Cristo perdona la prostituta pentita dicendole: «Va’ e d’ora in poi non peccare più», non le dice affatto di continuare come prima e più di prima …

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

CRISTO PERDONA LA PROSTITUTA PENTITA DICENDOLE «VA’ E D’ORA IN POI NON PECCARE PIÙ», NON LE DICE AFFATTO DI CONTINUARE COME PRIMA E PIÙ DI PRIMA …

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«Va’ e d’ora in poi non peccare più» sono parole di Cristo e come tali non possono essere poste in discussione da nessuno, neanche dalla Chiesa e dai suoi ministri. La libertà della misericordia è una libertà divina che non si concepisce se non in relazione alla salvezza delle anime. Dio permette tutto all’uomo, tranne ciò che lo priva della grazia e lo espone alla dannazione. Il divieto che l’uomo deve fare proprio è dunque quello di vivere nel peccato, mai un peccato può essere buono, santo, desiderabile, scusabile, addomesticabile, al passo con i tempi, moderno e via dicendo a seguire.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Maddalena, ieri e oggi …

La pagina del Vangelo di Giovanni di questa Vª domenica di quaresima [vedere Liturgia della Parola, QUI] è pari forse a quella del Padre Misericordioso, il brano evangelico più famoso e conosciuto. Tant’è ch’è divenuta proverbiale e popolare l’espressione di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra».

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Anche nell’analisi di questo testo e nella sua corretta esegesi, non dobbiamo accontentarci di una lettura misericordista che, pur avendo il merito di accontentare tutti attraverso una rinnovata apocatastasi, rischia di tradire nella sostanza l’insegnamento di Gesù sul peccato e l’autentica prassi sacramentaria della riconciliazione nella Chiesa. Infatti non esiste una lettura esegetica che ammetta il criterio del politicamente corretto o del personalismo, ma l’esegesi autentica è sempre fatta nello Spirito Santo che è colui che guida e orienta alla Verità tutta intera [cf. Gv. 16,13]. Lo stesso Spirito che soffia sulla Santa Chiesa e sui beati maestri e dottori, ci permette di scrutare e apprendere il senso autentico delle sacre pagine del Parola di Dio.

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Il contesto e l’ambientazione di questo brano evangelico ricorda molto da vicino il tema lucano della misericordia e del perdono che Cristo accorda ai peccatori, ed in modo particolare ad alcune donne problematiche [cf. Lc 7, 36-50; 8,2-3]. La cornice sacrale del Tempio, in cui l’episodio si svolge, sottolinea significativamente la forza dell’autorità di Cristo nell’introdurre una novità nel culto reso al Padre. Non si tratta più di offrire un sacrificio animale come forma di espiazione sacrificale – sulla scorta dell’antico Israele – ma attraverso la strada della misericordia al Signore si rende culto: «Misericordia io voglio e non sacrificio» [cf. Os 6,6; Mt 9,13].

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il Servo di Dio Padre Oreste Benzi [Rimini 1925 – Rimini 2007]

Il vertice della misericordia è la morte del Figlio di Dio, colui che diventa offerta sacrificale al Padre per i peccati dell’intera umanità, in tutti i tempi:

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«Era come agnello condotto al macello […] Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore» [cf. Is 53,7; 10].

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La Misericordia divina si raggiunge attraverso il sacrificio del Figlio, per mezzo di Cristo infatti scaturirà nel mondo una discendenza di salvati e graziati che ripudieranno il peccato e il compromesso con il male, per vivere nella libertà dei figli di Dio. Vivere senza peccato non è utopia ma possibilità reale perché è un dono che ci è stato già concesso nella passione e risurrezione di Gesù, è un dono di grazia che va riscoperto. L’uomo non è il suo peccato, ma nemmeno un animale da sella cavalcato da Dio o dal diavolo, come sosteneva l’eresiarca Lutero nel suo sciagurato insegnamento.

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Capiamo bene: la misericordia che il Signore esercita sul mondo è in vista di una redenzione definitiva dal peccato — la Salus Animarum che la Chiesa nel suo ministero opera —, prosegue nel solco del culto della misericordia, attraverso la quale l’uomo è riscattato. La medicina della misericordia, ha bisogno di verità e di giustizia affinché si raggiunga la salute dell’anima. Sicché l’episodio dell’adultera ci aiuta a comprendere questa prassi divina, oggi tanto disattesa e maltrattata.

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il Padre Oreste Benzi in visita a San Giovanni Paolo II con una prostituta ammalata di Aids

L’adultera del Vangelo di questa domenica, si ritrova avvinta dal peccato di prostituzione e di adulterio, è una peccatrice pubblica e forse già nota ai suoi accusatori. Essa diviene così strumento e pretesto per accusare Gesù e metterlo a morte come sobillatore della Legge. La donna, in questo contesto, fa l’esperienza della verità e della giustizia umana che purtroppo si dimostrano imperfette.

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Mosè, sebbene ricordato come il sommo legislatore d’Israele, deve anch’egli prendere atto del peccato e della limitatezza umana e di quella sclerocardia che ostacola di conformare la vita al disegno di Dio, donando la Legge concede anche delle deroghe che la mortificano [cf. Mc 10, 4-5]. La Legge che dovrebbe tutelare l’uomo non salva, non giustifica come ebbe a comprendere bene San Paolo durante la sua predicazione. In Gesù, che è più grande di Mosè, si porta a compimento la legge, perfezionandola attraverso la sua persona: «Avete inteso che fu detto … ma io vi dico» [cf. Mt 5,21-ss].

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Cristo non intende disquisire contro i suoi nemici, non vuole ascoltare i giudici di una povera donna colpevole, egli vuole anzitutto portare la verità affinché ci sia una autentica giustificazione sia per la colpevole che per i suoi accusatori. Così rovescia la posizione di questi uomini e li costringe a guardare con verità dentro se stessi e a considerarsi in relazione al peccato, a qualunque peccato: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» [cf. Gv 8,7]. Ora, se la donna è una peccatrice, una che ha trasgredito la Legge, loro possono forse dirsi superiori alla Legge o impossibilitati a trasgredirla? Gesù mette potentemente davanti ai loro occhi una verità sconcertante che l’evangelista Giovanni ci ha già presentato nel capitolo precedente a questa pagina: «Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?» [cf. Gv 7,19].

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il Padre Oreste Benzi, un vero prete di strada perché sulla vera strada di Cristo …

Questi uomini non sono immuni dal contagio del peccato, desiderano giustizia, ma non tollerano sottostare davanti alla luce della verità. La fatica di scoprirsi peccatori e il dolore per la scoperta della loro pietosa condizione li conduce ad abbandonare l’atteggiamento di condanna: «udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi» [cf. Gv 8, 9].

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L’affermazione di Gesù fa scaturire la verità nell’animo di questi uomini e conduce a una giustizia che riequilibra, per loro ci sarà una giustificazione solo nel momento in cui, come il pubblicano al Tempio, si riconosceranno bisognosi di perdono e di purificazione, smettendo di usare la Legge come arma di accusa [cf. Lc 18,13]. Tolti quindi di mezzo gli accusatori «rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia», così Sant’Agostino commenta questo momento. La vicenda della donna non si è chiarita e nemmeno risolta, quale sarà la decisione di Gesù? Anzitutto Gesù la chiama, la mette al centro, vuole nuovamente fare verità affinché si arrivi a una giustificazione. La chiama «donna», le restituisce la dignità che i suoi accusatori gli avevano tolto, lei è una creatura del Padre, non può essere definita dal suo peccato ma dall’amore che Dio ha usato per chiamarla alla vita. La domanda di Cristo insiste sulla mancanza di condanna non sulla colpa: «Nessuno ti ha condannata?», questo avviene ogni volta che ci mettiamo davanti al Signore, il quale non ignora certo il peccato ma desidera che il peccatore stesso si renda conto della sua condizione di infermità desiderando la guarigione.

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Questa donna non esprime un pentimento visibile, colmo di amore e di commozione come la donna peccatrice del Vangelo lucano [cf. Lc 7,36-50], eppure Gesù utilizza con lei una benevolenza totalmente esagerata contrapposta a quella dei farisei: «Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno» [cf. Gv 8,15]. La finale del Vangelo chiarisce il motivo di questo particolare esercizio di benevolenza e di misericordia da parte di Gesù: «Va’ e d’ora in poi non peccare più». Ma che cosa vogliono dire queste ultime parole? Anzitutto, si ribadisce con forza una libertà ottenuta dal peccato che ci raggiunge attraverso la grazia di Cristo e il suo sacrificio: la donna è libera sì di andare, ma non di peccare di nuovo.

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le figlie riconoscenti …

Ricordiamoci che queste sono parole di Cristo e come tali non possono essere poste in discussione da nessuno, neanche dalla Chiesa e dai suoi ministri. La libertà della misericordia è una libertà divina che non si concepisce se non in relazione alla salvezza delle anime. Dio permette tutto all’uomo, tranne ciò che lo priva della grazia e lo espone alla dannazione. Il divieto che l’uomo deve fare proprio è dunque quello di vivere nel peccato, mai un peccato può essere buono, santo, desiderabile, scusabile, addomesticabile, al passo con i tempi, moderno e via dicendo a seguire. Il peccato è sempre peccato ed è stato la causa di ogni sofferenza del nostro Divin Redentore: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» [cf. Is 53,5].

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Cagliari, 7 aprile 2019

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il blog personale di Padre Ivano

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Non esistono molteplici case e padri: il Figliol Prodigo torna all’unica casa del solo e vero Padre che è sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

NON ESISTONO MOLTEPLICI CASE E PADRI: IL FIGLIOL PRODIGO TORNA ALL’UNICA CASA DEL SOLO E VERO PADRE CHE È SORGENTE DI GRAZIA E CENTRO DEL MISTERO DELLA SALVEZZA 

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Il figliol prodigo torna alla casa del padre dove ad attenderlo non c’è alcuna moda sociologica, soprattutto nessuna correttezza politica. Perché da sempre Dio è fuori da ogni moda, ma soprattutto da ogni umana correttezza politica, perché Dio è totalità senza inizio e senza fine, per questo senza fine è il suo amore, per questo eterna è la sua misericordia, per questo una sola è la sua casa, non molteplici; e l’unica casa dell’unico Padre rimane nei secoli punto di partenza, sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza, punto di arrivo e centro perfetto di unità.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Laudetur Jesus Christus !

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Il Figliol prodigo, opera dello scultore Arturo Martini, 1927 [Casa di Riposo Jona Ottolenghi, Acqui Terme]

In questa Dominica Lætare della IV settimana di Quaresima la liturgia ci dona una delle pagine dei Santi Vangeli tra le più conosciute: la Parabola del Figliol Prodigo [vedere testo della liturgia, QUI]. Pretendere di avere la legittima eredità paterna mentre il genitore era sempre in vita rappresentava un terribile oltraggio nell’antico mondo ebraico, ma non solo in esso. Sarebbe come dire: «Non ho tempo di attendere che tu tiri le cuoia, per ciò dammi subito ciò che mi spetta». Ecco allora che il padre dà una risposta iniziale e una finale: la risposta d’inizio è l’azione che esaudisce la richiesta del figlio, confermandolo padrone della sua libertà e padrone dei beni da lui rivendicati; la risposta finale è un atto di amore puro, che in sé racchiude una lezione basata sulla maturità e sulla misericordia vera; quella misericordia che procede da Dio, che non ha alcuna paura ad accogliere i peccatori ed a mangiare con loro, con buona pace di scribi e farisei di ieri e di oggi.

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Il figliol prodigo parte per un paese lontano e sperpera tutto vivendo da dissoluto, fino a quando comincia a trovarsi nel bisogno. «Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, «ma nessuno gli dava nulla». Sinceramente è difficile pensare che il ragazzo non avesse la possibilità di prendersi da sé le carrube; e questo deve richiamare la nostra attenzione sulla frase: «Nessuno gli dava nulla», riferita a questo giovane che aveva perduto tutto. Ciò equivale a dire che nessuno lo nutriva con l’amore. Aveva divorato le sue sostanze con molte prostitute, ma non era stato divorato dall’amore sincero e appassionato di una sola donna. Quindi è la mancanza di amore a generare in lui una forte crisi, perché più del bisogno fisico egli soffre per bisogni umani. L’amore che sino a prima aveva ricevuto, genera in lui la sensazione di paura, dando vita a tenera nostalgia.               

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Non sappiamo se il giovane comincia a capire di avere vissuto una vita priva di amore, od a comprendere che uscendo dall’amore aveva perduto la propria libertà per entrare nella spirale della paura, dell’angoscia e del recondito senso di colpa. L’uomo, che di per sé rimane un mistero, non può vivere senza amore; la sua vita è priva di senso, se non incontra l’amore dal quale può nascere la libertà vera: «Nell’amore non c’è paura, anzi l’amore perfetto caccia via la paura» [Gv 4, 18-19].  

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A quel punto il giovane comincia a interrogarsi: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre …». In queste parole non prevale un senso di dolore per il padre abbandonato, o per la sua incapacità di dare e di ricevere amore; pare piuttosto prevalere la situazione di disagio e di bisogno estremo che lo spingono a tornare a casa, forse ripiegato ancor più su se stesso. Per un bisogno egoistico è partito e per una esigenza egoistica decide di tornare. Tutto questo segna però il suo primo inizio e, seppure mosso da disagio e bisogno, si muove e torna da suo padre. «Quando era ancora lontano suo padre lo vide, ne ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Questi cinque parole ci aprono le porte sull’essenza dell’amore vero. Vedere qualcuno ancora lontano significa che in cuor nostro lo stavamo attendendo. Provare compassione vuol dire che non si pensa più all’ingiuria ricevuta, al contrario si è disposti ad aprire il cuore e a pensare alla sofferenza dell’altro, a prescindere da quanto accaduto. L’eterna sfida cristiana è infatti quella di accogliere con umanità chi ci ha fatto del male, sollevando il malvagio da terra quando cade, anziché infierire su di lui con quello spirito di vendetta che nulla ha da spartire con la giustizia, neppure con la giusta e a volte necessaria punizione inflitta per concorrere al miglior bene della persona, ma soprattutto al suo recupero.

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Correre incontro all’altro equivale a toglierlo da ogni disagio compiendo il primo passo che rompe ogni indugio, prerogativa questa tipica dei grandi, non certo dei piccoli uomini che vivono di rancori, dispetti e vendette. Gettarsi al collo di una persona, nella cultura giudaica dell’epoca non era un gesto di circostanza ma di accogliente amore profondo e di confidenza estrema.   

 

Ecco allora il fratello maggiore che «si indignò e non voleva entrare», cominciando a elencare i propri meriti ed i demeriti del fratello al padre, lagnandosi di non aver ricevuto mai nulla dal padre. «Figlio, tutto ciò che è mio è tuo», lo rassicura il padre per il suo dovuto. A questo modo la parabola sottolinea che ragionando così anche il figlio maggiore, in modo diverso ma simile si allontana a suo e resta fuori di casa come il fratello più giovane, manifestando un palese rifiuto verso l’azione di grazia. Perciò il Padre, che «commosso» era corso incontro al figliol prodigo, ora esce di nuovo incontro al figlio maggiore, spiegando a entrambi che il suo amore verso i figli è gratuito. Nessuno, ha infatti il diritto ad essere amato; da nessuna pagina del Vangelo si ricava questo genere di diritto, semmai se ne ricava un dovere: quello di amare. Dai passi più svariati e articolati del Vangelo possiamo anche ricavare quanto spesso l’amore sia tragicamente a senso unico, donato da una parte con potenza divina, non recepito e accolto dall’altra dall’aridità umana. Dio ci ama non perché lo meritiamo, ma perché lui è fonte inesauribile di amore. Dio non può fare a meno di amare, non ne è capace; siamo noi, capaci a fare a meno di essere amati.                        

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Come il figliol prodigo non ha perso l’amore del Padre allontanandosi da lui, il figlio maggiore non ha diritto all’amore del Padre perché non si è allontanato. In questo stesso errore cadiamo anche noi figli della Chiesa, noi preti per primi, che molto più del Popolo che Dio ci ha affidato da servire, non abbiamo acquisito alcun diritto alla salvezza, solo il dovere di rispondere molto più e molto meglio di altri per ciò che Cristo ci ha dato, attraverso il mistero della partecipazione al suo sacerdozio ministeriale.   

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Quante volte facciamo soffrire il Padre che non può fare a meno di amare, ritenendo come il figlio maggiore della parabola un’ingiustizia il suo amore e la sua misericordia verso il fratello trasgressore? Quante, specie in questi tempi di grave crisi che attraversano la Chiesa, corriamo solidali ad abbracciare con calore tutto ciò che non è cattolico, mostrando però al tempo stesso scarso amore, talora persino aperta ribellione verso la nostra Chiesa, voltando le spalle ai fratelli e ai figli delle membra vive del Cristo, che è la Chiesa suo corpo mistico? E su questa terra, il Cristo, ha istituito una Chiesa sola, merita ricordarlo di tanto in tanto, considerando che tra poco proclameremo nella professione di fede l’unità della Chiesa, non la molteplicità delle chiese [Simbolo di Fede Niceno-Costantinopolitano]; ce lo ricorda senza possibilità di errate interpretazioni teologiche uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II, la Lumen Gentium.

Anche questo è un modo per meditare sulla parabola del figliol prodigo che torna alla casa del padre, dove ad attenderlo non c’è alcuna moda sociologica, soprattutto nessuna correttezza politica. Perché da sempre Dio è fuori da ogni moda, ma soprattutto da ogni umana correttezza politica, perché Dio è totalità senza inizio e senza fine, per questo senza fine è il suo amore, per questo eterna è la sua misericordia, per questo una sola è la sua casa, non molteplici; e l’unica casa dell’unico Padre rimane nei secoli punto di partenza, sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza, punto di arrivo e centro perfetto di unità.

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Nell’unità il Padre ci ha creati, ed a braccia aperte attende, nell’unità perfetta del suo corpo che è la Chiesa, il diletto figliol prodigo nascosto dentro ciascuno di noi, affinché i suoi figli possano essere «perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» [Gv 17, 23].

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Dall’Isola di Patmos, 30 marzo 2019

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E disponibile il Libro delle Sante Messe per i defunti de L’Isola di Patmos [vedere QUI]

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La pazienza e la misericordia di Dio sono finalizzate alla nostra salvezza, non allo sdoganamento del peccato come stile di vita

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA PAZIENZA E LA MISERICORDIA DI DIO SONO FINALIZZATE ALLA NOSTRA SALVEZZA, NON ALLO SDOGANAMENTO DEL PECCATO COME STILE DI VITA 

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Cerchiamo di capire anzitutto questo: che Dio sia misericordioso e magnanimo non esenta di certo il peccatore dalla fatica di condurre un cammino di verità sulla propria vita. Se non guardo con verità dentro il mio cuore e non riconosco la spazzatura che vi si accumula, io sono solo un ipocrita che nasconde la polvere sotto un bel tappeto.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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il fico sterile

La Misericordia di Dio è la terapia che trasforma i peccatori in santi e, come tutte le terapie, necessita di pazienza, di tempo, di costanza e di fatica. Non esiste una misericordia divina a buon mercato senza un sano riconoscimento della propria colpa e un autentico desiderio di cambiamento.

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Cerchiamo di capire anzitutto questo: che Dio sia misericordioso e magnanimo non esenta di certo il peccatore dalla fatica di condurre un cammino di verità sulla propria vita. Se non guardo con verità dentro il mio cuore e non riconosco la spazzatura che vi si accumula, io sono solo un ipocrita che nasconde la polvere sotto un bel tappeto.

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Nel Vangelo di questa III Domenica di Quaresima [cf. testo della Liturgia della Parola, QUI] Gesù reagisce vigorosamente alla cosiddetta Teologia della Retribuzione che consiste nel ritenere le disgrazie come la conseguenza di colpe, più o meno note, commesse dagli uomini. Nel Vangelo di Giovanni ritorna questo tipo di visione teologica nell’episodio del cieco nato: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» [cf. Gv 9,2-3].

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Ovviamente questa visione teologica è sballata, Dio non si diverte a punire gli uomini, tuttavia Gesù ha la possibilità per fare alcune considerazioni utili. Il Signore esprime chiaramente che la conversione è necessaria per poter fare una vera esperienza di Dio. Il problema non sono le disgrazie o la morte – che possono colpire tutti in ogni momento dell’esistenza – il vero problema consiste nel fatto di non volersi convertire a Dio e non voler ritornare a lui con tutto il cuore.

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La conversione, si sa è opera dello Spirito Santo, ma avviene solamente quando l’uomo riesce a mantenere un certo timor di Dio. Se non c’è timore ma spregiudicatezza e insolenza, la nostra vita è spacciata! La morte naturale sarà la conseguenza logica di quella morte alla grazia che abbiamo manifestato con la lontananza da Dio.

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Poiché la conversione presuppone il timor di Dio, il Signore ci dona tempo affinché la nostra vita si possa ravvedere il più possibile. Dio esprime una pazienza affinché il peccatore possa essere fecondato dalla Parola, dai sacramenti, dalla preghiera fiduciosa e dall’esperienza di comunione ecclesiale. Gesù è il fattore che quotidianamente domanda al Padre il tempo affinché ciascuno di noi si converta. Siamo irrigati e fecondati dal sangue di Cristo in attesa di produrre frutti di cambiamento.

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All’interno della liturgia della Parola di questa domenica, esiste la proclamazione di un annunzio di misericordia e di pazienza, ma questo viene messo come obiettivo necessario per una fruttuosità e una conversione. Non possiamo affermare che Dio nella sua misericordia e pazienza non considera il peccato, fa finta di niente davanti alle colpe, chiude gli occhi diventando nostro complice e ammantando tutto con un denso strato di buonismo melenso.

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Dio Padre non si stanca mai di accogliere i peccatori, ma i peccatori pentiti! Egli conosce la nostra debolezza, pur tuttavia ci domanda di lasciarci salvare da Gesù affinché il peccato non diventi un cancro insanabile che ci porta alla morte. Dio non vuole che alcun uomo si perda, non desidera la morte del peccatore ma la vita in abbondanza, è necessario credere sempre in questa buona notizia.

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La Sacra Scrittura ci assicura che non esiste sterilità e morte che non possa essere rinvigorita o risanata, oggi non soffermiamoci sulla grandezza del nostro peccato, ma sulla grandezza del Padre che ci chiede solo di colmare la nostra distanza da lui, così come ha avuto il coraggio di fare il figlio prodigo.

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Cagliari, 23 marzo 2019

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il blog personale di Padre Ivano

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
ma portare, diffondere e difendere la verità non solo ha dei
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La trasfigurazione. il memoriale dell’incarnazione, passione, morte, risurrezione e ascensione di Cristo Signore, non si dovrebbe celebrare con danze assiro-babilonesi attorno all’altare ridotto a totem

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

LA TRASFIGURAZIONE. IL MEMORIALE DELL’INCARNAZIONE, PASSIONE, MORTE, RISURREZIONE E ASCENSIONE DI CRISTO SIGNORE, NON SI DOVREBBE CELEBRARE CON DANZE ASSIRO-BABILONESI ATTORNO ALL’ALTARE RIDOTTO A TOTEM 

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Spesso, in nome delle proprie  esotiche e arbitrarie “tradizioni” che celano solamente gli smodati personalismi egocentrici di certi loro fondatori, i nostri movimenti laicali rischiano di smarrire la cattolica tradizione della Chiesa universale; e certe insidie si capiscono proprio dal loro modo di pregare. Non è infatti raro che al centro di certe azioni liturgiche finisca con l’essere posto l’uomo e non Cristo. Così, la centralità, non è più data dall’Eucarista, ma da tutto ciò che attorno ad essa è stato messo in circolo: dalle cosiddette “risonanze” — che non di rado sono veri e propri sproloqui emotivi infarciti di errori dottrinari e teologici — sino alla danze assiro-babilonesi eseguite attorno all’altare mutato in una specie di totem.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa
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Laudetur Jesus Christus !

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Danze assiro-babilonesi attorno al totem [per aprire il video cliccare sopra l’immagine]

In questa IIª Domenica di Quaresima il Santo Vangelo narra la trasfigurazione di Cristo Signore [cf. Lc 9, 28-36, testo della Liturgia della Parola, QUI]. Dopo il brano delle tentazioni dove Gesù vero Dio e vero uomo vince la presenza di Satana [cf. QUI], il Signore sale di nuovo sul monte. Assieme a Lui ci sono Pietro, Giacomo e Giovanni, le colonne della prima Chiesa. Sul monte Gesù si trasfigura, cambia d’aspetto. Il suo volto brilla come il sole e la sua veste diviene candida come luce. Il Beato Evangelista Luca, a differenza del Beato Evangelista Matteo, narra che Cristo Signore stava pregando [cf. Lc 9, 29].

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È proprio nella preghiera che ci scopriamo diversi, se veramente preghiamo Dio. Se invece preghiamo noi stessi e pregando adoriamo le nostre tradizioni religiose o laicali fatte passare per Dio, confuse con Dio o peggio messe spesso al di sopra di Dio, questa è altra faccenda. A dire il vero è anche una faccenda alquanto pericolosa, presente e insidiosa da sempre negli ambiti della vita religiosa e nei movimenti laicali che sovente hanno preso vita proprio sulle macerie della vita religiosa. Spesso, in nome delle proprie esotiche e arbitrarie “tradizioni” che celano smodati personalismi egocentrici di certi fondatori, i nostri movimenti laicali rischiano di smarrire la cattolica tradizione della Chiesa universale; e certe insidie si capiscono proprio dal loro modo di pregare. Non è infatti raro che al centro di certe azioni liturgiche finisca con l’essere posto l’uomo e non Cristo. Così, la centralità, non è più data dall’Eucarista, ma da tutto ciò che attorno ad essa è stato messo in circolo: dalle cosiddette “risonanze” — che non di rado sono sproloqui emotivi infarciti di errori dottrinari e teologici — sino alla danze assiro-babilonesi eseguite attorno all’altare mutato in una specie di totem.

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Il problema è che oggi un numero elevatissimo di fedeli non sa più che cos’è la Santa Messa, motivo per il quale sono stati inseriti in essa cosiddetti vezzi e malvezzi meglio noti come abusi liturgici, che mirano proprio a supplire questa carenza di conoscenza, affinché tutto cada ed anneghi nell’emotivo soggettivo o di gruppo. Tentiamo allora di dirlo con poche brevi e precise parole: la Santa Messa è sacrificio di grazia è sta al centro del mistero della redenzione. Nella Prima Preghiera Eucaristica, o Canone Romano — quella che in molte chiese è caduta ormai in disuso, sostituita dall’uso quasi unico della più breve delle Preghiere Eucaristiche, la Seconda —, dopo che il Popolo di Dio ha acclamato «Mistero della fede», il sacerdote, che non è semplicemente “il presidente” ma un alter Christus il quale agisce come tale in Persona Christi, seguita recitando:

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«Unde et mémores, Dómine, nos servi tui, sed et plebs tua sancta, eiúsdem Christi Fílii tui Dómini nostri tam béatæ Passiónis, nec non et ab ínferis Resurrectiónis, sed et in coelos gloriósæ Ascensiónis: offérimus præcláræ maiestáti tuæ, de tuis donis, ac datis, hóstiam puram, hóstiam sanctam, hóstiam immaculátam, Panem sanctum vitæ ætérnæ et Cálicem salútis perpétuæ».

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[In questo sacrificio, o Padre, noi tuoi ministri e il tuo popolo santo celebriamo il memoriale della beata passione, della risurrezione dai morti e della gloriosa ascensione al cielo del Cristo tuo Figlio e nostro Signore; e offriamo alla tua maestà divina, tra i doni che ci hai dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell’eterna salvezza].

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Già da queste brevi parole si dovrebbe comprendere che nella celebrazione di tutte le azioni sacramentali, che sono una azione trinitaria compiuta nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, noi realizziamo il nostro incontro col Cristo risorto. Nel Sacrificio Eucaristico Cristo Signore si rende presente — attraverso la Santissima Eucaristia — con la sua vita intera: dalla sua incarnazione nel ventre della Beata Vergine Maria sino alla discesa dello Spirito Santo — il Consolatore — inviato dal Padre e dal Figlio nel cenacolo degli Apostoli a Pentecoste.

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Con la risurrezione, la passione e morte di Cristo è tutt’altro che cancellata, n’è prova il fatto che il Risorto si è mostrato agli Apostoli con il suo corpo glorioso nel quale erano sempre impressi i segni della passione. E il corpo glorioso di Cristo, seguita tutt’oggi a portare impressi su di sé i segni della passione.

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Quando il celebrante recita «… questo sacrificio vivo e santo», indica con quelle parole l’azione redentrice della passione e morte di Cristo Signore. Verrebbe pertanto da domandarsi: a qualcuno risulta che sul Calvario, sotto la croce, la Beata Vergine Maria, assieme a Maddalena ed al giovane Apostolo Giovanni, danzassero in circolo gioiosamente abbracciati in un appassionato girotondo attorno alla “croce totem“? Fede e tradizione ci tramandano tutt’altro, per esempio:

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Stabat Mater dolorósa
iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius.

[La Madre addolorata stava
in lacrime presso la Croce
sulla quale pendeva il Figlio]

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O risulta invece che

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Danzava la madre giocosa

sotto la croce gioiosa

sulla quale pendeva il Figlio?

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Quando si prega veramente, anche in totale solitudine ed isolamento, si prega sempre in comunione di fede e di amore con tutta la Chiesa universale; non in comunione con un particolare gruppo o con i suoi stili personalistici di preghiera. E quando veramente si prega, in solitudine o con i fratelli, dopo un po’ di tempo si ha questa esatta sensazione: si cambia d’aspetto, si è meno rigidi, il pensiero vola verso un reale infinito e si sperimenta una sensazione oserei dire mistica. L’esperienza e la dimensione della preghiera parte necessariamente — e così deve essere — da una dimensione fisica attraverso la quale saremo condotti in una dimensione di esperienza tutta quanta metafisica.

                                                                             

Questo il frangente nel quale Cristo Signore dialoga con Mosè ed Elia secondo la fedele cronaca di questo Santo Vangelo. Mosè rappresenta la Legge del Sinai, i dieci comandamenti, la Torah ebraica. Elia, il profeta asceso al cielo in un carro di fuoco di cui gli ebrei attendono da un momento all’altro il ritorno. La legge e i profeti, l’antica e prima alleanza dialogano in comunione con Gesù, il Verbo di Dio che si è incarnato non per abolire la legge degli antichi profeti, ma per portarla a pieno compimento [cf. Mt 5, 17-19], ed il pieno compimento è lui: il Verbo fatto carne [cf. Gv 1, 14]. 

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Tenera oltre modo la figura di Pietro, mediterraneo e focoso come sempre, che vorrebbe fermare questo momento mettendolo in cornice in una bella foto. Vorrebbe che la vita si fermasse lì al Tabor, senza andare al Calvario.  

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La nube avvolge infine i tre discepoli che entrano al suo interno. Una nube che rappresenta Dio che avvolge l’uomo ogni volta che l’uomo decide di lasciarsi avvolgere. E dopo questo avvolgimento si ode la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato. Ascoltatelo» [cf. Mc 9, 7].

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Il Padre proclama ai discepoli Gesù suo Figlio diletto, che tutti noi siamo chiamati ad ascoltare, riconoscendo adoranti in lui la parola del Verbo Incarnato.

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Davanti a queste parole i discepoli si prostrano con la faccia a terra e hanno timore. Il Vangelo non dice che hanno paura, ma che hanno timore. Quel santo timore di Dio di cui avremmo molto bisogno oggi. Un santo timore che è dono ineffabile dello Spirito Santo di Dio, che non vuole la nostra paura, ma il nostro libero e adorante rispetto. Come infatti scrisse l’equipollente e quasi coevo Tommaso d’Aquino degli ebrei, Moshe ben Maimon, meglio conosciuto come Maimonide: «il timore di Dio è il principio di ogni sapienza».                                 .                                             

Gesù, fa risvegliare infine i discepoli caduti per sacro timore con la faccia a terra; e li fa rialzare usando precise parole: «Alzatevi e non temete» [Mt 17, 7]. E vengono invitati a rimanere in silenzio.                  

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Solo dopo la Pasqua potranno comprendere ciò che è avvenuto. Gesù ha rivelato nella trasfigurazione la sua gloria futura, che però avverrà solo dopo la morte in croce. Non vi sarà solo il monte Tabor, quello della trasfigurazione, i discepoli dovranno scoprire un altro monte molto più amaro: il monte Calvario. Tra questi due monti ve n’è un altro ancora nell’esperienza di vita dell’uomo Gesù: il monte sul quale in precedenza s’è ritirato per quaranta giorni e dove viene tentato dal Demonio. Monte, quest’ultimo, che raffigura la tremenda realtà del mistero del male, che ci segue sin dagli inizi dei tempi.                                                              

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La vita è sofferenza e gioia che si sfidano in un duello perenne in questa nostra storia. Una vita che è costellata di momenti meravigliosi e di momenti molto tristi, a volte intersecati insieme. Ma proprio quando sembra che tutto svanisca, il Signore arriva a salvarci, a sostenerci. Quando viceversa tutto appare positivo, quando è la vita a vivere noi anziché noi a vivere la vita, a volte succede quell’evento negativo che  non aspettavamo.

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La vita è in fondo questa: una Pasqua continua attraverso la quale Gesù, risorgendo, restituisce speranza nuova a ciascuno di noi, invitandoci a salire il monte e non a temere Dio, ma a nutrire libero e amorevole timore verso il mistero d’amore di Dio, che si realizza attraverso l’incarnazione, la vita, la passione, la morte, la risurrezione e l’ascensione al cielo di Cristo Signore, il cui corpo glorioso vive tutt’oggi portando impressi i segni della passione. Ecco perché, la Santa Messa, è sacrificio; è il sacrificio incruento della croce che si rinnova, non un banchetto gioioso, una mensa tra allegri commensali, più o meno danzanti, più o meno tamburellanti secondo le stramberie dettate da un bohémienne spagnolo rimasto illeso da decenni di impunità…

 

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Dall’Isola di Patmos, 17 marzo 2019

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Se il Demonio che osò tentare persino Cristo Signore riesce a prenderci nell’ambizione, può fare di noi ciò che vuole

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

SE IL DEMONIO CHE OSÒ TENTARE PERSINO CRISTO SIGNORE RIESCE A PRENDERCI NELL’AMBIZIONE E NELLA VANITÀ, PUÒ FARE DI NOI CIÒ CHE VUOLE 

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Se il Demonio riesce a prenderci nel punto debole dell’ambizione e della vanità può fare di noi ciò che vuole e ottenere quel che brama sin dalla notte dei tempi: che ci prostriamo dinanzi a lui e che adorandolo lo chiamiamo Signore, semmai dopo avere detto, dinanzi al male che a volte pare quasi soffocare la Chiesa stessa: «… ma chi me lo fa fare di mettermi contro i potenti e prepotenti accoliti del Demonio? A che serve farsi la vita amara, quando per vivere tranquilli, dentro la Chiesa di oggi, basta solo non vedere, non parlare e soprattutto farsi sempre e di rigore gli affari propri?».

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Laudetur Jesus Christus !

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Gerico, il Monte della Quarantena o Monte della Tentazione di Gesù Cristo

Nella pagina del Vangelo di questa Iª Domenica di Quaresima [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI] siamo di fronte a un paradosso: è veramente accaduto che il Demonio abbia tentato Dio Incarnato, il Verbum caro factum est? Può essere che il Demonio ha tentato di colpire Dio nella sua umanità, fingendosi ignaro di quanto Gesù fosse divino nella sua umanità e umano nella sua divinità?

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Gli accecati dalla superbia e dal delirio di onnipotenza partono sempre sopravvalutando al massimo se stessi e sottovalutando gli altri, per questo sono destinati alla sconfitta. Può essere che non cadano nell’immediato, ma cadranno inevitabilmente al primo cambio di stagione, con l’appassire dei fiori di campo.

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Nel Vangelo delle tentazioni, verrebbe da pensare che il Demonio sopravvaluti se stesso e sottovaluti Dio. Nei primi secoli della Chiesa, con la ragione siamo riusciti a cogliere e definire il mistero rivelato della Persona di Cristo: due nature in una persona, quella umana e quella divina. Grazie alle menti e alla sapientia cordis dei grandi Padri della Chiesa nei primo otto secoli di storia del Cristianesimo si giunse a definire il mistero della Persona di Cristo, che anzitutto richiedeva la creazione di appropriate terminologie, assunte attraverso lemmi attinti dalla filosofia e dal lessico greco, modulate e applicate alla nostra prima grande speculazione teologica: riuscire prima a percepire e poi a definire cosa anzitutto s’intendeva, con le parole «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio … » [Gv 1,1]. Introdotti per mezzo dell’intelletto al mistero del Cristo vero Dio e vero Uomo, la ragione deve cedere il passo alla fede [Cf. S.S. Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et Ratio], perché il problema non è più né lessicale né filosofico. Quando si apre il portale della fede che va oltre l’umana logica, la ragione deve cedere il passo ad altre categorie, per esempio al dono della percezione deposto in ogni uomo dai doni di grazia dello Spirito Santo. Con la ragione umana dobbiamo leggere le righe di questo Vangelo, con la fede, frutto della nostra libertà benedetta dalla grazia di Dio, dobbiamo penetrarle, perché parola dietro parola siamo prima introdotti e poi portati ad avvertire quanto reale e perfetta fosse la natura umana di Gesù.

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Parte di questo ineffabile mistero è racchiuso anche in un’altra realtà: quanto in Gesù — vero Dio e vero Uomo — la perfezione divina potesse coesistere con la fragilità umana; perché è del tutto evidente che il Demonio non tenta il Cristo-Dio, ma il Gesù-Uomo, cercando di colpire le fragilità della sua umanità perfetta. Il Demonio tenta di corrompere la perfezione divina di questa umanità come in passato corruppe la nostra umanità originariamente creata come perfetta da Dio.

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Dunque il Demonio punta a quelle tenere e umane fragilità che lo stesso Gesù mostrerà a una a una nel corso della sua intera esistenza, durante la quale piange [cf. Gv 11, 35] e si commuove profondamente [cf. Gv 11, 33], è emotivamente turbato [cf. Gv11, 33], soffre e avverte paura per la morte: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» [Lc 22, 41-42]. Gesù sceglie di non rispondere all’autorità quando è interrogato [cf. Mt 27, 12] e mentre è accusato, anziché replicare si mette a scrivere con un dito per terra [cf. Gv 8,6], in modo a dir poco provocatorio. Si ribella ripetutamente all’ingiustizia perpetrata in nome di Dio dai potentati religiosi del tempo e lo fa anche con parole dure, a tratti volutamente offensive, per esempio chiamando «razza di vipere» degli zelanti religiosi osservanti [cf. Mt 12, 34], devoti più alla tradizione che al Verbo di Dio; e li apostrofa ripetutamente «ipocriti» [Mt 23, 13-29]. Non págo di questo, posto che nella lingua di Gesù chiamare ”razza” o “stirpe” di vipere era offensivo non solo per l’interessato ma anche per il suo intero albero genealogico, reputa opportuno rincarare la dose chiamandoli anche «serpenti» [Mt 23, 33], ben sapendo che nella cultura ebraica dell’epoca — e non solo in quella ebraica — il serpente era il simbolo del male. Si infiamma di passione e in tono grave afferma e accusa che sulla cattedra di Mosè sono seduti ipocriti che non fanno quel che predicano [Mt 23, 1-3], equipara molti zelanti ecclesiastici dell’epoca ai «Sepolcri imbiancati», premurandosi di precisare quanto queste tombe siano belle fuori ma piene di putrido marciume dentro [cf. Mt 23, 27]. Non esita ad arrabbiarsi e a menare le mani, o per l’esattezza le funi [cf. Mt 21, 12-13. Mc: 11, 11-15. Lc 19, 45-46]. Gesù è pervaso di dolore e forse di intima delusione quando si volge a un suo apostolo con un drammatico quesito: «Giuda, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo?» [Lc 22, 48]. Riguardo a quest’ultima frase due sarebbero le cose alle quali dovremmo prestare attenzione, anzitutto la domanda posta in forma interrogativa che troviamo anche nella versione greca originale, tanto per dire quanto non sia una formulazione né una traduzione casuale: Gesù rivolge una domanda al traditore rimanendo in attesa di una risposta, che però non giungerà mai, perché di prassi i traditori non rispondono, perché sono per loro diabolica natura codardi; perché la forza procede da Dio, la debolezza dal Demonio. Ecco perché l’uomo di Dio è intelligente, mentre l’uomo del Demonio è solo furbo. E mentre oggi seguitiamo a commentare l’episodio e la figura di Giuda, non sempre ci poniamo il vero quesito drammatico: quanto ha sofferto l’uomo Gesù dinanzi al tradimento di Giuda? O forse, più ancora che per il tradimento, per la mancata risposta da parte sua? Ecco, proviamo solo a pensare quanti oggi, anche nelle più alte gerarchie della Santa Chiesa, si rifiutano di rispondere a Cristo Signore che seguita a interpellarli attraverso la voce, spesso di profondo dolore, dei devoti Christi fideles e dei fedeli Sacerdoti.

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In queste gesta, azioni e parole è racchiusa e manifesta l’umanità di Gesù, che prosegue all’occorrenza a chiamare tutti noi, suoi moderni sacerdoti, dottori della legge e zelanti religiosi ripiegati nell’idolatria delle forme e delle tradizioni umane, coi titoli di nostra legittima spettanza: razza di vipere … ipocriti … serpenti … sepolcri imbiancati … Parole attuali ieri, ma forse ancóra di più oggi. Per questo, quando la Liturgia della Parola ci obbliga a predicare alcuni di questi brani evangelici, lo facciamo sempre parlando al passato, come se la razza di vipere, gli ipocriti, i serpenti e i sepolcri imbiancati non fossimo noi, ma solo i membri di alcune correnti religiose del Giudaismo dell’epoca gesuana, ormai morte e sepolte nella storia.

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Queste parole accese di passione, talvolta anche pedagogicamente aggressive, riassumono il mistero storico della concreta umanità e del virile πατος gesuano, che se non raccolto e penetrato renderà impossibile giungere alla perfetta comunione col Cristo della fede: il Dio incarnato, morto e risorto.

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L’uomo Gesù non può essere mutato in un ibrido santino de-virilizzato coi piedi sollevati da terra e gli occhi stravolti al cielo, perché ciò reca offesa, anzi: ciò è una bestemmia contro la sua umanità e la sua divinità. Per leggere questo brano sulle tentazioni bisogno quindi partire dal dato di fede che il tutto è realmente accaduto, che non si tratta di una parabola o di una allegoria; quindi concentrarsi sulla concreta umanità storica, fisica e palpabile del Verbo Divino: l’uomo Gesù. 

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La prima tentazione che il Demonio rivolge è l’invito a mutare le pietre in pane, alla quale Gesù risponde con una frase tratta dal libro del Deuteronomio: «Non di solo pane vivrà l’uomo» la cui prosecuzione è «… ma da ogni parola che esce dalla bocca di Dio» [Dt 8,3]. Siamo dinanzi alla tentazione dell’immediato, del tutto e subito in modo concreto e superficiale, mentre invece la nostra concretezza è ciò che esce dalla bocca di Dio, perché quello solo è un pane di vita che porta frutto e nutrimento eterno, costasse anche soffrire una vita intera, posto che dinanzi alla beatitudine eterna la vita umana è soltanto un soffio, ed in questo soffio merita vivere anche il dolore salvifico [cf. S.S. Giovanni Paolo II, Salvifici doloris], per pagare così il prezzo della nostra redenzione.

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La seconda tentazione è forse la più terribile: «Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni». È la tentazione che racchiude in se l’ambizione e il desiderio di dominio sugli altri. È la brama del comando, del governo inteso non come servizio ai fratelli e alle membra del Popolo di Dio, ma come potere per il potere che conduce al perfetto capovolgimento diabolico: servirsi della Chiesa per scopi malvagi nella brama di essere qualcuno, o di «diventare un personaggio importante attraverso il sacerdozio» [Omelia del Sommo Pontefice Benedetto XVI per l’ordinazione di 15 diaconi, Basilica Vaticana IV Domenica di Pasqua, 7 maggio 2006], meglio attraverso l’episcopato, meglio ancóra attraverso il cardinalato; anziché servire la Chiesa con amore e vedendo sempre in essa il Corpo palpitante di Cristo, la nostra sposa mistica verso la quale noi corriamo incontro con la passione degli sposi innamorati nel giorno delle nozze, come raffigura l’Evangelista Giovanni attraverso la poetica delle sue pagine.

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Se il Demonio riesce a prenderci nel punto debole dell’ambizione e della vanità può fare di noi ciò che vuole e ottenere quel che brama sin dalla notte dei tempi: che ci prostriamo dinanzi a lui e che adorandolo lo chiamiamo Signore, semmai dopo avere detto, dinanzi al male che a volte pare quasi soffocare la Chiesa stessa: «… ma chi me lo fa fare di mettermi contro i potenti e prepotenti accoliti del Demonio? A che serve farsi la vita amara, quando per vivere tranquilli, dentro la Chiesa di oggi, basta solo non vedere, non parlare e soprattutto farsi sempre e di rigore gli affari propri?».

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Per rivolgere all’uomo Gesù l’ultima disperata tentazione Satana si fa teologo, forse anche ecumenista, forse anche progressista politicamente corretto, semmai parlando in tedesco e in olandese anziché in aramaico. Satana principia a parlare con padronanza biblica come se fosse appena uscito dottorato in sacra teologia dalle nostre università pontificie: «Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano”» [Lc 4, 9-10].Il Demonio, come diceva San Girolamo: «Scimmiotta Dio e vuole creare un’altra realtà» [L’esatta locuzione poi ripresa anche da Sant’Agostino è: Diabolus est simia Dei, il Demonio è la scimmia di Dio], perché egli è il maestro del capovolgimento; anche del capovolgimento della Parola di Dio usata in modo deviante per compiere azioni malvagie. L’uomo Gesù, che grazie a Dio non aveva mai studiato nelle nostre università pontificie e che per indole era politicamente scorretto, la Torah la conosceva meglio del Demonio, quindi replica senza esitare con un’altra citazione biblica: «Non metterai alla prova il Signore Dio tuo» [Dt 6,16]. E da questa frase emerge in modo chiaro un monito: l’uomo Gesù ricorda al Demonio che egli è sì vero uomo, ma anche vero Dio.

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Infine «Il diavolo si allontanò da lui …» leggiamo sul finire di questa pagina del Vangelo, che si conclude con la frase: «… per ritornare al tempo fissato», ossia per tornare da noi e tra di noi.

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Satana esiste oggi più di ieri. Non è un’immagine simbolica, non è — come lo definirono alcuni teologi degli anni Settanta, le cui teorie sono purtroppo tutt’oggi usate per formare i nostri futuri preti — «una raffigurazione mitica e allegorica delle antiche paure ancestrali dell’uomo». Satana esiste, è reale e vuole rubarci più che mai la nostra immagine e somiglianza con Dio; vuole rubarci il nostro stupore e il nostro amore di fronte a Dio incarnato morto e risorto, che nella sua unica persona racchiude la perfetta natura umana e la perfetta natura divina, insegnandoci a essere veri uomini per essere veri figli di Dio nel modo in cui Dio ci ha pensati, creati e amati prima ancora dell’inizio dei tempi.

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Dall’Isola di Patmos, 10 marzo 2019

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Dalla maschera teatrale dell’ipocrita greco alla trave ed alla pagliuzza nell’occhio narrata dal Santo Vangelo

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DALLA MASCHERA TEATRALE DELL’IPOCRITA GRECO ALLA TRAVE ED ALLA PAGLIUZZA NELL’OCCHIO NARRATA DAL SANTO VANGELO

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Al contrario della Grecia, l’ipocrita non è più l’attore che interpreta un ruolo nell’antico teatro, ma diviene colui che non ha sincerità di cuore e nei confronti di Dio ha un rapporto solamente formale e costruito su meccaniche abitudini. Al tempo di Gesù, i farisei tendevano ad essere ipocriti in questo senso: non avevano davvero conosciuto Dio, semplicemente eseguivano mnemonicamente i precetti della Legge rabbinica senza averli davvero compresi e senza che essi potessero aiutarli a vivere meglio la fede.

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle.

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aforismi

In questa VIIIª Domenica del tempo ordinario ci è donato un brano evangelico reso celebre dall’immagine della trave e della pagliuzza nell’occhio [cf. testo della Liturgia della Parola, QUI]. Nella Grecia antica molti uomini si prestavano nel ruolo di ὑποκριτής [ypocrités] cioè di attori che, portando una maschera, fingevano e mettevano in scena una tragedia o una commedia. Per gli antichi greci era importante parlare e raccontare storie che aiutassero gli spettatori a vivere un rapporto profondo e intimo con i loro dei. Nelle letture di oggi il Signore ci offre spunti per avere un rapporto profondo e sincero, una fede che sia vera e al tempo stesso sincera.

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Innanzitutto in Siracide leggiamo: «Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore» [27, 5]. In questo proverbio dell’autore, il saggio ebreo Ben Sirach, si vuole richiamare l’attenzione alla coerenza delle parole. Esse sorgono innanzitutto dai pensieri del cuore: nella cultura ebraica il cuore è il luogo dell’incontro intimo con Dio. Se dunque ognuno di noi coltiva questa esperienza di incontro personale e intimo col Signore, mediante la preghiera, certamente avremo parole di gioia e di speranza. Aiuteremo anche altri ad avere un incontro fecondo e molto intenso con Dio.

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aforismi

In questa ricerca di una coerenza di base fra pensieri e parole, il Signore ci aiuta sempre. San Paolo scrive:

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«Fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» [1 Cor 5,58].

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L’apostolo richiama ogni cristiano alla perseveranza, ad avere pazienza anche nei momenti di difficoltà e di crisi e dunque quando occorre avere più stabilità. L’opera del Signore è la continua vittoria sulla morte: in questo ambito, questo va inteso oggi come replicare a tutte le mode mortifere come per esempio le droghe, la prostituzione, la promozione dell’aborto, dell’eutanasia, del “matrimonio” tra coppie delle stesso sesso e la possibilità ad esse data di adottare bambini … Al tempo stesso siamo chiamati anche a vincere insieme al Signore le proprie morti, ossia le paure, le ferite e i drammi esistenziali. Infatti, la coerenza e la perseveranza, hanno questi splendidi frutti in ognuno di noi.

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In questo cammino, la via tracciata dal Signore è molto forte e chiara: Gesù, nel Vangelo lucano tuona: «Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello» [Luca 6,42b]. Qui, al contrario della Grecia, l’ipocrita non è più l’attore che interpreta un ruolo nell’antico teatro, ma diviene colui che non ha sincerità di cuore e nei confronti di Dio ha un rapporto solamente formale e costruito su meccaniche abitudini. Al tempo di Gesù, i farisei tendevano ad essere ipocriti in questo senso: non avevano davvero conosciuto Dio, semplicemente eseguivano mnemonicamente i precetti della Legge rabbinica senza averli davvero compresi e senza che essi potessero aiutarli a vivere meglio la fede. Dunque, nel cammino di fede e di lotta alla morte, il Signore bandisce l’ipocrisia. Al tempo stesso, Dio ci chiede un continuo esercizio di umiltà, di mettersi in discussione sempre aperti alle sollecitazioni che Lui stesso ci pone davanti, soprattutto nelle circostanze concrete nella vita. Quando sapremo essere umili, saremo un po’ come humus, pronti ad essere concimati e dare frutto secondo la parola di Dio. Solo allora saremo pronti alla correzione fraterna.

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Come ha scritto John Donne:

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«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto». 

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aforismi

Ognuno di noi vivrà quel tutto come una grande fratellanza, pronti ad essere tutti fratelli nel Battesimo. Dunque in grado di accettare anche quella correzione che può infastidirci. Allora sarà la fine dell’orgoglio e l’inizio della inabitazione di tutta la Trinità nel nostro cuore, il Signore ci renda forti e perseveranti per uscire dall’isola dei nostri egoismi, guardando verso ben altre isole, compresa non ultima L’Isola di Patmos, nell’arcipelago greco, isola nota anche come Il luogo dell’ultima rivelazione, nella quale San Giovanni Apostolo, durante il suo esilio, scrisse quel grande messaggio di speranza che è l’Apocalisse, in cui narra della Donna vestita di sole e della vittoria di Cristo sul Princìpe del Male.

Così sia.

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Roma, 3 marzo 2019

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Cari Lettori,

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I blog personali dei Padri de L’Isola di Patmos

Club Theologicum

il blog di Padre Gabriele

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«Siate misericordiosi, come misericordioso è il Padre vostro, che è nei cieli», non come piace al mondo, ma come piace a Dio

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

«SIATE MISERICORDIOSI, COME MISERICORDIOSO È IL PADRE VOSTRO, CHE È NEI CIELI», NON COME PIACE AL MONDO, MA COME PIACE A DIO

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Per il mondo è misericordia, quindi cosa altamente misericordiosa concedere attraverso l’eutanasia la morte ad una persona gravemente ammalata, o ad un anziano che è semplicemente stanco di vivere, semmai perché solo ed abbandonato. Ma ciò non è misericordia bensì immane abominio, esattamente come lo è abortire, ossia uccidere un povero innocente, dopo che dalla ecografia o dalla amniocentesi è stato appurato che il nascituro è affetto da sindrome di Down e quindi non è perfetto secondo i canoni di un mondo sempre più immondo

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Laudetur Jesus Christus !

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«siate misericordiosi come il Padre vostro che è nei cieli»

Il brano lucano di questa VII domenica del tempo ordinario [cf. Lc 6,27-38, vedere testo della liturgia, QUI] potrebbe suggerirci che ci sono momenti nei quali si finisce col temere che non solo dal Santo Vangelo si tenda a prendere ciò che si vuole nel modo come si vuole, perché avendo fatto un ulteriore salto avanti, è ragionevole temere che ci si trovi dinanzi a delle autentiche falsificazioni della Parola di Dio, facendo dire ad essa ciò che Cristo Dio non ha mai detto. Molti sarebbero gli esempi, prendiamone uno solo tra i molti: «Non giudicate per non essere giudicati» [Mt 7, 1]. Vediamo in che modo è stato spesso letteralmente falsificato questo monito, basterebbe ascoltare certe omelie costruite sui sociologismi improntanti sul desiderio di piacere al mondo, per udire poi da certi pulpiti sproloqui di questo genere:

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«La Chiesa ha infine capito che non poteva continuare a giudicare e condannare come a lungo ha fatto, ma che era necessario comprendere, capire, accogliere, essere misericordiosi …».

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Commenti di questo genere sono autentiche bestemmie proferite nella Casa del Padre dal luogo in cui si annuncia la Parola di Dio. Infatti, ammonendo «Non giudicate per non essere giudicati», Cristo Signore si riferisce forse ai suoi Apostoli ed alla futura Chiesa? Chi sono, i soggetti e gli oggetti di questo ammonimento? Sono coloro — come si spiega poco avanti in questo brano evangelico —, che hanno l’abitudine di osservare «la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio» [Mt 7, 3]. Il monito è dunque rivolto agli ipocriti ed all’umana ipocrisia esercitata nelle sue varie forme, cosa questa spiegata con divina magistralità da Cristo Signore in tutto il discorso che segue [cf. Mt 7, 1-29]. Per quanto invece riguarda la Santa Chiesa di Cristo, si sappia e sia chiaro che indicare cosa è giusto e cosa sbagliato, cosa è lecito e cosa illecito, cosa è santo e cosa invece diabolico, è un dovere ed un obbligo al quale la Chiesa non può e non deve sottrarsi. O per dirla con la Parola di Dio: la Chiesa, salvo tradire in caso contrario la propria missione, ha l’obbligo di dire e di insegnare in che modo i Christi fideles debbano entrare «per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa» [Mt 7, 13]. La Chiesa non può dunque omettere di giudicare e di condannare il male in modo all’occorrenza  severo, posto che il peccato non è affatto un modo diverso di intendere o di vivere la vita, ma la negazione del dono della vita in Cristo e la conseguente e probabile possibilità di essere dannati in eterno.

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La Chiesa non può derogare quell’obbligo che ad essa deriva dal suo Divino Fondatore che l’ha voluta come mezzo e strumento di salvezza, o come sarà definita dal Concilio Vaticano II e poi dal Catechismo: «La Chiesa sacramento universale di salvezza» [Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 774]. E qui è bene fa notare che il concetto di universalità, assieme alla totalità implica la esclusività. Dio non ha mai contemplato molteplici strumenti di salvezza, come non ha mai contemplato le più disparate chiese o religioni, la Sua Chiesa è una ed una soltanto, quella affidata a Pietro ed al Collegio degli Apostoli, il tutto entro un criterio di unicità che non contempla le molteplicità. Diverso è invece il discorso legato ai mezzi ordinari di salvezza, che sono la Chiesa di Cristo ed i Sacramenti di grazia di cui essa è dispensatrice, ed i mezzi straordinari di salvezza, che sono racchiusi nel mistero del cuore di Dio che nei modi più diversi, attraverso i più disparati mezzi cosiddetti straordinari, può portare i singoli uomini alla salvezza. Mezzi straordinari che però appartengono solo a Dio e dei quali nessun uomo può avvalersi, per esempio sostenendo che la Chiesa di Cristo è solo uno dei tanti mezzi è strumenti di salvezza. No, la Chiesa ed i Sacramenti di grazia di cui essa è dispensatrice non sono uno dei tanti mezzi, ma l’unico mezzo che Cristo Signore ha fornito all’uomo ed all’umanità per essere redenta attraverso il sangue della sua croce.

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La frase sulla quale si struttura il passo del Vangelo lucano: «Siate misericordiosi, come misericordioso è il Padre vostro, che è nei cieli», si armonizza con un’altra frase dell’Antico Testamento che ci ammonisce e che ci esorta a essere «santi perché io, il Signore Dio vostro, sono Santo» [Lv 19, 2]. Il presupposto della misericordia è dunque la santità, non la mondanità. Non si è misericordiosi o caritatevoli quando si piace al mondo, bensì proprio quando non si piace al mondo. Il Santo Vangelo e le Lettere apostoliche ci insegnano infatti che la misura attraverso la quale si può misurare la nostra vera carità e la nostra vera misericordia, è quando noi non siamo affatto graditi ai figli di questo mondo:

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«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» [Gv 15, 18-19].

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E per questo nostro mondo carità e amore vuol dire concedere a due uomini di poter coronare il proprio “sogno” con un matrimonio e di acquistare poi un bambino da un utero in affitto, mentre all’esatto opposto, per la carità e per l’amore che ci rende degni figli del Padre Nostro che è nei Cieli, chi compie simili mostruosità e compromette in tal modo la vita di queste creature innocenti, forse «sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» [Mt 18, 6].

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Per il mondo è misericordia, quindi cosa altamente caritatevole concedere attraverso l’eutanasia la morte ad una persona gravemente ammalata, o ad un anziano che è semplicemente stanco di vivere, semmai perché solo ed abbandonato. Ma ciò non è misericordia bensì immane abominio, esattamente come lo è abortire, ossia uccidere un povero innocente, dopo che dalla ecografia o dalla amniocentesi è stato appurato che il nascituro è affetto da sindrome di Down e quindi non è perfetto secondo i canoni di un mondo sempre più immondo.

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Pensate a quante cose il mondo fa e seguita a fare in nome di un concetto di misericordia ormai completamente sovvertito dal grande invertitore del bene e del male, da colui che trasforma il male in bene ed il bene in male, ossia Satana. Pensateci bene: l’era moderna prende vita sotto i palchi delle ghigliottine dove al grido di libertà, uguaglianza e fraternità le persone venivano date in pasto al boia senza processo, o con dei processi sommari che erano delle farse, o perché denunciati per gelosia ed invidia sociale. Eppure, la libertà, è un alto principio cristiano, posto che essa è un presupposto della creazione stessa dell’uomo, che fu creato da Dio libero e dotato di libero arbitrio [Genesi, capp. 2-3]. Per non parlare dell’uguaglianza e della fraternità, la cui dimora naturale si trova all’interno del messaggio evangelico dove queste verità sono spiegate e trasmesse molto meglio di quanto non le abbia trasmesse Robespierre durante il regime del terrore a suon di teste decapitate in nome di una uguaglianza e di una fraternità svuotate di Cristo e riempite di neo-paganesimo.

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Anche il mondo con il suo temibile Prìncipe, da tempo si è appropriato di parole che sono termini fondanti il messaggio cristiano, svuotandole prima del loro significato e trasformandole poi in altro. A maggior ragione, oggi più che mai, bisogna capire anzitutto che cosa sia la vera misericordia, dopodiché essere «misericordiosi, come misericordioso è il Padre vostro, che è nei cieli», non come i figli del Prìncipe di questo mondo.

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Dall’Isola di Patmos, 24 febbraio 2019

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L’invito di Cristo ad accogliere il dono di quella felicità che diviene beatitudine eterna

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

L’INVITO DI CRISTO AD ACCOGLIERE IL DONO DI QUELLA FELICITÀ CHE DIVIENE BEATITUDINE ETERNA

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Le parole del filosofo francese Blaise Pascal sembrano adatte al nostro essere testimoni di beatitudine: «La felicità non è né noi, né fuori di noi: è in Dio, ossia fuori e dentro di noi».

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

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Salvador Dalì, L’annuncio, opera realizzata in occasione dell’apertura del Concilio Vaticano II

in questa VIª domenica del tempo ordinario la Liturgia della Parola ci offre il testo lucano del Vangelo delle Beatitudini [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI].

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Ci sono pagine evangeliche che sono eterne e che per questo conosciamo a memoria, eppure, ogni volta che le ascoltiamo, ci emozionano e ci donano sempre qualcosa di nuovo e spesso di inaspettato. Dio vede la nostra realtà secondo una visione di eterno presente simultaneo: per ciò, ogni volta che ci parla nella Sua Parola ispirata, nel nostro adesso quotidiano, nel nostro istante che sembra insignificante lo riempie del suo amore tenero ed eternamente vero e presente.

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Il brano delle beatitudini lucane ci ricorda innanzitutto in che cosa consiste una delle più grandi ricerche dell’uomo: la ricerca della felicità.

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Salvador Dalì, Le tentazioni di Sant’Antonio

Nella dichiarazione degli Stati Uniti d’America i padri fondatori, insieme a Thomas Jefferson, il 15 settembre 1787 dichiararono che la ricerca della felicità è una verità per sé stessa evidente. Con il linguaggio filosofico diremmo che la ricerca della felicità è un assioma, qualcosa di talmente evidente da non poter essere confutato. Questo testo ha ispirato anche un bellissimo film, che consiglio a tutti di vedere, proprio intitolato La Ricerca della Felicità, di Gabriele Muccino con Will Smith e il piccolo Jaden Smith. Il film rappresenta la storia del broker statunitense Chris Gardner, che ridotto sul lastrico a causa di una serie di imprevisti esistenziali e lavorativi, trova la forza insieme al suo piccolo figlio Christopher di rimboccarsi le maniche e ricostruire tutto. Insieme i due Gardner iniziano il loro cammino verso la felicità. Una delle frasi più belle del film è quella che papà Chris dice al piccolo Christopher:

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«Non permettere mai a nessuno di dirti che non sai fare qualcosa. Neanche a me. Ok? Se hai un sogno tu lo devi proteggere. Quando le persone non sanno fare qualcosa lo dicono a te che non la sai fare. Se vuoi qualcosa, vai e inseguila. Punto».

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Con queste beatitudini il Signore ci vuole mostrare qual è il cammino che ha preparato per noi, affinché possiamo raggiungere la felicità non semplicemente con un posto di lavoro, come accadeva a Gardner in questo film. La felicità non è il denaro: non è solo materialità ma al tempo stesso non è nemmeno astrattezza. Il Signore ci insegna infatti che la felicità è beatitudine.

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Salvador Dalì, la visione dell’Inferno concessa dalla Vergine Maria ai pastorelli di Fatima

L’invito di Gesù alla beatitudine ha un fondamento spirituale e umano al tempo stesso: innanzitutto perché è sempre il Signore che aiuta ogni uomo a vivere le singole beatitudini. In secondo luogo perché, ogni beatitudine, consiste in una condizione reale di precarietà da cui sgorga un atto d’amore concreto donato da Dio al suo credente.

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Dalla povertà materiale e spirituale, per grazia si ottiene il regno di Dio, cioè l’essere a contatto intimo con Lui in ogni momento in quanto battezzati e figli di Dio. Dalla fame dell’Amore Trinitario, il Signore ci dona la sazietà dello Spirito Santo quando siamo cresimati. Dal pianto disperato di chi ha peccato, il Signore dona il Sorriso di chi è stato perdonato nella confessione sacramentale. E infine, Gesù, si ricorda anche di coloro che sono nella lacerazione, divisione e persecuzione più profonda a causa del Suo Santo Nome. Qui Gesù si rivolge ai martiri: sia coloro che oggi perdono ancora la vita perché uccisi in odium fidei, come avvenuto di recente in Francia con l’assassinio sull’altare del padre Jacques Hamel, sia per coloro che vivono un martirio bianco perché isolati dai parenti, amici e confratelli, fino a quasi alla rimozione del legame di parentela sempre per causa del Vangelo di Gesù Cristo e per amore della Chiesa.

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Ai martiri è preparata una grande ricompensa: la visione immediata in Paradiso dell’Amore di Dio, senza doversi purificare ulteriormente, per i martiri nel Sangue. La capacità di avere uno sguardo autentico sull’amore di Dio che si fa Pane Eucaristico, per i martiri bianchi.

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Al contrario, i tre «guai» che Gesù rivolge a ricchi, sazi e color che ridono riflettono come una falsa felicità può radicarsi nell’uomo: una felicità che non viene da Dio, ma dal denaro, dalla sazietà sessuale smodata e disordinata o dall’esercizio di un potere che irride l’autorità di Dio e i suoi precetti. Quei guai mettono in guardia ancora oggi. È bene educarsi a stare lontani da questi atteggiamenti e comportamenti che ci riempiono di effimero svuotandoci dell’unico tesoro vero: la presenza di Dio.

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Salvador Dalì, L’ultima cena

La ricerca della felicità nelle beatitudini descritte da Gesù è una meta raggiungibile tutti i giorni. Nei Sacramenti, come ho già detto. Ma anche perché sappiamo essere noi coloro che annunciano la fede che non è stasi passiva, ma cammino continuo verso ciò che ci dona senso di una felicità profonda.

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Le parole del filosofo francese Blaise Pascal sembrano davvero adatte al nostro essere testimoni di beatitudine: «La felicità non è né noi, né fuori di noi: è in Dio, ossia fuori e dentro di noi».

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Quindi insieme, cari fratelli e sorelle, chiediamo al Signore di assimilare sempre di più queste parole eterne. Tutti i giorni possiamo essere alla scuola della beatitudine. Con uno sguardo contemplativo, chiediamo di trovare nel raggio di sole che illumina la nostra finestra, il segno del Signore che vuole renderci eternamente felici perché beati.

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Così sia!

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Roma, 16 febbraio 2019

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Per divenire dei veri pescatori di uomini, bisogna essere anzitutto dei veri uomini

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

PER DIVENIRE DEI VERI PESCATORI DI UOMINI, BISOGNA ESSERE ANZITUTTO DEI VERI UOMINI  

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Gettare le reti vuol dire allontanarsi dalla riva e cogliere nell’immensità. Per poter pescare gli uomini, bisogna anzitutto essere veri uomini, figli legittimi di un Dio che si fece in tutto e per tutto vero uomo e dal quale liberamente e amorosamente ci siamo lasciati pescare, per divenire così dei veri pescatori di uomini. 

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa
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Laudetur Jesus Christus !

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Immensità, opera della pittrice romana Anna Boschini [Vitarte, QUI]

La pagina del Vangelo lucano offerto da questa Vª Domenica del tempo ordinario [testo della liturgia della parola, QUI], ci richiama anzitutto al mistero di una realtà inscindibile: il Gesù della storia, vero uomo, ed il Cristo della fede,  vero Dio, espressione del mistero della natura del Redentore che è uno nella sua persona e uno nella Trinità, perché ogni azione d’incontro del vero Dio e del vero uomo con l’umanità, è un’azione di grazia della Trinità nella nostra storia, nel nostro essere presente e nel nostro divenire futuro, singolo e collettivo.

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Il Gesù uomo ci insegna anche l’arte della predicazione, che è capacità di comunicare per cercare e per vivere la vera comunione. Ce lo dimostra il Gesù storico, capace a discutere già da adolescente con i dottori del Tempio [cf. Lc 2, 41-50] che sbalorditi si chiedevano da dove attingesse costui tale sapienza. Appresso Gesù che con parole semplici, a tratti disarmanti ―  dentro le quali sono però racchiusi i pilastri della nostra fede ―  parla e fa riferimento ai bambini e ai semplici che lo ascoltano, che lo capiscono e soprattutto che lo seguono [cf. Mc 10, 13-14; Mt 18, 3-4; Mt 18,6].

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Se chi predica il Vangelo non semina e non raccoglie, se non getta le reti vuote per tirarle sulla barca piene, le cose stanno in questi termini: o è approdato in una città di cuori totalmente aridi dai quali è bene procedere oltre scuotendo la polvere dai propri sandali,[3] o è un profeta incompreso destinato al martirio più o meno bianco, oppure è un pessimo predicatore che non pratica ciò che predica.

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Il Gesù storico, giudeo tra i giudei, che nella sua perfetta natura umana era figlio di un’antica cultura — quella ebraica — fatta di simboli e immagini; in una Giudea che all’epoca aveva assimilato anche la ricchezza dei simboli e delle immagini prima greche e poi romane, per rendere efficace la sua predicazione si rivolge al popolo parlando per parabole. E come sappiamo la parabola — ossia la novella — è un simbolo, oltre il quale è racchiuso un messaggio umano, morale, etico e spirituale.

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Attenti però a un’insidia sempre in agguato: simbolico è il linguaggio, non il Dio incarnato nel ventre della Beata Vergine Maria. Gesù è una realtà umana e divina narrata attraverso i Vangeli che sono anche fonti storiche, messe assieme da testimoni oculari diretti o immediatamente diretti. Nella storicità di Gesù che parla per parabole o allegorie si racchiude il divino mistero del Cristo della fede incarnato, vissuto, morto e risorto.

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Gesù che cammina sopra le acque del lago di Tiberiade [cf. Mc 6, 45-52; Mt 14,22-32], che compie il miracolo del vino a Cana [cf. Gv 2,1-11] che moltiplica i pani e i pesci [cf. Mt 15,29-37], che guarisce i malati e che risuscita Lazzaro [cf. Gv 11, 35-44]; ma soprattutto, Gesù che il terzo giorno risuscita dalla morte, non è un insieme di simboli e di allegorie da interpretare con i criteri della moderna teologia, perché tutto questo è storico e reale. E solamente di fronte a questa reale storicità, possiamo poi procedere con criteri spirituali e con letture teologiche, non viceversa. Se infatti Gesù sia esistito soltanto nel passato o invece esiste anche nel presente, ciò dipende tutto quanto dalla sua risurrezione [cf. Antonio Maria Sicari, Viaggio nel Vangelo, Jaca Boock, pag 270].

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Nella proclamazione del Vangelo di oggi non è stata narrata un’originale novella ma un fatto reale, oltre il quale c’è il simbolo. Non è un gioco di parole ma un uso corretto delle parole nella delicata vigna del mistero della fede. Attraverso la vita terrena di Gesù nasce dalla sua concreta e palpitante realtà umana la parabola, ovvero la metafora, che è un efficace strumento comunicativo. Pensare invece che dalla metafora, o come qual si voglia dalla fiaba, nasca la tenera idea fiabesca di un Gesù da interpretare entro categorie puramente spirituali e teologiche, è un pensiero che per quanto diffuso rimane pericolosamente non cristiano, sicuramente non cattolico.

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Quel giorno Gesù salì veramente sulla barca di Simone, invitando lui e gli altri pescatori a prendere il largo e a gettare le reti, ed esaudendo la sua richiesta, Simone rispose realmente che avevano tentato invano di pescare tutta la notte senza prendere nulla, dicendo infine: «sulla tua parola getterò le reti», compiendo in tal modo un libero atto di fede.

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Qual è la sfida spirituale di questa parabola inserita in un fatto reale? Anzitutto Gesù invita Simone a lasciare la riva per spingersi al largo, allontanandosi da quella riva disseminata dalle conchiglie dei nostri limiti, delle nostre palesi mancanze di carità. Gettare le reti vuol dire allontanarsi dalla riva e cogliere nell’immensità, infine tirare in superficie quello che sin dalla notte dei tempi è racchiuso in ciascuno di noi, che è l’essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio: sarete santi perché io — il Signore vostro Dio — sono santo [cf. I Pt 1,13-21; Lv 19,2; Es 11, 45]. E quando proprio sembravamo del tutto perduti, Dio irrompe di nuovo nella storia dell’uomo in modo reale e fisico attraverso il mistero della sua incarnazione; e tramite Gesù è Dio stesso che viene di persona a ripescarci, basta solo che attraverso un atto di libera fede si accetti di spingersi al largo per gettare le reti, per essere pescati dalla sua grazia e per pescare nella sua grazia.

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È il miracolo della pesca: abbandonata la riva con Gesù, gettate le reti e pescando in profondità quegli uomini hanno fatto riemergere la propria vera immagine e somiglianza con l’Eterno Creatore ristabilendo la propria comunione con Dio e portando di lì a poco la comunione di Dio nel mondo.

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Dinanzi al miracolo dei pesci, che è miracolo della fede e dell’abbandono a Dio, Simone torna ad avere anzitutto la percezione del bene e del male, tanto da intimare a Gesù: «Allontanati da me perché io sono un peccatore». Dinanzi a quella consapevolezza, Gesù colma Simone di grazia e di implicito perdono rispondendogli: «D’ora in poi tu sarai pescatore di uomini». Affermazione che in sé sottintende: perché hai avuto la bontà di seguire la mia parola e di abbandonare la riva, per giungere al largo a ripescare te stesso e, con te stesso, recuperare il tuo Signore e Creatore, affinché potessi compiere su di te il grande miracolo della fede.

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Nella Chiesa di oggi ciò che spesso manca non sono gli uomini da pescare — che spesso vorrebbero tanto lasciarsi pescare, o che talvolta chiedono, supplicano di essere pescati — forse ciò che manca sono i bravi pescatori. Che dunque Nostro Signore Gesù Cristo, inizio centro e fine ultimo del nostro intero umanesimo, colui nel quale tutte le cose si ricapitolano, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, capo del corpo mistico che è la Chiesa …[I Ef, prologo] faccia sempre di noi saggi e santi pescatori di uomini, con la sua grazia e con il conforto e la preghiera del buon Popolo di Dio. Senza mai dimenticare che per poter pescare gli uomini, bisogna anzitutto essere veri uomini, figli legittimi di un Dio che si fece in tutto e per tutto vero uomo e dal quale liberamente e amorosamente ci siamo lasciati pescare, per divenire così veri pescatori di uomini.

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Dall’Isola di Patmos, 10 febbraio 2019

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«In Dio possiamo tutti diventare dei grandi scrittori e artisti dell’unità dell’amore»

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«IN DIO POSSIAMO TUTTI DIVENTARE I GRANDI SCRITTORI E ARTISTI DELL’UNITÀ DELL’AMORE»

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Spiegare e mostrare la nostra fede quindi non è salire in cattedra, non è riempirsi di superbia ma innanzitutto amare con un atto d’amore profondo e tenero e generare l’unione di tutti gli uomini con Dio.

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

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San Raimondo di Peñafort, patrono dei giuristi e delle facoltà di diritto canonico, che secondo la pia leggenda attraversa le acque sul suo mantello di Frate Domenicano

La Liturgia della Parola di questa III domenica del temo ordinario [cf. Ne 8, 2-4.5-6.8-10; Sal 18; 1 Cor 12,12-30; Lc 1,1-4; 4,14-21, testi leggibili, QUI], ha richiamato alla mia mente il ricordo di quando per la prima volta sono stato su una nave. Era un traghetto che portava da Napoli all’isola di Ischia. Ricordo anche la presenza di più personale di bordo: c’era il semplice marinaio, l’addetto ai passeggeri, i responsabili della cucina, il medico di bordo e infine, ovviamente, anche il capitano della nave ed i suoi assistenti. Ognuno aveva un compito ben preciso e distinto, ma tutti, allo stesso tempo, avevano un’unica finalità: condurre la nave nel porto di Ischia.

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Questo esempio di diversità e di unità è anche il tema delle letture di oggi. Nella prima lettura tratta dall’Antico Testamento abbiamo ascoltato:

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«Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo. […] I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura» [Ne  8, 4 – 6] . 

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Questo libro che viene spiegato è la Legge mosaica che gli ebrei avevano ricevuto tramite Mosè al Sinai. Dunque sia Esdra, un profeta, che i leviti, i sacerdoti rendono chiaro qualcosa che Dio aveva rivelato ma che aveva bisogno di una chiarificazione. In quel brano sappiamo anche che viene annunciato un giorno consacrato al Signore. Dunque, l’opera dei profeti e dei leviti ebrei era quasi mostrare l’esistenza di un certo tempo dedicato a Dio. Leviti e profeti, dunque, hanno un compito specifico: rendere chiaro e vivo il messaggio di Dio.

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Su questo si concentra anche la seconda lettura quando San Paolo scrivendo ai Corinzi afferma:

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«Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto»  [1 Cor 1,14]

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Ecco dunque che viene confermato ciò è il Signore stesso a volere una certa distinzione e diversità all’interno del Popolo di Dio. Dalle prime due letture impariamo anche che il Signore ci chiede di imparare al nostro posto. Saper capire quali sono i propri doni e metterli al servizio di tutta la comunità ecclesiale senza essere egoisti è l’atto di umiltà più grande. È Dio stesso infatti a chiamare ogni singola persona secondo un compito specifico: chi alla vita religiosa o sacerdotale, chi al matrimonio, come distinzione primaria.  

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L’inizio del Vangelo di Luca specifica uno dei compiti comuni che Gesù ha demandato a tutta la Chiesa. Leggiamo infatti:

 

«Gesù ritornò in Galilea […] Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode» [Lc 4,14]

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Insegnare o spiegare la parola di Dio, o appunto il contenuto della nostra fede è compito che tutti noi credenti riceviamo da Gesù. Certo, in primis noi ministri, nella omelia o nell’attività catechetica quotidiana. Ma anche i laici. In particolare chi vive la fede nel mondo, insieme ai suoi figli e alla sua famiglia, può oltre che con la spiegazione di ciò che crede, anche dare testimonianza della bellezza della fede in Dio. Una fede che è incontro vivo, tenero e reale con Gesù Cristo. In tal modo, con il chiarificare ciò che crediamo e la speranza che il Signore ci ha donato, possiamo permettere che la fede divenga amore di carità. Dunque da offrire una conoscenza di Dio passiamo a donare un amare Dio e il prossimo in modo concreto. Potremo dire insieme al Signore:

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«Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

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Così, davvero, avremo anche svelato un po’ di quel grande mistero del Dio Trinitario che ci ama, con l’autorità di un Padre, con la bellezza di un Figlio e con la maternità dello Spirito Santo. Sarà davvero la carezza più bella e intensa che potremo donare a chi amiamo, o a chi non si sente amato da nessuno.

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Spiegare e mostrare la nostra fede quindi non è salire in cattedra, non è riempirsi di superbia ma innanzitutto amare con un atto d’amore profondo e tenero e generare l’unione di tutti gli uomini con Dio. Come ha scritto il pittore Eugene Delacroix nel suo Diario, dove esprime che in Dio possiamo tutti diventare i grandi scrittori e artisti dell’unità dell’Amore:

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«Il sentimento dell’unità e il potere di realizzarlo nell’opera fanno il grande scrittore e il grande artista».

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Così sia.

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Roma, 27 gennaio 2019

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