sapere cristiano, in quanto sapere di apertura universale, destinato a tutti gli uomini, non può che radicarsi su quanto nel sapere umano è universale, e ciò non è altro che l’effetto di quella facoltà conoscitiva che caratterizza l’uomo come uomo, ossia quella facoltà che tutti possiedono, e che è appunto la ragione. Ora, come si sa, la filosofia è appunto il supremo sapere della ragione. Essa, per dirla con San Tommaso, è il perfectum opus rationis.

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In base a quanto detto, apparirà evidente che affermare poi che il cristianesimo «spezza e mette in crisi ogni categoria filosofica» è una grave calunnia ai danni del cristianesimo, che potrà essere uscita dalle labbra di Lutero in un accesso d’ira contro la Chiesa Cattolica, ma che sorprende e scandalizza leggere nel libro di  un teologo cattolico, oltre a tutto oggi Cardinale. A smentita di questo grave falso storico di Kasper, proprio lui che tanta importanza dà alla storia, si deve dire che a «spezzare e mettere crisi ogni categoria filosofica» sono stati semmai i barbari, che nei secoli bui del Medioevo assaltavano e distruggevano le abbazie, dove i monaci conservavano i tesori della cultura classica e cristiana.

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Il «pensiero storico» secondo Kasper

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Il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni [Sal 33,1]

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Secondo Kasper, occorrerebbe in teologia sostituire il «pensiero storico» al pensiero metafisico. Ma cosa intende egli esattamente con questa espressione, che abbiamo già incontrata? Qui troviamo il nucleo della sua gnoseologia. Il «pensiero storico», per Kasper, non è soltanto il pensiero o il sapere di colui che narra i fatti storici, ma è soprattutto il vero pensare come tale, ossia pensiero aderente alla realtà, perché per Kasper la realtà è storia. Come abbiamo già visto, il pensare storico, quindi, per lui, non è un pensare annoverabile tra altre forme di pensiero, come, per esempio, il pensiero metafisico. No. Anzi, il pensiero metafisico non è neppure un vero pensare, perché suppone come oggetto delle realtà immutabili, che non esistono, perché per Kasper, come per Eraclito, tutto muta: panta rei. E quindi, anche in campo morale non si dà una scienza o una teologia morale, che abbia ad oggetto valori o doveri assoluti, universali ed immutabili, ma anche il moralista, per essere aderente alla realtà dell’agire umano e stabilirne le norme, deve far uso del pensare storico, deve pensare «storicamente», ossia deve concepire norme variabili, mutevoli, eccepibili, condizionate, contestualizzate, perché tali sono le norme reali della condotta umana, mentre il credere che l’agire umano possa essere regolato da princìpi universali ed astratti, magari su basi metafisiche, è un’illusione deleteria, che irrigidisce l’agire togliendogli il suo proprio dinamismo, la sua libertà e la sua apertura al progresso [25].

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Ma per Kasper non muta solo l’oggetto dei concetti ― e questo può essere giusto, se si riferiscono a cose mutevoli ―, ma mutano i concetti stessi, muta il loro significato, che non è mai assoluto, ma sempre storicamente  condizionato, e quindi cambiano di significato anche i dogmi della Chiesa, in quanto formulazioni concettuali. Tale mutamento, per Kasper, oltre a comportare un’evoluzione nella storia ed una diversificazione nelle varie culture e religioni, consiste essenzialmente in una «oscillazione» o duplicità simultanea di significato tra i due poli opposti della contraddizione, perché Kasper assume la concezione hegeliana del reale come «dialettico», ossia contradditorio. Ne viene che la realtà e quindi la verità viene espressa proprio attraverso il congiungimento del sì e del no.

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Vediamo come Hegel stesso spiega questo procedimento:

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«Il compito consiste nell’attuare l’universale e nell’infondergli spirito, togliendo i pensieri determinati e solidificati. È peraltro assai più difficile render fluidi i pensieri solidificati, che render fluida l’esistenza sensibile. … I pensieri divengono fluidi, quando il puro pensare, questa immediatezza interiore, si riconosca come momento, o la pura certezza di sè astragga da sé. … Deve abbandonare il fisso nel suo autoporsi: sia il fisso del puro concreto, che è lo stesso Io in opposizione di contro al contenuto distinto, sia il fisso dei differenti, i quali, posti nell’elemento del puro pensare, partecipano di quella incondizionatezza dell’Io» [26].

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Kasper applica questo metodo in teologia, sicché, parlando degli attributi divini, ne viene che Dio è al contempo conoscibile e inconoscibile, essere e divenire, semplice e differenziato, immutabile e mutevole, eterno e temporale, impassibile e passibile, potente e impotente, finito ed infinito, immortale e mortale, celeste e mondano [27]. Kasper parla qui della Persona di Cristo ed evidentemente confonde la natura umana di Cristo con quella divina, come del resto aveva già fatto Hegel [28].

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Diamo un esempio di questo metodo dialettico hegeliano nel modo col quale Kasper vorrebbe convincerci dell’unità, in Dio, di potenza ed impotenza:

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«Dio è talmente sovrano nella sua potenza e libertà, che può anche permettersi di rinunciare a tutto senza “perdere la propria faccia”. E così la potenza si afferma proprio nell’impotenza di Dio, la sua signoria nella schiavitù, la sua vita nella morte» [29]. È talmente assurdo quello che dice, che  non vale neppure la pena di confutarlo.

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Influssi luterani

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Kasper, sulla scia di Hegel, riecheggiando l’eresia di Marcione, oppone il Dio identità e «astratto» dell’Antico Testamento al Dio «concreto» e dialettizzato [cioè trinitario] del Nuovo, ossia Cristo, sviluppa dialetticamente l’impostazione luterana del passaggio storico dal Dio adirato e punitore veterotestamentario al Dio dolce e «misericordioso» del Vangelo. Per cui fa le lodi di Lutero che, contro la cristologia «metafisica» di San Tommaso, avrebbe finalmente scoperto, dopo sedici secoli, il vero volto del Cristo evangelico. Egli infatti attribuisce a Lutero il merito di rappresentare

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«una rottura con tutta una teologia impostata su basi metafisiche. Il Riformatore non parte da un concetto filosofico di Dio per capire la croce, ma cerca di capire Dio proprio a partire dal fenomeno della croce. Questa nuova impostazione la ritroviamo espressa nella stessa “disputa di Heidelberg” del 1518: “Non è denominato degnamente teologo, colui che considera con l’intelletto le cose invisibili di Dio per mezzo delle cose fatte, ma colui che intende con l’intelletto le cose visibili e posteriori di Dio per mezzo delle sofferenze e della croce”. […] Il mistero nascosto di Dio non va situato al di là: un simile Dio speculativo non c’interessa. Noi non dobbiamo penetrare i misteri della maestà divina, ma accontentarci del Dio della croce. Dio lo possiamo trovare soltanto in Cristo; se lo cerchiamo al di fuori di lui, troveremo solo il diavolo. Partendo da queste premesse, Lutero giunge a un capovolgimento dell’intera cristologia» [30].

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È falso che «Dio lo possiamo trovare soltanto in Cristo». Dio Lo troviamo con la ragione, prima di trovarLo, e meglio, in Cristo. Lutero e con lui Kasper dimentica infatti che non potremmo sapere che Cristo è Dio, se già non sapessimo che Dio esiste, quel Dio dimostrato dalla ragione [Rm 1,20], e Che già conosceva Mosè [Es 3,14]), prima che Cristo apparisse nel mondo.

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Non si tratta affatto di «cercare Dio fuori di Cristo». Nessun cristiano di buon senso sogna una follia del genere, ma si tratta di cercare Cristo partendo da Dio, perché, se la ragione non trova anzitutto Dio, come Creatore del mondo partendo dalle cose del mondo, non trova neanche Cristo; e chi crede, come Lutero e Kasper, di trovare Cristo indipendentemente o contro una previa conoscenza razionale di Dio, incontra solo un falso Cristo, e cioè il «dio di questo mondo» [II Cor 4,4], che è il diavolo.

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Non c’è niente di male a indagare filosoficamente sulla natura divina indipendentemente dal dogma cristologico. Questa non è altro che la teologia razionale. Tale indagine è utile al dialogo interreligioso ed è utilissima per chiarire il significato del dogma cristologico, e ci preserva dal cadere nella confusione che Kasper fa fra attributi umani e attributi divini.

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Il significato e lo scopo della dialettica

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Kasper pensa che lo strumento conoscitivo della teologia sia la dialettica. Gli manca il concetto di teologia come scienza [31], e quindi come scienza speculativa. Su questo punto egli è più vicino a Lutero che ad Hegel, il quale fa coincidere la dialettica con la scienza speculativa. Oltre a ciò, il grave errore di Kasper è quello di credere che per l’interpretazione della Scrittura e del dogma sia meglio rifarsi alla concezione hegeliana della dialettica, anziché a quella aristotelica. Infatti, l’enorme vantaggio che, nell’ordine delle suddette finalità, offre la dialettica aristotelica rispetto a quella hegeliana è che, mentre la prima è una scuola di umiltà per la ragione, educandola e regolandola sul piano dell’argomentazione probabile e quindi abituandola a correggere gli eventuali errori o ad evitare false apparenze, la dialettica hegeliana, che risolve il reale nelle opposizioni del pensiero e negli effetti della volontà, incentiva la superbia del soggetto illudendolo di essere un momento della dialettica dell’ Assoluto. E sappiamo come tutta l’etica biblica non sia altro che una sfida tra l’umiltà e la superbia, tra Cristo e Beliar per la signoria sul cuore dell’uomo.

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Seguendo la dialettica hegeliana, Kasper si è allontanato dal cristianesimo ancor più di Lutero, perché Lutero, almeno, aveva visto, seppur maldestramente, i rischi di una ragione superba e, seppur in modo arrogante, l’importanza fondamentale dell’obbedienza alla Parola di Dio, mentre la dialettica hegeliana trasforma Dio in un sillogismo e dissolve il Mistero nel divenire della storia.

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Kasper insiste ancora in questi termini:

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«La Chiesa deve raccogliere la saggezza di tutti i popoli e di tutti i tempi, anche di tutte le forme di pensiero, poiché il suo annuncio è sempre più grande e oltrepassa ogni pensiero. La teologia, dunque, ha proprio il compito di distruggere ogni singola forma di pensiero, di integrarla, e di superarla in un’altra. Per questo la teologia dovrà sempre pensare dialetticamente” [32].

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Osserviamo che la teologia non è la somma di più teologie tra di loro diversificate e tanto meno contrastanti fra loro. Le teologie dei vari autori o delle varie scuole sono manifestazioni diverse della teologia come tale, ossia come scienza nella sua universalità. La teologia non deve affatto distruggere o superare alcuna singola forma di pensiero, ma al contrario riconoscerla, integrarla e valorizzarla e, nella sua accogliente universalità, deve rispettarle e promuoverle tutte e far sì che dialoghino tra di loro in una reciproca complementarità.

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La teologia deve sì pensare dialetticamente nel formulare nuove opinioni e nello scambio o critica delle medesime, ma deve soprattutto essere in continua ricerca e far opera di scienza, raggiungendo conclusioni certe e dimostrate, universalmente condivisibili, che un domani la Chiesa potrebbe elevare al rango di dogma, come è accaduto per alcune tesi della teologia tomista.

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«La dialettica, per Kasper, è soltanto la debole immagine del dialogo e traduce propriamente in un monologo ciò che normalmente avviene nel dialogo: il passaggio attraverso i molteplici aspetti della verità, che viene fissata nella sua non oggettivabilità» [33].

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Diciamo che la dialettica non è solo monological’elaborazione personale delle proprie opinioni dialettiche ―, ma anche dialogica, nel senso che essa regola la discussione o il dialogo tra due pensanti, come per esempio avviene nei Dialoghi platonici o come avviene sistematicamente, dopo l’impulso dato da Abelardo nel XII secolo, nei trattati teologici medievali, chiamati Summae, nell’uso scolastico. In essi il maestro risolve un problema, la Quaestio, attraverso il confronto di ipotesi opposte, il metodo del sic et non, per il quale il maestro motiva il suo parere scientifico od opinabile che fosse, rispondendo alle obiezioni contrarie.

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Quando per esempio San Tommaso, nella Quaestio IX della Prima Pars della Summa Theologiae si domanda se Dio è immutabile, esamina bensì alcune opinioni che sostengono che Dio diviene, ma, concluso l’esame di questi pareri, formula la sua sentenza, poggiata sulla Bibbia, che afferma con chiarezza e certezza, senza ambiguità o riserve, che Dio (a.1) e solo Dio (a.2) è assolutamente immutabile, a differenza di un Kasper o un Rahner, per i quali, in base all’ «oscillazione» dialettica, Dio è ad un tempo immutabile e mutabile.

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La dialettica hegeliana

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Kasper ispira la sua concezione della dialettica a quella di Hegel. Vediamo dunque il suo pensiero. La dialettica, per lui, è azione della «sostanza-soggetto», cioè dello «spirito» o del «sé»:

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«La sostanza è il movimento del porre se stesso o in quanto essa è la mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso. Come soggetto, essa è la pura negatività semplice ed è, proprio per ciò, la scissione del semplice in due parti o la duplicazione opponente; questa, a sua volta, è la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione; soltanto questa eguaglianza che si ricostituisce o la riflessione entro l’esser altro in se stesso – non un’unità originaria come tale, né un’unità immediata come tale – è il vero. Il vero è il divenire di se stesso, il circolo, che presuppone e ha all’inizio la propria fine e che solo mediante l’attuazione e la propria fine è effettuale» [34].

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Ma per Hegel Dio stesso è dialettico, ossia diviene storicamente:

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«La vita di Dio … degrada fino all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo. In sé quella vita è l’intatta uguaglianza ed unità con sé, che non è mai seriamente impegnata nell’esser altro e nell’estraneazione, e neppure nel superamento di questa estraneazione. Ma siffatto in sé è l’universalità astratta, nella quale, cioè, si prescinde dalla natura di esso di essere per sé e quindi, in generale, dall’automovimento della forma. … Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto e divenire se stesso» [35].

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Ancora Hegel:

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«Il fine attuato o l’effettuale esistente è movimento;  è divenire giunto al suo dispiegamento; ma proprio questa inquietudine è il Sé; ed esso è uguale a quella immediatezza e a quella semplicità del cominciamento perché è il risultato, perché è ciò che è tornato in se stesso. Ma ciò che è tornato in se stesso è appunto il Sé; e il Sé è l’eguaglianza che si rapporta a Sé» [36].

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Il movimento dialettico, per Hegel, è il moto dello spirito per il quale, nella storia, l’accidentale diventa sostanziale, il relativo diventa assoluto, la morte diventa vita, il falso diventa vero e il nulla diventa essere, in forza dell’ «immane potere del negativo», per il quale il sé oppone sé a sè e, negando questa opposizione, torna a sé. Ma l’opposizione dialettica affermazione-negazione, per Hegel, non è limitata all’ambito del pensiero e del linguaggio, ma riguarda l’essere stesso, il reale, in forza del ben noto principio idealista dell’identità dell’essere col pensiero.

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La negazione è atto dello spirito e quindi è un atto dell’intelletto, della volontà e del linguaggio. Ma siccome per Hegel l’essere è spirito, la negazione è anzitutto un atto pratico nell’ambito del reale, cioè è un annullare o, come si esprime Hegel, è un «togliere» [Aufhebung]. Ma ecco che dal nulla “magicamente” risorge l’essere.

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Ecco dunque la «magìa» della dialettica:

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«Che l’accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, che ciò che è legato nonché reale solo nella sua connessione con altro, guadagni una sua propria esistenza determinata e una sua distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare, del puro io. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo  il mortuum, questo è ciò per cui si richiede la massima forza […] Quella vita che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Essa guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione [ …] Lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere. Essa è il medesimo che sopra fu detto Soggetto, mentre nel proprio elemento dà esistenza alla determinatezza, supera l’immediatezza astratta e cioè, in genere, solo essente, ed è quindi la verace sostanza, l’essere o l’immediatezza, che non ha la medesima fuori di sé, ma è questa stessa” [37].

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Così commenta Tomas Tyn, O.P. questa dialettica di un Assoluto, effetto del «negativo» che associa la vita alla morte, l’essere al nulla. Essa promette una vana ed impossibile conciliazione tra di essi, che non può essere altro che un’oscillazione tra l’uno e l’altro, uno stare fra il sì e il no, un servire a due padroni:

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«I fronti si oppongono l’uno all’altro irriconciliati, momenti fugaci di una dialettica lacerante, che eleva se stessa a principio assoluto, dopo aver posto l’identità tra l’essere e il nulla, due nichilismi – uno equivocante» [Hegel] «d’un tutto fondato sul nulla, l’altro univocante d’un tutto che, indifferente com’è ai suoi momenti particolari, nulla di fatto riesce a fondare, perché è già, per immediata identità» [Schelling] «indifferentemente tutto – che la dialettica pretenderebbe unire in un terzo ed assoluto nichilismo, per il quale il nulla del tutto coinciderebbe col tutto del nulla» [38].

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In base alla dialettica hegeliana, che Kasper fa sua, non è mai possibile fare delle affermazioni o delle negazioni nette ed assolute, valide sempre ed in ogni caso, sia in campo dogmatico che in campo morale. Bisogna esprimersi in modo che ciò che noi diciamo possa essere interpretato nel senso opposto a quello che appare. Il nostro sì deve lasciar trasparire un no. Sotto al sì deve esserci un no. Questo giudicare doppio, con un giudizio manifesto e un altro sottostante o soggiacente o nascosto, ma non tanto da non farsi riconoscere, un giudizio opposto al primo, è detto in greco ypò-krinein, da cui il termine italiano “ipocrisia”. Per questo, il linguaggio teologico di Kasper, diventa di prammatica un vero e proprio imperativo morale. Si tratta di patteggiare col falso, nascondendolo sotto il vero, in modo che il pesciolino che ci ascolta, abboccando all’amo, ingerisce il veleno. Infatti, in base a questi princìpi e a queste vie tortuose, qualunque proposizione, anche dogmatica, è manovrabile ed equivocabile, può andar soggetta a interpretazioni contrastanti e produrre effetti morali dannosi, opposti a quelli che appaiono in  superficie.

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Ma ciò, per il dialettico hegeliano non deve creare scrupoli o turbare, anzi è cosa normale, che consente la libertà di pensiero e il pluralismo teologico, come per esempio la coesistenza di cattolicesimo e luteranesimo. Al contrario, per l’hegeliano sono proprio la precisione e l’univocità che sono segno di una visione ingenua, unilaterale e incompleta del reale, che non tiene conto della sua storicità e della sua contradditorietà dialettica.

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La doppiezza eretta a sistema

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Labbra bugiarde, parlano con cuore doppio [Sal 12,3]

Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno ed amerà l’altro o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro [Mt 6,24]

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L’opporre il no al sì può essere disobbedienza o atto di virtù. Disobbedienza, se diciamo di no a Dio. Virtù, se diciamo di no al peccato. Ma ci può essere anche la negazione teoretica, quando diciamo di no a una tesi. E anche qui ci può essere l’onesto o il disonesto: l’onesto, se diciamo di no al falso; il disonesto, se diciamo di no al vero. Cristo ci comanda di dire sì a ciò che è sì e no a ciò che è no. Non dobbiamo contraddire alla verità e dobbiamo condannare il falso. Chi sta a metà, viene dal diavolo. Questa è la doppiezza, rappresentata nella Bibbia dalla lingua biforcuta del serpente.

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Questo è il senso delle parole di San Paolo:

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«Quello che decido, lo decido secondo la carne, in maniera da dire allo stesso tempo “sì, sì” e “o, no”? Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”. Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono diventate “sì”» [II Cor 1, 17-20].

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La dialettica, come abbiamo visto, gioca col sì e col no. Può essere un gioco pericoloso, quando vogliamo fare i furbi o se vogliamo ingannare gli altri. Esistono delle regole sia del ragionare dialettico che di quello scientifico. Sono ad un tempo regole logiche e regole morali. Aristotele, che curava l’onestà nel ragionare [39], ebbe premura di fare un elenco di fallacie nel pensare e nel parlare, gli «elenchi sofistici», per metterci in guardia contro la disonestà nel pensare e nel parlare, ossia contro la doppiezza e l’ipocrisia. Ora, purtroppo Kasper si dichiara ammiratore non della sana dialettica aristotelica, utilizzata da San Tommaso, ma di quella di Hegel, che è somma maestra di ambiguità, insinuazioni malevole, inganni fascinosi, sofismi, scorrettezze e disonestà nel ragionare e nel concludere.

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Kasper collega l’analogia non alla concezione tomista, ma alla dialettica di Hegel, per cui non c’è da meravigliarsi se egli, come abbiamo già visto, cade in un concetto falso dell’analogia. Riprendiamo adesso il discorso in relazione a questa doppiezza della dialettica hegeliana, la quale, ben lungi dal prestarsi ad interpretare la Scrittura, la falsifica alle radici.

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Kasper si dichiara a favore dell’analogia, ma non ne ha un concetto giusto. Egli dice:

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«L’analogia sostiene esistere fra assoluto e finito identità e differenza. Essa unisce identità e diversità, negazione e posizione in un centro oscillante. Questo centro, tuttavia, non è un concetto d’essere che comprende Dio e il mondo, cosa che potrebbe ricondurre, per la verità, a una qualche forma della filosofia dell’identità, ma significa, nel senso dell’analogia di proporzionalità, solo una corrispondenza [non identità] di proporzioni dei due analogati» [40].

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Alcune osservazioni. Dio e il mondo esistono. Eppure Dio esiste diversamente dal mondo. Si può dunque predicare l’essere nell’uno e nell’altro caso. Ma il significato dell’essere nei due casi è diverso. Dunque abbiamo un qualcosa – l’essere – che predichiamo di tutto in molti modi, sensi o significati diversi. To on pollacòs legòmenon, come diceva Aristotele. L’essere si dice in molti modi. È sempre l’essere per ciascun ente, mondo e Dio, quindi abbiamo un solo concetto, ma con una pluralità di diversi significati. Tra Dio e il mondo non c’è identità, ma somiglianza e diversità. Non sono la stessa cosa. Sono due realtà diverse, differentissime. Due cose non possono ad un tempo essere identiche e differenti. Non si può affermare e negare ad un tempo l’identità o la differenza. Dio e il mondo fanno due. Eppure sono compresi in un unico concetto analogico dell’essere. E questo perché la nozione dell’essere contiene in sé le sue differenze, senza tuttavia astrarre completamente da esse.

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L’affermazione e la negazione non entrano nell’analogia, ma nella dialettica. Nell’analogia non si tratta affatto di trovare un «centro oscillante» tra due opposti, ma semmai di spostare l’attenzione dell’intelletto fra i vari analogati, per esempio, nel considerare il concetto analogico della vita, partire dalla vita vegetativa e salire fino alla vita divina.

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Nell’analogia il sì non sta assieme col no, non si «oscilla» tra il sì e il no, perché sarebbe doppiezza, ma ogni analogato è nell’ordine del sì, così come in Cristo, che è il sommo analogato «c’è stato solo il sì» [II Cor 1,17]. L’analogia si pone sul piano della diversità, della somiglianza, della concordanza, della relazione, del confronto, della proporzione.

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Kasper ha ragione a collegarla col dialogo. Ma ha torto a collegarla con la dialettica. Quest’ultima impone una scelta tra il sì e il no, anche se giunge alla verità confrontando due tesi opposte. Il dialogo invece dice scambio, comunicazione, integrazione, correzione, arricchimento, complementarità reciproci.

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Continua Kasper:

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«L’uomo può pensare unicamente in quel duplice movimento» ― oscillatorio ―  «che significa un continuo trascendere il finito verso l’infinito e un continuo concretizzarsi dell’infinito verso il finito. Un tale pensiero dev’essere caratterizzato come pensiero storico; esso si trova in una dialettica mai conclusa di passato e di futuro, di libertà e necessità, in una dialettica disposta sempre oltre se stessa e, come tale, dev’essere circoscritto rispetto ad ogni pensiero statico. In quanto radicalizzazione della problematica trascendentale, esso coglie anche l’assoluto innanzitutto come momento interno a questa storicità» [41].

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La salita del pensiero verso il trascendente e l’universale astratto, e il ritorno nel singolare concreto ed immanente, valgono per il pensiero morale, che deve stabilire l’azione concreta, non per quello della metafisica e della teologia speculativa, che, una volta salita al cielo, contempla, nel pensiero statico, ossia stabile ed immutabile,  le «cose di lassù» [Col 3,1]. È falso dunque che l’uomo può pensare unicamente nel pensiero «storico», considerando oltre a tutto che cosa Kasper intende con questa espressione, come abbiamo già visto.

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Il concepire poi l’Assoluto come «momento interno della storicità» della coscienza, sa molto di idealismo. Certamente Dio è presente ed intimo alla coscienza di ogni uomo. Ma il presentarLo nei suddetti termini dà un’immagine falsa dello stesso Assoluto, Che sembra essere un pensiero, sia pur sublime, ma pur sempre una semplice idea umana, immanente ai limiti storici della coscienza, mentre in realtà il Dio eterno e infinito li trascende all’infinito.

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Continua Kasper:

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«Le moderne interpretazioni del principio di analogia […] fanno propria l’impostazione trascendentale e intendono l’analogia come esplicazione dell’autocompimento dello spirito, che può esprimere il finito unicamente nell’orizzonte dell’infinito non più oggettivabile e quindi non più enunciabile univocamente» [42].

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Benché si tratti di «moderne interpretazioni dell’analogia», esse tuttavia non capiscono che cosa è l’analogia, la quale non suppone alcun trascendentalismo idealista e nessun «autocompimento dello spirito», ma semplicemente la nozione analogico-trascendentale dell’ente. Per questo, il vero sapere analogico in teologia non esprime affatto «il finito unicamente nell’orizzonte dell’infinito», ma lo esprime nell’orizzonte dell’essere analogico.

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La teologia non parte affatto dal concetto di Dio, per conoscere il mondo alla luce di quel concetto; ma, al contrario, parte dall’esperienza sensibile del mondo per risalire a Dio come causa e creatore del mondo [Rm 1,20; Sap 13,5]. Non è vero che Dio non è oggettivabile, ossia conoscibile in concetti. Lo è, certo, non univocamente, ma analogicamente.

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La concezione dialettica di Dio

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Dice Kasper:

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«L’assoluto dev’essere conosciuto solo nel e con quel centro oscillante di posizione e negazione. Ciò che nella teologia scolastica viene giustapposto in modo relativamente estrinseco come via positionis e via negationis, qui diviene, invece, peculiare movimento globale del pensiero, anzi diviene l’esercizio dello spirito stesso. L’assoluto è allora conosciuto unicamente in quanto movimento dialettico dello spirito e non in un cosiddetto concetto analogo» [43].

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Kasper a un certo punto, scopre le carte e manifesta con tutta chiarezza che la sua «analogia» non è altro che uno specchietto per le allodole, che nasconde in realtà la dialettica hegeliana della sintesi tra il sì e il no, il sapere e non sapere:

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«Non è forse vero che l’uomo, anche e proprio nella sua apertura all’infinito, rimane pur sempre spirito finito? E in questo spirito finito potrà egli pensare l’infinito? O non dovrà conoscerlo e misconoscerlo allo stesso tempo?» [44].

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Come esiste una visione doppia nella vista fisica ― per esempio il vederci degli ubriachi o la miopia ―, così ne esiste una nella vista dello spirito. E come è anormale e sgradevole la prima, così è ancor più anormale e spiacevole la seconda. Questa peraltro non è inevitabile e non c’è da provarne alcun gusto, come invece pare ne provi Kasper.

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Con una vista doppia, Dio dunque appare doppio: eterno e temporale, immutabile e mutevole, impassibile e sofferente, punitore e complice del peccato, misericordioso e crudele, ecc.. Kasper fraintende completamente il rapporto fra teologia positiva e teologia negativa: non comprende che non si tratta assolutamente di affermare e negare simultaneamente lo stesso attributo divino. Ciò sarebbe quel dire sì e no, che Cristo attribuisce al diavolo. Si tratta, invece, proprio come insegna la teologia medioevale ingiustamente da lui disprezzata, proprio di separare accuratamente, senza contrapporre, il momento della teologia positiva da quello della negativa, per il fatto che la seconda si costruisce sulla base della prima, in quanto, mentre quella afferma un attributo divino nella sua assolutezza ― per es. la bontà ―, la seconda lo nega evidentemente non in quanto tale, ma, ponendosi dal punto di vista del nostro modo umano di concettualizzare e di quanto noi possiamo comprendere della bontà divina. Il metodo scolastico conserva il contenuto trascendentale del concetto di bontà, ma ne nega il modo finito col quale la bontà si realizza nelle nostre conoscenze umane [45].

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Davanti al Mistero divino, il concetto non entra in contraddizione con se stesso, ma al contrario si afferma nella sua massima potenza e assurge alla sua massima dignità, certo non col suo modo d’essere finito [46], ma nel suo contenuto teologico. Qui Hegel aveva ragione contro Schelling. E il concetto, nel momento nel quale avverte questo suo limite, si rende conto di essere infinitamente superato dal modo d’essere divino. E proprio questa esperienza gli fa capire di aver raggiunto Dio, perché, se non avvertisse di essere superato, ciò che concepisce non sarebbe Dio, ma un idolo. Su questo punto Schelling non aveva tutti i torti.

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Il Dio di Schelling e di Hegel

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Kasper propone una teologia, la quale mette assieme l’idea di Dio in Schelling con quella di Hegel, nonostante il forte contrasto che le divide. Ma entrambe derivano dalla concezione luterana di Dio, e questo spiega, secondo me, questo fatto di congiungerle. Resta comunque che, mentre Schelling punta l’attenzione sul Deus absconditus, Mistero assoluto e indifferenziato di identità ideale-reale, soggetto-oggetto, inconoscibile e indicibile, «coincidentia oppositorum», il Dio del quale si può dire tutto e il contrario di tutto, «stoltezza della predicazione», un Assoluto che, come è noto, appare ad Hegel la «notte ― come egli dice ―, nella quale tutte le vacche sono nere», Hegel considera il Dio che si fa storia ed appare nella coscienza sub contraria specie, il Deus revelatus, l’evento Cristo, il Logos, la Ragione, la Parola, il Concetto, l’«Universale concreto».

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Kasper, Per quanto riguarda Schelling, nel far sua la sua concezione, la riporta in questi termini:

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«L’infinito non oggettivo, originario, non può essere saputo oggettivamente, ma soltanto in modo assoluto. Questo sapere trascendentale, tuttavia, non sta semplicemente accanto al sapere oggettivo, ma lo comprende e lo rende possibile, non è tematizzabile in se stesso, non deve essere oggettivato e quindi falsato. Lo si scopre solo nella dialettica, in quell’oscillare e in quel passare dall’uno all’altro» [47].

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Questa conoscenza «assoluta» è sempre la dialettica, come in Hegel: la sintesi del sì e del no, dell’affermazione e della negazione, con la differenza che mentre in Hegel l’Assoluto può e deve essere concepito razionalmente e determinatamente, per cui, come dice Hegel «il Mistero è svelato», il sapere assoluto di Schelling è indifferente alle distinzioni concettuali, lasciandole nelle loro opposizioni, e quindi dà l’impressione di apprezzare l’esperienza mistica e l’oscurità divina, ma nel momento in cui questo sapere viene espresso, ricade nell’«oscillazione» tra il sì e il no, che abbiamo già vista. É in fondo la coincidentia oppositorum del Cusano, che pure abbiamo già vista.

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Anche per San Tommaso, certamente, Dio è l’Assoluto, ma ciò non impedisce che si possa avere un concetto, benché imperfetto, dell’essenza di Dio, esprimibile nel linguaggio, già in base alla ragione e ancor più grazie alla fede. Questo concetto, prodotto dalla nostra ragione, sia pur illuminata dalla fede, non può indubbiamente comprendere o abbracciare esaustivamente l’essenza divina nella sua infinità. E tuttavia la può conoscere limitatamente nella sua verità. Nel contempo, San Tommaso non nega che la nostra parola venga a mancare, quando consideriamo, soprattutto nell’esperienza della carità, l’infinita bontà divina. E quindi non nega affatto l’esperienza mistica. Ma si guarda bene dal basarla sull’oscillazione tra il sì e il no. Essa invece nasce da un sì a Dio detto con tutte le proprie forze e sulla base delle verità di fede.

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Resta comunque, come abbiamo visto, che noi possiamo concepire Dio facendo ricorso al concetto analogico dell’essere, per il fatto che la Scrittura ci insegna che Dio è «Colui Che É» [Es 3,14], quindi, come osserva San Tommaso, Dio è un Ente, la cui essenza è quella di essere assolutamente e infinitamente. In tal senso Dio è l’Infinito e l’Assoluto. Parliamo di concetto analogico, per il fatto che, come insegna la Scrittura [Sap 13,5], noi possiamo sapere che Dio esiste e quindi possiamo farcene un concetto, partendo dalla considerazione degli enti, ossia delle cose, che sono effetti della sua potenza creatrice: «Di fatti, dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’Autore». Se infatti tutte le cose hanno in comune il fatto di esistere e di avere l’essere, un essere del quale partecipano, senza che nessuna di esse sia l’essere per essenza, la ragione ci obbliga ad ammettere che, avendo esse ricevuto l’essere, debba esistere un Essere, Che lo abbia dato loro, cioè che le abbia create, un Essere che, per spiegare l’esistenza degli enti, a sua volta non abbia ricevuto l’essere, ma che sia puro ed infinito Essere, quello che San Tommaso chiama ipsum Esse per Se subsistens, Dio.

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Una volta dunque che noi abbiamo formato la nozione universalissima  dell’essere,  siamo in grado di poter predicare l’essere sia delle cose, che di Dio, ma dobbiamo tener presente che lo predichiamo nei due casi non in senso univoco, come se di esse e di Dio l’essere si potesse predicare nello stesso senso, ma in due sensi molto diversi, ossia analogici, perché, mentre le cose hanno l’essere, ossia sono finite, Dio è l’Essere infinito. Per questo l’Aquinate dice che mentre la realtà creata è id quod habet esse, Deus est suum esse. E d’altra parte, esagerando la diversità tra la creatura e il Creatore e cadendo nell’equivocità dell’essere per un falso misticismo e senso del mistero, non si può dire che l’essere non si può predicare di Dio, in forza della “trascendenza” di Dio e della sua superiorità nei confronti di tutti i concetti umani. Questo è l’errore di Schelling, nel quale cade anche Kasper.

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Il Dio dell’idealismo proposto da Kasper oscilla tra l’equivocità e l’ univocità. Questa tendenza è in nuce già nel Dio di Lutero, che congiunge la concezione agostiniana del Dio interiore alla coscienza e luce della coscienza, fonte di verità eterne, col Dio di Ockham, che è un Dio che non tiene conto delle nostre certezze, un Dio quindi, sui cui attributi si può equivocare, perché la sua imperscrutabile e insindacabile volontà non comanda ciò che è bene, ma ciò che Egli vuole che sia bene. Per cui, se Dio permettesse l’adulterio, esso sarebbe lecito. Infatti, per Ockham, dato che non ammette l’esistenza di essenze universali, non esiste una natura umana, regolata da leggi morali universali, valide per ogni individuo, per cui il bene dell’uomo non è l’osservanza di queste leggi, ma semplicemente il fatto che ogni singolo uomo compia il volere di Dio nella sua situazione particolare e variabile da uomo a uomo. I doveri dell’uomo non sono motivati da una ragione, che non dà certezze, ma solo da opinioni, e dal solo fatto che Dio vuole così e potrebbe volere diversamente.

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Il Dio dell’idealismo approvato e raccomandato da Kasper e da lui considerato migliore e più biblico di quello di San Tommaso, è una congiunzione della concezione luterana di Dio con quella cartesiana, attraverso Kant e Fichte.

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L’agostiniano Dio nella coscienza ha un riflesso sia in Lutero che in Cartesio, ma mentre in Agostino la coscienza entra in se stessa per aprirsi alle cose esterne che conducono a Dio ed alla compagine visibile, istituzionale e sacramentale della Chiesa con a capo il Vicario di Cristo, con Lutero e Cartesio, il Dio nella coscienza diventa, per dirla con Kasper

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«il principio moderno della soggettività, il processo durante il quale l’uomo diventa cosciente della propria libertà come autonomia, e se la rende punto di partenza, misura e mezzo per un’intera concezione del reale» [48].

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Dio e la storia

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La proposta kasperiana è chiara: è quella di sostituire, nell’interpretazione della Rivelazione cristiana, la filosofia tomista con quella idealista, nonostante le secolari raccomandazioni a favore di San Tommaso fatte dai Sommi Pontefici, fino alle prescrizioni del Concilio Vaticano II e dei seguenti Pontefici, come San Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio e le ripetute condanne dell’idealismo da parte del Magistero della Chiesa sin dal XIX secolo. É evidente, altresì, in Kasper, l’intento di favorire Lutero dietro le lodi tributate a Schelling e ad Hegel.

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Prendiamo in esame alcune dichiarazioni significative di Kasper. Egli ritiene che

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«la filosofia di Hegel … offre al teologo degli strumenti concettuali che lo aiutano, più di quanto non sia stata capace la tradizione metafisica del passato, a capire l’avvenimento di Cristo e a riflettere su Dio non più in termini filosofico-astratti, bensì concretamente, a pensare cioè Dio come il Dio e Padre di Gesù Cristo» [49].

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Vediamo quali sarebbero secondo Kasper questi «strumenti concettuali», che fanno conoscere il mistero cristiano meglio di San Tommaso. Egli dice:

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«Un Dio che ora viene pensato entro l’orizzonte della soggettività, non può essere compreso come l’Esistente supremo, perfettissimo e immutabile. Si giunge così, dopo i diversi tentativi intrapresi dallo scotismo e dal nominalismo medievali, come pure da pensatori quali Meister Eckhart e Nicolò Cusano, a una de-sostanzializzazione del concetto di Dio» [50].

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Kasper loda Hegel perché è giunto a concepire l’Assoluto

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«non come sostanza ma come soggetto, in quanto si aliena nell’altro da sé» [51]. «L’Intero (Dio) non è altro che l’essenza che si compie attraverso la sua evoluzione» [52]. «Questa comprensione storica di Dio ― spiega Kasper [53] ― è mediata sul piano cristologico e raggiunge il suo apice nell’interpretazione del fenomeno della croce, nel tentativo di capire la morte di Dio»

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«L’avvenimento della croce ― continua Kasper parlando di Hegel ― è la descrizione esteriore della storia dello Spirito assoluto»[di Dio]; «per essa avviene in Dio una “scissione”»; la morte di Dio significa che egli nega se stesso: «in questa auto-alienazione la morte rappresenta il vertice massimo della finitudine, la negazione suprema e quindi anche la migliore manifestazione dell’amore di Dio» [54].

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Dice ancora Kasper:

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«Per sua stessa essenza lo Spirito assoluto pone in se stesso la sua differenza da sé. Secondo Hegel, questa è un’esegesi filosofica del detto biblico: ‘Dio è amore’» [55].

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É qui evidente un’interpretazione dialettica del Mistero della Croce, la quale nulla ha a che vedere con quanto la dottrina della Chiesa e la Scrittura insegnano sull’argomento [56].

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Conseguenze in antropologia e morale

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Se la casa è fondata sulle sabbie mobili del divenire e dell’incertezza, non c’è da stupirsi se essa non possa avere una salda struttura e garantire una sicura abitabilità. E di fatti l’antropologia kasperiana e la morale che ne discende ci lascia in balìa delle onde del mare agitato della storia, senza una meta fissa e senza un porto riparato nel quale rifugiarci, che non sia ciò che si svolge nella dialettica della nostra coscienza soggettiva. Poco ci aiuta il richiamo ad un “Assoluto” impelagato come noi nelle vicende, nelle sventure e nelle oscurità di questa vita mortale, tanto che non si capisce se è Lui che ci soccorre o noi dobbiamo soccorrere Lui.

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Dice Kasper:

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«L’uomo si trova davanti a un mistero insuperabile, anzi egli stesso è un mistero impenetrabile. Non è possibile ricavare le linee essenziali della nostra esistenza» [57].

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Non si risolve il delicatissimo problema dell’essenza dell’uomo, nonché dei fini e delle leggi della sua vita con un misticismo a buon mercato, che non è altro che una comoda ma vergognosa fuga dalle proprie responsabilità. In tal modo, si abbandona la gravissima questione morale nelle mani di qualunque ciarlatano. Per un teologo cattolico la cosa, poi, è ancora più grave, considerando il ricchissimo e millenario patrimonio dottrinale, del quale dispongono in merito l’antropologia e la morale cattolica.

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La riduzione dell’uomo, fatta da Kasper, a mera possibilità di recepire la grazia, a mero vaso della grazia, può dar l’impressione di un’alta spiritualità, ma in realtà è una schietta impostura, anzi è un’assurdità, perché la grazia è un perfezionamento della natura: se non esiste il perfezionabile, non può esistere neppure la perfezione che dovrebbe perfezionarlo.

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Dice infatti Kasper:

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«L’infinita distanza che separa l’uomo da Dio, la creatura dal suo Creatore, e la cui mediazione si preannunzia nella persona dell’uomo come interrogativo e come speranza, non può essere colmata da possibilità umane. Per sua stessa essenza questa mediazione non può provenire che da Dio. Nella sua personalità, l’uomo è soltanto grammatica, potentia oboedientialis, pura e passiva possibilità di questa mediazione» [58]. «L’antropologia è, per così dire, la grammatica di cui Dio si serve per autoesprimersi; ma la grammatica in quanto tale rimane aperta agli enunciati più diversi e trova la sua determinazione concreta soltanto nella vita umana di Gesù» [59].

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L’uomo davanti a Dio non è  solo una passiva «grammatica», ma è una creatura libera fatta a sua immagine, con ben precise finalità e regolata da ben precise leggi, della cui obbedienza deve render conto a Dio; non è un nastro registratore, ma un soggetto personale attivo, un interlocutore capace di rispondere di sì o di no, e che Dio chiama a dirgli di sì.

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Nell’etica che discende dall’antropologia kasperiana tutto è possibile e il contrario di tutto. Niente è stabile, niente è universale, niente è necessario, niente è assoluto. Ma tutto diviene, tutto è storicizzato, tutto è relativo, tutto è diversificato, tutto è contestualizzato, tutto è particolare e concreto.

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Le note conturbanti di questa etica relativista e storicista dovrebbero metterci in allarme e farci consapevoli dell’importanza delle buone basi metafisiche e teologiche della morale, se non vogliamo che la condotta umana, abbandonando le vie del Vangelo, scenda al livello dell’homo homini lupus.

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Varazze, 24 maggio 2018

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NOTE

[1] L’Assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, Jaca Book, Milano 1986, p.492.

[2] Cf G.Cavalcoli, San Tommaso e la filosofia cristiana, in La filosofia cristiana tra Ottocento e Novecento e il Magistero di Leone XIII, in Atti del Convegno di Perugia del 29.V-1.VI 2003, a cura della Curia Arcivescovile di Perugia, Perugia 2004, pp.323-332; AA.VV., Tommaso d’Aquino e l’oggetto della metafisica, Armando Editore, Roma 2004.

[3] E’ la convinzione dei rahneriani che ormai Rahner abbia soppiantato S.Tommaso o sia il S.Tommaso del nostro tempo. Tale convinzione, con buona pace dei rahneriani, ovviamente si basa su di un fraintendimento  delle verità fondamentali della ragione e della fede.

[4] Vedi la grande enciclica di S.Giovanni Paolo II Fides et Ratio del 1998.

[5] Cf E.Gilson, Lo spirito della filosofia medioevale, Ed.Morcelliana, Brescia 1964.

[6] Alcuni testi sull’importanza e l’attualità del pensiero di S.Tommaso: G.Mattiussi, Le XXIV Tesi della filosofia di S.Tommaso d’Aquino approvate dalla Congregazione degli Studi, Tipografia della Pontificia Università Gregoriana, Roma 1947; J.Maritain, Le Docteur Angélique, Desclée De Brouwer&C.ie, Paris 1930; A.Fernandez –M.Cordovani – M.Maggiolo – R.Spiazzi, La missione del tomismo, Edizioni S.Sisto Vecchio, Roma-Napoli 1967; C.Giacon, Le grandi tesi del Tomismo, Edizioni Patron, Bologna 1967; P.Parente, Terapia Tomistica per la problematica moderna da Leone XIII a Paolo VI, Edizioni Logos, Milano 1979; J.A.Weisaheipl, Tommaso d’Aquino.Vita, pensiero, opere, Jaca Book, Milano 1988; N.Sarale, S.Tommaso d’Aquino oggi, Editrice Civiltà, Brescia 1990; A.Livi, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997; R.Spiazzi, Il pensiero di S.Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997; R.Garrigou-Lagrange, La sintesi tomista, a cura di M.Bracchi, Prefazione di A.Livi, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2015.

[7] Qui Kasper polemizza con lo Przywara.

[8] L’Assoluto nella storia, op.cit., p.492.

[9] Come è noto, il Gaetano fu incaricato da Papa Leone X di ingiungere a Lutero a ritrattarsi. Purtroppo la missione fallì perché Lutero avrebbe voluto difendersi, ma al dottissimo e pio Cardinale domenicano, obbediente al Papa, non fu concesso di discutere con Lutero. A questo punto Lutero non volle saperne di correggersi e restò attaccato alle sue idee, come poi avrebbe fatto per il resto della sua vita. Chissà che invece, se i due avessero potuto dialogare, al Gaetano non fosse stato possibile, con la sua eccezionale capacità di persuasione, ad aprirsi uno spiraglio nella coscienza di Lutero circa l’importanza della metafisica per interpretare la Parola di Dio. Cf su questo argomento interessante lo studio approfondito dello storico domenicano Charles Morerod, oggi Vescovo di Losanna, Cajetan et Luther en 1518, Fribourg en Suisse 1994.

[10] Cf J.Maritain, Sept leçons sur l’Etre et les premiers principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1934, pp.88-96.

[11] Non può essere in se stesso diviso o molteplice, benchè abbia molteplici significati, perché deve coprire tutta l’ampiezza e l’estensione dell’essere e fuori dall’essere non c’è che il nulla. Fu già questo l’errore di Enrico di Gand, nel sec.XIII, il quale pensava che esistessero due nozioni analogiche dell’ente simili fra di loro, una per Dio e una per il mondo. Cf E.Bettoni,  Duns Scoto filosofo, Editrice Vita e Pensiero, Milano 1966, pp.67-69.

[12] L’Assoluto nella storia, op.cit., p.504.

[13] Il dogma sotto la Parola di Dio, Herder-Morcelliana, p.48.

[14] Denz. 1507, 3020, 3074,. 3540; Catechismo della Chiesa Cattolica, n.88-90; Cf« il Codice del 1917: «Christus Dominus fidei depositum Ecclesiae concredidit, ut ipsa, Spiritu Sancto iugiter assistente, doctrinam revelatam sancte custodiret et fideliter exponeret» [Can.1322§1]; Melchior Canus, De locis theologicis, Venetiis 1786, pp.88-93; R.-M.Schultes, Historia dogmatum, c.I, Lethielleux, Paris 1922; A.Gardeil, Le donné révélé et la Théologie, Les Éditions du Cerf, Paris 1932; S.Cartechini, Dall’opinione al domma. Valore delle note teologiche, Edizioni “La Civiltà Cattolica”, Roma 1953; Y.Congar, La Foie et la Théologie, Desclée, Tournai, 1962, pp.54-71; F.Marín-Sola, La evolución homogenea del dogma católico, Madrid-Valencia 1963, cc.III e IV; G.Cavalcoli, La questione dell’eresia oggi, Edizioni Viverein, Roma 2008, pp.215-223.

[15] Cf Conc. Vat.II, Cost.Dogm. Dei Verbum,cc.II e III.

[16] Della quale parla il Maritain nelle già citate Sept Leçons, pp.45-50.

[17] L’Assoluto nella storia, op.cit., p.61.

[18] Cf Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica, Queriniana, Brescia 2016, p.54.

[19] Egli fraintende questa immagine proposta da Papa Francesco, il quale non si riferiva all’essenza della Chiesa, il cui centro organizzativo è evidentemente il Papa, ma all’ecumenismo.

[20] Vedi l’interessante analisi della metafisica di Guglielmo di Ockham in T.Tyn Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1991, pp.243-258.

[21] Il dogma sotto la parola di Dio, Ed. Queriniana, Brescia 1968, p.47.

[22] Op.cit.,p.137.

[23] Ibid., p.65.

[24] Ibid., p.148.

[25] Per questo, l’ammissione, sostenuta dal Card.Kasper, di casi nei quali la S.Comunione potrebbe essere concessa ai divorziati risposati, non è fondata, come io ho sostenuto in questo sito, sul fatto che qui è in gioco una semplice legge ecclesiastica, ma dipende dal fatto che egli, a causa della sua gnoseologia storicistica, non può accettare l’indissolubilità del matrimonio come valore assoluto ed universale.

[26] Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1988, vol.I, p.27.

[27] Vedi i passi di Kasper nel mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004, pp.321 e 325.

[28] LA  DIALETTICA NELLA CRISTOLOGIA DI HEGEL, in Sacra Doctrina, 6,1997, pp.87-140. Non si tratta di communicatio idiomatum,  perché  Kasper attribuisce l’umano non alla natura divina in quanto è unita alla natura umana nella Persona di Cristo (“Dio è morto”, “Dio soffre”), ma alla natura divina come tale. Per lui, come per Hegel, Dio è essenzialmente umano. Indipendentemente dall’uomo, Dio non è Dio. Secondo il coscienzialismo idealista, Dio è Dio nella coscienza dell’uomo e in quanto pensato dall’uomo. Tutto nella coscienza, niente fuori della coscienza. È, in fondo, il cogito cartesiano sviluppato da Fichte.

[29] Gesù il Cristo, Queriniana , Brescia 1975, p.231.

[30] Gesù il Cristo, Ed.1981, pp.250-251.

[31] A.Livi, Vera e falda teologia. Come distinguere l’autentica ”scienza della fede” da un’equivoca “filosofia della religione”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.

[32] L’Assoluto nella Storia, op.cit., p.493.

[33] Ibid., p.503.

[34] Fenomenologia dello Spirito, op.cit., pp. 14,15.

[35]Ibid.

[36] Ibid., p.17.

[37] Ibid., p.26. Il difetto della gnoseologia hegeliana è dato dal fatto che il punto di partenza del sapere non è dato dall’affermazione dell’evidente, ossia della cosa sensibile che fronteggia l’esperienza e la ragione, cioè l’oggetto, ma, al contrario, dalla sua negazione: l’oggetto è un opposto al soggetto, per cui il vero è dato dal fatto che il soggetto, negando l’oggetto, lo identifica di nuovo con sé. Cf il mio articolo La negazione della verità del senso comune in Hegel, in La certezza della verità, Raccolta di contributi di vari Autori a cura di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013, pp.143-148.

[38] Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, op.cit. p.875.

[39] È strano che Lutero abbia accusato Aristotele di essere un sofista, mentre il grande sofista era proprio lui.

[40] L’Assoluto nella storia, op.cit., pp.493-494.

[41] L’Assoluto nella storia, op.cit., pp.491-492.

[42] Ibid., p.494.

[43] Ibid., pp. 494-495.

[44] Gesù il Cristo, Ed. Queriniana, Brescia 1975, p.65.

[45] Quindi, quando Gesù dice che «solo Dio è buono» [Mc 10,18], evidentemente non nega che anche le creature siano buone [Gen 1, 10,13, 18, 21, 25] nel loro modo finito; ma semplicemente vuol dire che solo Dio è assolutamente ed infinitamente buono. Cf J.-H.Nicolas, Dieu connu comme inconnu. Essai d’une critique de la connaissance théologique, Desclée De Brouwer, Paris 1966, pp.145-146.

[46] Bisognerebbe che fosse infinito anche il modo d’essere di tale concetto. Ma qui esiste un solo Concetto adeguato, che è il Logos.

[47] L’Assoluto nella storia, op.cit., p.491.

[48] Gesù il Cristo 1981, p.253.

[49] Gesù il Cristo 1981, p.256.

[50] Ibid. p.253

[51] Ibid., p.254

[52] Ibid.

[53] Ibid.

[54] Ibid..254-255.

[55] Ibid.

[56] Vedi il mio trattato Il Mistero della Redenzione, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004.

[57] Ibid. p.65.

[58] Ibid., p.346.

[59] Ibid., p.66.

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3 commenti
  1. fabius dice:

    salve segnalo un altro articolo http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/05/25/comunione-ai-protestanti-la-bomba-e-scoppiata-in-germania-ma-sconvolge-tutta-la-chiesa/

    vorrei domandare ma il sommo pontefice non deve forse confermare nella fede i cattolici si o no?
    e quando non lo fa ,ma è incerto ,lascia e crea confusione nella dottrina è una cosa normale?
    ma poi non mi capacito di questo avvicinamento ai protestanti che rifiutano il primato papale ,i sacramenti che per noi cattolici sono sette mentre per loro sono 2,che non credono nella presenza reale ,che non hanno la successione apostolica ,che son eretici che senso ha ?come fedele cattolico mi sento smarrito,come quando papa francesco va a commemorare lutero ,si porta gli anglicani in vaticano che notoriamente non hanno nel papa il loro capo ,ma la regina di Inghilterra è normale ?per me no! per voi padri forse si?

  2. orenzo
    orenzo dice:

    L’affermazione di Kasper che “Proprio la teologia biblica, come osserva Fuhrmans, ha giustamente posto in luce che il pensiero cristiano è pensiero storico-dinamico», potrebbe essere ben riassunta dal postulato kantiano “il tempo è superiore allo spazio”, in base al quale c’è chi insegna che ” Lo spazio cristallizza i processia, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare” con una dinamica tesa sempre alla conquista di nuovi “spazi”.

    Tuttavia, “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge”: se dunque è già venuta la pienezza del tempo, è gia venuta anche la pienezza dello “spazio” e, di conseguenza, lo “spazio” al quale il nostro cammino nel tempo e nella storia deve fare riferimento è quello che ha già avuto la sua pienezza in Cristo.

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