Giacomo Biffi e l’idea della “essenza del male”
GIACOMO BIFFI E L’IDEA DELLA ESSENZA DEL MALE
In occasione della scomparsa di Giacomo Biffi i Padri dell’Isola di Patmos hanno dedicato alcuni commenti alla sua figura ed alle sue opere [QUI, QUI], ai quali fanno seguito oggi alcune pacate perplessità, perché quello che innanzitutto non convince, è la concezione del defunto Cardinale della realtà presupposta alla idea del male.
Nel libro del Cardinale Giacomo Biffi “Memorie e digressioni di un Italiano Cardinale” [1] ho letto alcuni suoi pensieri sull’essenza del male, che non mi hanno del tutto soddisfatto. Egli infatti parte dalla metafisica di Soloviev, il quale vedeva la realtà come “unitotalità”, che Biffi definisce la “forma della verità dell’essere”, per cui il male sarebbe ciò che “si separa” da questo tutto: “il male è perciò essenzialmente divisione e separazione, perchè è decadenza dalla “unitotalità”. Il rischio, in questa visuale, è quello di concepire il male come una decadenza o allontanamento dalla totalità, sicchè il rimedio si risolve in un ritorno di tutto alla totalità, che recupera se stessa, ed avremo la famosa “apocatastasi” di Origene condannata dalla Chiesa. Se invece, come vedremo, il male è una privazione ontologica causata dal volere della creatura, allora siamo disponibili ad accettare la visione cristiana, per la quale il rimedio al male non è un semplice ritorno, ma una ricreazione offerta da Dio al peccatore, la quale offerta, però, fatta a tutti, presso alcuni incontra una resistenza assoluta ed irrevocabile.
Per questo il rimedio divino al male non raggiunge tutte le creature, ma solo quelle che lo accettano. Nella visione cristiana infatti non tutte le creature ritornano all’Uno-Tutto, cioè a Dio, non perché Dio non può farle tornare, ma perché non vogliono. Nella visuale cristiana Dio permette infatti che nella questione del male entri in gioco il libero arbitrio della creatura, capace di scegliere il male, ossia di privarsi del bene divino in modo definitivo ed irreparabile.
La visione origenista, invece, simile a quella di Plotino, di tutto che esce dall’Uno e torna all’Uno, di tutto che esce dal Tutto e ritorna al Tutto, è grandiosa ed affascinante, ma si scosta dal dato della fede, che prevede la pena eterna per i dannati. Nell’interpretare la Parola di Dio, non bisogna partire da un’idea, per quanto bella e sublime, e voler far entrare per forza la Parola di Dio dentro in quell’idea; ma, al contrario, è la nostra idea che deve, per quanto possibile, rispecchiare la Parola di Dio. Questa è la vera teologia; l’altro è gnosticismo. Del resto, come abbiamo anche in altre religioni, non mancano motivi di convenienza per ammettere nell’altra vita un premio o un castigo eterni [2].
In verità, il concepire il male come proprietà di un ente che si isola o si separa dal tutto o dall’insieme al quale appartiene, non mi fa difficoltà. Non c’è dubbio che è male separarsi dalla Chiesa; è male che l’organo di un vivente sia separato dall’organismo; è male estrapolare una frase dal contesto che ne assicura il reale significato, e così via. Ma in realtà il male è qualcosa di ben più profondo, che attiene, come vedremo, alle radici dell’essere.
Mitigare o attenuare l’idea e la presenza del male e concepire un universo nel quale il male sparisce del tutto può sembrare una soluzione confortante ed anche più degna dell’infinita bontà di Dio; ma in realtà tale bontà emerge proprio quando guardiamo il male in faccia senza celare in nulla la sua profonda essenza. Dio si mostra più potente se abbiamo un’idea giusta della radice ultima del male.
Quello che innanzitutto non mi convince è la concezione della realtà presupposta alla idea del male del Cardinale Biffi. Osservo innanzitutto che solo Dio è al contempo uno e tutto. L’unitotalità non è la “forma della verità dell’essere” ut tale, ma dell’essere divino. Solo Dio è assolutamente uno nella sua infinita semplicità e nella sua inconfondibile identità. Ed ogni perfezione Egli comprende virtualmente nella sua infinita essenza, come la causa contiene in se stessa virtualmente tutti i suoi possibili effetti. In tal senso si può dire che Dio sia “tutto” [Sir 43,27]. Inoltre c’è il rischio del panteismo: se la realtà è unitotalità e l’unitotalità è Dio, allora la realtà è Dio. Inoltre, non può esserci nulla fuori dell’unitotalità; se no, non sarebbe totalità. Ma allora, se il male è “separazione” ed è fuori da questa totalità, il male è nulla. Oppure bisognerà ammettere che per poter essere nella realtà, ossia nella totalità, il male, benché separazione, dovrà essere comunque all’interno di questa totalità. Ma se questa totalità è Dio, allora il male è in Dio. Insomma, da questa visione di Soloviev, fatta propria da Biffi, nascono molti inconvenienti.
Il male, certo, è un non-essere. Eppure esiste. E dunque deve bene in qualche modo trovarsi nella realtà, ossia nella totalità dell’essere, non certo nella totalità intesa in senso divino, giacchè in Dio non c’è il male, ma semmai nella totalità pluralistica, in senso trascendentale, ossia nella totalità delle cose, dove effettivamente esiste il male. Ma se non si fa questa distinzione, si finisce col cadere nel panteismo. E allora il problema diventa drammatico ed insolubile: o si nega l’esistenza del male, dato che Dio è buono; o se si vuol ammettere l’esistenza del male, si è costretti a porlo in Dio. Inoltre, se l’unitotalità è, come dev’essere, Dio, il male non può essere una “decadenza” da Dio, una diminuzione o caduta o abbassamento della divinità. Il male non viene da Dio, ma dalla creatura. Esso è una decadenza dalla o della creatura dal suo stato di normalità, così come Adamo è decaduto dal suo stato di innocenza.
Certamente la creatura razionale peccando si separa da Dio: ma il male che commette non è una “decadenza” dalla divinità, giacchè la creatura, sia pur peccatrice, non è un abbassamento o decadenza della divinità, ma un ente prodotto da Dio dal nulla, in sé buono e che si rende cattivo non “decadendo da Dio”, ma con la propria cattiva volontà. Essa certo si allontana da Dio e Gli si oppone, ma non nel senso di perdere un’originaria divinità dalla quale decadrebbe. Dio, nel creare una creatura sia pur peccabile, non decade affatto né lei decade da Lui, ma resta sempre Lui nella sua infinita perfezione e bontà.
La totalità come realtà, invece, complessivamente, è l’insieme di Dio e delle creature. Essa certo è la totalità di tutto ciò che esiste. Ma non è la totalità univoca di un uno, di un solo ente, come sarebbe la totalità di un intero, così come potremmo dire: tutta la mela o tutto l’individuo.
Non è neppure la totalità divina, assolutamente indivisibile. È invece la totalità di un insieme di enti: Dio e il creato. È sbagliato altresì chiamare “intero” l’insieme delle cose, come fa Bontadini, perché ciò ancora una volta dà l’idea di un unico ente, del quale gli enti sarebbero solo parti. La realtà complessiva non è un’unica sostanza, come credeva Spinoza, un intero divino, del quale gli enti siano parti o modi, ma è un insieme di sostanze, ognuna delle quali è distinta dalle altre ed è un intero divisibile, collegata con le altre a formare un unico insieme unificato sotto il governo della suprema Entità divina indivisibile.
La realtà nel complesso è la totalità di un insieme di tutti, è un tutto di tutti, ciascuno dei quali è un tutto diverso degli altri. Diversa è la totalità divina dalla totalità della creatura. Riguardo alla creatura o alle creature, si parla di totalità in un senso molteplice, diversificato, analogico. Un conto dunque è il tutto metafisico o trascendentale e un conto è il tutto ontologico o sostanziale. Quest’ultimo può essere un tutto creato o il tutto divino. Il tutto metafisico risulta dall’insieme degli enti: Dio e il creato, che a sua volta è un insieme di tutti, ossia di sostanze.
La totalità degli enti comprende Dio e il creato. Dio dunque è pensato dialetticamente come se fosse una parte di questo tutto, benché egli ontologicamente sia tutto e al di sopra di tutto, una totalità ben più perfetta della totalità di tutti gli enti creati messi assieme. Ogni ente creato sostanziale è una parte del creato, benché anch’esso limitatamente sia un tutto. Il suo essere è un essere per partecipazione, dipendente dall’Essere per essenza che è Dio.
Sulla base di queste considerazioni, che interpretano la visione metafisico-teologica di Biffi, è possibile ora prendere in esame come egli vede l’essenza del male. Egli non considera l’aspetto ontologico, il male come privatio boni debiti, la ὑστέρησις di Aristotele [hystéresis, “ritardo”], ma lo limita ad un disordine o una disorganizzazione tra enti in sé completi e buoni. È un po’ come può capitare in una collezione di opere d’arte, nella quale una viene sottratta da un ladro. Si tratta sempre di un’opera d’arte, che però non è più al suo posto.
Così il male, secondo Biffi, è l’atto della parte che si stacca dal tutto ed entra in conflitto col tutto. È una parte che spezza l’unità. Ora, non mi pare che questo discorso, in sé certamente valido, colga veramente alla radice l’essenza del male. Infatti, l’aspetto radicale del male non attiene tanto all’ordine o alla composizione delle parti nel tutto, quanto piuttosto alla mancanza di integrità o di perfezione dell’ente stesso. Il male ha a che fare con la corruzione del soggetto, al limite, per la Bibbia, con la morte del soggetto stesso.
Il male non è solo una questione di disarmonia o di separazione o di divisione o di contrasto nei confronti di una totalità o in un insieme, quanto piuttosto riguarda il piano dell’essere, anzi del non-essere. Il male è una carenza di essere prima di essere una separazione della parte dal tutto. Il male intacca la sostanza dell’ente prima di attenere alla sua posizione rispetto agli altri enti. Il male riguarda l’esistenza. È una carenza di essere in un soggetto che in sé resta buono. Non è un semplice non-essere, ma è il non-essere di qualcosa che dovrebbe esserci e non c’è. La carenza può essere nello spirito: nell’intelletto e nella volontà. Abbiamo allora il male di colpa, il peccato. O può essere patita dal soggetto. E abbiamo allora il male di pena. Se questa pena è giusta, allora abbiamo un bene; se è ingiusta, ciò suppone una colpa nel giudice, per cui questa pena, ossia questo male va tolto. In ogni caso il male è una privazione di essere.
Per questo nella Bibbia il male è connesso con la morte. Il male è l’odio per la vita e la soppressione della vita. Cristo chiama il demonio, dal cui peccato ha origine il male, “omicida sin dal principio”. Il male di colpa è un’ingiustizia, ma non sfugge al controllo della giustizia divina. Il castigo è un male, ma è un male giusto, perché è bene che il malvagio sia punito. L’eternità della pena infernale si risolve dunque ad essere un bene eterno.
San Tommaso sostiene che i giusti in paradiso si rallegreranno nel vedere il castigo dei dannati. È giusto che i parenti di una vittima del terrorismo si rallegrino nel vedere condannato l’assassino all’ergastolo. Non dobbiamo farci giustizia da soli, ma solo perchè, come ripetutamente insegna la Bibbia, a Dio spetta la vendetta [cf per es. Rm 12,19]. Quanto al dannato, non ha di che lamentarsi, giacchè il male da cui è afflitto se lo è procurato con le proprie mani. Nessun malvagio, quindi, se non si pente, speri di potere farla franca approfittando della bontà di Dio.
Pur distinguendo nettamente bene e male, sì da condannare ogni doppiezza, il cristianesimo ammette un male che è bene: il giusto castigo. È male che il malvagio non sia punito. Anche la croce è un male che è bene; un male salvifico. Evitare la croce è male. Sopportare la croce è bene. Ecco quindi che nella visione cristiana il male alla fine dei tempi viene sconfitto nel senso che cessa la sua attività contro il bene. E tuttavia restano le pene eterne a manifestare la divina giustizia. Dunque, la “ricapitolazione di tutte le cose in Cristo”, della quale parla San Paolo [Ef 1,10] non va intesa nel senso origenista di una ricomposizione dell’unitotalità infranta, sì che il male sia totalmente abolito. Questo non corrisponde al dato rivelato, che prevede il premio dei buoni e il castigo dei cattivi. Scompare dunque il male di colpa, ma non il male di pena.
L’unitotalità, che in realtà è attributo divino e non il carattere del reale, non viene affatto infranta dal male e quindi non ha bisogno di ricomporsi. Essa non decade da se stessa, ma resta sempre intatta ed inviolabile. In Dio il male è totalmente assente. Invece il piano divino della salvezza non prevede l’eliminazione della colpa in tutti gli uomini, ma solo nei predestinati. Anche la volontà dei reprobi, quindi, ostinatamente ed irreversibilmente ribelle a Dio, concorre all’ordine dell’universo mostrando come Dio può trarre il bene anche dal male.
La ricapitolazione voluta dal Padre e compiuta da Cristo significa dunque che il Padre ha sottomesso a Cristo tutte le cose [cf v.22], sì che “ogni ginocchio si pieghi davanti a Cristo nei cieli, sulla terra e sotto terra” [Fil 2,10]. Cristo è però il Salvatore del mondo non nel senso che tutti si salvano, ma nel senso che Egli ha offerto a tutti la possibilità della salvezza, alla quale però alcuni per loro colpa si sottraggono, meritando la giusta pena.
Per sua espressa dichiarazione, Cristo ha quindi la funzione di Giudice escatologico, che “separa le pecore dai capri”. Questa ricapitolazione, quindi, non va intesa nel senso origenista come convergenza finale di tutte le cose verso Cristo, sì che il male scompaia completamente. Ma tale convergenza rappresenta invece la Signoria di Cristo sul paradiso e sull’inferno. L’idea di un Cristo ricapitolatore che ricompone l’unità in modo tale che nulla resti al di fuori in opposizione a questa unità (i dannati), può avere un suo fascino, ma non è cristiana; è un’idea gnostica, contraria al Vangelo e all’insegnamento della Chiesa. Dato che questa “unitotalità” suppone uno sfondo panteistico, si comprende che ad essa ripugni ammettere il male in Dio. Ma in una concezione metafisica pluralistica e non monistica, non fa difficoltà ammettere accanto e sotto a Dio, libero dal male, il libero arbitrio della creatura peccatrice.
Nella visione cristiana l’evento del male comporta in certi casi (la dannazione) una separazione definitiva del peccatore dal Tutto, ossia da Dio, benché questa separazione, permessa da Dio, non comporti in Dio alcun difetto o colpa, ma la responsabilità dell’atto ricada completamente sul peccatore. Questo vuol dire che la visione cristiana della totalità lascia uno spazio al male non in Dio ovviamente, ma nel creato a testimoniare il dominio di Dio sul male, quel Dio, che avendo creato anche chi si danna, continua ad amarlo con la sua provvidenza.
Il fatto che alcuni non si salvino — come è attestato dalla Rivelazione — non è il segno di una qualche imperfezione nell’opera della salvezza. Infatti Cristo ci mette in mano i mezzi per salvarci; ma non possiamo in effetti salvarci se non collaboriamo con la grazia salvifica. Il che vuol dire che il male fatto dal dannato non viene riparato, ma resta solo a testimoniare la giustizia punitiva divina la quale, anche in questa situazione estrema, non è separata, come osserva San Tommaso, dalla misericordia.
Ogni uomo rende gloria a Cristo, anche coloro che sono “sotto terra”, ossia all’inferno. La privazione del bene dovuto resta dunque in eterno nella volontà dei dannati, segnata dalla sanzione della divina giustizia. L’opera della salvezza non si limita a riordinare ciò che era disordinato, a riunificare ciò che era diviso, a riconciliare ciò che era in contrasto, ma comporta una vera e propria opera creatrice: ridare l’essere a ciò che ne era privo: tale è il perdono dei peccati, il riscatto dei poveri, la consolazione degli afflitti, la misericordia per i miseri, la liberazione dei prigionieri, la risurrezione dei morti. Tuttavia anche laddove il peccato non è perdonato, si manifesta il bene della divina giustizia.
In conclusione, è impossibile comprendere l’essenza profonda del male e quindi della potenza di Dio nel toglierlo, senza una metafisica della creazione. La vittoria sul male è una nuova creazione. Il vedere il male solo legato a una disarmonia, non ci dà sufficientemente l’idea del male così come ci è chiarita dalla Rivelazione. E non ci dà un’idea sufficiente della potenza salvifica divina. Tanto meno il male può essere concepito come un decadere dalla o della divinità o un fatto interno alla divinità o un momento dialettico del divenire divino. E quindi la salvezza non è neppure una ricostituzione della divinità. Nella visione cristiana il fatto che Dio si incarni non vuol dire che Dio si sporchi nella vicenda del male: Egli, purissimo ed innocentissimo, lo conosce meglio di noi e lo abborre più di noi. Per questo ci ha dato suo Figlio che ci libera dal male, ma che è anche Giudice dei vivi e dei morti. Nella visione cristiana la nozione del male suppone quella del non-essere e quindi da una parte la privatio e dall’altra quella del nulla, dal quale Dio trae l’essere. Se in alcuni uomini resta in eterno la privatio, ciò non smentisce l’infinita misericordia, potenza e bontà di Dio, ma rappresenta un segno del potere di Dio sugli inferi e sulla morte.
Varazze, 23 luglio 2015
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NOTE
[1] Cantagalli, Siena 2007, p.524.
[2] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.
Biffi: Sarebbe onesto riconoscere che ciascuno ha i suoi dogmatismi, e li ritiene indiscutibili, mentre biasima fieramente quelli degli altri…
Cito da http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=223
L’ “unitotalità” è dunque la forma della verità dell’essere; e pertanto le cose separate – considerate proprio come separate – non sono “vere”. Il male è perciò essenzialmente divisione e separazione, perché è decadenza dalla “unitotalità”.
.. tutto questo ragionamento più che offrire delle asserzioni si risolve in una richiesta: l’uomo cerca e postula che ci sia un principio unificante di tutto, diversamente tutto si spezzetta e si banalizza; ed egli si sente scompaginato e perso. L’evento cristiano è la risposta di Dio a questa fondamentale domanda dell’uomo. La risposta è la realtà di Gesù Cristo, “nel quale tutte le cose sussistono” (Col 1, 17). Gesù è l’unico Salvatore del mondo, ieri, oggi e sempre, proprio in quanto è il principio compaginatore di tutto ciò che esiste e il senso onnicomprensivo di tutto ciò che avviene: “In Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra” (Col 1, 16).
Ergo i vostri pensieri collimano.
E Biffi con umiltà conclude:
“Pensare è faticoso e talvolta è addirittura spossante, anche perché è molto di più ciò che non si capisce di ciò che si arriva a capire. “Hanc occupationem pessimam dedit Deus filiis hominum, ut occuparentur in ea” (Eccle 1,13), dice il Qoelet , sempre incoraggiante.
“Occupazione pessima”, ma ci viene da Dio; e, se si conserva illibata l’onestà intellettuale, porta immancabilmente a Dio. Pensare è, come si è visto, più che altro indagare; è più che altro anelare alla verità; è più che altro implorare la luce. Pensare, in fondo, è pregare.
Pensando, imploriamo una luce che ci è già stata donata, come dice il Prologo di Giovanni : “Venne la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (cf Gv 1, 9).”