Il Vangelo narra che il seminatore uscì a seminare, non ci dice però che fece ritorno
IL VANGELO NARRA CHE IL SEMINATORE USCÌ A SEMINARE, NON CI DICE PERÒ CHE FECE RITORNO
Un missionario italiano ucciso nel 1985 in Brasile soleva dire: «Il seminatore uscì a seminare, ma non dice che poi ritornò». E proseguiva: «Il destino del seme non sarà differente dal destino del seminatore».
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Un missionario italiano[1] ucciso nel 1985 in Brasile soleva dire: «Il seminatore uscì a seminare, ma non dice che poi ritornò». E proseguiva: «Il destino del seme non sarà differente dal destino del seminatore».
Questa frase molto concisa condensa il cuore del messaggio evangelico di questa XV Domenica del Tempo Ordinario. Il Vangelo (Mt 13, 1-23) che verrà proclamato nella Liturgia della Parola si apre, infatti, con uno degli incipit più conosciuti di tutti i Vangeli: «Il seminatore uscì a seminare». A questo collegamento potrete trovare il testo nella versione più lunga[2].
Il brano da inizio al discorso in parabole[3] terzo dei cinque grandi discorsi che Matteo mette sulla bocca di Gesù ed è strutturato in quattro parti. Una breve introduzione (vv. 1-3a), la parabola del seminatore (vv. 3b-9) e la sua spiegazione (vv. 18-23). Nel mezzo (vv. 10-17) si trova una breve pericope che affronta la questione metodologica: perché Gesù parla alle folle in parabole?
La parabola è il genere che Gesù prediligeva quando voleva presentare, nella forma del racconto, una verità nascosta a partire da situazioni, esempi e realtà che i suoi uditori potevano immediatamente comprendere. È divenuta così un modello pedagogico che travalicando il tempo conserva il suo valore ancora oggi che viviamo nell’epoca del disincanto. Un’epoca, la nostra, in cui il simbolico possiede un forte impatto e proprio a questo tende il parlare in parabole di Gesù: cogliere il significato nuovo ed inaspettato della realtà, presentata simbolicamente. Mettendo in scena contadini e vignaioli, re e servi, pescatori oppure pastori, una massaia o una donna che ha perso una moneta, tutte realtà familiari agli uditori, Gesù parlò a questo modo del Regno di Dio, addirittura senza nominare Dio.
Ma l’immediatezza e la semplicità della parabola non devono ingannare, poiché essa ha anche un valore paradossale. Tutti conoscono i paradossi del filosofo greco Zenone di Elea[4] – famoso quello di Achille e la tartaruga – che avevano lo scopo di confutare la molteplicità e il movimento. Gesù invece, con le parabole, pone in essere realtà paradossali per invitare uditori e lettori a cogliere un senso ulteriore, altro, rispetto a ciò che normalmente si vede, crede e vive. L’inaspettato con Gesù abita la vita quotidiana.
Nessuno infatti getta del seme prezioso ovunque se non nei solchi preparati, nessuno dopo aver seminato frumento non si preoccupa più del terreno e aspetta solo la mietitura. Chi lascerebbe un gregge intero per andare a ritrovare una sola pecora perduta? Come fa un granello piccolissimo a diventare grandissimo? Chi dà la stessa paga a tutti senza guardare le ore di lavoro a giornata? Solo Dio e lo si può scorgere nell’agire di Gesù mentre annuncia il suo Regno. In fondo le parabole hanno questo come scopo: sorprendere e spiazzare per aiutare a rimodellare la realtà, guardandola altrimenti, secondo una logica nuova, quella paradossale del Vangelo, che Gesù incarna. Egli infatti è la parabola vivente di Dio o, come ebbe a dire Massimo il Confessore: «Egli è simbolo di sé stesso»[5].
Nella parabola di questa domenica il seme è simbolo, secondo la spiegazione che ne da Gesù, della Parola di Dio, realtà teologica che va ascoltata e compresa. La vicenda paradossale è che finisce su vari terreni generando tutta una serie di reazioni. La Parola divina, infatti, come dice il profeta Isaia nell’odierna prima lettura «non ritornerà a me senza effetto» allo stesso modo della pioggia o della neve che vengono dal cielo. Ora Dio «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» aveva detto Gesù nel Discorso della Montagna (cfr. Mt 5, 45). La Parola di Dio, dunque, non è una realtà misterica rivolta ad iniziati, ma si compromette con le situazioni umane accettando anche l’insuccesso che, nella parabola, è grande, poiché su quattro terreni ben tre non produrranno frutti. Nella spiegazione che ne da Gesù, riprendendo le parole gravi del libro di Isaia[6], le persone che non ascolteranno la Parola non faranno altro che irrigidirsi nella loro situazione, non potranno cioè cambiare la loro realtà né aprirsi alla novità del Regno. Sono quelli che hanno mancanza di interiorità, i superficiali che si lasciano portar via il seme della Parola dalla prima cosa che arriva, come fosse un passero svolazzante. Sono quelli che mancano di perseveranza perché per loro la vita è come un sasso che forse difende dagli assalti esterni, ma neanche fa mettere radici alle cose buone e belle. Gli uomini dell’attimo li chiama il Vangelo (πρόσκαιρός, proskairos v. 21) che prendono fuoco al momento. La Parola l’ascoltano eccome, ma se c’è da durare tutto diventa faticoso. Non avendo radici di fronte alla prima difficoltà abbandonano. Ci sono poi quelli che pur avendo ascoltato poi preferiscono le sirene della vita dietro a ricchezze e mondanità e perciò le preoccupazioni e le ansie li avviluppano come rovi e spine che non lasciano filtrare la luce che permetterebbe alla Parola di emergere e permetter loro di guardare e vivere la vita diversamente.
Infine ci sono quelli che, per usare l’immagine della parabola, sono la minoranza del terreno buono che porta frutto a secondo delle possibilità. Sono coloro che non solo sanno ascoltare, ma sanno anche comprendere la Parola. Ovvero sanno mettere insieme (συνιείς, synieis v. 23) componendoli Parola e vita costantemente. Della Parola hanno una comprensione profonda, spirituale e vitale. Ma non è facile, perché il terreno potrebbe diventar duro e refrattario anche per loro, sassoso o riempirsi di spine e rovi infestanti. Ecco allora la necessità di una costante vigilanza e un lavoro spirituale perché da semplici “uditori della Parola”[7] essa divenga una realtà che cresca con loro. Come nella felicissima espressione di Gregorio Magno: «Textus crescit cum legenti»[8] (Il testo cresce con colui che lo legge).
Possiamo porci a questo punto due domande, chi da la forza affinché la Parola cresca e dove trovo questa forza? Alla prima domanda si può rispondere ricordando un’altra parabola del seme che troviamo stavolta nel quarto Vangelo: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». (Gv 12, 24). Gesù sta parlando della sua morte sulla croce. Il redattore del Vangelo, infatti, reagendo all’affermazione di Gesù: «E io quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» commenta: «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12, 32-33).
Gesù dunque si paragona a un seme inviato dal Padre nel cuore della terra — «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3, 16a) — e tutto questo amore che Gesù ha rivelato nel corso della sua esistenza si condenserà e porterà il suo massimo frutto proprio nel momento del suo morire, sulla croce. Secondo Giovanni il primo frutto della morte di Gesù è lo Spirito[9] che come acqua scende dal suo corpo morto verso i credenti: la madre ed il discepolo amato.
Questo Spirito non solo ha risuscitato Gesù dai morti[10] ma è l’ermeneuta che svela il senso della Parola di verità che è Gesù. Le sue parole, infatti, sono spirito e vita (Gv 6, 63). È dunque ormai lo Spirito di Cristo che aiuta i credenti ad essere quel terreno fecondo che sa accogliere la Parola e la fa comprendere perché porti frutti buoni.
In questo senso, secondo le parole del missionario riportate all’inizio di questo testo, Gesù, che si è fatto seme di amore fino alla croce, per mezzo del suo Spirito non smette di seminare la Parola e mai farà ritorno. Questa azione costante è espressa dalle parole del salmo responsoriale della Liturgia che annuncia:
«Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.
Così prepari la terra:
ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge e benedici i suoi germogli» (Sal 64).
Nel tempo della difficile gestazione che l’intera opera creata patisce, come ricorda Paolo nella odierna seconda lettura. E, infine, per rispondere alla seconda domanda, è nella liturgia eucaristica Che la Chiesa sperimenta al massimo grado questa azione di Gesù e dello Spirito. Quando Egli nel brano del Vangelo di questa domenica afferma: «Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano» (v. 16) non sta privilegiando alcuni escludendo altri. È vero, l’esperienza diretta e concreta che fecero i discepoli di incontrare l’umanità di Gesù fu unica e irripetibile tanto da far affermare a Giovanni nella sua prima lettera: «Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita» (1Gv 1,1).
Ma questa umanità, ormai glorificata del Verbo la possiamo “toccare” ancora oggi quando durante l’azione sacramentale, grazie al medesimo Spirito[11] che agisce sulla parola e sulle offerte eucaristiche, ascoltiamo di nuovo quella Parola e ci nutriamo di Cristo. Questa grazia scende abbondante, oggi, qui e ora, sul terreno che è la nostra situazione vitale, in qualsiasi condizione esso si trovi al momento, nella speranza che tutto questo dono, che è l’amore del Padre in Gesù per mezzo dello Spirito non vada perduto, ma porti frutto a sua volta.
Buona domenica a tutti!
dall’Eremo, 15 luglio 2023
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NOTE
[1] Padre Ezechiele Ramin, comboniano missionario in Brasile, fu ucciso il 24 Luglio 1985 mentre difendeva i piccoli agricoltori e gli indios nel Mato Grosso. San Giovanni Paolo II lo definì «testimone della carità di Cristo» durante un Angelus.
[2] La liturgia prevede anche una forma più breve.
[3] Mt 13, 1-52.
[4] Zenone di Elea (489 a.C. – 431 a.C.) è stato un filosofo greco antico presocratico della Magna Grecia e un membro della Scuola eleatica fondata da Parmenide. Aristotele lo definisce inventore della dialettica.
[5] «Il Signore […] è diventato precursore di se stesso; è diventato tipo e simbolo di se stesso. Simbolicamente fa conoscere se stesso attraverso se stesso. Cioè conduce tutta la creazione, partendo da se stesso in quanto si manifesta, ma per condurla a se stesso in quanto è insondabilmente nascosto» (Cantarella R., Mistagogia ed altri scritti, 1931).
[6] Is 6,9-10.
[7] Rahner K., Uditori della Parola, Borla, 1967.
[8] Bori P. C., L’interpretazione infinita, L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, 1988.
[9] «E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19, 30).
[10] «E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rom 8, 15).
[11] Il vescovo orientale Mons. Neofito Edelby, il 5 ottobre 1964, durante i lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II lasciò un segno importante pronunciando queste parole: «La Sacra Scrittura non è soltanto una norma scritta, piuttosto quasi consacrazione della Storia della salvezza sotto le specie della parola umana, inseparabile però dalla consacrazione eucaristica nella quale si ricapitola tutto il Corpo di Cristo […] Non si può separare la missione dello Spirito Santo dalla missione del Verbo Incarnato. È questo il primo principio teologico di qualsiasi interpretazione della Sacra Scrittura. E non si può dimenticare che, oltre alle scienze ausiliari di ogni genere, il fine ultimo dell’esegesi cristiana è la comprensione spirituale della Sacra Scrittura alla luce di Cristo risuscitato».
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San Giovanni all’Orfento. Abruzzo, Monte della Maiella, fu un eremo abitato da Pietro da Morrone, chiamato nel 1294 alla Cattedra di Pietro sulla quale salì col nome di Celestino V (29 agosto – 13 dicembre 1294).
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