Dare il vino peggiore quando tutti sono già ubriachi alle nozze di Cana

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

DARE IL VINO PEGGIORE QUANDO TUTTI SONO GIÀ UBRIACHI ALLE NOZZE DI CANA  

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Se vogliamo essere sinceri, nel testo originale di Giovanni, Gesù non dice propriamente: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono». La frase tradotta in italiano è fedele senza dubbio, però Gesù, per l’esattezza, non dice “quando si è già bevuto molto” ma dice «Quando tutti sono già ubriachi mette in tavola il vino peggiore».

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Laudetur Jesus Christus !

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Le taverne di ubriachi nelle scene di Brouwer [Autore: Adriaen Brouwer, pittore fiammingo, 1605 circa]

Quello dell’Apostolo Giovanni offerto in questa IIª Domenica del Tempo Ordinario [vedere testo QUI] è un Vangelo che racchiude molte particolarità. Anzitutto Giovanni è un testimone oculare, partecipe agli eventi narrati.

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Prima che pure nella moderna esegesi esplodesse una certa forma di “socialismo reale”, non si temeva a chiamare Giovanni “il discepolo che Gesù amava”, “il discepolo prediletto”. Predilezione cancellata da alcuni interpreti presenti che in essa hanno quasi voluto leggere una “contraddizione divina”, stabilendo che prediligere è male, perché per Dio siamo tutti uguali. Cosa non vera, perché per Dio siamo tutti diversi e tutti unici nella nostra preziosa diversità. Inoltre, il prediligere, o la sana predilezione, non è per niente sinonimico di ingiustizia, specie se con prudente equilibrio si predilige chi lo merita. E a Dio fatto uomo, dobbiamo in qualche modo riconoscere sia la prudenza sia l’equilibrio, umano e divino, con buona pace dei moderni esegeti e interpreti. Pertanto, nella predilezione umanamente, cristianamente e amorosamente intesa, non c’è proprio nulla di sconveniente.

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Quello di Giovanni è un Vangelo particolare, anzitutto perché nasce dal racconto di un Apostolo che ha avuto un contatto molto diretto col Signore, della cui predilezione ha potuto godere. E se qualcuno volesse ancora dubitare della comprensibile predilezione umana e divina, divina e umana del Signore verso Giovanni, basti solo riflettere su una frase che non lascia spazio a dubbi. Sotto la Croce, prima di spirare, Gesù «Vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» [Gv 19, 26-27].

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Gesù affida a questo giovane uomo, poco più che un ragazzo, colei che permise al Verbo di farsi carne, la Vergine Maria; e l’affida a lui, non ultimo perché, nel frattempo, gli altri erano fuggiti, mantenendosi a prudente distanza dalla croce.

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Così stanno i fatti, lo narra la storicità dei Vangeli, che non sono una raccolta di “metafore” da interpretare al di là di fatti “meramente simbolici”, o come direbbero alcuni studiosi: da de-mitizzare con cura. I Vangeli racchiudono fatti realmente accaduti, da leggere e da capire. I Vangeli non sono fiabe simboliche, perché al proprio interno racchiudono una precisa e a tratti impeccabile storicità.

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Molto potremmo dire sulle immagini delle nozze di Cana, dove il vero sposo è Cristo e dove Maria, seduta al banchetto, è madre di quella Chiesa che convola a nozze con l’Agnello Immolato. E in questo banchetto Gesù, mutando l’acqua in vino, offre all’uomo una vera e piena trasformazione attraverso l’azione della grazia divina dello Spirito Santo. E ancora, quel nettare della vite, finirà poi col divenire sangue di Cristo, che costituirà col pane elemento del Sacrificio Eucaristico, memoriale vivo e santo.

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Sul finire di questo brano evangelico, Giovanni precisa: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù». Nel Vangelo di Giovanni abbondano “segni” narrati e usati per guidare le genti alla fede nel Cristo. Quello compiuto a Cana di Galilea è il primo dei segni, o per meglio dire il prototipo che anticipa a suo modo tutta la serie “segni” successivi, da cogliere, leggere e interpretare sulla scia del segno di Cana di Galilea: il paralitico guarito presso la piscina della Porta delle Pecore [cf. Gv 5, 19], la guarigione del figlio del funzionario del re ammalato a Cafarnao [cf. Gv 4, 46-54], la guarigione del cieco nato [cf. Gv 9, 1-40], la moltiplicazione dei pani [cf. Gv 6, 1-13] Gesù che cammina sulle acque agitate verso i discepoli sulla barca [cf. Gv 9, 16-21], la risurrezione di Lazzaro [cf. Gv 11, 1-44].

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Ovviamente noi siamo abituati a leggere i Vangeli nella nostra lingua corrente. Questo non deve però indurci a dimenticare il fatto che le lingue nelle quali oggi li ascoltiamo sono traduzioni dei testi originali dei Vangeli, nei quali sono spesso disseminate parole non facili da tradurre dalla lingua originale di scrittura alle moderne lingue nostre. Bisogna per ciò notare che Giovanni — che scrive nella lingua greca di venti secoli fa — non usa, come altri evangelisti, il termine tέraton, che vuol dire prodigio, o meglio miracolo del vino; Giovanni usa il termine  shmeίwn, che vuol dire  segno. Se poi vogliamo essere sinceri, nel testo originale di Giovanni, colui che dirigeva il banchetto, per l’esattezza non dice a Gesù: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono». La frase tradotta in italiano è fedele senza dubbio, però, per l’esattezza, non dice “quando si è già bevuto molto” ma dice otan mequsqwsin ton elassw, che alla lettera significa: «Quando tutti sono già ubriachi mette in tavola il vino peggiore».

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Nel Vangelo di Giovanni il  “segno” è un’azione di grazia ben visibile che Gesù compie allo scopo pedagogico di condurre i fedeli alla graduale penetrazione di una realtà superiore che i sensi non possono percepire, ma che possono cogliere.

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Giovanni usa il termine “segni” al plurale perché non intende affatto limitarsi ai miracoli compiuti da Gesù, perché tutte le azioni di Cristo sono segni che inducono alla fede e che a loro modo vogliono condurci alla fede. Pensiamo ad esempio al miracolo dei miracoli riassunto da Giovanni nel monumentale prologo del suo Vangelo, che comincia con le parole: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Per poi giungere attraverso questo crescendo di verità di fede all’annuncio del più impensabile dei miracoli: «E il Verbo si fece carne», il mistero di Dio fatto uomo. Mistero dinanzi al quale l’Autore della Lettera agli Ebrei afferma che «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» [Cf. Eb 11,1]. Per Giovanni il segno è quindi un elemento visibile che conduce all’invisibile, perché la fede è un segno del mondo invisibile, della realtà di Dio. Per questo motivo il Vangelo di Giovanni si conclude con queste parole: «Gesù fece molti altri segni … questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo» [Gv 20,30-31].

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Nessuno oggi, dirigendo l’eterno banchetto delle nozze di Cristo con la sua Chiesa potrà mai più dire:  «Tu hai tenuto da parte il vino buono finora», perché dopo l’incarnazione, la vita, la morte e la risurrezione del Cristo, a noi è stato dato buon vino sino al suo ritorno alla fine dei tempi, perché «Lo sposo» Cristo «è colui al quale appartiene la sposa» [Gv 3, 29]. Il Cristo sposo è capo del corpo che è la Chiesa [cf. Col 1,18], ed ogni giorno, attraverso il mistero del suo corpo e del suo sangue vivo, presenza reale tra noi, celebriamo le nozze dell’agnello, Cristo, con la sua sposa, la Chiesa.

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dall’Isola di Patmos, 19 gennaio 2019

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6 commenti
  1. orenzo
    orenzo dice:

    Gesù non dice: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono»,
    e nemmeno: «Quando tutti sono già ubriachi mette in tavola il vino peggiore»;
    quelle parole, eventualmente, le dice il “maestro di tavola”.

    • Padre Ariel
      Ariel S. Levi di Gualdo dice:

      Alcuni Lettori mi hanno segnalato questo lapsus calami :

      Bisogna per ciò notare che Giovanni — che scrive nella lingua greca di venti secoli fa — non usa, come altri evangelisti, il termine tέraton, che vuol dire prodigio, o meglio miracolo del vino; Giovanni usa il termine smeίon, che vuol dire segno. Se poi vogliamo essere sinceri, nel testo originale di Giovanni, Gesù non dice propriamente: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono». La frase tradotta in italiano è fedele senza dubbio, però Gesù, per l’esattezza, non dice “quando si è già bevuto molto” ma dice otan metusosin ton elasso, che alla lettera significa: «Quando tutti sono già ubriachi mette in tavola il vino peggiore».

      Non intendevo proprio mettere la frase in bocca a Cristo Signore anziché al maestro di cerimonia al banchetto, è stato appunto un puro lapsus. Ringrazio chi me lo ha segnalato. Ho quindi provveduto a correggere due parole della frase dicendo ciò che in verità intendevo dire:

      Frase corretta dopo la segnalazione dei Lettori:

      Bisogna per ciò notare che Giovanni — che scrive nella lingua greca di venti secoli fa — non usa, come altri evangelisti, il termine tέraton, che vuol dire prodigio, o meglio miracolo del vino; Giovanni usa il termine smeίon, che vuol dire segno. Se poi vogliamo essere sinceri, nel testo originale di Giovanni, colui che dirigeva il banchetto, per l’esattezza non dice a Gesù: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono». La frase tradotta in italiano è fedele senza dubbio, però, per l’esattezza, non dice “quando si è già bevuto molto” ma dice otan metusosin ton elasso, che alla lettera significa: «Quando tutti sono già ubriachi mette in tavola il vino peggiore».

      • Padre Ariel
        don Ciro dice:

        … trovare un prete e soprattutto un teologo, di questi tempi, che dice e che spiega di avere sbagliato per una svista e che ringrazia che gliela ha segnalata e che rende il tutto pubblico, penso sia veramente un’autentica rarità!

  2. Manuela Fadda
    Manuela Fadda dice:

    Forse una svista… non è Gesù a commentare sul vino buono ma il maestro di tavola, no??

  3. Zamax dice:

    Ai moderni esegeti citati nell’articolo si potrebbe rispondere che è ben vero che Dio ama tutti e in questo non fa preferenze, ma che non in tutti si compiace: cioè non tutti gli danno la gioia dell’amore corrisposto. “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,11), dice Dio di Gesù: per analogia – e solo per analogia, s’intende – S.Giovanni usa la stessa espressione riguardo al suo rapporto con Gesù. Coloro che si scandalizzano farisaicamente per questa espressione, lo fanno perché amare Dio (e insieme Gesù) significa amare la Verità, e chi ama lo può fare solo secondo verità. Costoro, che oggi vanno per la maggiore, celebrano un amore universale cieco perché non amano la verità, e perciò nemmeno Dio.
    P.S. Per fare una battuta canterina (e malandrina) direi: tu chiamalo, se vuoi, discernimentooooo….

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