«Amerai il tuo prossimo come te stesso». Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«AMERAI IL TUO PROSSIMO COME TE STESSO» DA QUESTI DUE COMANDAMENTI DIPENDONO TUTTA LA LEGGE E I PROFETI

Gesù andò subito oltre con la sorprendente novità che non ha riscontri nella letteratura giudaica antica: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Egli, risalendo alla volontà del Legislatore, discerne che amore di Dio e del prossimo stanno in una relazione inscindibile tra loro: l’uno non sussiste senza l’altro.

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Nel lezionario, tralasciata la discussione con i sadducei a proposito della risurrezione, si giunge, col vangelo di questa XXX Domenica del tempo ordinario, ad una nuova diatriba che si apre con Gesù interrogato dai suoi avversari, ma, ancora una volta, per metterlo alla prova.

«In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». (Mt 22,34-40)

Sono gli ultimi giorni di Gesù nella città santa di Gerusalemme, prima dell’arresto e della passione, ed egli sa che il cerchio intorno a sé si sta stringendo sempre più. Nella nostra pagina di Vangelo entrano di nuovo in scena i farisei, e tra loro un dottore della Legge, un teologo diremmo noi, un esperto delle sante Scritture, che nuovamente si rivolge a lui chiamandolo: Rabbi (Maestro, διδάσκαλε). Infatti non si era mai vista una cosa del genere, che un carpentiere si fosse messo in testa di insegnare e dare consigli sulla Torah, su come si onori Dio, su cosa sia lecito e cosa proibito. La cosa non era ben vista come attestò Ben Sira al principio del terzo secolo a.C: «Chi è libero dalla fatica diventerà saggio»1; e nei Vangeli non si parla mai di una scuola esegetica di Gesù. Le sorprendenti interpretazioni della Torah, che gli permettono di contrastare le insidie dialettiche degli avversari, non verranno replicate dai suoi discepoli. Se Gesù viene chiamato rabbi (maestro) è per la sua autorità e per la capacità di approfondire la Scrittura in modo creativo. Non è però il genere d’insegnante che formi allievi, per trasmettere loro i propri metodi esegetici. Mentre nel giudaismo rabbinico, che si affermerà dopo la distruzione del secondo Tempio nel 70, l’allievo è destinato a sostituire e, se possibile, a superare in sapienza il maestro, i discepoli di Gesù rimarranno per sempre tali, senza la possibilità di emularlo in campo intellettuale.

Proprio i rabbini avevano individuato nella Legge, la Torah, oltre le dieci parole (Es 20,2-17), ben 613 precetti, per cui la domanda posta a Gesù sembra pertinente e verteva sulla semplificazione: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Era un argomento dibattuto come testimonia questa risposta rabbinica: «Rabbi Simlaj disse:

«Sul monte Sinai a Mosè sono stati enunciati 613 comandamenti: 365 negativi, corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti al numero degli organi del corpo umano… Poi venne David, che ridusse questi comandamenti a 11, come sta scritto [nel Sal 15]… Poi venne Isaia che li ridusse a 6, come sta scritto [in Is 33,15-16]… Poi venne Michea che li ridusse a 3, come sta scritto: «Che cosa ti chiede il Signore, se di non praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio? » (Mi 6,8) … Poi venne ancora Isaia e li ridusse a 2, come sta scritto: «Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate la giustizia» (Is 56,1) … Infine venne Abacuc e ridusse i comandamenti a uno solo, come sta scritto: «Il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4)» (Talmud babilonese, Makkot, 24a).

Gesù rispose ponendo in evidenza, ancora una volta, la sua capacità di far riferimento a ciò che è fondamentale e proponendo a seguire una sorprendente novità, legando un secondo comandamento al principale, dichiarandoli simili e facendo di ambedue una corda sulla quale sta in equilibrio tutta la struttura dei rimanenti comandi, anzi l’intero complesso della Parola di Dio. Se da essa si distaccano cadono a terra. Questo è il senso del verbo kremamai ― κρέμαμαι ― del verso v.40, ovvero essere appeso, sospeso, penzolare; che è stato reso con dipendere: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Dove trovò Gesù il fondamento per giustificare la grandezza del primo comandamento? Nella preghiera, nella fattispecie quella dello Shemà (Ascolta) che apriva e chiudeva la giornata dell’ebreo religioso e in particolare quella di shabbat, il sabato:

«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua vita e con tutta la tua mente» (Dt 6,4-5). E chiosò: «Questo è il grande e primo comandamento».

Poi Gesù andò subito oltre con la sorprendente novità che non ha riscontri nella letteratura giudaica antica: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). Egli, risalendo alla volontà del Legislatore, discerne che amore di Dio e del prossimo stanno in una relazione inscindibile tra loro: l’uno non sussiste senza l’altro. Il comando di amare il prossimo è, nel Vangelo di Matteo, il testo veterotestamentario più citato: si trova anche in Mt 5,43 e 19,19. Significa che Gesù aveva insistito su questo precetto, ma anche che per Matteo era particolarmente necessario ricordarlo ai credenti in Cristo, quando questi non verranno più capiti ed accolti dalla loro stessa gente; purtroppo, anche dai loro stessi fratelli ebrei.

Non a caso nel nostro testo il secondo comandamento è definito pari ― ὁμοία ― al primo, con la stessa importanza e lo stesso peso, mentre l’evangelista Luca li unisce addirittura in un solo grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo… e il prossimo tuo» (Lc 10,27). Gesù compie così un’audace e decisiva innovazione, e lo fa con l’autorità di chi sa che non si può amare Dio senza amare le persone.

L’amore essendo un sentimento umano non si può dire che rappresenti un proprium del cristiano, lo è invece la fede in Gesù, il Cristo, Figlio del Padre che si è rivelato. E al cuore di questo processo c’è la manifestazione di Dio come amore. Come tutti sanno gli autori del Nuovo Testamento che hanno esplorato la profondità di questo mistero sono Paolo e Giovanni. Proprio quest’ultimo, in una sua lettera affermerà che «Dio è amore» (1Gv 4,8.16) e che «ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). San Paolo ci farà dono dell’inno alla carità (1Cor 13). Tutte queste parole rivolte in prima istanza ai discepoli di Gesù di ogni tempo, sono ormai il segno distintivo di chi crede in lui, tanto da far affermare allo stesso Giovanni: «Se uno dice: Io amo Dio e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21). E questo perché il riferimento sarà sempre a Gesù che pose se stesso come termine di paragone: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35); ovvero quell’amore che mette in pratica “il comandamento nuovo”, cioè ultimo e definitivo, da lui lasciatoci: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13,34; 15,12).

Per tornare all’esempio della corda sospesa il cristiano si troverà sempre a camminare su questa via sottile evitando di non sporgersi troppo da un lato perdendo l’equilibrio dell’altro. L’amore verso Dio e verso il prossimo si mantiene in costante equilibrio e l’uno e l’altro non costituiscono l’emblema di una stagione. Anche se adesso, nella Chiesa, si pone l’accento maggiormente sulla solidarietà e sull’accoglienza dei poveri e dei miseri, il cristiano sarà sempre un “uomo per tutte le stagioni”2. E secondo l’insegnamento di Gesù ci sarà sempre qualcuno che percorrendo la non sorvegliata scesa che da Gerusalemme porta a Gerico potrà correre il rischio di ritrovarsi mezzo morto: l’amore compassionevole sarà la risposta (Lc 10,25-37).

Anche Sant’Agostino sembra pensarla così:

«Enunciando i due precetti dell’amore, il Signore non ti raccomanda prima l’amore del prossimo e poi l’amore di Dio, ma mette prima Dio e poi il prossimo. Ma siccome Dio ancora non lo vedi, meriterai di vederlo amando il prossimo. Ama dunque il prossimo, e mira dentro di te la fonte da cui scaturisce l’amore del prossimo: ci vedrai, in quanto ti è possibile, Dio. Comincia dunque con l’amare il prossimo. Spezza il tuo pane con chi ha fame, e porta in casa tua chi è senza tetto; se vedi un ignudo, vestilo, e non disprezzare chi è della tua carne. Facendo così, che cosa succederà? Allora sì che quale aurora eromperà la tua luce (Is 58,7-8)La tua luce è il tuo Dio. Egli è per te luce mattutina, perché viene a te dopo la notte di questo mondo. Egli non sorge né tramonta, risplende sempre… Amando il prossimo e interessandoti di lui, tu camminerai. Quale cammino farai, se non quello che conduce al Signore Iddio, a colui che dobbiamo amare con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente? Al Signore non siamo ancora arrivati, ma il prossimo lo abbiamo sempre con noi. Porta dunque colui assieme al quale cammini, per giungere a Colui con il quale desideri rimanere per sempre»3.

dall’Eremo, 29 ottobre 2023

NOTE

1 [Contadini, fabbri, vasai, e tutti i lavoratori manuali che si affaticano giorno e notte per un compenso] «Senza di loro non si costruisce una città, nessuno potrebbe soggiornarvi o circolarvi. Ma essi non sono ricercati per il consiglio del popolo nell’assemblea non hanno un posto speciale, non siedono sul seggio del giudice e non conoscono le disposizioni della legge. Non fanno brillare né l’istruzione né il diritto,
non compaiono tra gli autori di proverbi, ma essi consolidano la costruzione del mondo,e il mestiere che fanno è la loro preghiera» (Sir 38,24. 33-34)

2 Sylvester R. S., The “Man for All Seasons” Again: Robert Whittington’s Verses to Sir Thomas More, Huntington Library Quarterly, Vol. 26, nr 2,1963, pp. 147-154. 

3 Agostino d’Ippona, Commento al Vangelo di san Giovanni, Omelia 17, 7-9 (vedere QUI

 

 

 

Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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