Quando l’anfibologo onirico autore del “Codice Katzinger” s’occupava di “katz und matz” e cercava di stuzzicare i pruriti celebrando i vent’anni del Viagra …

QUANDO L’ANFIBOLOGO ONIRICO AUTORE DEL CODICE KATZINGER S’OCCUPAVA DI CATZ UND MATZ E CERCAVA DI STUZZICARE I PRURITI CELEBRANDO I VENT’ANNI DEL VIAGRA …

Bei tempi, quando tirava più un pelo di donna anziché il ridicolo Codice Katzinger di un personaggio patetico che pur di far notizia e cassetta non fa distinzione tra il ventennale del Viagra e i venti secoli di storia Papato!

Sorridendo su ciò che non è serio ma vorrebbe esserlo — 

 

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Travolti dal caldo che in quest’estate ci avvolge, i Padri de L’Isola di Patmos hanno affidato alla mia penna il dono di un fresco sorriso col quale rendere omaggio ai nostri Lettori, ribadendo per inciso che come presbiteri noi siamo chiamati a essere persone serie e non seriose. Tra il serio e il serioso corre infatti la differenza che passa tra un uomo sincero e un uomo ipocrita.

L’uomo italiano non è più quello di una volta, quando per una gonnella perdeva il lume della ragione. E dinanzi a certe situazioni attuali possiamo solo dire … bei tempi furono quelli! Oggi, il lume della ragione, molti lo perdono dietro a complotti o improbabili codici criptici di Sommi Pontefici che hanno fatto false rinunce al pontificato, per seguire con non meglio precisate anfibologie smerciate da qualche piazzista …

Anziché testosterone certi uomini italiani sprizzano fobie fantascientifiche, sovente pure di stampo pseudo-religioso. Non più quindi con la bava alla bocca come avveniva in passato, a parlare delle indimenticabili prestazioni da Mille e una Notte che offrirebbero a certe belle donne; oggi, con le bocche, sbavano concitati per parlare di munus e ministerium pontificio, eccitandosi molto più di quanto non si ecciterebbero dinanzi a una bellissima fotomodella messa sulla copertina di un mensile erotico.

E fu così che un certo giornalista ― la cui onestà intellettuale è pari a quella di una volpe che entra dentro un pollaio vestita da monaca carmelitana a predicare il digiuno penitenziale ―, ha capito che il saggio proverbio popolare si era tragicamente invertito. Dicevano infatti i nostri saggi anziani:

«Tira più un pelo di donna che un carro di buoi».

Ecco perché il nostro, in data 6 febbraio 2019, cercò di suscitar pruriti con l’apologia storica degli antenati del Viagra firmando sul quotidiano Il Secolo XIX questo articolo:

«Gli antenati del Viagra. Storia millenaria degli afrodisiaci, dagli antichi romani alle parole in chat» (vedere articolo QUI).

Può essere che lavorando a questo articolo abbia finito con lo scoprire che se il Viagra esiste è proprio perché il pelo di donna tira sempre di meno, il carro è sempre più stanco e i buoi che lo trainano sempre più cornuti. E come per magia ecco che decise di trasformarsi da improbabile storico della urologia e dell’andrologia in un canonista, ecclesiologo e storico della Chiesa più improbabile ancóra, confezionando un genere di pelo e di prurito che oggi tira più che mai, forse anche a livello compensativo, perché molti uomini sembrano supplire alla loro naturale carenza di libido eccitandosi con complotti incentrati su falsi papi che governano false chiese dopo che il loro predecessore aveva falsamente rinunciato al sacro soglio per inaugurare una fantastica “sede impedita” (!?).

A noi preti mancano terribilmente quegli uomini che si lasciavano tirare più da un pelo di donna che da un carro di buoi. Per noi confessori, poi, era un piacere e una grande azione di grazia assolvere un esercito di lussuriosi, dietro ai quali, bene non dimenticarlo mai, c’erano altrettante e numerose lussuriose, perché gli uomini non facevano da soli, in tal caso sarebbe stata solo masturbazione. Pertanto, quando certe donne piangenti, gementi e afflitte nel loro vittimismo parlano della piaga dei fedifraghi indicandoli come puttanieri, con la dovuta onestà dovrebbero ricordare e ammettere che dietro a ogni puttaniere c’è sempre e di necessità una puttaniera, a meno che, come dicevamo poc’anzi, l’uomo non faccia da solo, il tal caso non sarebbe però tradimento ma tutt’altra cosa e ben diversa pratica e attività sessuale.

Oggi, gli psico-impotenti nel cervello al seguito di cani idrofobi sciolti per Carini e di anfibologi autori di codici criptici da de-codificare, sono ben lungi dal venire a confessarsi, perché più fanno scempio immane della Chiesa e del Papato, più fingono di sentirsi nel giusto.

Bei tempi, quando tirava più un pelo di donna anziché il ridicolo Codice Katzinger di un personaggio patetico che pur di far notizia e cassetta non fa distinzione tra il ventennale del Viagra e i venti secoli di storia Papato!

Buona estate a tutti.

Dall’Isola di Patmos, 31 luglio 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Maria Maddalena «La apostola degli apostoli», da una meditazione mattutina per le Carmelitane scalze

MARIA MADDALENA, LA «APOSTOLA DEGLI APOSTOLI», DA UNA MEDITAZIONE MATTUTINA PER LE CARMELITANE SCALZE

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Tenerissimo rimane nei secoli il quesito di Maria di Magdala, che spaurita dinanzi al sepolcro vuoto geme addolorata: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». E, detto questo, poco dopo si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi, alle sue spalle; ma la sua ragione non sapeva che era Gesù; fu però quella stessa ragione che la portò sùbito a compiere il salto della fede dinanzi al celeste corpo di luce del Risorto, che ella riconobbe dalla sua voce che pronunciò il suo nome: «Maria!».

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Meditazione sulla figura di Maria di Magdala offerta alle Carmelitane Scalze nella mattina odierna.

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Nella festa di oggi la Chiesa universale celebra la memoria liturgica di Santa Maria Maddalena, una figura femminile straordinaria nell’esperienza cristologica che ci richiama al Beato Apostolo Paolo che, rivolgendosi agli abitanti di Corinto, chiarisce in poche e brevi parole il fondamento della nostra fede:

«Se Cristo non fosse veramente risorto, vana sarebbe la nostra fede e vana la nostra speranza» (I Cor, 15).

Dinanzi al sepolcro vuoto di Cristo risorto, il legame tra ragione e fede, più che stretto è inscindibile. Perché con la ragione si arriva alla pietra rovesciata del sepolcro di Cristo Dio, con la fede si entra nell’eterno mistero del Risorto.

Monica Bellucci nel ruolo di Maddalena nel film The Passion, 2004.

Sulle parole del Beato Apostolo Paolo, che nella risurrezione del Cristo ci indica il mistero dei misteri sul quale la nostra fede può reggersi o morire, sorge razionale la domanda: ma che cosa è la fede? E non uso certo a caso la parola “razionale”, perché il rapporto tra ratio e fides, ragione e fede, è messo in luce da tre Santi Padri e dottori della Chiesa che costituiscono le colonne della speculazione teologica: Sant’Agostino vescovo d’Ippona, Sant’Anselmo d’Aosta prima Abate de Le Bec e poi Arcivescovo di Canterbury,  San Tommaso d’Aquino.

La costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II, Dei Verbum, riprende quasi alla lettera il testo della costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I, ribadendo in una linea di continuità con il precedente magistero e col Concilio di Trento il «Rapporto tra fede e ragione» espresso con queste parole:

«La medesima Santa Madre Chiesa professa ed insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di Lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (cf. Rm 1,20) [1]».

A un secolo circa di distanza dal Vaticano I, seguendo l’insegnamento dell’Aquinate il Santo Pontefice Giovanni Paolo II ci donò la sua enciclica sulla fede e la ragione, la Fides et Ratio.

Al grande quesito “cos’è la fede”, che in noi risuona grazie al dono divino della ragione, l’Autore della Lettera agli Ebrei fornisce risposta dicendo: 

«la fede è certezza di cose che si sperano e dimostrazione di realtà che non si vedono» (Eb 11, 1).

Per aprirsi alla fede, che è al tempo stesso «certezza » e «speranza», è necessario proiettarci in una dimensione di eternità, perché la fonte della fede è l’Eterno.

Il Servo di Dio Anastasio Ballestrero soleva dire che «La vita presente è spazio di beatitudine nella misura in cui si radica in essa l’eternità».

Questo racconto della risurrezione del Cristo, col quale si conclude l’intero Vangelo del Beato Apostolo Giovanni, si colloca nell’Eterno come porta aperta sulla via verso l’ἔσχατον, il giorno glorioso nel quale Cristo tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti. E tutto questo è una sfida all’umana ragione per indurre l’uomo al grande passo della fede.

Il Beato Evangelista seguita a narrare che mentre i due discepoli tornavano a casa, Maria rimase piangente all’esterno del sepolcro:

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?” Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e dì loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto (Gv 20,1-2 e 11-18).

Durante i sacri riti della Pasqua di risurrezione cantiamo un’antica sequenza di rara bellezza il Victimae Paschalis, di cui una strofa recita: Mors et vita duello conflixere mirando ... (la morte e la vita si affronteranno in un prodigioso duello). E da questo duello n’è uscita sconfitta la morte, perché la risurrezione del Cristo è un’esplosione di amore vitale senza inizio e senza fine che ci riporta alla dimensione eterna della nostra originaria esistenza nell’antico Giardino di Eden, perché con Cristo tutti siamo morti al peccato e con Lui tutti siamo risorti. Come infatti tutti siamo stati coinvolti nel peccato di Adamo, tutti siamo stati coinvolti e resi partecipi della risurrezione redentrice del Cristo.

La morte ci tocca sempre in modo doloroso, specie quando ci priva di affetti preziosi, ce lo dimostra Maria Maddalena col suo tenero lamento. Ma per quanto dolorosa, la morte non ci tocca per sempre, ci coglie per un momento di passaggio verso l’eternità, come proclamiamo nella nostra professione di fede:

«… credo nella risurrezione dei morti e nella vita del mondo che verrà».

E ancora, in modo diverso ma simile, lo proclamiamo durante la Santa Messa sulle Santissime Specie Eucaristiche di Cristo presente vivo e vero col Suo corpo, il Suo sangue la Sua anima e la Sua divinità, acclamando:

«Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta».

Per capire cosa Maddalena stesse provando in cuor proprio in quel momento, potrebbe esserci di aiuto San Giovanni della Croce, che come tutti i veri mistici viveva coi piedi saldi a terra, perché è dalla Gerusalemme terrena che siamo chiamati a proiettarci verso l’eterna Gerusalemme celeste. Rifacendosi al Beato Apostolo Paolo (cfr. Rm 14, 3) egli esorta:

«Chi agisce secondo la ragione è come colui che si nutre di cibi sostanziosi; chi invece si muove dietro al gusto della volontà è come chi si nutre di frutta fradicia»[2].

Per questo, a soli 49 anni, giunto alla pienezza in Cristo dopo avere volato sulle «due ali»[3] della fede e della ragione, San Giovanni della Croce accolse la morte calato nella spirituale coerenza che pochi anni prima lo portò a scrivere nella sua celebre poesia «Rompi la tela ormai al dolce incontro»[4]. E quella che egli raffigurò come «tela», era la raffigurazione mistico-poetica dell’ultimo strappo attraverso il quale, passando per la pietra rovesciata del sepolcro vuoto del Risorto, si giunge alla contemplazione del Divino Agnello Vittorioso che trionfa sulla morte e che attraverso il mistero della sua risurrezione ci coinvolge nell’eternità; e chi è riuscito ad assaporare l’eterno, dirà assieme al Beato Apostolo Paolo: «Per me vivere è Cristo e morire un guadagno» (I Fil 1, 21).   

Tenerissimo rimane nei secoli il quesito di Maria di Magdala, che spaurita dinanzi al sepolcro vuoto geme addolorata:

«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

E, detto questo, poco dopo si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi, alle sue spalle; ma la sua ragione non sapeva che era Gesù; fu però quella stessa ragione che la portò sùbito a compiere il salto della fede dinanzi al celeste corpo di luce del Risorto, che ella riconobbe dalla sua voce che pronunciò il suo nome: «Maria!».

Se distogliamo il nostro sguardo impaurito dalla pietra rovesciata dei nostri sepolcri vuoti, scopriremo quanto l’amore dell’Eterno va oltre la morte, basta che ci voltiamo indietro; e giorno per giorno scopriremo che l’alpha e l’omega, il Verbo di Dio, è alle nostre spalle, a chiamarci per nome, perché tutti noi siamo nel divino cuore del grande mistero del Padre, che ci ha voluti, amati e chiamati per nome prima ancora dell’inizio dei tempi.

Maria di Màgdala è donna che cerca l’amato del suo cuore, ed a lei la Chiesa, in questa liturgia della Parola, rivolge le parole del Libro del Cantico dei Cantici nel quale è rivelato l’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per il suo Dio:

«… ho cercato l’amore dell’anima mia […] trovai l’amore dell’anima mia».

Tra il II e il III secolo Sant’Ippolito di Roma[5] la definisce «l’Apostola degli Apostoli». Ella è infatti la prima a vedere Cristo risorto, secondo il racconto del Beato Evangelista Giovanni. E dopo averlo riconosciuto è corsa a dirlo agli undici Apostoli, nascosti e sconvolti da ciò che avevano visto pochi giorni prima sul Golgota. E da questo episodio si comprende quanto venerabile sia la figura della Maddalena, inviata da Cristo ad annunciare la sua risurrezione a quegli intimoriti che pochi giorni prima, durante l’Ultima Cena, aveva istituiti sacerdoti della Nuova Alleanza; gli stessi che pochi giorni prima, come narra un passo drammatico del Vangelo: «E tutti i discepoli, abbandonatolo, fuggirono» (cfr. Mt 26, 56). E il primo degli Apostoli, rivestito da Cristo Dio di una funzione vicaria e da Egli definito come roccia edificante della sua Chiesa (cfr. Mt 16, 13-20), dinanzi allo scenario sconvolgente della cattura e della condanna del Divino Maestro, non disse, come disse sul monte Athos durante la trasfigurazione di Cristo «… rimaniamo qui», anzi «facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia» (cfr.  Mc 9, 2-8). Dopo che Cristo ebbe sudato sangue nell’orto degli ulivi andando poco dopo incontro alla sua dolorosa passione, Pietro lo rinnegò per tre volte. E anche l’abbandono di Dio da parte dei suoi apostoli e sacerdoti, fa parte, da sempre, del mistero della Chiesa; fa parte, da sempre, del mistero della fede. Per prendere infatti la nostra croce e seguirlo (cfr.  Mc 8, 27-35), non basta la sola ragione, perché occorre fare attraverso la ragione il salto della fede. Solo così potremo riconoscere il Risorto che alle spalle ci chiama per nome, perché tutti, siamo chiamati a essere Maria. E, come Maria, essere annunciatori della sua Risurrezione.

dall’Isola di Patmos, 22 luglio 2024

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NOTE 

[1] Concilio Vaticano I: Denz. -Schönm., 3004; cf 3026

[2] San Giovanni della Croce, da Le orazioni dell’anima innamorata, n. 43.

[3] Cf. San Giovanni Paolo II, Fides et Ratio, preambolo introduttivo.

[4] San Giovanni della Croce, da O fiamma di amor viva.

[5] Ippolito Romano [170-235 d.C], teologo e presbitero. Fu il primo antipapa della storia della Chiesa, morì riconciliato con il legittimo Pontefice Ponziano, assieme al quale morì in Sardegna dopo essere stato condannato ad metalla (ai lavori forzati) da Massimino il Trace.

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Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

VENITE IN DISPARTE, IN UN LUOGO SOLITARIO, E RIPOSATEVI UN PO’

Il Signore non vuole che si sentano protagonisti esclusivi del bene che hanno compiuto, cedendo al rischio di appropriarsi di quanto hanno realizzato. Ricordiamo infatti che gli apostoli sono stati chiamati e inviati e il potere che a loro è stato conferito proveniva da Gesù, dalla sua autorità.

 

 

 

 

 

 

 

 

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La porzione di testo evangelico scelto per la Liturgia di questa XVI Domenica del Tempo Ordinario salta a piè pari tutta la narrazione della morte di Giovanni il Battista (Mc 6,17-29), che, nell’opera marciana, segue il Vangelo di domenica scorsa, dove viene descritta diffusamente e con dovizia di particolari. In effetti, stando al racconto di Marco, sia Gesù che i discepoli sembrano non accorgersi della morte del Battista. Cosa che non succede naturalmente ai discepoli di Giovanni che ne raccolgono e seppelliscono il cadavere. Così pure Matteo deve aver percepito questa discrepanza e infatti nella sua opera stabilisce un collegamento tra la morte di Giovanni e Gesù che decide di andare in disparte con i suoi, poiché scrive:

«I discepoli [del Battista] andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù. Udito ciò, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguì a piedi dalle città. Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati» (Mt 14,12-14).

Vincent van Gogh, Mezzogiorno, riposo dal lavoro, 1890, Parigi, Musée d’Orsay

Se nella versione di Matteo si può evincere che Gesù si ritira in un luogo solitario per poter riflettere sulla morte del suo antico maestro, noi, invece, seguendo Marco, possiamo cercare altre ragioni all’invito di Gesù: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’» (Mc 6,31). Ricordiamo anche che per Marco il racconto della morte di Giovanni voluta da Erode parte dalla constatazione di quest’ultimo su Gesù: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!» (Mc 6, 16). Ecco la pericope inserita nella Liturgia della Parola:

«In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,30-34).

Nel desiderio di Gesù di ascoltare il resoconto degli apostoli e nella voglia che essi hanno di riferire quanto hanno «fatto e insegnato» (Mc 6, 30) troviamo il motivo per cui Egli li invita in disparte. Il Signore non vuole che si sentano protagonisti esclusivi del bene che hanno compiuto, cedendo al rischio di appropriarsi di quanto hanno realizzato. Ricordiamo infatti che gli apostoli sono stati chiamati e inviati e il potere che a loro è stato conferito proveniva da Gesù, dalla sua autorità. Questa evidenza getta un anticipato sguardo su quelle che saranno le dinamiche della missione post pasquale e che riguardano la Chiesa di ogni tempo. Da parte dei missionari, gli Apostoli come ogni altro annunciatore del Vangelo, viene messo un grande impegno ed un forte entusiasmo, ma il risultato è garantito dalla forza della Parola che ha in sé una potenza che oltrepassa anche chi la annuncia (Rom 1,16). La tentazione è sempre quella, che gli inviati si percepiscano come gli artefici del successo e che la buona riuscita sia solo opera loro. Gesù insegnerà ai discepoli, ce lo ricorda l’evangelista Luca, che:

«Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).

Gesù, invitando i Dodici a riposarsi con lui, li invita anche a distaccarsi da quanto hanno fatto e insegnato. In questo senso comprendiamo anche il tema del riposo e ciò che seguirà dopo. Oltre che essere un segno di attenzione umana, come quella che Gesù aveva avuto nei confronti della figlia di Giairo riportata in vita, invitando gli astanti a darle da mangiare (Mc 5,43), il riposo in tutta la Scrittura ha anche un significato teologico. Si va dal riposo di Dio al termine dell’opera creata, alla ripresa dello stesso nello scritto della Lettera agli Ebrei:

«Chi infatti è entrato nel riposo di lui, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie. Affrettiamoci dunque a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza» (Eb 4,10-11).

Anche nel Vangelo di Matteo troviamo un invito al riposo: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Il riposo dei discepoli, oltre che avere una valenza umanissima, ricorda molto la consapevolezza spirituale che il salmista aveva cantato:

«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia, mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome» (Sal 23).

A questo punto si capisce che se da un lato viene richiesta la presa di distanza dall’opera compiuta, superando quella umana tentazione di sentirsene custodi e padroni per tutto l’impegno che vi è stato profuso, dall’altra il riposo fa gustare ciò che è essenziale e che corrisponde al primo motivo per cui i Dodici furono scelti: «Ne costituì Dodici, che chiamò apostoli, perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Lo «stare con lui» richiama alla memoria quell’episodio evangelico, riportato da Luca, che vede contrapposte l’operosa Marta e l’oziosa Maria che rimane vicina a Gesù per ascoltarlo. Le due sorelle, a torto o a proposito, sono state prese a modello della vita attiva o della contemplativa:

«Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10, 41-42).

Ciò che segue è importante, perché costituisce una buona introduzione a quel che verrà dopo, sia nel Vangelo che nel Lezionario liturgico: il racconto della «Moltiplicazione dei pani» impegnerà infatti le domeniche dell’anno liturgico dalla prossima, la diciassettesima, fino alla ventesima. Un racconto decisivo che ritroviamo anche nell’intero capitolo sesto di Giovanni e che ci aiuterà a capire, attraverso il segno del pane, chi è Gesù e quale dono offre. Il fatto che la Chiesa ancora oggi continui a donare quel pane, in diverse maniere, ci fa capire quanto ciò sia importante per la fede e per la vita dei cristiani. Quindi Gesù coi discepoli «andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte», ma il narratore aggiunge che «molti li videro partire e capirono e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero» (Mc 6,33). Il lettore in questo modo non è stupito quando, sbarcato, Gesù si rende conto che il luogo in cui si è recato non è per niente in disparte, ma anzi è più che mai popolato. Il lettore, preparato dall’abile narrazione marciana, si chiede: «Come reagirà Gesù?». E la risposta è presto data, vista la numerosa folla: «Ne provò compassione perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34). Dietro a quel provare compassione vi è il comprendere la sete profonda di Parola di Dio, di Vangelo, che ha spinto quelle persone a precedere a piedi sull’altra riva l’imbarcazione con Gesù e i discepoli. Erano «pecore senza pastore».

Nell’Antico Testamento questa espressione ricorre diverse volte per indicare un popolo sbandato per mancanza di capi o a causa di cattivi dirigenti (Nm 27,17; 1Re 22,17; 2Cr 18,16; Gdt 11,19). Possiamo però pensare anche ad un velato riferimento alla morte di Giovanni Battista; Gesù sente di dover continuare il suo ministero perché le folle che ugualmente accorrevano da Giovanni non si trovino abbandonate (Mc 1,5). Il desiderio disatteso, il riposo frustrato, viene così colto non come problema ma come occasione. Il progetto di riposo viene accantonato per andare incontro al bisogno delle folle. Ma come abbiamo letto non è certo un’etica del dovere che porta Gesù a questa scelta, bensì la compassione. Il riposo può attendere se urge un servizio tanto necessario quanto richiesto e verranno altri momenti per ritirarsi in luoghi appartati e riposare coi suoi discepoli.

La compassione è l’origine e il fondamento dell’azione di Gesù, perciò «si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34). Come si era accorto del bisogno di riposo dei Dodici ora vede la fame di Parola delle genti che lo cercano. Non ne prova fastidio o si innervosisce, ma immediatamente inizia a predicare e ad annunciare il Vangelo. Accetta di mutare il proprio progetto, perché la compassione che prova Gesù è più di un sentimento di pietà o commiserazione, piuttosto un portare l’altro dentro di sé, accoglierlo profondamente. Così come Egli aveva accolto il progetto del Padre:

«Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare» (Gv 17, 3-4). 

Manzoni nel suo romanzo «I promessi sposi» da una lettura di cosa sia la compassione, i suoi effetti e cosa la provoca da un punto di vista religioso. Nel capitolo ventunesimo dell’opera riferisce il dialogo fra il Nibbio e l’Innominato che gli aveva ordinato il rapimento di Lucia: 

«…M’ha fatto troppa compassione». «Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione?». «Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo». «Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione». «O signore illustrissimo! tanto tempo…! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole…».

Che cosa aveva fatto la rapita se non chiedere il perché della violenza, implorare il rilascio e provare tutti i sentimenti e i moti dell’animo che si possono vivere in tali circostanze? Manzoni dopo averli descritti e accertata l’impotenza di arginare la dura contingenza così dice nel romanzo: «Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini…» (Cap. XX).

Dall’Eremo, 21 luglio 2024

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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«Fatti più in là, così vicino mi fai turbar …» Se un prete toglie il crocifisso dal centro dell’altare affinché non copra la “centralità” del celebrante-protagonista, vuol dire che siamo giunti al capolinea

«FATTI PIÙ IN LÀ, COSÌ VICINO MI FAI TURBAR …» SE UN PRETE TOGLIE IL CROCIFISSO DAL CENTRO DELL’ALTARE AFFINCHÈ NON COPRA LA “CENTRALITÀ” DEL CELEBRANTE-PROTAGONISTA, VUOL DIRE CHE SIAMO GIUNTI AL CAPOLINEA     

Che dire se circolano video nei quali si vedono sacerdoti e perfino vescovi salire all’altare e rimuovere il crocifisso da sopra lo stesso perché evidentemente toglie visibilità, occupa lo spazio che poco dopo si prenderà il celebrante, brandendo talvolta mostruosi microfoni che, quelli si, possono benissimo rimanere dove sono?

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Autore
Simone Pifizzi

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Ciò che è strano e bizzarro di solito fa breccia sui social, perché aumenta a dismisura le visualizzazioni e attira i commenti della gente. Nessun ambito umano può ritenersi alieno da quest’ansia di ricerca del particolare, dal ridicolo fino al mostruoso, perfino quello religioso. 

Alcuni eventi davvero strani avvenuti nelle chiese hanno trovato fortuna sulle diverse più famose e usate piattaforme. Dal prete che canta dall’altare una canzone in voga o ne fa lo sfondo per piccoli risibili video, agli abiti sconvolgenti di alcuni sposi, a certe eccessive benedizioni con l’acqua santa. Qualcuno usa i social anche per stigmatizzare questi comportamenti che accadono nelle chiese o quei gesti che rasentano l’abuso sia del luogo, perché non consoni, che della liturgia usata a piacimento. Il mondo è diventato un gran palcoscenico e purtroppo anche i religiosi pensano che vi si possa salire sfruttando lo spazio dell’aula di una chiesa o di un presbiterio. È di pochi giorni fa la notizia di una stilista che ha disegnato un più che trasparente abito da sposa per un matrimonio in chiesa e non è mancato chi ha potuto commentare: «Una chiesa è solo un edificio, può indossare quello che vuole»  (QUI).

Che dire però se circolano video nei quali si vedono sacerdoti e perfino vescovi salire all’altare e rimuovere il crocifisso da sopra lo stesso perché evidentemente toglie visibilità, occupa lo spazio che poco dopo si prenderà il celebrante, brandendo talvolta mostruosi microfoni che, quelli si, possono benissimo rimanere dove sono?

Il Vescovo di Arezzo-Cortona-Sansepolcro

Un presbitero dell’Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno

Le bizzarrie del nostro tempo che intersecano anche il mondo religioso e come si vive e celebra la liturgia ci da il «La» per ricordare che i presbiteri non sono i padroni indiscussi delle celebrazioni e che in verità stanno agendo per un servizio che veicola un mistero più grande e profondo. A tal proposito mi vorrei soffermare proprio sull’altare perché alcune bizzarrie e storture sono avvenute lì, per mano di qualche celebrante o solerte “operatore pastorale”, per non parlare dei cosiddetti “animatori liturgici” che pensano di poter agire a loro piacimento o più probabilmente dimenticano che l’altare non è un arredo qualsiasi, un posto dove poggiare cose alla rinfusa.

Tanto per mettere subito le cose in chiaro, nel rito di dedicazione dell’altare si dice che:

«con l’unzione del Crisma [esso] diventa simbolo di Cristo, che fu detto Unto più degnamente di tutti; il Padre infatti lo unse con lo Spirito Santo e lo costituì Sommo Sacerdote, che offrisse il sacrificio della vita per la salvezza di tutti sull’altare del proprio corpo» (Ordo dedicationis Ecclesiae et Altaris, IV/22).

L’altare dunque è simbolo di Cristo e questa dottrina è tradizionale. Sant’Ambrogio l’ha ricordata più volte:

«Cos’è l’altare, se non il segno del corpo di Cristo?» (Quid est enim altare, nisi forma corporis Christi?), (Comm. in Cant. I,6: PL 15,1855; De sacram., V, 2, 7; cfr IV, 2, 7: PL 16, 447. 437).

Le vicende storiche che riguardano la presenza degli altari nelle chiese sono antiche e complesse e naturalmente esulano da questo modesto contributo. Si potrebbe cominciare dall’altare fisso che inizia a comparire nelle basiliche del IV secolo, fino all’adozione dell’altare lapideo per il quale non fu estraneo il simbolo biblico di Cristo «pietra angolare dell’edificio spirituale» (cfr. Sal 118, 22Mt 21, 42At 4, 111Cor 10, 41Pt 2, 4-8). Si potrebbe citare l’uso antico di celebrare l’Eucaristia sulle tombe dei martiri che trovò concreta traduzione nella costruzione di altari sopra i sepolcri degli stessi, come pure della traslazione delle loro reliquie sotto gli altari delle nuove basiliche. Al riguardo sempre sant’Ambrogio scrive: «Nel luogo in cui Cristo è vittima, vi siano anche le vittime trionfali. Sopra l’altare lui, che è morto per tutti; questi, redenti dalla sua passione, sotto l’altare» (Epistula 22, 13: pl 16, 1023).

Tra tutti i luoghi che sono presenti in una chiesa solo l’altare conosce un rito di dedicazione, a sottolinearne l’eccellenza:

«L’altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore, alla quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare quando è convocato per la Santa Messa; l’altare è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’Eucaristia» (Institutio generalis Missalis Romani, 296).

Anche il Sommo Pontefice lo ha ricordato: «Verso l’altare si orienta lo sguardo degli oranti, sacerdote e fedeli, convocati per la santa assemblea intorno ad esso» (Discorso del 24 agosto 2017).

L’importanza dell’altare è ricordata naturalmente anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica:

«L’altare, attorno al quale la Chiesa è riunita nella celebrazione dell’Eucaristia, rappresenta i due aspetti di uno stesso mistero: l’altare del sacrificio e la mensa del Signore, e tanto più in quanto l’altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso, presente sia come vittima offerta per la nostra riconciliazione, sia come alimento celeste che si dona a noi» (n. 1383).

Per tali motivi la riforma liturgica risalendo la tradizione cristiana antica ha voluto che nelle chiese si costruisse un solo altare, staccato dalla parete per potervi girare attorno e celebrare verso il popolo, collocato in modo da attirare l’attenzione. Che fosse normalmente fisso e dedicato, con la mensa di pietra, ma non è esclusa altra materia degna, solida e ben lavorata. E sotto l’altare si possono porre reliquie di santi; che fosse coperto da una tovaglia e sopra o accanto a esso vi siano una croce e i candelieri (Institutio generalis Missalis Romani, 298-308).

La venerazione per l’altare ― che infatti si bacia, si incensa e davanti a esso ci si inchina ― è motivata dal suo legame col sacrificio di Cristo, al quale, nel Sacramento, si associa il sacrificio della Chiesa orante. Su di esso viene deposta l’offerta spirituale dei fedeli, significata nel pane e nel vino, perché lo Spirito Santo, per il ministero del sacerdote, li renda sacramento del Corpo e Sangue di Cristo, così che quanti se ne nutrono diventino un solo corpo in Cristo, a lode di Dio Padre. Lo esprime bene la preghiera del prefazio nella messa di dedicazione: «Intorno a quest’altare ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio per formare la tua Chiesa una e santa».

Ed è proprio l’unicità del sacrificio redentore, sul Calvario e nell’Eucaristia, da parte di Cristo sacerdote e vittima, che ha portato la riforma liturgica conciliare a stabilire che in una stessa chiesa non si celebrino contemporaneamente più Messe e che nelle nuove chiese l’altare fisso sia uno solo. È chiara l’intenzione di educare il popolo cristiano con questa prassi e con questo segno, l’altare, il quale «rappresenta (significat) in modo evidente e permanente Cristo Gesù, Pietra viva, e rappresenta in mezzo all’assemblea dei fedeli l’unico Cristo e l’unica Eucaristia della Chiesa» (Institutio generalis Missalis Romani, nn. 298, 303).

Il Concilio Vaticano II si chiuse nel 1965, eppure su questo aspetto, come su altri del resto, la sensibilità di quei Padri che celebrarono l’importante assise e quella dei molti documenti che ne seguirono non sembra purtroppo acquisita o recuperata da tutti. Nel 2002, per fare un esempio, la Santa Sede, ovvero la Congregazione per il Culto Divino, è dovuta intervenire per dichiarare «illecito» celebrare la Messa di Prima Comunione su un altare provvisorio in mezzo alla chiesa con l’ingenua intenzione di «evocare l’Ultima Cena», poiché inutile doppione del «segno già presente»; gesto atto a confondere il popolo distraendolo dall’essenziale. Ma anche ai nostri giorni in alcune Parrocchie, talvolta davanti l’altare, qualcuno pone un tavolo con sopra i simboli della Pasqua ebraica, ingenerando così una totale confusione liturgica e teologica, anche se l’intento sarebbe invece il contrario. Non è inconsueto che l’altare diventi un supporto per cartelloni esplicativi, per esempio di un particolare tempo liturgico e al di sotto vi si ponga di tutto, dal Presepe in tempo di Natale alle varie offerte, talvolta curiose, in alcune celebrazioni. Una volta ho visto un povero agnellino costretto a stare tutto il tempo dentro una cesta sotto l’altare mentre probabilmente avrebbe preferito brucare in un prato. Ad un certo punto si mise a belare, creando ilarità nei presenti all’Eucarestia. E sopra vi si pone di tutto un po’ e forse proprio per questo, come sopra ricordato, qualche celebrante non trova niente di meglio che levare la Croce, ritenendola probabilmente una ridondante suppellettile, mentre invece è prevista e lì collocata per ricordarci verso chi dobbiamo volgere lo sguardo.

Come rimediare a tutto ciò? Sicuramente attraverso la formazione continua di tutti. Dei presbiteri per primi che devono curare le celebrazioni e quindi essere esperti conoscitori della materia. In questo caso della peculiarità e della centralità del segno dell’altare che rimanda a quella di Cristo. Dovrebbero ricordare, per esempio, che anche al di fuori dell’azione liturgica, l’altare è invocazione e attesa della presenza di Colui, Cristo, che fa nuove tutte le cose (cfr. Ap 21, 5).

Per questo, attraverso le catechesi e i momenti educativi, devono aiutare i fedeli a formarsi spiritualmente e divenire consci che una liturgia ben celebrata con i suoi segni propri, trasparenti e più importanti, com’è appunto l’altare, è e deve essere per se stessa la prima scuola: «Lex orandi, lex credendi».

Abbiamo iniziato ricordando gli orrori che i social sono pronti a riverberare finché non ne salta fuori uno nuovo ed eclatante. Fra questi alcuni hanno a che fare con quanto avviene in chiesa e nelle liturgie. Così è nato questo contributo che non ha lo scopo di far ridere o moltiplicare i commenti negativi, come avviene sul web. Ma è solo un invito a cogliere, da questa circostanza, l’importanza e la bellezza dei contenuti della fede e come essi si esprimano nella liturgia. Se in questo ambito errori sono stati fatti e se ne faranno, vale sempre il principio: «Error corrigitur ubi deprehenditur»; che potremmo tradurre: gli errori si correggano appena ci si accorge di averli commessi.

In conclusione non possiamo omettere di ricordare a tutti quei cattolici ingenui, così preoccupati di scandalizzarsi e di gridare allo scandalo, non però altrettanto preoccupati di verificare con cura notizie e immagini, che molti video da loro postati sui social non hanno niente a che fare con la Chiesa Cattolica e il nostro clero. In giro per il mondo esistono infatti pseudo chiese che nell’apparato esterno liturgico si ispirano alla Chiesa Cattolica. A tal proposito basterebbe ricordare che dopo il Concilio Vaticano I (aperto nel 1869, terminato nel 1870, ma formalmente chiuso solo nel 1960) vi fu uno scisma che dette vita alla cosiddetta “chiesa” vetero-cattolica. Solo da questa aggregazione sono nate e a seguire si sono moltiplicate decine di sedicenti “chiese” gestite da personaggi alquanto esotici. Visto e considerato che nel nostro clero cattolico di abusi liturgici ne avvengono a sufficienza; visto e considerato che a volte si ha quasi l’impressione che certi nostri preti gareggino tra di loro a chi compie la stravaganza più eccentrica, che perlomeno non ci vengano attribuite le sceneggiate altrui, perché le nostre ci bastano e avanzano, oltre a imbarazzare a sufficienza quanti di noi seguitano a essere cattolici.

 

Firenze, 20 luglio 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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Francesco d’Assisi santo mistico, non santino, è una figura molto complicata

FRANCESCO D’ASSISI SANTO MISTICO, NON SANTINO, È UNA FIGURA MOLTO COMPLICATA

Francesco è per la teologia, ma rassicura il suo frate che questa non deve portarlo a elucubrazioni, a intellettualismi fini a sé stessi, o a una realtà che potrebbe allontanarlo dal Signore anziché avvicinarlo, che lo elevi a livello intellettuale ma non a livello mistico-spirituale. Ecco perché Francesco si può permettere di correggere ed esortare anche un raffinatissimo teologo come Sant’Antonio da Padova; ecco perché Francesco resta figura molto complessa e complicata da capire, spiegare e trasmettere, soprattutto da seguire.

— Theologica —

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Questo articolo sul Padre Serafico ― che a suo modo potrebbe essere definito “reattivo” in quanto “ispirato da” ― lo devo all’espressione di uno dei vari giovani vescovi di nuova nomina, che rispondendo a un intervistatore ha illustrato la propria personalità e le sue prospettive pastorali affermando che si sarebbe ispirato alla «teologia di San Francesco d’Assisi». Indubbiamente il giovane vescovo avrà cercato di dire qualche cosa di coinvolgente, con trasporto e animo sincero, forse però ignorando che non tanto il Francescanesimo, ma lo stesso Francesco d’Assisi sono qualche cosa di parecchio complesso, per noi francescani per primi.

Bartolomé Esteban Murillo (Siviglia 1618 – 1682), San Francesco abbraccia Cristo crocifisso, olio su tela, collezione privata – Foto © Christie’s

La redazione dei Padri de L’Isola di Patmos è anche e soprattutto luogo di spirituale confronto pastorale e di discussione teologica tra confratelli. E così, Padre Ariel e Padre Gabriele, entrambi teologi dogmatici di formazione, a me Frate minore cappuccino e presbitero francescano hanno chiesto:

«Quale sarebbe “la teologia di San Francesco”? San Francesco era forse un teologo? E da quando? A noi risulta che i teologi francescani siano stati Antonio da Padova, oggi dottore della Chiesa, che poté esercitare il magistero di teologo con il permesso di Francesco che lo dette con non poca ritrosia iniziale; Bonaventura da Bagnoregio (dottore della Chiesa) che dei teologi è patrono. Per seguire con Arlotto da Prato e Matteo d’Acquasparta, ma soprattutto il grande doctor subtilis Duns Scoto, noto anche come dottore dell’immacolata concezione di Maria».

È sempre nostro dovere spiegare con veritiero rigore storico e teologico cosa è reale e cosa surreale, cosa storicamente autentico e cosa adulterato a livello leggendario, a volte anche ideologico. Per questo è ragionevole e realistico dire che oggi, molti di coloro che si ispirano al nostro Serafico Padre, di San Francesco dimostrano di sapere veramente poco. Purtroppo i fatti dimostrano ― e lo dimostrano i fatti, non i giudizi temerari ― che più che al pauperismo certi soggetti sono molto vicini a quel poverilismo ideologico di stampo socio-politico che sia Francesco d’Assisi sia la sapienza della Chiesa hanno combattuto sin dal XIII secolo, sconfessandolo apertamente e opponendosi a un concetto di povertà che non apriva alla trascendenza e al rapporto con Dio, ma diventava una povertà violenta, accusativa e punitiva verso coloro che possedevano dei beni materiali. Esattamente quella che in epoca post-industriale e post-marxista sarà definita e indicata dai sociologi come invidia sociale.

Per essere precisi bisognerebbe parlare di vecchie eresie di ritorno, a partire da quella di Frate Dolcino, preceduto da Gherardo Segarelli e molti altri più o meno illustri facenti parte di quel movimento ereticale d’inizi XIV secolo noto come Fraticelli. Francesco, a seguire il Francescanesimo che da lui prese vita e poi forma, costituirono la più eclatante sconfessione e implicita lotta contro queste correnti ereticali, nella piena aderenza alla dottrina della Chiesa e all’obbedienza alle sue autorità costituite.

Francesco è estremamente complicato, come Santo e come uomo, pur essendo il Santo da tutti riconosciuto come più semplice, in verità è estremamente complesso. Spesso, i primi a non comprenderlo, siamo stati proprio noi francescani, che più volte lo abbiamo riciclato nel corso della storia a nostro vario uso e consumo, oppure “mitigato” e “addolcito”, come fecero in modi diversi ma di fondo simili Tommaso da Celano e Bonaventura da Bagnoregio.  

Figure complicate da comprendere e interpretare esistono da sempre nella storia della Chiesa, anche se talvolta il popolino le ha snaturate attraverso le proprie devozioni più o meno surreali. Una di queste figure, che in tal senso possiamo portare come esempio, è Padre Pio da Pietrelcina, per capire il quale è necessario interpretarne la figura alla luce della teologia mistica in cui Dio attrae a sé l’uomo nella totalità del suo essere e divenire presente e futuro. In caso contrario San Pio da Pietrelcina diverrà una figura popolare scaramantica alla cui immagine sarà riservato il posto sul tir del camionista rigorosamente meridionale, accanto alle foto erotiche del calendario dell’anno solare in corso dove spiccano le figure di dodici fotomodelle ammalianti. Dico «camionista rigorosamente meridionale» per un discorso puramente sociologico, perché quello altoatesino compie una scelta coerente: o sul proprio camion ci mette San Pio da Pietrelcina oppure il calendario erotico dell’anno solare in corso, ma non tutti e due assieme. 

San Francesco di Assisi suscita da circa nove secoli l’interesse non solo delle persone devote, ma anche di studiosi, storici, letterati, teologi e naturalmente artisti, a motivo della straordinarietà della sua esperienza di vita cristiana; una testimonianza del Vangelo che è stata capace di informare e trasformare la nostra società e, naturalmente, la Chiesa. Le povere parole che seguiranno non hanno alcuna pretesa poiché già tanti, è stato premesso, e di gran levatura culturale hanno parlato di Francesco mettendo in luce tutti gli ambiti della sua vita e la sua singolare personalità. L’intento semplice di questo scritto è quello di mettere in risalto il singolo aspetto della sua esperienza mistica, angolo di visuale attraverso il quale potrebbe anche essere letta tutta la sua esistenza di cristiano e di santo.

È lo stesso Francesco a ricordare l’inizio della sua nuova vita come un’esperienza mistica e un dono di Dio. Vent’anni dopo i fatti della sua conversione descrive nel Testamento ormai morente quell’evento, il suo cambiamento di vita, racchiudendolo entro queste poche, densissime parole:

«Il Signore concesse a me, Frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E poi, stetti un poco, e uscii dal mondo».

Francesco non è un teologo, almeno non come siamo abituati a pensare. Non elabora una concezione sistematizzata dell’esperienza cristiana, né scrive trattati o saggi sulla fede e le sue verità. Ciononostante quando Dante, nella Divina Commedia, parla degli Ordini mendicanti e specificatamente di Francesco, l’elogio di lui viene da colui che è considerato come uno dei più grandi, se non il più grande teologo che la Chiesa abbia avuto: San Tommaso D’Aquino. D’altro canto, l’elogio di San Domenico, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, noti come domenicani, l’altro Ordine mendicante per eccellenza, verrà dalla bocca di San Bonaventura, il teologo per antonomasia dei francescani, colui che stigmatizzò per sempre l’immagine di Francesco fino a farlo apparire praticamente quasi inimitabile. Il grande poeta fiorentino, nei due canti gemelli, l’XI e il XII del Paradiso, mette dolorosamente in risalto che entrambi i movimenti hanno perso lo smalto iniziale, essendosi discostati dagli insegnamenti e dalle regole dei loro fondatori. Perciò Dante, attraverso San Tommaso, fa il racconto della vita di Francesco iscrivendolo tutto in una dimensione mistica e spirituale, come dimostra il lungo preambolo che si muove interamente nell’ambito della metafora. Parla dell’unione dell’assisiate con una donna che, nonostante le sue virtù, era rimasta sola per più di millecento anni dopo la morte del primo «marito» e nessun altro uomo aveva voluto prenderla in sposa e che per amor di lei egli, Francesco, andò incontro all’ira paterna. San Tommaso scioglierà la lunga metafora solo nella terzina dove espliciterà finalmente che i due sposi di cui parla sono Francesco e Monna Povertà.

Questo suo itinerario spirituale, fatto di incontri, abbraccio della povertà, fedeltà estrema al Vangelo e tanta preghiera, Francesco lo leggerà, lo abbiamo già accennato, come un dono del Signore. Ci sono tre verbi nel Testamento che sono a riguardo indicativi. Cinque volte ripeterà che «Dominus dedit mihi» di fare penitenza, di aver fede nelle chiese e nei sacerdoti, di avere dei fratelli e di scrivere la Regola per loro. Di seguito affermerà che sempre il Signore «revelavit mihi» quanto doveva fare e di presentarsi col saluto divenuto celebre: «Il Signore ti dia pace». Ed infine «conduxit me» fra i lebbrosi.

A tal proposito Francesco, come si sa, non offre una risposta politica alle ingiustizie sociali, al problema del male nel mondo. Non ha progetti di fattivi e concreti cambiamenti, non medita lotte e ribellioni; Francesco, per intendersi, non è né un hippy né un Che Guevara del Medioevo, né un contemporaneo di certi odierni preti cosiddetti molto sociali. Francesco risponde con la fede, quando riesce a penetrare fino in fondo, con una adesione totale e impetuosa, il sacrificio di Cristo. Cerchiamo di seguirlo nei suoi pensieri: Dio, l’Altissimo, il padrone dell’universo, di tutto il creato, ha sacrificato il Figlio unico e prediletto per non perdere la sua creatura, l’uomo, capace solo di peccare. E se Cristo che è Dio è venuto sulla terra trascinato da un immenso amore, e si è fatto povero e pellegrino, ha sofferto la fame e il freddo, il tradimento e l’abbandono degli amici, fino a dare la sua vita sulla croce pur di ridare la salvezza all’umanità, la gioia eterna del Paradiso, che altro resta da fare all’uomo se non seguire, per quanto possibile, le orme del Salvatore, il Vangelo, se non rispondere all’amore divino con il povero amore umano, cercando di amarsi l’un l’altro come fratelli? E chi, se non il povero e il derelitto, ripetendo nella sofferenza l’esperienza terrena di Cristo, può meglio capire l’ardente carità divina e accettare con gratitudine angosce e patimenti, rimettersi, come Cristo, alla volontà del Padre?

I Fioretti di san Francesco, una meravigliosa raccolta in volgare dell’ultimo quarto del Trecento di «miracoli ed esempi devoti» della sua vita, gli fanno dire, a proposito di che cosa sia la virtù della perfetta letizia:

«Sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo, e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e obbrobri e disagi; imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri, ma di Dio, onde dice l’Apostolo (Paolo, nella 1Cor 4, 7 n.d.r.): “Che hai tu, che non abbi da Dio? E se tu l’hai avuto da lui, perché te ne glorii, come se tu l’avessi da te?”. Ma nella croce della tribolazione e dell’afflizione ci possiamo gloriare, però che dice l’Apostolo (sempre Paolo, in Gal 6,14 n.d.r): Io non mi voglio gloriare se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo».

E così la croce fin dall’incontro coi lebbrosi, all’inizio della sua conversione, forma parte dell’esperienza di Francesco, del suo orizzonte spirituale. Se proprio volessimo individuare una teologia di San Francesco, potremmo definirla come una «Scientia Crucis». Egli abbraccia la croce come abbraccia il lebbroso poiché ormai ciò che era amaro gli si era tramutato in dolcezza e può udire la voce di Cristo che dalla croce lo chiama, nella chiesetta di San Damiano. Lì, il Redentore, secondo l’iconografia del Cristo trionfante, senza segni di sofferenza fisica, fissa l’osservatore con quieta dolcezza. Francesco credette che l’immagine si rivolgesse proprio a lui e gli parlasse: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va dunque a ripararla». Ma Francesco fraintende il significato simbolico delle parole, crede di dover salvare dalla rovina l’edificio materiale, non sospetta quale compito lo attenda: salvare l’edificio spirituale, la Chiesa. Esce tutto lieto, gli sembra che la vita abbia finalmente uno scopo. Ora sa cosa fare, le parole misteriose del precedente sogno di Spoleto, quello del palazzo e della sposa che saranno suoi, cominciano a chiarirsi; per questo, può vedere per la prima volta chi lo chiama e sentire pronunciare il proprio nome. Quello è dunque l’ordine che aspettava. E così Francesco, «munendosi col segno della croce», incominciò la sua missione.

L’afflato mistico di Francesco rintracciabile in moltissime sue opere, dalla Regola non bollata, l’Epistola ai fedeli o Le lodi del Dio Altissimo si coniugano da ora in poi con la devozione per la Croce di Cristo. Nelle Lodi conservate nella Chartula fratri Leonis leggiamo queste famosissime parole rivolte al Signore:

«Tu sei santo, o Signore, solo Dio, che compi cose meravigliose. Tu sei forte, tu sei grande, tu sei altissimo, tu sei onnipotente, tu Padre Santo, re del cielo e della terra. Tu sei trino e uno, Signore, Dio degli dei. Tu sei il bene, ogni bene, il sommo bene, il Signore Dio vivo e vero. Tu sei amore, carità; tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei mansuetudine, tu sei sicurezza, tu sei quiete, tu sei gioia, tu sei nostra speranza e letizia, tu sei giustizia, tu sei temperanza, tu sei ogni nostra ricchezza in sovrabbondanza. Tu sei bellezza, tu sei mansuetudine; tu sei protettore, tu sei nostro custode e difensore, tu sei fortezza, tu sei refrigerio. Tu sei la nostra speranza, tu sei la nostra fede, tu sei la nostra carità, tu sei tutta la nostra dolcezza, tu sei la nostra vita eterna, o Signore grande e mirabile, Dio onnipotente, misericordioso salvatore».

Come pure nel capitolo terzo dei Fioretti viene narrata la profonda devozione che il Santo assisiate riservava alla Croce di Gesù:

«Viene il dì della santissima Croce, e Santo Francesco la mattina per tempo, innanzi dì, si getta in orazione dinnanzi all’uscio della sua cella, volgendo la faccia verso l’oriente, e pregava in questa forma: O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti prego che tu mi faccia, innanzi che io muoia; la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione; la seconda, che io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quel grandissimo amore del quale tu, Figlio di Dio, eri acceso per sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori».

Questi aspetti della spiritualità di Francesco saranno poi figurativamente rappresentati dagli artisti, a cui si accennava all’inizio. Se ne potrebbero citare molti e fra questi il Maestro di San Francesco, il cui nome deriva da una tavola con il Santo e due angeli oggi conservata nel Museo della basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Di lui possiamo ricordare l’imponente crocifisso nella Basilica dedicata al Santo, in Arezzo. La Croce dipinta, riprende la tipologia del Christus Patiens, d’ispirazione bizantina, dove il dolore e la morte di Gesù sono sottolineati dalla testa reclinata sulla spalla e dal corpo inarcato. Mentre la maggior parte delle croci dipinte venivano lette dal basso verso l’alto e terminavano con un’Ascensione e un Cristo in gloria, qui il messaggio va letto dall’alto verso il basso, secondo i dettami della spiritualità francescana. Questo Cristo morente, non più Triumphans, è una novità introdotta dai francescani che coltivano l’elemento del patetico, nel senso di invito alla compassione. Ormai la parola misteriosa, depositaria del segreto del Cristianesimo, non è più «amare» ma «soffrire». Invece di apparire in piedi sulla Croce, Risorto e trionfante come in San Damiano, Gesù è raffigurato con gli occhi chiusi e la testa reclinata lateralmente su una spalla. Senza negare la resurrezione, i fedeli si affezionano di più all’Uomo della sofferenza. Il vero messaggio di questa croce è quindi che Gesù è sceso dal cielo e ha sopportato la passione inflittagli da Ponzio Pilato per gli uomini e per la loro salvezza. La devozione lascia spazio alla compassione, alla partecipazione di ciascuno alla sofferenza di Gesù. E il primo di questi devoti è proprio Francesco raffigurato sotto la croce piccolino, che poi così amava chiamarsi, il quale prende fra le mani un piede sanguinante del crocifisso e lo bacia. Un’altra opera a mio avviso capace di descrivere la «Scientia Crucis» francescana è il San Francesco che abbraccia Cristo crocifisso del Murillo. Dipinto realizzato all’incirca nel 1668 e conservato nel Museo di belle arti di Siviglia in Spagna. L’opera faceva parte di un ciclo commissionato al pittore spagnolo dai Cappuccini per una cappella della chiesa del loro convento a Siviglia. Queste opere dovevano esaltare gli elementi distintivi della spiritualità francescana. Il quadro è di una bellezza sconvolgente; commuove lo spettatore che davanti a una simile tela rimane in silenzio, come in preghiera. Il dipinto simboleggia il momento culminante della vita di Francesco: la rinuncia ai suoi beni materiali per abbracciare la vita religiosa. La composizione è armonica. Accanto alla croce, due angeli reggono un libro aperto che reca in latino il passo del Vangelo secondo Luca: «Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 25-27).

Ai piedi del Santo vi è un mappamondo, un globo terrestre; Francesco sembra allontanarlo con un piede, metafora del suo rifiuto di ogni vanità. Ma veniamo al fatto più eclatante, ed anche il più controverso almeno nelle testimonianze che lo riportano, per il quale l’afflato mistico di San Francesco si coniuga con la sua profonda devozione per la Croce di Cristo Gesù. Sto parlando dell’episodio de La Verna in Toscana, la visione del serafino e l’impressione delle stimmate. Per rendere palpabile la straordinarietà dell’evento riviviamolo attraverso le parole del biografo del Santo, Tommaso da Celano, uno che lo conobbe personalmente, il quale fu chiamato da Papa Gregorio IX a redigerne la biografia raccogliendo testimonianze sugli eventi. Anche e soprattutto su quello delle stimmate, prima che con la Legenda major San Bonaventura da Bagnoregio sostituisse le precedenti Vite, imponendone la distruzione. Come noto e risaputo Bonaventura, ministro generale dell’Ordine, fece pervenire a tutti i conventi francescani un comando preciso e tassativo: distruggere tutti i manoscritti sulla vita e le gesta del Padre Serafico. Diversi di questi manoscritti si trovavano però anche in alcune abbazie e monasteri benedettini e cistercensi, che si guardarono bene dal dare esecuzione a simile comando. È a loro che gli storici debbono grazie se da qualcuna di queste biblioteche monastiche sono stati poi dissepolti secoli dopo i manoscritti delle Vite narrate da altri autori prima di Bonaventura da Bagnoregio, considerato da taluni storici della Chiesa come il secondo fondatore, o cosiddetto ri-fondatore dell’Ordine Francescano.

Tommaso da Celano nella Vita prima conosceva certamente sui fatti de La Verna la versione di Frate Leone e ovviamente anche la lettera di Frate Elia. Il biografo non poteva permettersi di trascurare né il più caro amico del Santo e suo confessore né il potente capo dell’Ordine. Come raccordare due testimonianze così divergenti? Aggirò la difficoltà raccontando con abili aggiustamenti il miracolo delle stimmate due volte, una prima collocandolo sulla Verna, una seconda al momento dell’esposizione della salma di Francesco. Rileggiamo cosa scrive Tommaso da Celano:

«Due anni prima che Francesco morisse, passando un periodo nel romitorio che dal nome del luogo è chiamato Verna, vide in una visione mandata da Dio un uomo, quasi fosse un Serafino con sei ali, stare sopra di sé, con le mani aperte e i piedi congiunti, confitto ad una croce. Due ali salivano sopra il capo, due si stendevano al volo e due infine coprivano tutto il corpo. Vedendo questo il beato servo dell’Altissimo fu invaso da grandissimo stupore ma non riusciva a capire che cosa volesse dire quella visione. Godeva moltissimo e con grande allegrezza si allietava nel sentirsi guardare con uno sguardo benigno e dolce dal Serafino, la cui bellezza era veramente inimmaginabile, ma al tempo stesso era atterrito dall’affissione alla croce e dalla crudezza della sofferenza di lui. Così si alzò, per così dire, triste e lieto, e in Francesco si alternavano gioia e dolore. Continuava a rimuginare con ansia cosa potesse voler dire la visione, e il suo spirito era terribilmente teso a cercare di coglierne il significato. Poiché ragionando non arrivava ad alcuna interpretazione sicura e si sentiva pervaso e moltissimo agitato nel cuore dalla novità di quella visione, cominciarono ad apparire nelle mani e nei piedi i segni dei chiodi come poco prima aveva visto nell’uomo crocifisso sopra di sé. Le sue mani e i suoi piedi sembravano trafitti nel centro da chiodi: nella parte interna delle mani e su quella superiore dei piedi si vedeva la testa dei chiodi, e dalla parte opposta la punta. Quei segni erano rotondi dalla parte interna delle mani e allungati dalla parte opposta e formavano quasi una escrescenza carnosa e rilevata, come fosse la punta dei chiodi ripiegata e ribattuta. Ugualmente nei piedi erano impressi i segni dei chiodi sporgenti sul resto della carne. Anche il lato destro, quasi fosse stato trafitto da una lancia, mostrava un’ampia cicatrice che spesso emetteva sangue cosicché la tunica e i panni da gamba erano macchiati di frequente del suo santo sangue. Ah, quanti pochi finché il servo di Dio crocifisso visse, ebbero la fortuna di potere vedere la sacra ferita del costato! Ma felice Elia che mentre viveva il Santo meritò in qualche modo di vederla e non meno felice Rufino che poté almeno toccarla».

Più avanti sempre Tommaso da Celano, parlando della gioia e della mestizia delle persone e dei frati al cospetto del corpo ormai defunto del Santo così riporta:

«Pure, una gioia inaudita temperava la loro mestizia e la novità del miracolo riempiva le loro menti di straordinario stupore. Così il lutto si cambiò in canto festoso e il pianto in giubilo. Infatti mai avevano udito né letto nelle Scritture quello che ora vedevano con i loro occhi, e a stento ci avrebbero creduto se non ne avessero avuto davanti una testimonianza così probante e sicura […] Si coglieva in lui la forma della croce. Sembrava infatti appena deposto dalla croce con le mani e i piedi trafitti dai chiodi e il lato destro ferito dalla lancia. Vedevano ancora la sua carne, che prima era scura, risplendere ora di un luminoso candore e la bellezza sovrumana comprovava già il premio della beata resurrezione. Il suo volto, infine, era come quello di un angelo […] Mentre risplendeva davanti a tutti per sì meravigliosa bellezza, la sua carne si faceva sempre più luminosa. Era davvero un miracolo scorgere al centro delle mani e dei piedi non i fori dei chiodi ma i chiodi medesimi formati dalla sua stessa carne, del color scuro come il ferro e il costato a destra imporporato di sangue. E quei segni di martirio non incutevano timore e orrore a chi li vedeva, bensì conferivano decoro e ornamento, come tessere nere in un pavimento candido».

Potremmo fermarci qui e non aggiungere altro al cospetto di un così commovente racconto. Basti sottolineare che a La Verna Francesco visse infine la sua personale e straordinaria identificazione col Cristo e con questi crocifisso. Ma in quale contesto ciò avvenne? Sul finire della vita Francesco si sentiva sempre più incalzato dalla Chiesa preoccupata di normalizzare un progetto di vita cristiana, praticare la povertà e l’amore evangelici, che, se davvero attuato, sarebbe stato rivoluzionario e pericoloso per la stessa struttura ecclesiastica, se male interpetato. Si sentiva anche incompreso da una grande parte dei frati e questo aumentava il suo scoramento. Cresciuti a dismisura non tutti erano capaci di condividere scelte tanto difficili, uomini a volte di limitate virtù o troppo colti, lontani dai purissimi ideali del loro capo spirituale. Come Cristo sempre più solo al traguardo della croce, a circa quarantaquattro anni Francesco prese con sé pochissimi compagni, intimi e partecipi, e si trasferì, come sappiamo, sulla Verna, per un lungo ritiro di solitaria contemplazione. Contava di superare quella profonda crisi; chiedeva continuamente a Dio di illuminarlo, che gli indicasse come sarebbe stata la fine della sua vita. In effetti cominciò a vedere diradarsi il buio nell’anima solo quando comprese di dover rimettere alla decisione di Dio i problemi dell’Ordine e del suo futuro, sopportando, scrive Tommaso da Celano, che «si compisse in lui totalmente la misericordiosa volontà del Padre celeste». Il biografo pensa al fondatore come a un «altro Cristo» sullo sfondo del Monte degli Ulivi. Il Santo, tuttavia, avrebbe voluto almeno conoscere che fine lo attendesse, pur essendo ormai sicuro di non ribellarvisi. Un giorno, dopo avere a lungo pregato, ricorse alla triplice apertura dei Vangeli, che mostrarono sempre lo stesso passo o uno molto simile. Lo sguardo si posò: «sulla Passione di Cristo, ma solo nel tratto in cui viene predetta». Quando Tommaso da Celano scriveva questa parte dell’opera evidentemente conosceva già il seguito, sapeva che di lì a poco avrebbe raccontato dell’apparizione del Serafino e delle stimmate. Deliberatamente costruì l’episodio della triplice apertura con citazioni evangeliche che si riferiscono all’agonia di Cristo secondo Luca (22, 43-45). Cristo, al colmo della sofferenza chiede al Padre: «Allontana da me questo calice», ma comprende di dover accettare tutte le sofferenze della imminente Passione. Nel Vangelo, dopo la visione dell’angelo Gesù si sentì momentaneamente consolato; ma subito dopo ripiombò in una grande angoscia, tanto da sudare sangue. Anche Francesco è sul monte, il monte de La Verna; vede il Serafino e trova consolazione nel momento in cui accetta tutte le sofferenze che ancora lo attendono prima della morte. L’angoscia porta Cristo a sudare sangue; Francesco, scomparsa la visione del Serafino, sente così vicino il Monte degli Ulivi a tal punto che i chiodi di carne, copia dei chiodi della Croce si rendono visibili. Come tutti i grandi santi mistici anche Francesco su La Verna è immerso nel buio della cosiddetta «notte oscura», neanche supportato dal suo caro amico e compagno Leone che viveva, lui stesso, un momento di crisi. Dopo un lungo periodo di ritiro spirituale Francesco ha finalmente un’illuminazione, intravvede la soluzione: se Cristo, che è Dio, si è rimesso alla volontà del Padre, non dovrà fare altrettanto lui stesso? Si compie così quella immedesimazione col Modello che si inscrive non solo nell’animo del Santo, ma anche nella sua carne. Gesù consola Francesco e gli rivela la giustezza del suo cammino che ebbe scaturigine e prima assicurazione dall’altra croce, quella di San Damiano; e gli fa dono anche del suo amore, adesso nel momento terminale della sua vita ed esperienza cristiana. Da questa conoscenza profonda, non intellettuale, ma mistica, della croce di Cristo sgorgheranno dal cuore di Francesco quelle parole che sopra abbiamo riportato e qui condensiamo. Testimonianza di quella «scientia» del mistero cristiano che ci fa ancora oggi emozionare per il modo come Francesco l’ha compresa e vissuta:

«Tu sei amore, carità; tu sei sapienza, tu sei umiltà, tu sei pazienza, tu sei bellezza, tu sei mansuetudine, tu sei sicurezza, tu sei quiete, tu sei gioia, tu sei nostra speranza e letizia, tu sei giustizia, tu sei temperanza, tu sei ogni nostra ricchezza in sovrabbondanza».

In una lettera di Francesco ad Antonio da Padova in cui si rivolge a lui chiamandolo «Frate Antonio mio vescovo» diceva:

«Fai pure teologia, ma attenzione che questa non spenga lo spirito di orazione e di contemplazione».

Francesco è per la teologia, ma rassicura il suo frate che questa non deve portarlo a elucubrazioni, a intellettualismi fini a sé stessi, o a una realtà che potrebbe allontanarlo dal Signore anziché avvicinarlo, che lo elevi a livello intellettuale ma non a livello mistico-spirituale. Ecco perché Francesco si può permettere di correggere ed esortare anche un raffinatissimo teologo come Sant’Antonio da Padova; ecco perché Francesco resta figura molto complessa e complicata da capire, da spiegare e trasmettere, soprattutto da seguire. Anche per questo non è facile parlare di «teologia di San Francesco».

 

Sanluri, 17 luglio 2024

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I Padri dell’Isola di Patmos

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«Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

«SE IN QUALCHE LUOGO NON VI ACCOGLIESSERO E NON VI ASCOLTASSERO, ANDATEVENE E SCUOTETE LA POLVERE SOTTO I VOSTRI PIEDI» 

Nessun idealismo romantico dunque o nessun pauperismo leggendario, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono attirare l’attenzione, ma che piuttosto indirizzi verso l’unico Signore, Gesù. Il centro non è il missionario, ma il Vangelo che egli annuncia, che è: «Potenza di Dio». E segno particolare di questo stile è la fraternità.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Negli ultimi passati decenni in molteplici convegni, sui libri, negli articoli sfornati a iosa su riviste di pastorale la Chiesa si è molto interrogata sull’evangelizzazione, definita come missione o addirittura come nuova evangelizzazione. Un grande impegno è stato profuso nella ricerca di nuovi linguaggi o nello studio degli elementi della comunicazione e dello stile, sul come si predica o si possono rinnovare i contenuti della Parola. I risultati di questo sforzo sono ad oggi scoraggianti. È probabile che gli attori della pastorale nella Chiesa si siano troppo concentrati sul «cosa», il contenuto del messaggio, a discapito del «come», e cioè lasciando in ombra la testimonianza di vita? Ad ogni buon conto ben venga la pagina del Vangelo di questa XV domenica per annum. Qui Gesù non si sofferma sui contenuti o da suggerimenti di tipo dottrinale, ma si concentra piuttosto sul «come» devono presentarsi gli inviati ad annunciare la Parola. Ecco la pericope evangelica:

«In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,7-13).

Arriva il tempo per il quale non si può solo ascoltare o imparare, ma si deve restituire quanto si è ricevuto. Gesù, che pure aveva subito una grossa sconfitta proprio fra i suoi compaesani e correligionari (Mc 6,1-6), patendo la loro incredulità tanto da non poter operare alcun segno di potenza, non ha paura di affidare ai Dodici tutto quello che ha e che ha caratterizzato la sua missione fino a quel momento. Tutto ciò che è suo, ogni suo potere, passa ora di mano e viene affidato gratuitamente ai Dodici. Così si comprende l’insistenza di Marco nel dire che Gesù «incominciò, prese l’iniziativa» (ἤρξατο di Mc 6,7) di mandare i Dodici a due a due. La novità di quanto accade nel Vangelo di oggi sta proprio in questo semplice gesto, ma tanto complicato, perché comporta, in un certo modo anche per Gesù, un distaccarsi dal proprio potere esclusivo.

È la prima volta che Gesù coinvolge alcuni dei suoi nella missione, caricandoli di importanti responsabilità. Ha chiamato i discepoli per farli diventare pescatori di uomini (Mc 1,16ss.), ha percorso con loro diverse strade della Galilea; li ha difesi davanti ai farisei che li accusavano (Mc 2,23-28) e infine tra questi ne ha scelti Dodici perché «stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,13-19). Questi hanno sentito molti suoi insegnamenti, soprattutto le parabole sul Regno che Gesù annunciava e hanno visto molti atti di potenza da lui compiuti. Non hanno ancora dato prova di una grande fede (cfr. Mc 4,40), ma Gesù deve comunque averli ritenuti pronti per la missione.

Ed Egli affida loro tre compiti precisi. Il primo è annunciare la conversione, ovvero il Vangelo del Regno. Ai discepoli viene così affidato lo stesso compito che Gesù ha svolto appena dopo aver preso la parola. I Dodici «predicavano che la gente si convertisse» (Mc 6,12); in effetti come Gesù che all’inizio del suo ministero  diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Il secondo compito dei discepoli è l’esercizio di autorità sugli spiriti impuri. E anche in questo caso assistiamo allo stesso schema dell’inizio della missione del Messia. Gesù, appena annunciata la conversione al Regno e chiamati i primi discepoli, compie proprio l’esorcismo su uno spirito impuro nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,23). Infine sono inviati per guarire gli infermi. Gesù l’ha fatto varie volte all’inizio del suo ministero, partendo proprio dalla cerchia dei discepoli, guarendo la suocera di Pietro (Mc 1,29-30). Ora, anche i Dodici possono ungere i malati e guarirli (Mc 6,13).

Da questo si evince che nelle parole e nei gesti dei Dodici si riproduce esattamente e nell’ordine la missione che il Cristo ha portato avanti fino a quel momento. Le cose che Gesù diceva e faceva sono ora compiute e proferite dagli Apostoli. Si tratta del mistero della continuità tra la persona di Gesù Cristo e quello della Chiesa da questi fondata. Se Gesù non avesse voluto comunicare il dono che egli aveva o non fosse stato capace di farlo sarebbe stato ricordato come un grande predicatore o un terapeuta e la sua figura sarebbe stata probabilmente assimilata a quella dei vari profeti itineranti che percorrevano la Palestina di quel tempo. Ma non è stato così, poiché tutto quello che Egli aveva, la exousia (Mc 6,7; cfr. 1,22.27; 2,10) di liberare dal male, guarire e predicare, da allora e ancora oggi circola nelle vene della comunità che porta il suo nome: la Chiesa.

Come anche l’amara esperienza del rifiuto che ha caratterizzato il ministero del Messia. Può accadere anche ai Dodici, ai discepoli, di trovare la porta chiusa. Questi, che devono andare a due a due come prescritto dalla Legge, che richiedeva la testimonianza di almeno due persone (cfr. Dt 17,6), sanno sin dall’inizio della loro missione che qualcuno non li riceverà o non li ascolterà. La risposta sarà l’andarsene scuotendo la polvere dai calzari, a testimonianza per loro (Mc 6,11). Scuotere il fango o la polvere da sotto i piedi era un gesto simbolico che ogni israelita compiva quando lasciava la terra pagana. Adesso diventa il gesto del discepolo non accolto, non un dispetto o un’offesa, ma un monito che sarà testimonianza di accusa nel giorno del giudizio. Il rifiuto, però, non ferma la Chiesa che annuncia. Dopo la Pasqua essa sarà capace di portare la Parola fino ai confini estremi della terra, annunciando non solo che il Regno è vicino, ma anche che Cristo è risorto.

E quanto alle direttive date da Gesù diciamo subito che esse non devono essere riprodotte tali e quali. Ci ricordano che la predicazione di Gesù ha come motivo conduttore una fede e un’opzione escatologica. Nel Nuovo Testamento queste indicazioni mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Possiamo immaginare che l’Apostolo Paolo avesse pagato le sue traversate in mare per annunciare il Vangelo (At 13,13) o che tenesse al suo mantello dimenticato a Troade in casa di Carpo, se lo richiese, insieme ai libri e alle pergamene (2Tim 4,13).

Nessun idealismo romantico dunque o nessun pauperismo leggendario, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono attirare l’attenzione, ma che piuttosto indirizzi verso l’unico Signore, Gesù. Il centro non è il missionario, ma il Vangelo che egli annuncia, che è: «Potenza di Dio» (Rm 1,16). E segno particolare di questo stile è la fraternità.

Qoelet suggeriva che è «meglio essere in due che uno solo» (Qo 4,9). Essere in due dona saldezza alla parola detta, poiché nell’Antico Testamento, come già riferito, una testimonianza, per essere valida, si deve basare almeno su due testimoni (Nm 35,30; Dt 17,6; 19,15). Andare insieme e non da soli è importante perché così si può vivere la relazione, la comunione e la carità. Lo stile comunitario, una relazione intessuta d’amore reciproco, è la migliore testimonianza che certifica la bontà del messaggio che si vuole comunicare e produce un cambiamento, sia nei missionari che annunciano, che forse sono chiamati a sopportarsi, ad accogliersi reciprocamente e a rispettarsi, sia in coloro che ricevono il messaggio. Questo, in fondo, è stato uno dei lasciti più significativi che il Signore Gesù ha dato ai suoi: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

Dall’Eremo, 13 luglio 2024

 

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Grotta Sant’Angelo in Ripe (Civitella del Tronto)

 

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Storia e Vangelo. Chi non crede in Dio e lo irride finisce sempre col credere in tutto

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

STORIA E VANGELO. CHI NON CREDE IN DIO E LO IRRIDE FINISCE SEMPRE COL CREDERE IN TUTTO

Quante volte noi sacerdoti e teologi, specie dopo l’avvento dei vari Codici da Vinci, ma soprattutto dei social media sui quali chiunque può avere un podio per dissertare e diffondere le più grandi assurdità, ci siamo sentiti dire: «Voi non la raccontante giusta su Gesù Cristo e la Madonna, posto che costei ebbe altri figli, tanto che il Vangelo stesso parla chiaramente di fratelli e sorelle?».

 

 

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Tra pochi giorni sarà ricordata con tutta la retorica del caso la caduta della Bastiglia (14 luglio 1789). Quando certi eventi storici sono mutati in leggende il fantastico si sostituisce al reale, dimenticando in che modo la Rivoluzione Francese segnò il bagno di sangue più grande e violento della modernità. Se però la leggenda si sostituisce alla storia ecco sorgere l’immagine bucolica di un popolo che al grido di libertà, uguaglianza, fraternità dà vita alla grande Èra dei Lumi.

Quale legame corre tra la pagina del Santo Vangelo di questa XIV Domenica del Tempo Ordinario e certe pagine di storia? Leggiamo anzitutto la pericope di questo Vangelo:

«In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”. Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando» (Mc 6, 1-6).

L’incarnazione del Verbo di Dio e l’annuncio del Vangelo si calano nella storia dell’umanità, di cui sono parte. Senza prospettiva e conoscenza storica non è possibile comprendere l’evento cristologico di Gesù vero Dio e vero uomo, quindi i grandi misteri della fede, né sarà possibile distinguere il vero dal falso e comprendere perché presero vita certe falsità sotto forma di cosiddette leggende nere.

La Rivoluzione non fu fatta dal popolo, che fu strumentalizzato, usato e abusato in quella come altre occasioni storiche; a farla furono la nobiltà, soprattutto le classi della nuova borghesia. Così, dopo avere tagliato la testa a un Re che per bene o per male proveniva da una dinastia antica di mille anni, gli eventi costrinsero i francesi a mettere la corona imperiale sulla testa a un caporale della Corsica nato in una famiglia d’origine italiana; che peraltro sulla testa se la mise da solo, dopo averla tolta dalle mani al Sommo Pontefice Pio VII, costretto, per motivi politici e per il ben della pace a prestarsi come comparsa a quella egocentrica sceneggiata nella cattedrale di Notrê Dame il 2 dicembre 1804, prima di finire catturato a Roma nel 1809 e trasferito in esilio a Fontainebleau fino al 1815. Già in precedenza Napoleone aveva fatto catturare il Sommo Pontefice Pio VI, deportato a Valence-sur-Rhône nel 1798, dove morì nel 1799.

Nell’arco di soli dieci anni, a cavallo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, due Sommi Pontefici furono catturati e deportati in esilio. Sono pagine della nostra storia moderna, eppure, se scambiamo quattro parole col grande pubblico, scopriremo che certi eventi sono ignoti alle masse, compresi i nostri fedeli cattolici. Cosa più che comprensibile, se consideriamo che proprio in questi giorni si sono conclusi gli esami di maturità con la promozione di studenti che hanno affermato che la Divina Commedia era stata scritta da Giuseppe Garibaldi e che Roma fu fondata da Cristoforo Colombo.

Prima, durante e dopo la Rivoluzione fu scatenata una furia distruttiva verso tutto ciò che era cristiano e sacro. La religiosità fu relegata a un insieme di riti superstiziosi irrazionali usati dai preti sui loro tavoli da giochi di prestigio per tenere il popolo in soggezione. Intere strutture religiose furono saccheggiate e uno straordinario patrimonio d’arte e cultura andò irreparabilmente perduto a suon di teste mozzate sotto la furia rivoluzionaria giacobina.

I risultati di tutto questo non tardarono a farsi sentire e negli anni immediatamente successivi a quell’evento vi fu in Francia un grande aumento di analfabeti, di superstizioni e pratiche esoteriche come mai si era visto prima. Quando infatti l’uomo cessa di credere in Dio e lo rigetta, talvolta in modo irridente, altre persino violento, finisce poi col credere in tutto. Cosa di cui la Rivoluzione è stata eloquente e tragico paradigma nella nostra modernità.

Nel periodo rivoluzionario, a seguire in quello napoleonico, al fine di estirpare la religiosità e il sentimento religioso dalle popolazioni, un esercito di pseudo-studiosi si mise a fare studi critici sulle Sacre Scritture, coi noti risultati che possono produrre gli ignoranti arroganti: fraintendere per mancanza parziale o spesso totale di conoscenza. A quegli anni risale la messa in circolo di molte leggende nere anti-cristiane e anti-cattoliche con le quali s’intendeva smascherare le falsità dei preti e della Chiesa. Se quindi da una parte c’erano sedicenti studiosi che incuranti dell’esistenza di dettagliate fonti storiche giudaiche e romane affermavano che Gesù Cristo non era mai esistito e che la sua era una figura inventata, per altro verso c’era chi tentava di usare gli stessi Vangeli per diffondere clamorose falsità, una di queste fu ch’egli ebbe fratelli e sorelle, altro che l’immacolata concezione di Maria! Il tutto — affermavano in toni trionfali — era testimoniato dai Vangeli stessi, benché la canaglia clericale lavorasse da sempre per tenere la gente nel buio dell’ignoranza e nascondere queste scomode verità, prima che le ghigliottine in funzione ventiquattr’ore al giorno portassero finalmente i lumi della ragione, perché a chi non ragionava secondo la luce di certi lumi si tagliava la testa in piazza. 

Quante volte noi sacerdoti e teologi, specie dopo l’avvento dei vari Codici da Vinci, ma soprattutto dei social media sui quali chiunque può avere un podio per dissertare e diffondere le più grandi assurdità, ci siamo sentiti dire:

«Voi non la raccontante giusta su Gesù Cristo e la Madonna, posto che costei ebbe altri figli, tanto che il Vangelo stesso parla chiaramente di fratelli e sorelle».

Chi conosce la lingua ebraica e la cultura dell’antica Giudea, in seno alla quale Gesù ebbe i propri natali, sa che in quel mondo il concetto di appartenenza a una famiglia o a una tribù era così forte che chiunque ne facesse parte: cugino, zio, nipote, cognato … era considerato come un “fratello/sorella” di tutti gli altri membri e come tale indicato. Nella cultura e nella lingua dell’epoca non esistevano termini per indicare i cugini dei vari gradi. Pertanto, Giovanni il Battista, figlio di Zaccaria ed Elisabetta, che di Gesù era cugino materno, può essere indicato come fratello.

Dinanzi a questa spiegazione qualcuno ebbe a obbiettare che Elisabetta è indicata come cugina di Maria. Sì, ma nella tradizione e nella pietas popularis, non nelle cronache storiche dei Santi Vangeli che affidano il racconto della «visitazione» al Beato Evangelista Luca (Lc 1,39-56). Dire quindi che Gesù aveva fratelli e sorelle, non indica affatto una prole venuta al mondo dalla stessa madre, con buona pace dei vari blogghettari che assicurano di svelare quelle terribili verità tenute nascoste dalla Chiesa per 2000 anni, ossia che il figlio di Maria aveva altri fratelli e sorelle. Tutto questo a riprova che quando l’uomo cessa di credere in Dio e lo rigetta, talvolta in modo irridente, altre persino violento, finisce poi per credere a tutto e a tutti, dagli autori dei fantomatici Codici sino all’ultimo dei blogghettari anonimi che pubblica raffiche di assurdità su Internet.

Non sono mancati neppure sedicenti studiosi e manco a dirsi scopritori e diffusori di verità tenute nascoste dai preti e dalla Chiesa, che hanno puntualizzato che Gesù era indicato anche come “Primogenito”, a prova e riprova che sarebbe stato il primo ma non l’unico figlio. In questo caso, oltre alla cultura giudaica, ci viene incontro anche l’archeologia egizia: in una antica tomba fu scoperta l’iscrizione commemorativa di una defunta che era «morta durante il parto dando alla luce il proprio figlio primogenito». Se era morta dando alla luce il primogenito, è evidente che non poté dare alla luce nessun altro secondogenito. Si trattava forse di una iscrizione con una precisazione assurda e senza senso? No, la precisazione era sensata e la primogenitura era indicata perché il primo nato beneficiava di diritti e altrettanti doveri, inclusa l’autorità che avrebbe poi ereditata dai genitori. È al primo nato che spettava il titolo e l’autorità a lui trasmessa dal genitore.

Oltre alle persone che rifiutando Dio finiscono poi per credere in tutto, sino a cadere nella superstizione e nell’occultismo, questa pagina del Santo Vangelo ci raffigura anche coloro che credono solo a quanto di superficiale vedono i loro occhi, senza la capacità di andare oltre per vedere più a fondo con gli occhi dell’anima. Il tutto è riassunto in queste frasi:

 «“Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”. Ed era per loro motivo di scandalo» (Mc 6, 1-6).

Sono le domande tipiche di coloro che  chiudono ogni possibilità di dialogo e incontro col nuovo che da sempre Dio ci riserva con la frase: «Si è sempre fatto così!». Questo importa alle piccole menti meschine di ieri e di oggi, non importa il “fare bene” ma il «Si è sempre fatto così». Questo atteggiamento impedisce di afferrare e calarsi nella dimensione dello straordinario, del trascendente e del metafisico nascosta nell’apparenza dell’ordinario. Per questo «lì non poteva compiere nessun prodigio», perché alla base di ognuno dei suoi segni c’è il miracolo della fede dell’uomo che li realizza mediante il libero esercizio della propria volontà, che è dono supremo di Dio. Non a caso, compiuti dei miracoli, Gesù licenziò le persone da lui sanate con la frase: «Va’, la tua fede ti ha salvato». Perché quello è stato il vero miracolo: il miracolo della fede che nasce dall’apertura al Cristo e che ci guarisce dalla lebbra e dalla cecità di quel peccato che ci rende storpi, se non peggio: morti viventi.

La frase «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria» è un paradigma che valica la dimensione geografica di Nazareth, luogo natio di Gesù, la cui patria è il mondo intero, di cui egli è luce. Si tratta dello stesso mondo che non lo riconobbe e non lo accolse, come narra il Prologo al Vangelo del Beato Evangelista Giovanni:

Egli era nel mondo,

e il mondo fu fatto per mezzo di lui,

eppure il mondo non lo riconobbe.

Venne fra la sua gente,

ma i suoi non l’hanno accolto.

A quanti però l’hanno accolto,

ha dato potere di diventare figli di Dio:

a quelli che credono nel suo nome,

i quali non da sangue,

né da volere di carne,

né da volere di uomo,

ma da Dio sono stati generati.

E il Verbo si fece carne

e venne ad abitare in mezzo a noi;

e noi vedemmo la sua gloria,

gloria come di unigenito dal Padre,

pieno di grazia e di verità (Gv 1, 10-14).

Da questo si dovrebbe capire che il Santo Vangelo è un testo armonico dal quale non è possibile estrapolare mezze frasi per poi manipolarle facendogli dire quel che la Sacra Scrittura non dice. Il Santo Vangelo non è lettera morta ma Parola di Dio viva inserita nella storia dell’uomo nella quale nacque a questo mondo il Verbo di Dio fatto uomo. E Gesù Cristo è stato un fenomeno storico così straordinario che oggi il calendario suddivide gli anni delle epoche storiche indicandoli come: avanti Cristo e dopo Cristo. È molto pericoloso non conoscere o eliminare l’elemento storico dalla bimillenaria esperienza cristiana, spalancando in tal modo le porte all’ignoranza e correndo il serio rischio di non fare alcuna esperienza di fede, cadendo, se tutto va bene, nel più squallido fideismo.

Nel XIV secolo avevamo un gigante come San Bernardino da Siena che non esitò a lanciare tuoni e fulmini contro i creduloni che veneravano la reliquia dell’ampolla contenente il latte della Beata Vergine Maria:

«E sia chi si voglia, io dico che non piacciono a Dio queste tali cose. Come del latte della Vergine Maria. O donne, dove siete voi? E anco voi, valenti uomini, vedestene mai? Sapete che si va mostrando per reliquie: non v’aviate fede […] Forse che ella fu una vacca la Vergine Maria, che ella avesse lassato il latte suo, come si lassa delle bestie, che si lassano mugnare? Io ho questa opinione: ossia che ella avesse tanto latte né più né meno, quanto bastava a quella bochina di Cristo Jesu benedetto» (San Bernardino da Siena Devozioni Ipocrite, in: Baldi. Novellette ed esempi morali di S. Bernardino da Siena, Firenze, 1916).

Oggi abbiamo invece una sedicente Gospa che da quarant’anni dice banalità a un gruppetto di scaltri imprenditori che giocano a fare i veggenti. E, mentre il tutto avviene, nel nostro circo equestre non abbiamo più neppure l’ombra di un San Bernardino da Siena pronto a lanciare tuoni e fulmini verso i semplici ingenui, ma soprattutto contro coloro che si sentono autorizzati a ingannarli. E se un San Bernardino da Siena capace a urlare la verità esistesse tra di noi, nella migliore delle ipotesi lo accuseremmo di essere aggressivo e divisivo, perché in fondo … «si è sempre fatto così!». Proprio come se Cristo fosse venuto a questo mondo per piacere e per piacergli, anziché per combatterlo:

«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10, 34).

La pericope del Santo Vangelo di questa domenica racchiude molto più di quanto si possa immaginare, sulle righe e dietro le righe. Per questo, al termine della lettura, diciamo: «Parola di Dio», ed a Dio rendiamo grazie!

 

Dall’Isola di Patmos, 6 luglio 2024

 

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I Padri dell’Isola di Patmos

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«Dacci oggi il nostro teatrino quotidiano». Alessandro Minutella ricorda di essere «due volte teologo» e «due volte laureato», poi annuncia di essersi confessato. Domanda: chi lo ha validamente assolto?

«DACCI OGGI IL NOSTRO TEATRINO QUOTIDIANO». ALESSANDRO MINUTELLA RICORDA DI ESSERE «DUE VOLTE TEOLOGO E DUE VOLTE LAUREATO», POI ANNUNCIA DI ESSERSI CONFESSATO. DOMANDA: CHI LO HA VALIDAMENTE ASSOLTO?

Minutella non può essere assolto né ricevere alcuna valida assoluzione se non dopo aver ritrattato le sue eresie. E, considerato che i delitti nei quali è incorso sono riservati alla Sede Apostolica, chiunque lo assolva senza sua previa ritrattazione pubblica, o perlomeno dinanzi a due testimoni in caso di pericolo di vita, incorrerebbe a sua volta in scomunica.

– Teologia e diritto canonico –

AutoreTeodoro Beccia

Autore
Teodoro Beccia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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PDF  articolo formato stampa

 

 

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Nei giorni passati è finito sotto i fuochi di Alessandro Minutella ― prete palermitano scomunicato e poi dimesso dallo stato clericale ― il discepolo del Servo di Dio Padre Divo Barsotti, il Padre Serafino Tognetti, “colpevole” di avere adempiuto al proprio dovere sacerdotale dissuadendo alcune persone che lo hanno interpellato dal seguire questo soggetto sulla via del grave errore. Come sempre accade in questi casi è tornato alla carica con un suo vecchio mantra:

«Ricordo al confratello Padre Tognetti che Don Minutella è due volte teologo, ho due lauree in teologia …».  

È il caso di chiarire — ovviamente senza entrare nel merito del foro interno sacramentale ed extra-sacramentale — alcuni punti fondamentali a quelle persone semplici non addentro a certe dinamiche ecclesiastiche:

a) il Nostro, sebbene si proclami teologo dogmatico, tale non è, non avendo mai conseguito “lauree” in teologia alla facoltà di teologia ma in spiritualità presso l’Istituto di Spiritualità della Pontificia Università Gregoriana;

b) tra una “laurea” in teologia (Facoltà di Teologia) e una in spiritualità (Istituto di Spiritualità) c’è la differenza che corre tra una laurea in medicina e una in scienze infermieristiche.

Ma soprattutto, sempre ai non addetti ai lavori è opportuno e giusto chiarire che la “laurea in teologia” non esiste proprio come titolo nelle università ecclesiastiche e che i nostri titoli accademici sono i seguenti:

1) baccellierato canonico in teologia, rilasciato dopo 5 anni, titolo di base equivalente per lo Stato a un diploma universitario di primo livello o cosiddetta “laurea breve triennale”;

2) licenza specialistica, rilasciata dopo 2 o 3 anni, titolo che sommato al baccellierato teologico equivale per lo Stato a un diploma di laurea magistrale;

3) dottorato di ricerca, rilasciato dopo un minimo di almeno due anni, con il quale si conferisce titolo di dottore, equivalente per lo Stato a un dottorato di ricerca, ma non sempre però, a volte è riconosciuto equipollente a un master post-laurea; al dottorato sono riconosciuti equipollenti il dottorato in teologia, in diritto canonico, in scienze bibliche, in filosofia, in storia … non però tutti quegli altri nuovi rami considerati “propedeutici” o “marginali”, tra questi la spiritualità.

Chiarito il tutto è bene ricordare che alla prova dei fatti le due decantate lauree — peraltro inesistenti secondo i gradi e i titoli rilasciati dalle università e dagli atenei ecclesiastici — sono servite al Nostro per ottenere questi straordinari risultati:

a) incorrere in scomunica latae sententiae per scisma (can. 1364 – § 1);

b) incorrere latae sententiae in scomunica per eresia (cann. 1364-1365);

c) incorrere  ferendae sententiae nella dimissione dallo stato clericale con decreto emesso personalmente dal Romano Pontefice, perché lui solo può infliggere questa pena estrema comminata solo in casi molto rari e molto gravi.

Nella rubrica “Santi e Caffè” del 4 luglio, Mister Sono-Due-Volte-Teologo (nome) Ho-Due-Lauree-In-Teologia (cognome) ha annunciato urbi et orbi di essersi confessato (!?).

Domanda del tutto legittima: chi lo avrebbe assolto, forse qualche suo compagno di sventura colpito anch’esso da provvedimenti canonici che vietano tassativamente al gruppetto di preti al suo seguito di celebrare la Santa Messa, predicare e amministrare confessioni? Ormai conosciamo bene la sua tecnica comunicativa: gettare una affermazione ad effetto in mezzo alle altre, facendo passare la cosa come assolutamente naturale agli occhi di quelli che lo seguono.

Senza — come scritto poc’anzi — entrare nel campo del foro interno sacramentale ed extra-sacramentale, così come nell’ambito del lavoro del sacerdote che abbia raccolto la sua confessione sacramentale, è necessario intervenire su alcune questioni delle quali lo stesso Minutella ne ha reso e ne rende ampia pubblicità.

Da alcuni anni Mister Sono-Due-Volte-Teologo (nome) Ho-Due-Lauree-In-Teologia (cognome), cita in modo ossessivo compulsivo dei canoni del Codice di Diritto Canonico ai quali fa dire quello che in essi non è scritto, estrapolandoli e de-contestualizzandoli da tutto quanto l’impianto giuridico ecclesiastico, come nel caso del can 332 § 2, al quale dedicherò prossimamente un articolo sul tema del munus e del ministerium del Romano Pontefice.

Leggi canoniche ben chiare e precise, in particolare il can. 1331 § 1 del C.I.C. del 1983 che proibisce allo scomunicato:

1º di celebrare il Sacrificio dell’Eucaristia e gli altri sacramenti;

2º di ricevere i sacramenti;

3º di amministrare i sacramentali e di celebrare le altre cerimonie di culto liturgico;

4º di avere alcuna parte attiva nelle celebrazioni sopra enumerate;

5º di esercitare uffici o incarichi o ministeri o funzioni ecclesiastici;

6º di porre atti di governo.

§ 2. Se la scomunica ferendae sententiae fu inflitta o quella latae sententiae fu dichiarata, il reo:

1º se vuole agire contro il disposto del § 1, nn. 1-4, deve essere allontanato o si deve interrompere l’azione liturgica, se non si opponga una causa grave;

2º pone invalidamente gli atti di governo, che a norma del § 1, n. 6, sono illeciti;

3º incorre nella proibizione di far uso dei privilegi a lui concessi in precedenza;

4º non acquisisce le retribuzioni possedute a titolo puramente ecclesiastico;

5º è inabile a conseguire uffici, incarichi, ministeri, funzioni, diritti, privilegi e titoli onorifici.

A uno scomunicato che non abbia fatto ammenda dei suoi delitti contro la Chiesa e il deposito della fede è proibito ricevere i Sacramenti e se vescovo o presbitero è proibito amministrarli. Come infatti l’eretico scismatico ha dato pubblico scandalo, allo stesso modo, nel caso auspicabile volesse ravvedersi e ricevere la remissione di un peccato la cui assoluzione è di per sé riservata alla Sede Apostolica (cfr. can. 1354 §2;  art. 52 della Costituzione Apostolica Pastor Bonus), dovrà altrettanto pubblicamente abiurare i propri errori. Solo se, per reali motivi di vita e di morte non fosse possibile fare pubbliche dichiarazioni, in quel caso il confessore è autorizzato ad assolvere anche dai delitti riservati alla Sede Apostolica; dovrà però chiamare due testimoni e far ritrattare dinanzi a loro l’eretico, apostata e scismatico prima di concedergli l’assoluzione in articulo mortis.

Ai sensi delle leggi canoniche, Mister Sono-Due-Volte-Teologo (nome) Ho-Due-Lauree-In-Teologia (cognome) non può quindi essere assolto né ricevere alcuna valida assoluzione se non dopo aver ritrattato le sue eresie. E, considerato che i delitti nei quali è incorso sono riservati alla Sede Apostolica, chiunque lo assolva senza sua previa ritrattazione pubblica, o perlomeno dinanzi a due testimoni in caso di reale pericolo di vita, incorrerebbe a sua volta in scomunica latae sententiae (cfr. can 969; can. 1378 §2 n. 2).

Questo è ciò che stabiliscono le leggi canoniche, al contrario di quelle personali di Mister Sono-Due-Volte-Teologo (nome) Ho-Due-Lauree-In-Teologia (cognome) e dei suoi compagni di sventura, inclusi gli inventori di codici anfibologici.

Velletri di Roma, 4 luglio 2024

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L’operato del Demonio nella storia dell’uomo: la tentazione come battaglia quotidiana

L’OPERATO DEL DEMONIO NELLA STORIA DELL’UOMO: LA TENTAZIONE COME BATTAGLIA QUOTIDIANA

Ora la possessione diabolica, di cui fu accusato perfino il Signore Gesù è un’azione straordinaria, rarissima, di cui la Chiesa per la sua certificazione segue un procedimento e delle norme severe. Ma l’azione ordinaria, quotidiana, del Demonio è la tentazione che arriva a colpire l’uomo sia nel corpo che nella psiche.

 

Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

 

PDF  articolo formato stampa

 

 

Tempo fa ho dedicato un articolo alla figura del Demonio, dopo che in Sicilia, nel febbraio di quest’anno, è stato compiuto un efferato delitto dove l’uccisore, per spiegare il suo gesto insano, si nascondeva dietro il motivo che in casa sua, nei suoi familiari, ci fosse questa oscura presenza (QUI).

Ho continuato a riflettervi sopra e trovo sia prudente oltre che ragionevole aggiungere alcune parole sulla tentazione, che appare come la via ordinaria attraverso la quale Satana agisce fra gli uomini, ponendo inciampi, in virtù del suo essere lui per primo disobbediente e mentitore. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 395, questi viene definito come uno spirito dotato di una potenza limitata:

«La potenza di Satana però non è infinita. Egli non è che una creatura, potente per il fatto di essere puro spirito, ma pur sempre una creatura: non può impedire l’edificazione del regno di Dio. Sebbene Satana agisca nel mondo per odio contro Dio e il suo regno in Cristo Gesù, e sebbene la sua azione causi gravi danni – di natura spirituale e indirettamente anche di natura fisica – per ogni uomo e per la società, questa azione è permessa dalla divina provvidenza, la quale guida la storia dell’uomo e del mondo con forza e dolcezza. La permissione divina dell’attività diabolica è un grande mistero, ma «noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio (Rm 8,28)».

Ritengo sia giusto tornare a riflettere sul significato della tentazione, perché tale argomento sembra sparito dall’orizzonte della vita cristiana, anzi, talvolta, si cerca di sminuire la responsabilità personale in ordine al peccato. Quante volte abbiamo sentito pronunciare, a mo di burla, la celebre frase di Oscar Wilde: «Il modo migliore per liberarsi di una tentazione, è cedervi». Oppure di una nota frase di Gesù nel Vangelo si mantiene solo la prima parte: «Neanch’io ti condanno»; dimenticando che il testo prosegue con: «va’ e d’ora in poi non peccare più». O quando nel frasario quotidiano, a scusa di particolari peccati si suol dire: «La carne è debole».

Solo per accenno, avendo citato il celebre scrittore Oscar Wilde, vorrei ricordare che, nonostante i suoi trascorsi, le molte avventure omosessuali, egli mori da cattolico, dopo aver ricevuto da un sacerdote il Battesimo, l’assoluzione dai peccati in articulo mortis e l’estrema unzione. Nella celebre lettera De profundis indirizzata a un suo amante, Oscar Wilde non smette un attimo di rimproverarsi le debolezze dimostrate in ogni occasione e pronuncia la frase: «Il Cattolicesimo è la sola religione in cui valga la pena di morire».

Sempre per allentare la responsabilità personale nel peccare, a volte si arriva, in ambito religioso, a dare l’intera colpa al Diavolo. Oppure si ricorre, fuori dall’orizzonte di fede, ai processi psicologici per cui l’essere umano, siccome è tale, soggetto a pulsioni e desideri che spesso risalgono all’infanzia, è esente dal peccato; egli può autoassolversi senza intermediari, arrivando perfino alla rimozione della colpa stessa, in barba ad ogni etica della responsabilità. Cosa questa nella quale è pioniera la Psicoanalisi freudiana.

Comprendere cosa sia la tentazione vuol dire capire proprio questa umana fragilità. In un contesto religioso e specificatamente cristiano, vediamo che questa umanità soggetta a caducità non è stata condannata da Dio, ma anzi, assunta da Verbo, la seconda persona della Santa Trinità, tanto che nel Credo si professa che Egli è: «Vero Dio e vero Uomo». Sappiamo infatti che Gesù stesso subì l’attacco della tentazione e portò la parola del perdono e della misericordia a tutti, lasciando la libertà all’uomo di poter anche disattendere questa proposta a proprio discapito.

Affrontare la tentazione per noi esseri umani vuol dire intraprendere una guerra che combattiamo di frequente. E ci viene incontro proprio l’esempio del Cristo che ingaggiò col Demonio una battaglia finale. Secondo il racconto dei Sinottici, alla manifestazione pubblica della messianicità di Gesù nel battesimo fa immediatamente seguito il conflitto con il Demonio, il cui apice è raggiunto dalla versione lucana della seconda tentazione:

«E, conducendolo in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni dell’ecumene; e gli disse il Diavolo: “Ti darò tutta questa potenza e la loro gloria, perché a me è stata rimessa ed io la do a chi voglio; se tu dunque ti prostri davanti a me, sarà tutta tua”» (Lc 4, 5-6).

È una sfida mortale. Gesù non può contestare l’affermazione di potere del Demonio, ma vi oppone la fede in un’altra potenza. A chi più tardi, facendo eco alle parole del demonio, lo accuserà di essere lui stesso un indemoniato, risponderà:

«Ma se è con il dito di Dio che io scaccio i demoni, allora è giunto a voi il regno di Dio» (Lc 11, 20).

Ora la possessione diabolica, di cui fu accusato perfino il Signore Gesù è un’azione straordinaria, rarissima, di cui la Chiesa per la sua certificazione segue un procedimento e delle norme severe. Ma l’azione ordinaria, quotidiana, del Demonio è la tentazione che arriva a colpire l’uomo sia nel corpo che nella psiche.

Come affermava il Catechismo su menzionato, per i disegni misteriosi di Dio, questa attività tentatrice seppur limitata, pure è permessa, evidentemente per un fine superiore. Potremmo dire, per il bene delle anime. La dinamica psicologica e spirituale della tentazione ha come fine il rovesciamento del reale rapporto fra noi e Dio. Il demonio facendoci apparire come buone cose che invece non lo sono, inducendoci al peccato, tenta di allontanarci dal Dio vivo e vero mettendo davanti ai nostri occhi realtà appetibili che sono in verità poveri idoli.

Queste dinamiche demoniache della tentazione le possiamo rintracciare nel primo libro biblico della Genesi. È lì che troviamo narrata la madre di ogni tentazione, nel capitolo terzo dell’opera. Il testo ci mostra come si muove una tentazione che va a scapito dell’uomo e del suo originario rapporto col Creatore.

Innanzitutto la tentazione, nel suo primo movimento, si frappone fra l’uomo e il progetto di Dio su di lui, fino a corromperlo.

«Il serpente […] disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”» (Gen 3, 1).

Il tentatore si insinua così nel rapporto fra la creatura ed il Creatore, iniziando a porre dei dubbi sotto forma di domanda in un contesto di dialogo. Avviene qui il primo cedimento, il tranello nel quale cade Eva, perché risponde. Tutti gli autori spirituali, sulla scorta del testo biblico, avvisano che non bisogna dialogare col demonio, bensì tacitarlo, impedendo che inneschi un eventuale sospetto. L’unica voce che dobbiamo ascoltare è quella di Dio.

La prossima mossa, o secondo movimento di ogni tentazione, consiste nello stravolgimento morale di un bene, facendolo percepire come l’opposto:

«Il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”» (Gen 3, 4-5).

Una volta aperta una porta per il dialogo il Demonio non solo subdolamente si insinua e pone dubbi su Dio come pochi, ma stravolge il Suo insegnamento pervertendolo. È la fine della moralità e della ricerca del vero bene: far sembrare una scelta errata, un peccato, come la cosa più buona e ragionevole. Giunti a questo punto, come si può non cadere? Anzi tutto avviene con facilità. Perché il peccato ci è presentato come la via più vera e utile, salvo poi scoprire che invece è insidiosa e soprattutto ci allontana da Dio:

«Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò»(Gen 3,6).

Come si nota, uscire poi dal tunnel della tentazione, una volta imboccato, è difficile se non impossibile. Eppure all’inizio dicevamo che non siamo soggetti senza libertà e responsabilità. Anche se beni indispensabili vengono minati da una minaccia come quella demoniaca, abbiamo la capacità, se non il dovere, di opporci. I Santi ed i maestri dello spirito ci hanno indicato alcuni mezzi i quali, se non ci fanno evitare di essere tentati, ci fortificano, ci donano quegli anticorpi che ci rendono quasi inattaccabili. Accennavo prima a non dare spazio al dialogo col demonio, che può essere, per esempio, interiore, nei nostri pensieri; e per fare questo occorre essere vigilanti.

La preghiera, sull’esempio di Gesù, aiuta molto nel non cadere nella tentazione. Essa ci allena alla vigilanza e ci prepara alle future difficoltà e lotte col demonio. Ma a volte è necessario anche fuggire dalla tentazione, come davanti ad un pericolo che ci sovrasta o che non possiamo controllare, un fuoco che divampa. I detti dei padri del deserto sono pieni di esempi di questo genere, quando erano tentati sulla loro fede genuina o sulla castità che avevano scelto. C’è un bellissimo quadro di Matthias Grünewald, conservato a Colmar in Francia, dove si vede il padre del deserto, Sant’Antonio abate, stiracchiato e assalito da ogni lato da bestie che rappresentano i demoni con le loro tentazioni. Ma non cede o demorde. Il resoconto delle battaglie di Sant’Antonio abate contro il demonio ci viene narrato in questi termini dal vescovo Atanasio di Alessandria che scrisse, avendolo conosciuto in vita, una biografia del santo anacoreta:

«Il posto sembrò esser sconquassato da un terremoto, ed i demoni, quasi abbattessero le quattro mura del ricovero sembravano penetrare attraverso esse, ed apparire in forma di bestie e di cose striscianti. Il posto si riempì improvvisamente di forme di leoni, orsi, leopardi, tori, serpenti, aspidi, scorpioni, ed ognuna di esse si muoveva in accordo alla sua natura».

Si è giustamente osservato che le prediche sui demoni costituiscono

«… un grandioso esempio di psicologia cristiana, in cui le intemperanze umane vengono descritte sotto forma di demoni richiamati dagli abissi dell’inconscio, una sorta di Freud ante litteram con la potenza di Dostoevskij.» (Louis Goosen, Dizionario dei santi, Mondadori, 2000).

Da quanto detto finora risulta evidente che, essendo l’umanità fragile, è facile per noi cedere al peccato in conseguenza di una tentazione. Eppure sappiamo da tutta la rivelazione che non possiamo essere tentati oltre le nostre capacità, che Dio è la nostra forza in qualsiasi circostanza. E se pure cadiamo, Dio ama l’uomo pentito e lo accoglie sempre nella sua grande bontà, come ci insegnano le parabole della misericordia che leggiamo nel Vangelo. Tanto che Gesù stesso ci chiede di imitarlo nel perdono del prossimo e di convertirci.

Cedere alla tentazione ed accettare passivamente il peccato non appare solo come un atto grave di irresponsabilità e immoralità; direi anche che è un atto contro la bellezza e il valore della dignità e libertà che Dio stesso ci ha donato. La sua grazia ed il suo amore, che ci ha rivelato nel corso della storia della salvezza e sommamente nel Cristo Signore nostro ci spingono a liberarci dai lacci della tentazione per vivere abitualmente nella virtù.

In una prossima puntata potremo analizzare meglio l’equipaggiamento dell’uomo virtuoso e quali armi abbiamo da Dio per combattere gli assalti demoniaci. Intanto, per smorzare un po’ i toni seriosi, vi lascio con un consiglio di lettura, il bel libro di C.S. Lewis, Le lettere di berlicche. Questo libro è un racconto satirico in forma epistolare in cui un diavolo anziano, «sua potente Abissale Sublimità il Sottosegretario Berlicche», istruisce suo nipote Malacoda, un giovane diavolo apprendista tentatore. Berlicche consiglia Malacoda su come assicurare la dannazione dell’anima di un giovane essere umano a lui assegnato, indicato come il «paziente», mentre Dio è il «Nemico». Così afferma saggiamente, nella premessa, il Lewis:

«Ci sono due errori uguali ed opposti nei quali la nostra razza può cadere a riguardo dei diavoli. Uno è non credere alla loro esistenza. L’altro è crederci, e nutrire un eccessivo e insano interesse in essi. Loro stessi sono ugualmente compiaciuti da ambedue gli errori e salutano un materialista o un mago con lo stesso piacere».

Santa Maria Novella in Firenze, 3 luglio 2024

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