Dal volo del calabrone alla macina da mulino legata al collo

—  omiletica —

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DAL VOLO DEL CALABRONE ALLA MACINA DA MULINO LEGATA AL COLLO

 

La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso». Il calabrone, secondo questa leggenda, vola secondo una misteriosa forza. Che non sa di possedere.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Meditazione sul Santo Vangelo della XXVI Domenica del tempo ordinario

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Cari Fratelli e Sorelle,

il celebre fisico Albert Einsten spiegò che «La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso». Secondo questa teoria, il calabrone vola secondo una misteriosa forza. Che non sa di possedere. Questa storia mi aiuta ad introdurre le letture di oggi in questa XXVI Domenica del tempo ordinario.

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Ognuno di noi riceve la forza della grazia da Dio. Anche se siamo deboli e lontani da Dio, ci offre sempre il dono di essere in comunione con Lui. Vediamo:

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In quel tempo, Giovanni disse a Gesù:

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«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva».

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Ma Gesù disse:

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«Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa».

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Questa è una delle pagine più complesse e più discusse dagli esegeti. In altri luoghi, Gesù aveva spiegato come diventare suoi discepoli; prendere la sua croce, seguirlo e quindi accogliere il piano di Dio. Qui sembra invece che si ponga una questione più profonda: chi non fa parte del gruppo degli apostoli può fare il bene.

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Ciò detto però si può comprendere in un passaggio: chi fa il bene in nome di Cristo è già di Cristo. Gesù dunque sta già operando anche in chi è lontano; perché forse la sua fede non è ancora forte, o se quella persona è in cammino di conversione. Il Signore è l’unico che conosce i cuori. Solo Lui può davvero valutare ogni nostra opera. Ecco quale è il centro di questo insegnamento: di non impedire a nessuno l’attuazione di un cammino spirituale, giudicandolo su schemi preconfezionati. Questo è rivolto anche a noi. Non sentiamoci giudicati se anche il nostro cammino di fede è pieno di dubbi, ansie, fragilità, arrabbiature e anche peccati. Se pian piano ci orientiamo in un cammino di essere con Cristo, ogni momento critico è un momento di crescita e viene superato con l’aiuto della grazia che è una forza che ci aiuta ad essere sempre più di Cristo.

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Per arrivare a questo è bene purificarsi da tutto ciò che appunto ci porta fuori dalla comunione con Dio. Innanzitutto, non bisogna scandalizzare i piccoli che credono. Coloro cioè che hanno una fede sincera e umile: quando qualcuno gli pone uno scandalo, li ostacola nel credere. Scandalizzare è porsi contro Dio. Gesù in questo è molto chiaro:

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«Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

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Questo richiamo al tagliare la mano, il piede e gettare via l’occhio sono delle immagini, unite a quelle del fuoco della Genna, che simboleggiano un grande lavoro su noi stessi: purificare il nostro sguardo e la nostra azione. Dunque Gesù, affinché arriviamo in comunione con Lui, ci chiede di purificarci, di metterci, cioè di prendere uno sguardo sulle realtà delle cose da credenti e non da atei. Dunque di cambiare il nostro modo di vivere non solo in senso moralistico, ma da una prospettiva di fede con cui guardare a tutte le cose. In tal modo, potremo vedere il nostro prossimo con cuore sincero e aperto, donargli delle grandi opere di carità. Anche questa purificazione avviene con l’aiuto della grazia, indispensabile perché tutta la nostra vita sia elevata e divinizzata.

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Chiediamo al Signore, il dono della grazia santificante, per incrementare il nostro cammino di fede, ed imparare ad amare Dio e il prossimo con amore di carità.

Così sia.

Roma, 26 settembre 2021

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NICOLAI RIMSKY KORSAKOV «IL VOLO DEL CALABRONE»

 

 

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Eutanasia come sconfitta antropologica e fallimento moderno della pietas e della cura

— Pastorale sanitaria —

EUTANASIA COME SCONFITTA ANTROPOLOGICA E FALLIMENTO MODERNO DELLA PIETAS E DELLA CURA

Sarebbe interessante far notare, ai laicisti sostenitori dell’eutanasia, che grazie all’opera Dei Delitti e delle Pene dell’illuminista Cesare Beccaria si inizia ad abolire, già nel 1786, la pena di morte dal sistema giudiziario di alcuni stati e regni. Oggi in nome di quello stesso pensiero illuminista la pena di morte viene reintrodotta come conquista della scienza e comminata quale misericordioso rimedio non più a dei delinquenti pubblici ma a dei pubblici innocenti.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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in foto: Marco Cappato. La vita ci appartiene veramente?

Le recenti e indecenti prese di posizione di alcuni esponenti politici “cattolici” [vedi QUI] così come di alcuni religiosi sui generis [vedi QUI] che appoggiano il referendum sull’eutanasia legale aprono diversi e preoccupanti scenari sull’etica della vita che riguardano i diritti e la tutela della salute dei malati. «L’eutanasia e il suicidio assistito sono infatti una palese sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica» [cfr. Lettera Samaritanus bonus, V.1; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 170] introducendo di fatto il malato all’interno di quel fallimento antropologico moderno che non è più in grado di riconoscere la bellezza e la dignità della vita umana anche quando questa è gravata dall’infermità o dall’handicap.

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Ci si costringe, perciò, a condividere delle derive ideologiche che incentivano sempre più la cultura dello scarto e della morte in cui l’uomo finisce per essere visto e percepito solo in base a quello che può dare, a ciò che può fare e al suo autonomo sostentamento dentro la comunità civile. L’essere umano che nella malattia o nell’handicap ha perso la speranza in una guarigione si vede disconosciuto e limitato, in modo del tutto arbitrario, della propria qualità di vita da parte di coloro che non lo considerano più soddisfacente e degno di stare nel mondo dei sani e dei validi.

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La cosa più evidente in queste derive etiche consiste nella perdita completa della speranza che è chiamata a illuminare il futuro, anche quando si presenta incerto. La Cristianità ha assunto la speranza come virtù teologale che procede direttamente da Dio in quanto la sua Provvidenza opera sia negli ultimi istanti della vita dell’uomo così come nei primi. Nella speranza cristiana tutto è grazia, anche quella di un corpo infermo [Cfr. 2 Cor 12, 9] in cui risplendono i patimenti del Salvatore crocifisso [Cfr. Col 1, 24]. Così, se la speranza nella guarigione è andata perduta è possibile ancora riaccendere la speranza della cura che è la stessa che il Salvatore rivendica per sé stesso nella persona degli affamati, degli assetati, dei forestieri, degli indigenti, dei carcerati e degli infermi e moribondi [cfr. Mt 25, 31-46]. L’inciso matteano del «l’avete fatto a me» ha il merito di farci capire che cosa sia la pietas in cui si sviluppano tutti quei doveri sacri che l’uomo esercita verso gli altri uomini e che nel Vangelo diventa grazia provvidenziale in cui il Dio fatto uomo si rivela come soggetto della cura pietosa. Per questo motivo, da cristiani, è necessario ribadire senza paura di smentita che l’eutanasia non è quello che si vorrebbe far credere oggi, cioè una morte degna ma solo un modo ingannevole di vivere la compassione e l’empatia verso il malato sfuggendo la fatica del prendersi cura di lui.

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L’individualismo reale del mondo moderno, assunto a stile di vita ordinario, impoverisce le relazioni reciproche aumentando la solitudine dell’uomo durante il tempo della malattia, conducendo così il morente alla disperazione più totale che gli fa desiderare una risoluzione rapida e indolore della propria condizione di infermità arrivando a scegliere, quasi come una liberazione, l’eutanasia. Ecco il motivo per il quale oggi, davanti a un offuscamento dei più basilari principi etici e religiosi, i malati terminali rappresentano oggi la categoria più fragile ed esposta. Siamo di fronte a una reale emergenza umanitaria che non può essere più ignorata, visto che la civiltà di un popolo e la sua pietas si misurano ― anche prima dell’avvento del Cristianesimo ― in base all’accudimento portato verso i deboli, i bambini, gli anziani, i malati e i moribondi.

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LA TUTELA DEI MALATI TERMINALI E DIVIETO DI UCCIDERE

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È necessario ad ogni costo tutelare i malati terminali evitando di trasformare gli ultimi giorni della loro vita terrena in una sorta di battaglia politica o, peggio ancora, in una sorta di rivendicazione sociale fatta dai soliti volti noti che, guarda caso, sono più che mai attaccati alla loro esistenza terrena. E sì, perché tra le tante contraddizioni del pensiero laicista moderno, i fautori dell’eutanasia legale si augurano per sé stessi una lunga aspettativa di vita e ragionano da perfetti ipocondriaci nel tentativo di allontanare ed esorcizzare le malattie e gli interventi sanitari. Così è anche per i fautori dell’aborto che sono al mondo grazie a delle madri che non si sono vergognate a scegliere la vita per loro rifiutando la tanto civile e responsabile interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Già questo basterebbe per mettere in luce la sragionevolezza e l’illogicità di certi personaggi la cui linea di pensiero tenta di guadagnarsi un posto di rilievo nella grande arena dell’opinione pubblica nazionale ed estera ma che sarebbe meglio accantonare per il bene di tutti.

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Lasciando da parte queste contraddizioni laiciste, iniziamo a ragionare secondo un pensiero cristiano solido. andando alla fonte che è la Sacra Scrittura che ammonisce:

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 «Figlio, non trascurarti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà» [Sir 38, 9].

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Questo l’invito del Siracide che non è affatto un cieco fideismo come qualcuno potrebbe pensare. Affermare «non trascurarti nella malattia» significa due cose essenziali: consapevolizzarsi sulla cura del proprio corpo donato in modo gratuito dal Signore; prendere parte a un’azione di cura che si esplicita dentro un cammino di fede nel Dio della vita e della risurrezione, con segni sacramentali che sono anche terapeutici e dentro un’azione caritativa fattiva che si affianca come compagna di viaggio al malato, soprattutto quando questo è orientato verso la fase terminale dell’esistenza.

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Il nostro corpo non ci appartiene, ci è stato donato da Dio per una missione e si realizza con la collaborazione dei genitori nell’opera generativa. Come realtà che è stata concessa in prestito, il corpo ha la necessità di essere custodito e preservato da tutti quegli eventi avversi che attentano alla propria integrità e incolumità fisica e spirituale. E questo non si applica al solo caso della malattia ma soprattutto ai disperati tentativi eutanasici che sono essi stessi eventi patogeni, davanti ai quali è necessario interrogarsi a partire da quel quinto comandamento del Decalogo che dice: «Non ucciderai» [cfr. Es 20, 13].

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Il comandamento che vieta di uccidere fa parte sia del diritto divino che di quello naturale. È immutabile e inderogabile e nessun legislatore umano può abrogarlo senza cadere dentro un illecito di auctoritas e di potestas. Cosa questa che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha spiegato chiaramente quando afferma:

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«Nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente» [Istruzione Donum Vitae, n. 5].

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Perciò, nessun essere umano innocente può essere violato con la morte procurata sia quando esso si trova nel seno materno sia quando si trova in un letto di malattia. L’innocenza e l’incolpevolezza del feto, come quella del moribondo terminale rendono tutti gli atti abortivi, eugenetici ed eutanasici gravidi di quel sangue di Abele che grida dal suolo ancora vendetta davanti al trono del giudice divino [Cfr. Gn 4, 10].

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Sarebbe interessante far notare, ai laicisti sostenitori dell’eutanasia, che grazie all’opera Dei Delitti e delle Pene dell’illuminista Cesare Beccaria si inizia ad abolire, già nel 1786, la pena di morte dal sistema giudiziario di alcuni stati e regni. Oggi in nome di quello stesso pensiero illuminista la pena di morte viene reintrodotta come conquista della scienza e comminata quale misericordioso rimedio non più a dei delinquenti pubblici ma a dei pubblici innocenti.

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DIRITTO ALLA VITA E DIRITTO ALLA MORTE

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Davanti a queste dolorose considerazioni è necessario riflettere e partire per poter formulare una nuova idea di qualità della vita, di salute e di cura. Logica vuole che se il corpo diviene un possesso personale, un oggetto, esso può anche essere (ab)usato in modo egoistico e dispotico, anche da terze parti, fino al suo completo esaurimento, morte compresa.  Così come non può esistere un dispotico e arbitrario “diritto alla vita” a ogni costo e a qualunque prezzo, non può esistere neanche un “diritto alla morte” che includa pratiche eutanasiche anche qualora fossero molto rare e sporadiche. Il diritto alla vita è susseguente alla disposizione provvidenziale che Dio predispone, il quale non intende dare la vita all’uomo come un oggetto di cui si possa disporre arbitrariamente. La vita è orientata a un fine verso cui l’uomo ha la responsabilità di dirigersi: la propria perfezione personale secondo il disegno e la chiamata di Dio [Cfr. Pontificio Consiglio Cor Unum per la promozione umana e cristiana, Documento Dans le Cadre, n. 2.1.1.]. Questo è l’approccio cristiano alla vita che si basa sul fatto che

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«l’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio» [Cfr. Evangelium Vitae n. 2].

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Questa chiamata-vocazione soprannaturale all’oltre di Dio costituisce la grandezza e la preziosità dell’umana esistenza anche nella sua fase terminale che per il credente non può mai essere considerata come una realtà «ultima», ma semmai «penultima» perché in cammino verso quella dimensione escatologica che si apre alla vita piena in cui Dio sarà tutto in tutti [cfr. 1Cor 15,20-28]. Per questo motivo, appare evidente, come la vita di ogni individuo è realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell’amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli: dal riconoscimento della pietas alla cura e dalla cura alla pietas.

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IL BUON SAMARITANO E LA CHIESA OSPEDALE

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Ecco perché la Chiesa nella sua tradizione bimillenaria ha sempre attuato, sulla scorta di Cristo Buon Samaritano [cfr. Lc 10, 29-37], tutte quelle opere di misericordia corporali e spirituali che sono servite a soccorrere l’uomo durante il suo pellegrinaggio terreno. Uomo che, il più delle volte, si trova a doversi confrontare con la propria nativa fragilità che comporta sia i mali fisici che quelli dell’anima. Il Buon Samaritano è l’icona della custodia alla vita e dell’esercizio pietoso della cura fino alla fine. Esso non giudica gli assalitori dell’uomo ma si dà da fare affinché questi non perisca, sebbene già altri abbiano rinunciato ad assisterlo e a donargli una speranza di sopravvivenza. Il Samaritano si prende in carico l’uomo ferito e lo consegna a sua volta, affinché altri in sua vece ne abbiano cura per lui. Egli non è quello che noi oggi definiremmo un caregiver, non opera da solo ma dentro una comunità sanante a cui l’immagine della locanda rimanda. Introduciamo così una chiara immagine ecclesiologica in cui la comunità di fede, la Chiesa, accoglie dalle mani del Samaritano il ferito per condurlo verso un accompagnamento senza tempo: «Abbi cura di lui… fino… al mio ritorno» [Lc 10, 35]. E questo ritorno escatologico non è solo quello del Figlio di Dio nella sua gloria ma anche l’incontro escatologico in cui l’uomo, terminata la sua vita terrena, si ricongiunge con il Creatore.

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È senza dubbio interessante questa visione ecclesiologica che anche il Pontefice regnante nella sua prima intervista alla rivista Civiltà Cattolica [vedi QUI; QUI], richiama, definendo e presentando la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. Similitudine questa che è tristemente decaduta, in otto anni di pontificato, dentro una serie di luoghi comuni. Privando questa bella immagine del suo significato originario, ci si è spinti al parossismo includendo termini marcatamente cristiani ― come ospitalità, accoglienza e cura ― dentro un’ermeneutica svuotata del senso ecclesiologico a favore di quello socio partitico e sociopolitico. Non a caso oggi siamo circondati da slogan che inneggiano all’accoglienza, alla cura e al prendersi carico degli abbandonati, però, nello stesso tempo, vediamo il moltiplicarsi di slogan sull’eutanasia. Davanti a questa illogicità di pensiero diventa impossibile e ipocrita parlare di accoglienza senza riserve, di cura amorevole e disinteressata per finire all’ospitalità del cuore che ha la pretesa di abbattere i muri divisori. Non è difficile capire che tutte queste cose vengono decantate a scopo propagandistico e solo per esclusive e determinate categorie di persone. Impossibile, perciò, la conciliazione degli opposti, di chi da una parte lotta per i più deboli ma a nome di quegli stessi deboli è pronto a proporre la morte quando la debolezza della malattia rende impossibile ogni guarigione.

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VERSO DUE OBIETTIVI: «N’EBBE COMPASSIONE» E «SI PRESE CURA DI LUI» [LC 10,33-34].

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Dopo queste considerazioni e analisi appare necessario e urgente ritornare all’esempio unico e vero del Buon Samaritano, che è Cristo Signore, il quale insegna ai suoi discepoli a prendersi cura della totalità dell’uomo ferito introducendolo in quella locanda ospedale da campo che è la madre Chiesa che, così come genera alla vita dal fonte battesimale, così immerge nella grazia della misericordia il morente. Mi piace dare due spunti di lavoro che hanno il compito di scongiurare nei cristiani la tentazione all’eutanasia, non sono come pratica in sé ma soprattutto come visione etica del fine vita.

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Per sfuggire all’eutanasia dobbiamo avere la compassione del Buon Samaritano che non si può spiegare in altri termini se non come quell’amore materno che si lascia ferire. Il Samaritano si lascia vulnerare da quel malcapitato che gli si para sul cammino, le ferite di quell’uomo colpito dai briganti si imprimono nelle sue viscere in una sorta di pietosa transverberazione del cuore. Egli arriva addirittura a rischiare di perdere i propri affari pur di soccorrere chi gli è di fronte. C’è una necessità impellente che lo porta a con-patire la debolezza e la sofferenza dell’uomo ferito, così come c’è una volontà di stare lì in quel momento di sofferenza e di croce, così come vediamo nell’esempio di Maria Santissima sul Golgota. Siamo di fronte a un imperativo morale che diventa anche imperativo di assistenza che crea una sensibilità profonda verso chi è debole o ferito, con il desiderio fattivo di alleviarne realmente le pene. La vera compassione e il vero compassionevole adottano azioni e soluzioni concrete con cui è possibile intervenire soccorrendo l’infermo [cfr. B. Moriconi (1997), Compassione, In Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, pp. 227-234, Ed. Camilliane].

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Capiamo bene che come cristiani il nostro sostare davanti al malato terminale non può che essere quello di chi vuole con-patire la conclusione naturale di una esistenza umana in cui Dio si è rivelato. Se la condizione terminale del malato non ferisce le nostre viscere tanto da assumerne il peso non proveremo mai la compassione del Buon Samaritano che apre a una fattiva assistenza umana e spirituale. Consapevoli che

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«arriva un momento nel quale non c’è che da riconoscere l’impossibilità di intervenire con terapie specifiche su una malattia, che si presenta in breve tempo come mortale» [Lettera Samaritanus bonus, I]

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Il cristiano inizia a farsi carico del morente con quell’assistenza materna che è vicinanza, allontanamento della paura e dell’abbandono, incoraggiamento e fiducia nel Signore risorto vincitore di ogni angoscia mortale. Solo in questo modo l’ammalato si sentirà circondato da una presenza amorevole, materna, umana e cristiana e non cede alla depressione e all’angoscia di chi sentendosi abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte chiede di porvi fine [Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 170].

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Dopo aver avuto la giusta compassione verso il morente è necessario darsi da fare con il prendersi cura di lui, sempre infatti è possibile curare anche quando non è più possibile guarire. È bene differenziare quelle che sono le competenze e i campi di assistenza del personale specialistico, della famiglia e della comunità ecclesiale. Da un punto di vista medico le strutture dove sono trattati i malati terminali, gli hospice, Case di Cura, devono poter garantire quelle cure mediche essenziali, palliative che escludano ogni forma di accanimento. Stessa cosa quando il malato terminale si trova ancora nella sua casa, i medici e gli specialisti devono potersi attivare per garantire una necessaria assistenza medico-infermieristica limitando tutte quelle condizioni di dolore e di sofferenza che sono collegate con gli stati terminali di una malattia. A ogni modo, sia nelle strutture sanitarie come nelle case private, le cure palliative rappresentano la risposta migliore di assistenza ai bisogni fisici del malato e di fatto scongiurano la scelta eutanasica che riformula il concetto di cura in una morte anticipata e medicalmente assistita [cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 147; Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno Internazionale sull’assistenza ai morenti (17 marzo 1992), n. 5].

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Il prendersi cura del malato terminale include non solo i bisogni medici ma psicologici e spirituali, cosa che la comunità cristiana deve poter fare con sollecitudine e premura. Annunciare il Vangelo al morente è fondamentale per aprire a quella speranza che non delude. Amministrare in tempo i sacramenti dell’Unzione degli Infermi, a cui è annessa l’assoluzione dei peccati con l’indulgenza plenaria, e la somministrazione del Santo Viatico è il modo ordinario con cui un cristiano battezzato si congeda da questo mondo per risvegliarsi in Dio.

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L’esercizio della carità verso il malato terminale si realizza vedendo in lui il volto del Cristo sofferente e morente. Cosa che porta la comunità ecclesiale a pregare per il morente e a chiedere per lui, all’Eterno Padre, la misericordia del perdono e la grazia della riconciliazione dell’intera vita. È un momento forte in cui è indispensabile lasciare cadere le colpe del passato, i peccati, i nodi che si sono accumulati è un modo per cercare e donare pace gli uni agli altri. Perdonando i debiti al morente e permettendo che lui perdoni i nostri si crea quella comunione vicendevole di carità di cui tutti abbiamo bisogno per riconoscerci cristiani e figli del Padre che è nei cieli, in cui si rende visibile quella perfezione che non opera in virtù di quella logica non priva di interessi di chi non conosce Dio [Cfr. Mt 5, 43-48].

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La famiglia del malato terminale è senza dubbio la più esposta, ma anche quella su cui ricadono le maggiori aspettative del morente. Morire circondati da coloro che abbiamo amato e che hanno condiviso con noi l’esistenza è una grazia senza fine. Allo stesso modo, stare vicino nella morte a chi abbiamo amato come genitore, figlio, fratello, amico è la forma di comunione di amore più perfetta che possiamo umanamente realizzare nella nostra esperienza terrena. Ecco perché la presenza della famiglia vicino al morente deve essere costante e privilegiata, nessuno può sostituirsi a essa. Nonostante questo, la famiglia ha bisogno di essere intelligentemente supportata per non soccombere alla fatica del distacco dal proprio caro e dall’agonia successiva alla perdita. La comunità cristiana, come comunità sanante ― healing community , si affianchi in modo discreto a queste famiglie provate, supportandole in tutto e per tutto così da imitare la sollecitudine del Cireneo che aiuta a portare per un tratto il peso della croce di Cristo quando questo si accascia al suolo. La comunità cristiana è Serva e Guaritrice, è presente premurosamente nella sofferenza ma agisce nella cura che è diaconia della carità per favorire la salute integrale (salvezza) delle persone. 

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Noi Padri de L’Isola di Patmos, a livello umano e sacerdotale condividiamo fraternamente e serbiamo nei nostri cuori il tenero ricordo di numerosi malati terminali, o di anziani che si stavano a poco a poco spegnendo come candele giunte alla fine. Questo perché condividiamo anche un altro elemento: chiunque voglia fare veramente teologia o approfondire certi particolari rami di studio e di ricerca, deve sempre farlo partendo dalla preghiera e dal materiale umano. Noi siamo Sacerdoti di Cristo istituiti e consacrati medici per curare le anime degli uomini. Il più giovane tra di noi, Padre Gabriele, si occupa dei temi della vita e delle disabilità sin da quando era novizio nell’Ordine dei Frati Predicatori. Chi scrive queste righe ha trascorso anni della propria vita nelle corsie di un grande ospedale. Padre Ariel, che non ha mai svolto il ministero di parroco e che si è sempre dedicato ad altre mansioni, ha amministrato più unzioni degli infermi ed è stato seduto al capezzale degli ammalati più di quanto spesso non facciano parroci di parrocchie di 10.000 battezzati, semmai perché … impegnati in riunioni del consiglio parrocchiale. E quando noi entriamo dentro un confessionale, spesso ne usciamo fuori dopo ore, supplendo alla “mancanza di tempo” di svariati parroci che, impegnati in non meglio precisate “attività pastorali”, non hanno tempo per confessare, immemori che noi siamo stati consacrati presbiteri per celebrare il Sacrificio Eucaristico, predicare il Santo Vangelo, rimettere i peccati e assistere gli ammalati e i morenti, tutto il resto viene in secondo piano, dalle riunioni del consiglio parrocchiale sino alle più alte speculazioni teologiche. È partendo da queste basi che si può spiegare a tutti coloro che pensano di fuggire il dolore della morte con l’eutanasia, che spesso nel dolore e nella sofferenza è racchiusa quella grande sapienza che ci rende uomini migliori. Risolvere tutto fuggendo la malattia e il dolore con una “dolce morte”, vuol dire non avere compreso perché si è nati, per cosa valga la pena vivere e come mai, un giorno, bisogna morire, semmai anche soffrendo.

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Non è facile parlare dell’elemento salvifico del dolore e della sofferenza a questa società ormai degenere, se però non lo facciamo, anche a costo di non essere compresi, o più facilmente a rischio d’essere presi a male parole, tradiremo nel peggiore dei modi la missione a noi affidata da Cristo che ha sconfitto la morte e che ci ha resi partecipi della sua risurrezione.

Laconi, 25 settembre 2021

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Intervista ad Andrea Turazzi Vescovo di San Marino-Montefeltro: domenica 26 settembre gli elettori della più piccola e antica repubblica del mondo decideranno se legalizzare l’aborto

  — Interviste —

INTERVISTA AD ANDREA TURAZZI VESCOVO DI SAN MARINO-MONTEFELTRO: DOMENICA 26 SETTEMBRE GLI ELETTORI DELLA PIÙ PICCOLA E ANTICA REPUBBLICA DEL MONDO DECIDERANNO SE LEGALIZZARE L’ABORTO

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«Quindi uno non può considerarsi cattolico e poi, per esempio, non riconoscere che la vita umana è sacra fin dal concepimento. Un credente deve contemplare l’azione creatrice di Dio. Il concepito è sempre dentro una relazione, un’alleanza speciale con il Creatore, ha un’anima immortale».

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Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

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PDF  articolo formato stampa
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Cor ad cor loquitur (il cuore parla al cuore), locuzione tratta dall’epistolario di San Francesco di Sales, stemma episcopale di S.E. Mons. Andrea Turazzi, Vescovo di San Marino-Montefeltro

Al referendum di domenica 26 settembre gli elettori decideranno se la Repubblica di San Marino deve liberalizzare l’aborto, conformandosi alla mentalità dominante in tanti Paesi occidentali e anzi rischiando di superarli per estremismo (vedi qui l’analisi del giurista Giacomo Rocchi), o se invece deve continuare a essere d’esempio nella protezione dei nascituri, le generazioni di domani. Come già raccontato dallo psicoterapeuta Adolfo Morganti in una intervista con la Bussola, la campagna per il no al quesito referendario ha visto la forte mobilitazione del laicato cattolico. Ma anche la Chiesa locale sta facendo la sua parte, incoraggiando i cittadini sia a difendere il bambino nel grembo materno sia ad aiutare le madri in difficoltà. La Nuova Bussola Quotidiana ha intervistato il vescovo di San Marino-Montefeltro, S.E. Mons. Andrea Turazzi.

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Monsignor Andrea Turazzi, lei in una sua recente omelia, a proposito del dibattito sull’aborto, ha richiamato la Repubblica di San Marino a interrogarsi sui suoi valori fondanti e sul suo progetto per il futuro. Può parlarci di questi valori?

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Innanzitutto, dobbiamo guardare alla creatura che ha appena iniziato la sua avventura. Ogni uomo ha diritto di vivere. Questo è il diritto che precede tutti gli altri. Quindi, difendere il nascituro è molto più che la difesa di un principio astratto, perché è accoglienza di una persona. Accanto a quella del bambino c’è la prospettiva della mamma, sia quella raggiante per l’arrivo di una nuova creatura sia quella preoccupata, in ansia a causa delle difficoltà: a lei dobbiamo assicurare tutto l’accompagnamento possibile. Non deve essere abbandonata a sé stessa, ma bisogna prendersi a cuore le sue difficoltà. Chi arriva all’aborto, spesso, lo fa perché non c’è aiuto, anche economico; dobbiamo far sì che mai più, in una società come la nostra, non nasca una vita per circostanze simili.

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Nella Dichiarazione dei diritti dei cittadini e dei principi fondamentali dell’ordinamento sammarinese si legge: “Ogni madre ha diritto all’assistenza ed alla protezione della comunità”. Non trova che il quesito referendario, in buona sostanza, recida i legami tra la donna e la comunità che la potrebbe davvero proteggere?

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Certamente. La campagna referendaria, soprattutto negli ultimi giorni, sta assumendo dei toni piuttosto vivaci ma dovrebbe essere un’opportunità per un sussulto di consapevolezza, di responsabilità, un momento favorevole di riflessione per tutta la comunità. C’è un bambino che deve nascere, la mamma da aiutare, e questo significa che serve una società che prenda posizione. Sono contento che sempre più il fermo no all’aborto sia accompagnato da parole e gesti di attenzione verso la donna. E questo non è solo compito dei singoli ma è anche ciò che lo Stato deve fare. Tra l’altro, a San Marino c’è un inverno demografico che si nota anche più che altrove, perché siamo una realtà piccola. Il popolo ha bisogno di chiarezza e nel dibattito deve prevalere la dimensione costruttiva, la bellezza e il dono della vita. Ma penso che in tanti ci sia questo, e spero che anche chi è di altra convinzione si faccia delle domande.

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Oltre alle mamme con una gravidanza difficile, bisogna aiutare le mamme che hanno abortito a intraprendere un cammino di riconciliazione con Dio. Da voi sono attivi gruppi di accompagnamento in tal senso?

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A San Marino, oltre alla Comunità Papa Giovanni XXIII e alla Caritas, opera da un paio d’anni il Servizio Accoglienza alla Vita che propone testimonianze bellissime che raccolgono esperienze di vita di ragazze e ragazzi delle nostre comunità. Tra pochi giorni sapremo il risultato di questo referendum, speriamo in un buon esito, ma in ogni caso guai a gettare la spugna dell’impegno per la vita dei nascituri, per la prossimità alle madri in difficoltà, ecc.. Dovremo impegnarci ancora di più, qualunque sia l’esito. Questa battaglia sta interessando l’Italia e tutta l’Europa, quindi questo piccolo Stato interpella la coscienza di milioni di persone.

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Anche perché è uno dei pochi che resistono nel campo della difesa dei nascituri. Dovrebbe essere indicato come un esempio di civiltà, invece la stampa progressista lo dipinge come “arretrato”.

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Guardi, a me ha dato coraggio l’intervento del Papa sull’aereo di ritorno dal viaggio in Slovacchia, in cui il Santo Padre ha pronunciato di nuovo parole chiare contro l’aborto. E questo deve far riflettere anche tutti i cattolici.

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In che senso?

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Anche da noi ci sono cattolici impegnati sui temi sociali, sui diritti umani, sulla custodia della casa comune. E dall’altra parte ci sono cattolici più attenti alla salvaguardia dei principi etici, non negoziabili. Il ‘solco’ tra queste due anime, da noi, a volte non è così profondo; però agli uni e agli altri ho sentito il dovere di dire che il Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo. Quindi uno non può considerarsi cattolico e poi, per esempio, non riconoscere che la vita umana è sacra fin dal concepimento. Un credente deve contemplare l’azione creatrice di Dio. Il concepito è sempre dentro una relazione, un’alleanza speciale con il Creatore, ha un’anima immortale.

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A San Marino si sta assistendo a una forte mobilitazione del laicato cattolico in difesa della vita fin dal concepimento. Sembra che si realizzi l’auspicio di san John Henry Newman, che chiedeva un laicato forte…

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Nella Repubblica di San Marino, in questa campagna, abbiamo assistito con favore alla nascita di due realtà laiche. La Consulta delle aggregazioni laicali, che riunisce una dozzina di gruppi ecclesiali; e il comitato contrario, il Comitato Uno di Noi, che esprime il no all’aborto basandosi sull’antropologia e le scienze. Infatti, non deve essere una battaglia tra cattolici e non cattolici, bensì l’occasione per il risveglio della coscienza civica, cioè dei valori fondati su una retta antropologia e che sono riconoscibili come buoni da chiunque.

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Questo quesito, come già la Legge 194, taglia fuori il padre. Cosa ne pensa?

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La donna, chiaramente, porta il peso e la fatica della gravidanza, ma il papà non può essere messo da parte.

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È anche un attacco alla Sapienza creatrice di Dio?

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Mi viene in mente una frase della Sacra Scrittura, nel libro del profeta Geremia: «Mi fu rivolta la parola del Signore: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; […]”» (Ger 1, 4-5). Questi versetti sono testimonianza dell’amore di Dio. Perciò il mio invito è di essere presenti, di partecipare a questa campagna in difesa della vita nascente e di farlo con lo spirito del dono, come atto di amicizia. Vorrei che non ci fosse la rissa verbale. E da parte nostra bisogna dare risposte che trasmettano l’insegnamento cattolico integralmente. Promuovere la tutela della mamma, l’aiuto alla famiglia, una politica più attenta alle realtà familiari… L’indice di sviluppo di una società non si valuta solo con l’economia, ma soprattutto si misura con il rispetto dei veri diritti dell’altro, a partire dal fragile e dal nascituro.

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Il referendum si svolgerà il 26 settembre, memoria liturgica dei santi medici Cosma e Damiano. Magari…

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Guardi, mi sta dicendo una cosa bellissima, non ci pensavo. Noi abbiamo una parrocchia dedicata ai santi Cosma e Damiano, che sono detti “anargiri”, perché non volevano denaro. Certamente richiamano tutti a salvaguardare la vita e, in particolare, i medici, che fanno il Giuramento di Ippocrate. Domenica mattina celebrerò in quella parrocchia, ma prima…

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Ci dica.

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Mercoledì 22 settembre [oggi, ndr] faremo un Rosario, che verrà trasmesso su YouTube a partire dalle 17, promosso dalla Associazione Papa Giovanni XXIII. Io intonerò il Rosario per la vita nascente. Chi può, si unisca alla preghiera.

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Pennabilli, 23 settembre 2021

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© Servizio realizzato da Ermes Dovico sulla rivista

 La Nuova Bussola Quotidiana,

direttore responsabile Riccardo Cascioli

edizione del 23 settembre 2021

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Le lettere di Berlicche e l’elogio della follia su eutanasia, cattolicità e “credenti laici”

—  Attualità ecclesiale —

LE LETTERE DI BERLICCHE E L’ELOGIO DELLA FOLLIA SU EUTANASIA, CATTOLICITÀ E “CREDENTI LAICI”

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Un ateo può anche ritenere giusto e doverosa l’eutanasia ed esprimerne i motivi in qualunque sede. Non discuto la libertà di pensiero e di espressione, entrambe sacrosante e garantite per tutti. Ma quanto queste idee possono ritenersi fondate in modo saldo nelle radici cristiane e nell’illuminismo o nella modernità?

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  intervista formato stampa
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Michel Pacher [1435-1498]. Monaco di Baviera, Alte Pinakothek, dal monastero di Novacella: «Agostino, il Diavolo e il Libro dei Vizi» (1480)

in questo periodo di incertezza e di confusione sociale dovuti alla pandemia da covid19, sembra strano e fuori luogo proporre un referendum sull’eutanasia, quasi fosse una tematica da risolvere in tempi brevi, al pari della pandemia.

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Non vorrei addentrarmi in lunghe discussioni giuridiche, di cui non sono esperto, desidero solo farmi attento osservatore della realtà circostante. Non mi piace nemmeno scadere in polemica, come già spiegato in passato nel nostro libro dedicato alle supercazzole dei teologi cibernetici, tuttavia mi sento di dover dire qualcosa sugli effetti che la raccolta firme per il referendum sta generando nei fedeli cattolici. Specie dopo esserci sorbiti le stramberie di un sacerdote che «da prete» diceva «si all’Eutanasia» e al quale ha dedicato precise e severe parole Padre Ivano Liguori.

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Stiamo ovviamente parlando ― sempre a proposito delle supercazzole dei supercazzolari ― della schiera di cattolici adulti che, sulla base di acute e profonde ricerche su Wikipedia che confermano le loro teorie strampalate, accettano di firmare con estrema facilità per il referendum. Poi semmai si dirigono a Messa senza batter ciglio, a ricevere la comunione, convinti di avere fatto il massimo; convinti che un conto è la religione e un conto la politica (!?).

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Sfogliando giorni fa Il Corriere della Sera, fra le lettere inviate ad Aldo Grasso mi sono imbattuto nella non meglio definita categoria del “credente laico”, tale si definiva infatti un lettore. Non entro nel giudicare la persona che ha scritto la lettera, della quale non ho nessuna conoscenza e voglia di esprimere i miei giudizi. Ribadisco: non lo conosco, a parte il nome che volentieri ometterò, e non so nemmeno il suo grado di scolarizzazione. Effettivamente però, dal contenuto degli argomenti offerti, mi sembra di notare che fra le righe ci sia una evidente confusione nei contenuti: confusione forse un po’ cercata e un po’ spontanea.

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In questo testo sembra di rileggere un argomentare che richiama la scrittura interlocutoria del personaggio Berlicche, nelle più note Lettere di Berlicche di C. S. Lewis. In questo libro il diavoletto Berlicche, mentre va in pensione, insegna al più giovane Malacoda, che lo sostituirà, ad insinuare dubbi inesistenti ma all’apparenza fondati e così portare a peccare l’uomo. La modalità argomentativa mi sembra davvero simile. L’Autore di quella lettera non è assimilabile al diavolo, ma il suo scrivere e argomentare ne richiamano l’idea come descritta da Lewis.

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Il motivo centrale su cui mi vorrei soffermare risiede nel fatto che sembra contenere una piccola sintesi di quello che il mainstream culturale ritiene come verità sacre in materia di eutanasia. Soprattutto è una sintesi di quello che il mainstream ritiene di conoscere inoppugnabilmente circa i rapporti fra la morale cattolica e l’eutanasia. Scrive l’Autore: «[…] da credente laico chiedo ai credenti intransigenti». La lettera comincia con la dicitura “credente laico”, che non chiarifica nulla delle conoscenze in materia di fede e morale dello scrivente. Ammesso anche che per laico si intenda il greco laos (popolo), si percepisce immediatamente e a intuito che chi scrive non è stato ordinato in sacris, né è figlio di qualche istituto religioso e successivamente ordinato presbitero. Perciò, a rigor di logica, è evidente che l’Autore non sia un presbitero. Battezzato o meno, lo scrivente si presenta dunque come un non sacerdote che dice di credere in qualcosa. Successivamente sembra di leggere un suo porsi in contrasto coi cosiddetti “credenti intransigenti”. Se dunque ci si pone in contrasto vuol dire che l’Autore ritiene di essere più comprensivo, ragionevole e aperto rispetto agli intransigenti “chiusi di mente”. Che tipo di credenti saranno, se lui si definisce come credente laico e per contrasto, intransigenti? Da qui non sembra di poterne dare una risposta certa, anche se al momento non abbiamo avuto chiarimenti circa il contenuto delle credenze dell’autore. Continuando però nella lettura abbiamo qualche delucidazione: «[…] è lecito all’uomo prolungare la vita per mesi/ anni delegando tutte le funzioni vitali a una macchina?».

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La prima domanda mostra un quadro di idee che l’Autore offre con una serie di domande suggestive. Qui viene usata la tecnica della domanda retorica: cioè all’interno di domande che vengono poste come interrogativi coscienziosi e scrupolosi, suggerisce delle risposte che sembrano auto-evidenti e che si possono evincere dalle stesse domande. Quindi, ammesso e non concesso che lo siano, l’Autore esordisce con un argomento di natura medico scientifica (funzioni vitali/ macchina). L’argomento espresso sembra però un po’ equivoco. Che vuol dire prolungare la vita ed essere attaccato a una macchina? Ci si sarebbe atteso come minimo una serie di esplicitazioni con esempi concreti e argomentazioni scientifiche con le quali si mostra che le terapie esistenti non avrebbero fatto altro che delegare tutte le funzioni vitali a una macchina. Tutto ciò è invece assente.

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Si fatica un po’ a comprendere, considerando che esista davvero una condizione oggettiva in cui una persona possa delegare tutte le funzioni vitali a un macchinario che, senza nessun intervento di medici, infermieri e operatori, possa da solo occuparsi completamente delle sue funzioni vitali. Il macchinario indefinito, potrà forse sostituire completamente il battito del cuore, lo scambio polmonare di ossigeno e anidride carbonica e anche la produzione dei secreti degli organi interni? La persona che necessita di questo macchinario, più ragionevolmente avrà bisogno di una tecnologia ausiliaria ma mai completamente sostitutiva. Come noto infatti dallo stesso concetto di macchina, essa non può mai e in nessun modo sostituire completamente l’integralità delle funzioni di un uomo, può solo aiutarlo a vivere una vita difficoltosa ma comunque soddisfacente, fino al suo compimento naturale. Questa persona, anche se atea, può valorizzare i momenti di sofferenza, di dolore e di dipendenza come momenti in cui esprime tutta la sua unicità e bellezza, dove la tecnologia ausiliaria può fargli scoprire delle doti nascoste e delle capacità di resilienza che neanche lui sapeva di possedere.

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C’è da rimanere abbastanza perplessi di fronte all’interrogativo posto, quasi che l’eutanasia fosse l’unica e autentica soluzione a uno stile di vita in cui si chiede il supporto di un’altra persona o di una tecnologia. Ma se così fosse, anche la persona che vive con delle protesi alle gambe o alle braccia, potrebbe ritenere di vivere una vita indegna e chiedere di staccare la macchina e farsi uccidere. A quel punto, ogni interpretazione soggettiva di «vita degna di essere vissuta» avrebbe campo libero e dovrebbe essere presa sul serio senza neanche discuterne, sostituendo il valore della persona intesa come soggetto morale e di diritto.

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Fin qui non ho citato nessun testo della tradizione confessionale cattolica. Basti pensare solo all’etica aristotelica delle virtù, per cui l’uomo vive l’armonia nel giusto mezzo virtuoso che lo aiuta a vivere i momenti tragici della vita senza cadere nella disperazione; ma andando anche a filosofi vicino all’illuminismo, riguardo la centralità della persona ripenso alla lezione kantiana del secondo imperativo categorico, inserita all’interno della Fondazione della Metafisica dei costumi:

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«Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.» (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67-68)

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Mantenere dunque una persona in vita significa riconoscergli la sua centralità, unicità e finalità: ogni persona è un centro propulsivo di idee, valori, creatività, azioni che deve essere accompagnato in qualsiasi momento della propria vita e non assassinato mediante un atto arbitrario e ideologico.

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Andando oltre, il quadro degli argomenti si complica:

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«Non dovremmo considerare “peccato mortale” creare una vita artificiale, in contrasto con la volontà di Dio che aveva prefissato il tempo per una morte naturale? Staccare la “spina” non sarà invece rimettere nelle mani del Dio il destino di una sua creatura? Ai due ladroni crocifissi sul Golgota furono spezzate le gambe per accelerarne la morte, essendo imminente l’inizio della Pasqua ebraica. Al Cristo crocefisso, come da profezie, non furono spezzate perché suo Padre lo riunì a sé in spirito prima di questo estremo supplizio. Sarebbe stata eutanasia»?

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Immediatamente l’Autore della lettera si sposta da una analisi più o meno medico scientifica a una più o meno teologica, soffermandosi sui termini di peccato, vita, volontà di Dio, predestinazione. E, in due righe, pretende di proporre una propria sintesi schematica del mistero cristologico della Croce e della Redenzione. Inutile a dirsi: i due piani, quello medico scientifico e quello teologico, sono assimilati e posti in maniera abbastanza confusionaria. Sospetto che l’anonimo scrittore non abbia nessuna nozione dei termini biblici e di missione trinitaria. È infatti convinto di avere argomenti invincibili di supporto alla propria tesi, che, se non erro, mi sembra ora di poter dire di natura eutanasica. Ciò detto, è evidente che la risposta è no a tutte le domande fatte. Ma per rispondere, noi “credenti intransigenti” ― che siamo così dementi da credere alla Tradizione, alla Scrittura e al Magistero della Chiesa Cattolica ― dobbiamo attingere proprio al contenuto del deposito della fede che ci costituisce proprio come “credenti intransigenti”, secondo l’accezione dell’Autore. Dunque la risposta è no perché donare la salute a una persona che soffre non è creare la vita artificiale. L’uomo, infatti, non può creare nulla, ma solo costruire, manipolare, rielaborare una materia esistente. Nella Genesi e nel secondo Libro dei Maccabei [cfr. 2 Mac 7, 28] tutto questo è chiaro, anche ad una semplice analisi testuale: Dio crea dal nulla (in ebraico bara), l’uomo costruisce, produce. Inoltre Dio non prefissa prima quello che accadrà dopo, cioè in modo definitivo la data precisa in cui morirà un uomo. Dio infatti, secondo la teologia cattolica, vive in uno stato di eterno presente simultaneo. Vive in uno stato fuori dal tempo in cui non c’è né prima né dopo. Perciò non può prefissare qualcosa prima o dopo di Lui.

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Staccare la spina è l’atto con cui si uccide indebitamente una persona che necessita di supporto e terapia; non comprendo come questo possa dirsi un atto tipico del disegno di Dio. Nella logica dell’anonimo Autore, Gesù, per rimanere nel piano di Dio avrebbe dovuto uccidere il paralitico che i quattro amici calarono dal tetto sul suo lettuccio [cfr. Mc 2, 1-12], i ciechi di Gerico che gli chiedevano di ascoltarlo [cfr. Mt 20, 29-34], o assassinare anche il servo del centurione, sofferente e paralizzato sul letto. Chissà, forse gli Evangelisti non hanno veramente capito cosa intendesse Gesù. Però lo ha inteso meglio il nostro anonimo Autore, circa duemila anni dopo, donando “perle di fede” non intransigente sulla pagina dei lettori de Il Corriere della Sera.

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Ritengo evidente che staccare la spina sia disobbedire al piano creativo di Dio, che dona all’uomo vita e libertà. Solo Lui può richiamare a sé questi doni, perché ne è il Donante originario. A noi uomini sta solo di custodire questi doni di Dio. È bene poi precisare che ai due ladroni vengono spezzate le gambe e a Gesù Cristo invece no, perché secondo l’interpretazione del nostro Autore doveva essergli risparmiato il supplizio della croce. Al Cristo crocefisso, come da profezie, non furono spezzate perché suo Padre lo riunì a sé in spirito prima di questo estremo supplizio. E questa sarebbe stata eutanasia?

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Ho faticato molto a non sorridere di fronte a questa evidente fallacia di natura teologica: infatti il Padre manda il Figlio proprio perché donasse la sua vita sulla Croce. Questo è il fine ultimo della missione trinitaria dell’Incarnazione. Il Figlio è inviato perché generasse un effetto di grazia e di redenzione in tutta l’umanità, mediante il supplizio e la morte della croce. Che i soldati romani non gli spezzino le gambe, è assolutamente accidentale rispetto alle terribili sofferenze già ricevute e alla morte di Gesù che era di fatto imminente. Il Padre non preserva il Figlio da nessun dolore, anzi lo stesso Gesù è consapevole di questo, dell’arrivo del suo momento drammatico, quando decide di amare sino alla fine [cfr. Gv, 13-1].

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L’argomento non funziona nemmeno da un punto di vista logico: se una persona è sulla croce e viene richiamata a sé in spirito, vuol dire che sta già soffrendo e semplicemente com’è normale a un tratto muore. La croce infatti era una pena terribile che veniva inflitta anticamente proprio perché generasse atroci sofferenze e uno stigma identificativo sul condannato. Essere crocifissi voleva dire aver subito in precedenza un numero ingente di schiaffi, percosse, frustate, sputi e insulti personali, dopo aver camminato per un lungo viaggio trascinando sulle spalle una croce di legno pesante su un corpo già ampiamente piagato da mille dolori. Finito poi il viaggio al punto di innalzamento della croce, il condannato veniva inchiodato mani e piedi con lunghi spuntoni battuti con grossi martelli direttamente nella carne. Alla fine issato in alto, esposto alle intemperie e agli agenti atmosferici, fino alla morte, che dato l’insieme di violenze subite era imminente.

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Nella logica dell’anonimo Autore tutto questo non sarebbe da pensarsi come un supplizio, credo e ipotizzo, ma come una sorta di crociera su una lussuosa nave Costa, con tanto di cocktail e happy hour. È evidente che parlare di togliere il supplizio a Cristo sofferente nella Passione esclusivamente perché il Padre non permette ai soldati di spezzargli le gambe, mostra che non si conosce la storia, né tantomeno le istituzioni sanzionatorie del diritto romano del tempo e men che mai le nozioni base della fede e della teologia cattolica. Come mai allora ci si lancia in una così curiosa e fantasiosa analisi della Passione di Cristo? Al caro lettore “credente laico”, forse darà fastidio sentirsi rispondere che ha torto sui suoi convincimenti cristologici, sulla base di argomenti di fede cattolica? Non sarebbe stato quindi più prudente per lui non esprimersi su temi che non conosce in modo approfondito? 

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Forse la parte più comica di questo scambio epistolare la riserva la stessa risposta di Aldo Grasso, che rispondendo allo scrivente gli testimonia che lo stesso Umberto Veronesi ― noto sostenitore dell’eutanasia ― avesse avuto molteplici testimonianze da parte dei malati, nessuno dei quali «in tanti anni passati al capezzale di malati terminali, spiegò, nessuno gli aveva mai chiesto di morire. Tutti gli avevano sempre chiesto di guarire; anche contro ogni evidenza, anche quando palesemente non era più possibile». Che dire: onore al principio di non contraddizione!

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Tutta questa lunga disamina su una lettera pubblica, da tutti leggibile e analizzabile su un quotidiano nazionale, è destinata a mostrare dunque l’incredibile mentalità che soggiace alla cultura della morte, così definita dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II. Una mentalità che ha i suoi dogmi e le sue credenze, pronta a inventare e a modificare ex novo anche concetti, idee e nozioni oggettive in ambito biblico, teologico, medico, giuridico, etico, morale pur di ritenersi assolutamente inattaccabile.

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Intendiamoci: un ateo può anche ritenere giusta e doverosa l’eutanasia ed esprimerne i motivi in qualunque sede. Non discuto la libertà di pensiero e di espressione, entrambe sacrosante e garantite per tutti. Ma quanto queste idee possono ritenersi fondate in modo saldo nelle radici cristiane e nell’illuminismo o nella modernità? Queste bislacche argomentazioni sono invece solo frutto di una totale rilettura ideologica che va a minare la stessa libertà di pensiero e di espressione sulla quale presume di fondarsi. Infatti, una mentalità eutanasica tenderà a inculcare in modo ideologico e propagandistico le sue idee, proponendo quelle che la contraddicono come “bigotte, intransigenti, medievali, confessionali” senza lasciare la libertà di costruire uno spazio critico nella coscienza dell’uomo. Che è sacrario intangibile e fonte originaria di qualsiasi libertà.

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Concludo salutando con affetto l’ignoto Autore chiarendo che non ce l’ho con lui, ma ammettendo pubblicamente che certi argomenti mi hanno fatto sorridere, proprio là dove ci sarebbe da piangere lacrime di sangue.

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Roma, 20 settembre 2021

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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Novità dalla Provincia Domenicana Romana: visitate il sito ufficiale dei Padri Domenicani, QUI

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«Repetita iuvant» — Perché la Vergine Maria non chiese l’eutanasia di Gesù Cristo sulla croce?

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Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

Il celebre motto latino repetita iuvant significa: le cose ripetute aiutano. Per questo riproponiamo a distanza di due anni un articolo pubblicato da Padre Ariel il 26 settembre 2019. Articolo dinanzi al quale nessuno nega che l’Autore sa essere molto duro e severo, unendo alla durezza anche sarcasmo e ironia per accentuare certe tematiche molto delicate o, come in questo caso, drammatiche. I suoi riferimenti, in questo articolo di due anni fa, sono rivolti a un Governo che oggi non esiste più e a figure ormai dimesse dal loro ufficio, a partire dal Presidente del Consigli dei Ministri Giuseppe Conte. La sostanza rimane però la stessa e, forse, oggi capiamo quando la durezza del Padre Ariel sia stata tutt’altro che esagerata o ingiustificata, sempre alla prova dei fatti non passibili di facile smentita …

 

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— attualità ecclesiale —

«REPETITA IUVANT» — PERCHÉ LA VERGINE MARIA NON CHIESE L’EUTANASIA DI GESÙ CRISTO SULLA CROCE, COME INVECE PERMETTERÀ IL GOVERNO DI GIUSEPPE CONTE, BIMBO PRODIGIO DI VILLA NAZARETH? PERÒ PER LA SEGRETERIA DI STATO VATICANA E I VESCOVI ITALIANI IL VERO PROBLEMA ERA IL POPULISTA MATTEO SALVINI CHE ESIBIVA IL ROSARIO IN PIAZZA

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Mentre in Italia vince la cultura satanica della morte, seguitino pure a correre dietro al moderno dogma supremo del migrante, i Cardinali Pietro Parolin e Gualtiero Bassetti, amoreggiando ora col mondo, ora coi bimbi prodigio di Villa Nazareth del defunto capo-modernista Cardinale Achille Silvestrini. Noi invece siamo lì, inginocchiati nel posto migliore, sotto la croce di Cristo, dalla quale non cola la morte, ma il sangue che ci ha redenti. E di tutta questa gente, rossi di colore politico o rossi di porpora cardinalizia, non abbiamo proprio paura, all’ombra della croce di Cristo Dio.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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PDF  articolo formato stampa

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Il Sommo Pontefice e il Capo del Governo Italiano Giuseppe Conte, incontro privato dopo i funerali del Cardinale Achille Silvestrini

Oggi la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 580 del Codice penale [cf. QUI] che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio e per il quale erano previste delle pene tra i 5 e i 12 anni di reclusione. La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito del processo che vede imputato un celebre Cavallo di Troia: l’esponente del Partito Radicale Marco Cappato, coinvolto nel suicidio assistito di Fabiano Antoniani, noto al pubblico come Dj Fabo [cf. QUI]. In questo modo la Suprema Corte ha aperto una porta alla possibilità di aiutare una persona a morire, dichiarando lecito l’ingresso del Cavallo di Troia e decretando che una norma che punisce il suicidio assistito ma che non tiene conto della situazione di chi soffre in modo insostenibile, è da considerarsi incostituzionale. Dunque, a partire da oggi, la Suprema Corte ha stabilito con sentenza il “diritto a morire” dichiarando allo stesso tempo:

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«non punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

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A questo punto dovrà intervenire il legislatore con un’apposita legge, vale a dire proprio quel governo presieduto dal Professor Giuseppe Conte tanto appoggiato dalla Santa Sede e dalla Conferenza Episcopale Italiana. In questo, come in altri casi, si mettano l’animo in pace i buoni fedeli cattolici, perché sia dalla Santa Sede sia dalla Conferenza Episcopale Italiana non udrete il dignitoso e umile lamento: “Perdono, abbiamo sbagliato”. Perché le logiche della peggiore superbia, che è la superbia clericale, funzionano sulla base di questo principio che in sé ha ovviamente del blasfemo: il Divino Padre e il Divino Figlio, possono anche sbagliare a far procedere il Divino Spirito Santo, ma la Santa Sede e la Conferenza Episcopale Italiana no, non possono sbagliare valutazioni e giudizi, mai!

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Mentre un Governo formato anche da membri della più furiosa sinistra radicale si accinge a brindare il varo della legge sull’eutanasia mascherata da “caso estremo”, la Suprema Corte Costituzionale ha aperto tutte le piste assoggettando la non punibilità:

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«[…] al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) ed alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente […] l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già aveva sottolineato nella sua precedente ordinanza 207 del 2018. Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate».

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All’udienza erano presenti Marco Cappato e la compagna di Dj Fabo, assieme a loro anche Mina, la vedova di Piergiorgio Welby, morto nel 2006 dopo che su sua richiesta gli era stato staccato il respiratore che lo teneva in vita. Tutti hanno pubblicamente esultato, come se la morte fosse una vittoria. Dal proprio canto Marco Cappato ha ribadito appellandosi niente meno che al dovere morale: «Ho aiutato Fabiano perché l’ho ritenuto un mio dovere morale» [cf. QUI]. Per poi seguire a gioire con un twitter: «Vittoria della disobbedienza civile; da oggi tutti più liberi, anche chi non è d’accordo».

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Queste parole suonano come bestemmie alle orecchie di qualsiasi spirito cristiano che durante la memoria pasquale rivive il mistero di Cristo che vince la morte con la sua risurrezione, alla quale tutti siamo resi partecipi. Oggi invece, da un degno prodotto di quel partitino mefistofelico noto come Partito Radicale, ci tocca udire che la conquista è invece la morte, con tanto di richiamo a “doveri morali”. A questi commenti di giubilo hanno fatto seguito quelli del senatore del Partito Democratico Monica Cirinnà, sui quali sorvoliamo, perché con le parole di Marco Cappato abbiamo detto più o meno tutto. Solo una cosa possiamo aggiungere: sotto i nostri occhi apatici e impotenti di cittadini cattolici, tutti quanti muniti di certificato elettorale, ma soprattutto beneficiari dei diritti costituzionali di libertà di pensiero, parola ed espressione, che nessuno può certo revocarci in quanto cattolici, abbiamo assistito alla penosa resa di una Chiesa italiana ormai fossilizzata in modo sclerotico-ossessivo solo sui migranti, mentre nel nostro Paese è ormai entrato il Cavallo di Troia della cultura della morte: il suicidio assistito.

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Altrettanto importante sarebbe notare la perfetta ripetizione di quanto già avvenuto a suo tempo nel 1978 col referendum sulla legalizzazione dell’aborto: i sostenitori di certe leggi, che mirano in vario modo a toccare al cuore la vita ― come se essa fosse un bene disponibile nelle mani di elettori, legislatori e medici ― le loro lotte le scatenano sempre basandosi su casi limite, anzi su casi rarissimi. Giocando su di essi vanno prima a colpire l’emotività collettiva, poi compiono un sovvertimento delle leggi fondamentali invertendo la stessa logica giuridica: trasformare l’eccezione ― spesso non rara bensì rarissima ― in regola generale. Sia chiaro: il diritto tiene conto da sempre della esistenza e della possibile sussistenza dell’eccezione rara, ma al momento in cui essa, previa manipolazione, finisce trasformata in regola generale, a quel punto siamo dinanzi alla vera e propria aberrazione giuridica e legislativa.

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Casomai molti non se ne rendessero conto, è bene chiarire che siamo solo all’inizio del processo di radicale e diabolica disumanizzazione. Il Cavallo di Troia è stato infatti appena introdotto, ancóra i soldati non sono usciti dal suo ventre, ma tra poco sortiranno fuori. Poi, in un futuro affatto lontano, grazie agli esponenti di quegli attuali partiti che urlano per ogni nonnulla al fascista e al nazista, ci ritroveremo in una società a tal punto libera e democratica da far impallidire il Terzo Reich nazista, ma soprattutto il Dottor Josef Mengele. E domani, ai più squisiti sensi di legge e senza consenso alcuno da parte degli interessati o dei loro familiari, forse saranno soppresse persone gravemente ammalate che permanendo in vita senza possibilità alcuna di cura e di guarigione, indistintamente giovani o anziani, non dovranno gravare sui bilanci dello Stato e sul Servizio Sanitario Nazionale. Anche perché la nostra popolazione, sempre più vecchia e con tasso di natalità al di sotto dello zero da quattro decenni, non tarderà a scoprire che i tanto accolti e desiderati migranti, non verranno affatto nel nostro Paese per cambiarci i pannoloni, né per porgerci le padelle e svuotarci i pappagalli, né per reggere e pagare col loro lavoro, con le loro tasse e con i loro contributi il nostro sistema pensionistico destinato al futuro collasso assieme al servizio sanitario nazionale.

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Se infatti non vivessimo obnubilati dal politicamente corretto, dovremmo sapere che la gran parte dei giovani africani che emigrano verso il nostro Paese, perlopiù provengono da Paesi nei quali i maschi non hanno mai brillato né per voglia né per capacità di lavoro. Ciò per un discorso puramente antropologico e culturale: nelle società di certi Paesi africani a lavorare sono le donne, non gli uomini. Dal canto loro, le nostre Forze dell’Ordine e i fascicoli giudiziari che tracimano per certi specifici reati nei nostri tribunali, dimostrano che quando questi maschi antropologicamente e culturalmente sfaccendati si mettono a lavorare, creano spesso imprese di questo genere: prendono mogli e figlie e le portano a prostituirsi per le nostre strade. Quanti, ma soprattutto quanto numerosi sono i mariti e i padri originari della Nigeria arrestati ripetutamente per sfruttamento della prostituzione, in particolare di quella minorile? Eppure a suo tempo, quella “grande scienziata” del Senatore Laura Boldrini, ebbe l’ardire di affermare che se non avessimo accolto i migranti, domani non avremmo avuto nessuno che da vecchi ci avrebbe cambiati i pannoloni (!?). Presto detto: o questa Senatore ha scambiato i giovani nigeriani musulmani nullafacenti, con una comprovata propensione alla violenza e al delinquere, per degli operosi cattolici filippini, notoriamente laboriosi nonché particolarmente rispettosi per anziani e ammalati, oppure stava proprio recitando sul set di un film di fantascienza, come da anni tendono a fare gli esponenti del Partito Democratico. C’è però anche una terza possibilità: forse la Senatore non conosce proprio usi, costumi e abitudini di alcune popolazioni del Continente Africano, quelle che peraltro producono i più alti flussi migratori e allo stesso tempo il più alto numero di reati commessi, una volta giunti in Europa. Detto questo si noti bene: ad affermare simili cose, non sono io dopo avere vestito i panni del cosiddetto razzista, fascista e nazista, ma sono i fatti e gli atti giudiziari. Basterebbe solo fare un giro nei vari Paesi europei per scoprire all’istante che neppure la solerte, disciplinata e rigorosa polizia della Repubblica Federale Tedesca, riesce a tenere a bada certe bande di delinquenti violenti, perlopiù provenienti dalla Nigeria.

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Come dicevamo poc’anzi non è un mistero che l’attuale governo sia stato appoggiato in modo sfacciato dalla Santa Sede e dalla Conferenza Episcopale Italiana entrata a gamba tesa nella campagna elettorale per le elezioni europee del 26 maggio 2019. E di questo governo è Primo Ministro il Professor Giuseppe Conte, un bimbo prodigio cresciuto presso Villa Nazareth a Roma, tra le sottane affatto compiante del Cardinale Achille Silvestrini, modernista a tutto tondo e membro di spicco della cosiddetta cardinalizia Mafia di San Gallo. Per pudore ecclesiale e amore di patria molti di noi hanno scelto di tacere, ma chi conosce certi personaggi e il loro modo di agire, ha compreso all’istante, nei giorni della crisi di governo apertasi in pieno agosto, che il famoso discorso rivolto principalmente all’attacco del Ministro dell’Interno, Senatore Matteo Salvini, dal Professor Giuseppe Conte [cf. QUI], è stato scritto in buona parte tra la Segreteria di Stato e Villa Nazareth, ubicata a Roma in via della Pineta Sacchetti, luogo ameno dove peraltro è molto più facile incontrare e intrattenersi a colloquio in modo del tutto riservato col Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità.

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Grande paura è stata mostrata per il populista Matteo Salvini, mentre i giornali cattolici “di regime” dissertavano sulla inopportuna esibizione della corona del rosario e sui suoi richiami al Cuore Immacolato della Vergine Maria, quasi come fossero autentiche bestemmie. Soprassediamo poi sui tweet e le battute inopportune nelle quali si è cimentato Padre Antonio Spadaro, che spazia ormai tra la voce del padrone e la voce dell’incoscienza. Adesso, queste stesse persone, si ritroveranno a raccogliere i frutti che hanno seminato e in breve, il loro bimbo prodigio di Villa Nazareth dovrà aprire con le sue stesse mani la pancia del Cavallo di Troia introdotto dentro la nostra Città. Questi sono i fatti e i risultati di una Santa Sede e di una Conferenza Episcopale Italiana che irritata dalle corone del rosario e dai richiami populisti al Cuore Immacolato della Vergine Maria, si è messa ad amoreggiare con le frange della Sinistra radicale, della quale conosciamo da sempre le varie istanze: l’eutanasia, l’abolizione dell’obbiezione di coscienza per i medici che non intendono praticare aborti, il matrimonio tra coppie omosessuali, la concessione alle stesse dell’adozione di bambini, la liceità dell’utero in affitto, l’imposizione della educazione al gender nelle scuole primarie e via dicendo a seguire … Però, lo ripetiamo di nuovo: il problema erano le corone del rosario e le invocazioni rivolte al Cuore Immacolato della Beata Vergine Maria di quel populista del Senatore Matteo Salvini.

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Temo invece purtroppo che il grosso problema è costituito da camaleonti professionisti come l’attuale Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Gualtieri Bassetti, che alcuni decenni fa, prete fiorentino che era, saliva sui pulpiti nei periodi pre-elettorali e invitava a votare alla Democrazia Cristiana, fosse persino costato turarsi il naso per non sentire la puzza. Oggi, in cammino verso gli ottant’anni, lo vediamo ridotto a sorridere a una sostenitrice della cultura della morte come il Senatore Emma Bonino, già annoverata in precedenza tra le figure dei grandi italiani per l’augusta bocca del Pontefice felicemente regnante [cf. QUI, QUI]. Cos’altro dire: … Ah, quando avrei preferito, al posto di Gualtiero Bassetti, la salvezza della mia anima e il Paradiso, ad una porpora cardinalizia conquistata dopo aver saltato per una vita intera da un carretto a un altro!

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Sono consapevole che noi sacerdoti e teologi non ancora venduti al Principe di questo mondo ci rivolgiamo a un mondo secolarizzato e scristianizzato che non capisce più né il nostro linguaggio né i sentimenti e i fondamenti evangelici che lo animano. A questo si aggiunga altro e peggio: ci ritroviamo a essere persino ostracizzati e perseguitati all’interno della stessa Chiesa nella quale oggi, tra un colpo di misericordia e una botta di sinodalità collegiale, siamo ormai ridotti ― come spesso ho detto ― al regime cambogiano di Pol Pot.

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Per comprendere il terribile mistero della morte, della malattia, del decadimento fisico, del dolore e della sofferenza, è necessario partire da molto lontano: dalla creazione del mondo e dell’uomo. La morte, indicata da molti come “elemento naturale” e “inevitabile” del ciclo della vita, oltre a non essere affatto naturale, è in verità quanto di più innaturale possa esistere. Dio non ha affatto creato l’uomo mortale, lo ha creato immortale. Dio, datore della vita perfetta ed eterna, nel mistero della creazione non ha affatto concepito né il dolore né la sofferenza, né il decadimento fisico né la malattia. La morte, con tutte le sue relative conseguenze, entra nella scena del mondo quando l’uomo, beneficiando della libertà e del libero arbitrio a lui donati da Dio, decide di ribellarsi al proprio Creatore. È allora che entra nella scena del mondo quell’elemento del tutto innaturale che è la morte, conseguenza di un peccato che ha alterata la creazione stessa. Tutto questo è indicato come peccato originale; un peccato che nessuno di noi ha commesso, ma che tutti abbiamo ereditato assieme a una natura corrotta in origine da questo stesso peccato.

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Questa è la nostra fede, che parte proprio dal mistero della creazione. Una fede che conferisce a noi credenti tutt’altra percezione della morte e del dolore, un elemento talora più sgradito, nonché fonte di sofferenze persino maggiori, quando non affligge noi, ma colpisce attraverso la malattia le nostre persone più care e amate.

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In una società che assieme ai princípi cristiani rifiuta il decadimento fisico, la malattia e la morte stessa, più che difficile può risultare talora quasi impossibile parlare agli uomini di questo nostro mondo di quel grande elemento sia educativo sia salvifico che è il dolore. Argomento trattato dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II in una sua memorabile lettera apostolica dedicata al senso cristiano della sofferenza umana [Cf. Salvifici doloris, testo integrale, QUI].

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In una società che assieme ai princípi cristiani rifiuta il decadimento fisico, la malattia e la morte stessa, più che difficile può risultare talora quasi impossibile parlare agli uomini di questo nostro mondo del mistero della croce, che è anzitutto indicibile sofferenza. Infatti, se uno specialista in medicina legale e uno specialista in anatomia patologia si mettessero a spiegare al grande pubblico quelli che sono sia i dolori, sia le conseguenze fisiche per una morte causata dal supplizio della crocifissione ― chiamato non a caso dal Diritto Penale Romano poena extra ordinem, ossia il summum supplicium ―, forse in molti non reggerebbero al dettaglio delle descrizioni.

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Eppure, sotto la croce … Stabat Mater dolorósa iuxta crucem lacrimósadum pendébat Fílius [stava la madre addolorata in lacrime, sotto la croce, sulla quale pendeva suo Figlio]. E la Madre Addolorata, dinanzi al figlio sofferente agonizzante, non supplicò alcun centurione di porre fine a quello strazio con un “misericordioso” colpo di lancia. Perché la Beata Vergine Maria, come recita la preghiera di San Bernardo alla Vergine riportata da Dante nel XXXIII Canto del Paradiso, era «Figlia del tuo Figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio». Proprio così: era Figlia del Figlio di Dio, non era una figlia di Satana come quell’anima del povero Marco Cappato — salvo suo sincero e profondo pentimento —, degno figlio politico di Marco Pannella ed Emma Bonino, la grande italiana, il quale esulta oggi sulla conquista della morte, introdotta nel mondo dal Demonio, non certo da Dio.

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Mentre in Italia rischia di vincere la cultura satanica della morte, seguitino pure a correre dietro al supremo dogma moderno del migrante, certi nostri Alti Prelati, amoreggiando ora col mondo, ora con certi bimbi prodigio di Villa Nazareth del defunto Cardinale Achille Silvestrini. Noi invece siamo lì, inginocchiati nel posto migliore, sotto la croce di Cristo, dalla quale non cola la morte, ma il sangue che ci ha redenti. E di tutta questa gente, rossi di colore politico o rossi di porpora cardinalizia, non abbiamo proprio paura, all’ombra della croce di Cristo Dio, sono loro che devono temere, ancor più del domani, l’eterno che li attende.

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dall’Isola di Patmos, 26 settembre 2019

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ARCHIVIO: ARTICOLO PUBBLICATO IL 26 SETTEMBRE QUI

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Il Piccolo Principe in viaggio con Gesù Cristo lungo le strade della Galilea

—  omiletica —

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL PICCOLO PRINCIPE IN VIAGGIO CON GESÙ CRISTO LUNGO LE STRADE DELLA GALILEA

 

Il tema dell’accoglienza dei bambini è importante e centrale in questo brano. I bambini, in genere, non hanno paura paralizzante. Tendono ad avere uno sguardo semplice anche di fronte alle difficoltà e sanno accogliere l’abbraccio dell’Eterno Padre. Con sguardo innocente e limpido, non sono privi di grandi intuizioni e di grandi verità. Spesso infatti i bambini dicono schiettamente quello che pensano.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa
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Meditazione sul Santo Vangelo della XXV Domenica del tempo ordinario (anno B)

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Nel suo splendido capolavoro Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupéry racconta in prima persona l’incontro immaginario con il piccolo principe, personaggio fantasioso con cui inizia un viaggio profondo, fra vari pianeti e riflessioni profonde sulla vita e specialmente sull’infanzia. Egli dedica questo libro a un certo Werth, di cui sappiamo solo ciò che l’Autore illustra:

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«Voglio dedicare il libro al bambino che questo adulto è stato molto tempo fa. Tutti gli adulti sono stati prima di tutto dei bambini».

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Sui temi dell’infanzia, il Vangelo di oggi nelle sue bellissime letture racchiude il mirabile insegnamento di Gesù del servizio verso il prossimo e lo lega all’accoglienza dei più piccoli. Nel testo del Santo Vangelo emerge anzitutto che Gesù è in viaggio:

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«In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo».

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Nel cammino, Gesù annuncia loro questo grande mistero: la Passione, la Resurrezione e dunque la Redenzione. È davvero difficile per gli apostoli capire, anzi questo annuncio fa sorgere un timore profondo. Una paura che blocca, paralizza e non permette neanche un semplice dialogo chiarificatorio. La paura è in effetti il contrario della fede. Esiste una paura umana di fronte ad un evento imprevisto: essa serve ad attivare le nostre competenze e conoscenze per risolvere l’evento traumatico. Ma c’è anche una paura profonda che frena le nostre capacità di riflessione e soluzione e soprattutto paralizza il nostro affidarci a Dio. Nella paura profonda viene meno il senso di abbandono e di fiducia nei confronti del Dio di Gesù Cristo.

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«Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”».

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La paura aveva portato gli apostoli a centrare la propria attenzione su sé stessi per cercare di distrarsi; dunque avevano cominciato a discutere su sé stessi improvvisando una sorta di classifica su chi è stato più bravo e servizievole. Gesù allora interviene; il Signore è consapevole di quanto i suoi amati apostoli lo abbiano servito ed amato. Ma non è con spirito di competizione che si deve vivere questa chiamata. Essere primi e più grandi vuol dire mettersi al servizio di Dio e degli altri. Questa è la “legge fondamentale” della Chiesa. Operare secondo una carità autentica, viva e attenta al bisogno di verità, tenerezza e di eternità del nostro prossimo. Anche noi possiamo assimilare l’insegnamento di Gesù: offrire un servizio di carità, essere ultimi nella superbia, nell’egocentrismo e nel perfezionismo, per porre al centro l’amore e la semplicità di Dio. In questo servizio, saremo delle piccole immagini viventi di Gesù stesso, vero Dio e vero uomo.

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«E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”».

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Il tema dell’accoglienza dei bambini è importante e centrale in questo brano. I bambini, in genere, non hanno paura paralizzante. Tendono ad avere uno sguardo semplice anche di fronte alle difficoltà e sanno accogliere così l’abbraccio dell’Eterno Padre. Con sguardo innocente, puro e limpido, non sono privi di grandi intuizioni e di grandi verità. Spesso infatti i bambini dicono schiettamente quello che pensano. Essere allora servitori veri e autentici di Gesù richiede di tornare a questo spirito di purezza e innocenza dello spirito, non della mente. Uno spirito che sia sempre accogliente, con uno sguardo sugli eventi che accadono, che non sia semplicemente materiale od orizzontale, ma principalmente fiducioso e abbandonato alla grazia e all’azione di Dio. Accogliere dunque uno sguardo contemplativo capace di abbracciare, con la luce della fede, tutta la realtà per coglierne, con stupore divino, la bontà e la bellezza.

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Chiediamo al Signore di diventare dei veri servitori autentici, per intercessione della nostra madre Celeste, Maria, per essere testimoni credibili della Parola di Vita Eterna di Gesù.

Roma, 18 settembre 2021

 

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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«Se questo è un prete». Il bizzarro e imbarazzante caso di Don Ettore Cannavera e del suo credere a-cattolico e a-teologico

— Attualità ecclesiale —

«SE QUESTO È UN PRETE».  IL BIZZARRO E IMBARAZZANTE CASO DI DON ETTORE CANNAVERA E DEL SUO CREDERE A-CATTOLICO E A-TEOLOGICO

«Non esiste contrasto tra l’essere prete e la dolce morte». Purtroppo possiamo già prevedere che nessuno prenderà provvedimenti adeguati nei confronti di questo prete ingestibile. Né il suo vescovo, né la Congregazione per il Clero, né la Congregazione per la Dottrina della Fede muoveranno un muscolo. E questo perché, i preti come lui, a volte servono molto un sistema corrotto e di conseguenza corruttore. O come disse San Bonaventura da Bagnoregio: «Roma corrompe i cardinali che corrompono i vescovi che corrompono i preti che corrompono il popolo».

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

 

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I confratelli del presbiterio cagliaritano sanno benissimo di chi stiamo parlando, anzi forse qualcuno di essi preferirebbe obliare anche solo il nome del prode Don Ettore Cannavera che non è certo paragonabile all’omonimo pio e virtuoso eroe omerico dell’Iliade.  Fuori dal circondario di Cagliari il personaggio in questione non è conosciuto, ma in questi giorni ha avuto attenzioni e spazi sui giornali della sinistra radicale e della sinistra radical chic, da Il Manifesto a La Repubblica.

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Ultimamente si è fatto notare per aver apposto ― così come il sindaco Giorgio Gori a Bergamo [vedi QUI] ― la sua prestigiosa firma a favore del referendum abrogativo sull’eutanasia legale [vedi QUI], argomentando che non esiste contrasto tra l’essere prete ed essere a favore della dolce morte (sic!). Il giornale dove è riportata l’intervista a firma di Patrizio Gonnella è il Manifesto e il corpo dell’articolo è piuttosto interessante per capire la personalità, la mentalità e la “teologia” di questo presbitero.

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Forse per qualcuno Don Ettore Cannavera potrebbe pure apparire come un odierno Don Andrea Gallo sardo, forse per dirla tutta egli rappresenta solo il prodotto di quel Sessantotto sociale becero e malsano che nulla ha portato di buono nel mondo, per l’Italia e tanto meno dentro la Chiesa Cattolica che adesso paga il prezzo per quei chierici che all’epoca confusero il Buon Pastore con Fidel Castro e il canto dell’Exsultet con Bella Ciao. E se per Don Andrea Gallo potevamo almeno sperare nella buona influenza e nell’esempio pastorale del cardinal Giuseppe Siri ― che di tutto poteva essere accusato tranne che di non aver amato Cristo, la Chiesa, il popolo di Dio e il Magistero ― per Don Ettore Cannavera sappiamo di quale influenza egli è discepolo, basta ascoltare la sua orgogliosa prolusione al 41° Congresso del Partito Radicale Italiano [vedi QUI]. Di queste idee, Don Ettore Cannavera si è fatto fautore e interprete già dalla giovinezza, cosa che gli ha fatto appoggiare da novello sacerdote la legge sul divorzio per poi condividere anche l’aborto, l’eutanasia e la droga libera [vedi QUI; QUI; QUI], tutti i cavalli di battaglia che riconosciamo essere presenti nella storica predicazione laica dei due orgogli italiani Marco Pannella ed Emma Bonino.

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Alla prova dei fatti, tanto basterebbe per poter sollevare dei fondati dubbi sulla sua scelta vocazionale e sulle motivazioni relative alla consacrazione presbiterale che non è certo finalizzata a questo tipo di battaglie sociali, cosa che peraltro un prete dovrebbe astenersi dal fare in questi termini. A meno che non si pensi che San Giuseppe Cafasso, San Leonardo Murialdo, San Giovanni Bosco e San Giovanni Battista Piamarta fossero preti meno sociali e meno attenti di lui alle povertà e all’accoglienza, pur restando al contempo profondamente sacerdoti, fedeli e obbedienti alla Chiesa e baluardi di integrità al Magistero.  

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Appare evidente che l’antropologia che guida la mente e l’azione di Don Ettore Cannavera non è certamente quella teologica legata all’idea di uomo che ha in Cristo il suo modello autorevole [Cfr. Gv 19,5]. Non c’è alcun sentire cattolico in questo modus operandi del tutto privo di quell’idea di uomo nuovo [Cfr. Ef 4] che diventa figlio nel Figlio e fratello di Gesù Cristo [Cfr Rm 8,15.23; 9,4; Gal 4,5]. Manca totalmente l’idea di uomo che si concepisce come figlio obbediente della Chiesa perché generato come tale dal sangue di Cristo sulla croce. Insomma, non c’è in tutto questo modello antropologico culturale alcunché che rimandi a una benché minima verità rivelata che renda possibile all’uomo l’immersione in quella grazia di Cristo che rappresenta il solo imperativo evangelico-morale dentro cui è possibile trovare pace per la totalità dell’uomo. E non saranno certo i paradisi artificiali dei diritti antiumani a rappresentare uno spinello anestetizzante per rendere la fatica del vivere più sopportabile.

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Per Don Ettore Cannavera, è evidente, l’umanesimo è quello illuminista, l’uomo è il demiurgo della sola ragione che crea da sé stesso la felicità e il successo prescindendo da Dio sia all’inizio della vita, così come nel suo naturale corso, fino al momento della morte, in una personalissima e discutibilissima visione biblica che non lesina egoismo ed egocentrismo roussoiano.

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Ecco perché è sensato dire che si poteva fare a meno che un vescovo pronunciasse su di lui la formula consacratorio e lo ungesse con il sacro crisma, per fare queste cose basta essere un politico neanche troppo sopraffino. Però, che cosa volete, un prete fatto politico mantiene il suo sex appeal irrinunciabile che non può sfuggire ai giornali e alle telecamere, cosa che nutre di dolce ambrosia il narcisismo patogeno di questi soggetti più genuflessi ai partiti che ai tabernacoli.

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E ovviamente abbiamo eserciti di cattolici adulti che osannano questi sacerdotali soggetti come l’avanguardia della Chiesa più pura, umiliando e denigrando i pochi che sono ancora rimasti preti per la santificazione del popolo loro affidato, attraverso la preghiera, i Sacramenti e la carità nella verità [Cfr.  Rituale Romano dell’Ordinazione Presbiterale].

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Se questo non fosse già materia sufficiente aggiungo che forse si dovrebbe rivedere la validità della stessa ordinazione sacerdotale di Don Ettore Cannavera, se veramente fosse giunto al sacerdozio mosso da certe convinzioni che costituiscono deciso sprezzo verso i pilastri della fede e il suo impianto dogmatico. Infatti, il nostro prode, non si fa problemi ad affermate perniciosamente errori gravi per un presbitero: «Non esiste l’inferno. Lo diceva già negli anni Cinquanta Giovanni Papini. Non credo nell’inferno» [vedi QUI]. Egli cita il Papini, con la differenza sostanziale che del Papini sappiamo di un’autentica conversione, di Don Ettore ancora non c’è giunta voce, ma sicuramente quando questo avverrà lo si potrà leggere su Il Manifesto, su La Repubblica o chissà, magari al prossimo meeting dei Radicali Italiani.  

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Tema delicatissimo quello della validità delle sacre ordinazioni sacerdotali, sul quale dibatterono nel 2016, a livello sacramentale, teologico e giuridico i due padri fondatori de L’Isola di Patmos, l’accademico pontificio Giovanni Cavalcoli e il teologo dogmatico e storico del dogma Ariel S. Levi di Gualdo. Rimandiamo a questi loro articoli di taglio scientifico, ma leggibili e comprensibili da chiunque voglia approfondire il tema [Cfr. G. Cavalcoli QUI, A.S. Levi di Gualdo, QUI, QUI].

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Basterebbe utilizzare un minimo di senso della realtà per vedere che qui purtroppo non siamo davanti al caso di un sacerdote peccatore che ha smarrito la strada, cosa che a tutti noi può capitare perché non immuni da errore e da peccato, ma si tratta di un sacerdote che è caduto nell’accecamento luciferino che conduce a scambiare il male per bene per poi difenderlo orgogliosamente tanto da normalizzarlo nell’esercizio del peccato.

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Ma tutto questo oggi sembra non importare nulla, perché basta operare un generico bene filantropico per essere a posto in coscienza davanti al mondo senza il minimo bisogno di alcuna conversione (così come è stato nel caso di Gino Strada vedi QUI, QUI) e lasciarsi elevare e santificare, non dallo Spirito Santo, ma dallo spirito laico che spira dall’iperuranio degli intoccabili diritti civili in cui sgorga con abbondanza il riconoscimento pubblico a commendatore al merito della Repubblica italiana per atti di eroismo, per l’impegno nella solidarietà, nel soccorso, per l’attività in favore dell’inclusione sociale, nella promozione della cultura, della legalità e per il contrasto alla violenza [vedi QUI].

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Ma siamo seri? Quale eroismo c’è nel difendere e giustificare l’attentato alla vita nascente, quale eroismo nella cultura dello scarto, quale eroismo nel farsi arbitro della vita e della dignità di un altro uomo, quale eroismo nel permettere il divorzio e la nullificazione della famiglia naturale? Nessuno, nessun eroismo solo viltà e pavidità, solo il marchio della scimmia di Dio che promette all’uomo l’uguaglianza divina nel segno della disobbedienza [Cfr. Gn 3,5].

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Sarebbe saggio usare in questi casi il metodo del cardinale belga Joseph-Léon Cardijn e del padre croato Tomislav Kolakovic, quel metodo che ci permette di vedere, giudicare e agire in modo evangelico davanti ai totalitarismi moderati mascherati da Vangelo del povero nel tentativo di una correzione formale dell’errore e successivamente di un recupero del reo (anche se sacerdote) caduto in disgrazia a causa dell’apologia di un peccato e di un delitto.

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Purtroppo, possiamo già prevedere, senza particolari doti di chiaroveggenza, che nessuno prenderà provvedimenti adeguati nei confronti di questo prete ingestibile che nel passato ha anche insegnato nella Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. Né il suo vescovo, né la Congregazione per il Clero, né la Congregazione per la Dottrina della Fede muoveranno un muscolo. E questo perché, i preti come lui, totalmente ingestibili, a volte servono molto un sistema corrotto e di conseguenza corruttore. O come disse San Bonaventura da Bagnoregio: «Roma corrompe i cardinali che corrompono i vescovi che corrompono i preti che corrompono il popolo».

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Mi si permetta una divagazione cinematografica prendendo come esempio Jack Nicholson nel film del 1992 Codice d’Onore. Nicholson interpreta il ruolo di cinico Colonnello a cui non importa nulla della verità e che non lesina di sacrificare la vita di un suo soldato illudendosi di rispettare così l’onore, l’austerità della vita militare e la sicurezza nazionale del paese.

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Don Ettore Cannavera è così, mi ricorda il Colonnello Jessep di Jack Nicholson. È messo lì ma non per la verità del Vangelo ma per portare avanti le istanze di un mondo laico che si illude di tutelare l’uomo con gli imprescindibili diritti civili ma che a buon bisogno non batte ciglio davanti alla morte procurata di un feto nel grembo materno, alla morte procurata di un malato terminale, alla dissoluzione della dignità umana che viene ammantata da una calda e morbida coperta di empatia in un mondo senza più Cristo né Chiesa.   

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Forse al tramonto della sua vita, Don Ettore Cannavera, scriverà le proprie memorie che saranno il manuale di formazione dei sacerdoti del futuro. Forse al suo funerale, così come capitò per Don Andrea Gallo, ci sarà il cardinale di turno a renderne l’omaggio e l’avvallo della Chiesa per il suo operato, che sebbene scomodo ed eterodosso, di fatto è stato permesso da un sistema corrotto e corruttore che corrompe i cardinali che corrompono i vescovi che corrompono i preti che corrompono il popolo.

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Laconi, 10 settembre 2021

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Autore
Redazione de L’Isola di Patmos.

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QUANDO NELLA TRAGEDIA SI CERCA DI SDRAMMATIZZARE: IL MODERNO TANGO DELL’EPISCOPATO ITALIANO. INTERESSANTI E CALZANTI LE PAROLE DI QUESTA LEGGERA CANZONETTA …

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Un “vaccino” di fiducia e di speranza alla scuola in presenza per una rinnovata esperienza di normalità

— Scuola e società  —

UN “VACCINO” DI FIDUCIA E DI SPERANZA ALLA SCUOLA IN PRESENZA PER UNA RINNOVATA ESPERIENZA DI NORMALITÀ  

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In questi tempi di ripartenza, mi ritorna spesso alla mente quel brano del Vangelo in cui Gesù invita i discepoli affaticati, dopo gli affanni di una pesca infruttuosa, a gettare nuovamente le reti.

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Anna Monia Alfieri, I.M.

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PDF  articolo formato stampa

 

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«Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» [Lc 5,5]

La scuola riparte. È un dato di fatto. Bando alla nostalgia per il tempo delle vacanze: è ora di ripartire e di impegnarsi. E alla grande! Negli ultimi 19 mesi di lockdown in tanti sono scesi in campo per i nostri giovani. Negli ultimi mesi, ancora più alacremente, tutti abbiamo lavorato, perché lo slogan scuola in presenza non rimanesse solo tale ma divenisse una realtà.

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Noi adulti abbiamo rinnovato la consapevolezza che la scuola è il luogo del sapere, il luogo dove gli studenti sviluppano la capacità di riflettere. A scuola non si imparano nozioni, ma si apprende ad argomentare, a vivere in una necessaria dimensione relazionale.

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Ecco che allora si ritorna a puntare la sveglia, a preparare lo zaino, i libri, a spuntare le materie del giorno, ritorna l’emozione di una interrogazione, di una verifica impegnativa. Si ritorna alla normalità.

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Penso ai nostri carissimi giovani e vorrei che vivessero l’emozione dell’inizio di un nuovo anno scolastico, con tutte le attese che ognuno di noi porta nel cuore. A tutti e a ciascuno: buon anno, nella gioia di apprendere contenuti sodi, nel desiderio di intessere relazioni sane. Ecco il cuore dell’educazione… In una buona scuola pubblica, statale o paritaria.

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Un augurio esteso a tutti i docenti che sono alle prese con le riunioni, i collegi, i dipartimenti: non sterile burocrazia, ma incontri di persone unite dal desiderio di pensare, di progettare, di ideare percorsi di apprendimento rivolti ai giovani che saranno loro affidati nelle classi, in uno scambio inter-generazionale di cultura e di valori.

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Un pensiero va ai genitori, nella consapevolezza che la responsabilità educativa, per essere esercitata, ha bisogno di libertà. Ma è sempre responsabilità: quindi domanda adulta dalla volontà formata e solida.

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Quanto bisogno abbiamo di adulti veramente tali! Mi auguro che la ripartenza della scuola sia per tutti un appello per una scuola più giusta e più equa: questo dipenderà dalla nostra capacità di chiedere il completamento del percorso “autonomia, parità e libertà di scelta educativa”. I cittadini si riscoprono così più liberi, perché si riscopre un valore: il senso civico, al servizio del bene di tutti. Un valore, quello del senso civico, che solo la scuola in presenza può contribuire a farlo diventare realtà di tutti i giorni.

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In questi tempi di ripartenza, mi ritorna spesso alla mente quel brano del Vangelo [cfr. Lc. 5, 5] in cui Gesù invita i discepoli affaticati, dopo gli affanni di una pesca infruttuosa, a gettare nuovamente le reti. Pietro, nella cui umanità ciascuno di noi si può riflettere, seppur anche lui allo stremo delle forze, risponde al Maestro: «[…] Per totam noctem laborantes nihil cepimus; in verbo autem tuo laxabo retia» [«Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti»].

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Ecco, tutti noi abbiamo faticato a lungo: ora è il tempo di gettare le reti in mare e raccogliere una pesca abbondante fatta di cultura, impegno, buona volontà, desiderio di essere utili alla società. Auguri, dunque, di buon anno scolastico!

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Milano, 6 settembre 2021

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In questi tempi di ripartenza, mi ritorna spesso alla mente quel brano del Vangelo in cui Gesù invita i discepoli affaticati, dopo gli affanni di una pesca infruttuosa, a gettare nuovamente le reti.

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Anna Monia Alfieri, I.M.

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«Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» [Lc 5,5]

La scuola riparte. È un dato di fatto. Bando alla nostalgia per il tempo delle vacanze: è ora di ripartire e di impegnarsi. E alla grande! Negli ultimi 19 mesi di lockdown in tanti sono scesi in campo per i nostri giovani. Negli ultimi mesi, ancora più alacremente, tutti abbiamo lavorato, perché lo slogan scuola in presenza non rimanesse solo tale ma divenisse una realtà.

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Noi adulti abbiamo rinnovato la consapevolezza che la scuola è il luogo del sapere, il luogo dove gli studenti sviluppano la capacità di riflettere. A scuola non si imparano nozioni, ma si apprende ad argomentare, a vivere in una necessaria dimensione relazionale.

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Ecco che allora si ritorna a puntare la sveglia, a preparare lo zaino, i libri, a spuntare le materie del giorno, ritorna l’emozione di una interrogazione, di una verifica impegnativa. Si ritorna alla normalità.

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Penso ai nostri carissimi giovani e vorrei che vivessero l’emozione dell’inizio di un nuovo anno scolastico, con tutte le attese che ognuno di noi porta nel cuore. A tutti e a ciascuno: buon anno, nella gioia di apprendere contenuti sodi, nel desiderio di intessere relazioni sane. Ecco il cuore dell’educazione… In una buona scuola pubblica, statale o paritaria.

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Un augurio esteso a tutti i docenti che sono alle prese con le riunioni, i collegi, i dipartimenti: non sterile burocrazia, ma incontri di persone unite dal desiderio di pensare, di progettare, di ideare percorsi di apprendimento rivolti ai giovani che saranno loro affidati nelle classi, in uno scambio inter-generazionale di cultura e di valori.

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Un pensiero va ai genitori, nella consapevolezza che la responsabilità educativa, per essere esercitata, ha bisogno di libertà. Ma è sempre responsabilità: quindi domanda adulta dalla volontà formata e solida.

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Quanto bisogno abbiamo di adulti veramente tali! Mi auguro che la ripartenza della scuola sia per tutti un appello per una scuola più giusta e più equa: questo dipenderà dalla nostra capacità di chiedere il completamento del percorso “autonomia, parità e libertà di scelta educativa”. I cittadini si riscoprono così più liberi, perché si riscopre un valore: il senso civico, al servizio del bene di tutti. Un valore, quello del senso civico, che solo la scuola in presenza può contribuire a farlo diventare realtà di tutti i giorni.

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In questi tempi di ripartenza, mi ritorna spesso alla mente quel brano del Vangelo [cfr. Lc. 5, 5] in cui Gesù invita i discepoli affaticati, dopo gli affanni di una pesca infruttuosa, a gettare nuovamente le reti. Pietro, nella cui umanità ciascuno di noi si può riflettere, seppur anche lui allo stremo delle forze, risponde al Maestro: «[…] Per totam noctem laborantes nihil cepimus; in verbo autem tuo laxabo retia» [«Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti»].

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Ecco, tutti noi abbiamo faticato a lungo: ora è il tempo di gettare le reti in mare e raccogliere una pesca abbondante fatta di cultura, impegno, buona volontà, desiderio di essere utili alla società. Auguri, dunque, di buon anno scolastico!

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Milano, 6 settembre 2021

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Il Vescovo ha l’obbligo morale di rispondere alla sciagurata presa di posizione del Sindaco di Bergamo di firmare a favore del referendum abrogativo sull’eutanasia legale

— Attualità ecclesiale —

IL VESCOVO HA L’OBBLIGO MORALE DI RISPONDERE ALLA SCIAGURATA PRESA DI POSIZIONE DEL SINDACO DI BERGAMO DI FIRMARE A FAVORE DEL REFERENDUM ABROGATIVO SULL’EUTANASIA LEGALE

Il Sindaco di Bergamo sull’eutanasia: «Ho riflettuto a lungo nelle ultime settimane su questa firma che ho apposto in modo convinto e da credente. Non ritengo che la firma e il credo religioso siano in contraddizione»

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

 

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Marco Cappato (dell’Associazione Luca Coscioni) con il Sindaco di Bergamo Giorgio Gori al banchetto delle firme per il referendum sull’eutanasia [foto tratta da Il Corriere di Bergamo, edizione del 2 settembre 2021]

Quando un politico si professa credente e difende con orgoglio la manifestazione del peccato in tutte le sue forme, non solo non può ritenersi credente, ma neanche mantenersi all’interno di quella comunione ecclesiale cattolica tanto spesso millantata su giornali e televisioni per imbonire gli sprovveduti elettori cristiani.

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La vicenda recente del Sindaco di Bergamo Giorgio Gori appare clamorosa, non tanto per la sua posizione politica, ben chiara ed evidente a tutti, ma per la sua presunta posizione da credente, che grida vendetta al cospetto di Dio e al buon senso cattolico. Il primo cittadino ha dichiarato ai giornalisti con una certa fierezza e con chiare parole:

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«Ho riflettuto a lungo nelle ultime settimane su questa firma che ho apposto in modo convinto e da credente. Non ritengo che la firma e il credo religioso siano in contraddizione» [vedere: QUI, QUI].

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Qualcuna dalle cosiddette alte sfere ecclesiastiche silenti, perché come pare capaci solo a stracciarsi le vesti per i poveri clandestini che muoiono nelle acque del Mare Mediterraneo ― per i quali tutti ci rammarichiamo con cristiano dolore ―, dovrebbe replicare senza ulteriore indugio a questo improvvido “credente”. Infatti, applicando la sua stessa logica si potrebbe similmente affermare: come credente non posso impedire a chi ha una diversa percezione della vita di abortire. Non posso impedire a una donna di prostituirsi, né a coloro che ne acquistano le prestazioni sessuali di favorire in tal modo la prostituzione, inclusa quella minorile. E perché impedire di assumere sostanze stupefacenti? Come credente sono favorevole alla droga libera. O non è forse libero, chicchessia, di drogarsi come e quando vuole? A queste affermazioni che intenderebbero essere del tutto logiche, seguono poi le giustificazioni. Si tratta però di giustificazioni che non stanno in piedi proprio a livello logico, per l’esattezza queste: l’aborto legalizzato impedisce quello clandestino. Legalizzando la prostituzione si toglierà il giro di affari alla malavita. Similmente, legalizzando la droga, si sottrarrà alle mafie un grande giro di affari. Reputo invero strano che ancora nessuno abbia lanciato il cavallo di battaglia: legalizzando l’eutanasia si impedirà che i vari Dj Fabo siano costretti a dover andare in una clinica svizzera e versare una cospicua somma di danaro affinché si proceda al loro “fine vita”.

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Però, se un tranquillo cittadino che sta nella sua villetta a dormire con la moglie e i figli, trovandosi in piena notte con dei ladri in casa e avendo regolare porto d’armi apre il fuoco e ne lascia uno morto a terra nel salotto, in quel caso si levano le voci all’unisono del politicamente corretto che inneggia al «povero ladro!». Non importa, che cosa sarebbe potuto accadere a quel padre di famiglia e ai suoi figli, non doveva sparare e basta, perché non si uccide un ladro dentro casa, o meglio: solo in certi ideologici casi la vita è sacra, ossia quella del ladro, non però quella del bambino abortito. A un ladro che delinque in maniera incorreggibile e pericolosa per la vita e la sicurezza degli altri, si può solo dire, con un sorriso sulle labbra, la frase usata nella liturgia del Mercoledì delle Ceneri: «Convertiti e credi al Vangelo». Se però quello deciderà di non convertirsi, senza esitare tramortirà il padre di famiglia e il figlio a suon di percosse, per poi stuprare con gli altri suoi complici la moglie. Cose più volte accadute e narrate dalle cronache e dagli atti giudiziari [vedere QUI]. Casi questi dinanzi ai quali si leva sempre il coro unanime «Non uccidere», lo stesso coro che però non si leva davanti ai consultori dove si praticano aborti a catena.

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La cecità del Totalitarismo moderato moderno si legge in tutta la sua distruttiva malvagità in queste parole del primo cittadino di Bergamo che fa sfoggio di una fede confusa e malsana per avallare il referendum abrogativo sull’eutanasia legale che è in contrasto sia con la divina Rivelazione che con il Magistero della Chiesa. Cecità di una persona che reputa di essere “credente” ma il cui credo non è certamente quello del Signore della Vita. Cecità di un “credente” la cui fede assomiglia più al liberalismo di Auguste Comte con l’astrusa pretesa illuminista di dare all’uomo le prerogative divine, o del socialismo di Henri de Saint-Simon che vede nella fede positivista una salvezza laica che si è sbarazzata di Dio.   

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Per questo, noi Padri de L’Isola di Patmos, in nostra qualità di presbiteri e teologi chiediamo a S.E. Rev.ma Monsignor Francesco Beschi: può un credente che non ascolta la Sacra Scrittura e la voce del Magistero [che si esprime nella Lettera Apostolica Samaritanus Bonus e nella Enciclica Evangelium Vitae] dirsi ancora tale, tanto da rappresentare uno scandalo per la fede di tanti fratelli cristiani deboli e confusi? È possibile, davanti a tanta orgogliosa e pertinace manifestazione di peccato, non intervenire con forza, magari anche con un’azione disciplinare canonica che veda nella scomunica la giusta pena medicinale per il reo che favorisce e appoggia l’uccisione di una persona umana, violandone così la dignità e il rispetto dovuto al Dio vivente e Creatore? [Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 2276-2279].

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In questo momento sarebbe giusto e doveroso chiederne conto e ragione a questo personaggio pubblico che in modo impudente appoggia la cultura della morte e si proclama credente. Così come sarebbe consolante sentire dal Pastore della Chiesa che è in Bergamo una parola di forte condanna e di dissociazione dalle parole di un fedele che, da una parte si proclama tale, dall’altra incorre nell’errore grave e nel delitto che espone molti al peccato.

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Chissà quanti cattolici bergamaschi, a causa di queste parole dette dal loro Sindaco, “credente” e “cattolico”, saranno invogliati a firmare davanti ai banchetti di piazza o nelle sedi dei rispettivi comuni avallando questa legge? Chissà quanti, in questa domenica, verranno a fare la Santa Comunione ricevendo quel Cristo che nel malato costretto all’eutanasia stenderà ancora le braccia sulla croce e straziato dal peccato dell’uomo si offrirà vittima al Padre per salvarci dall’inganno satanico che vuole fare a meno di Dio? La prima, tra queste comunioni sacrileghe, potrebbe essere quella dello stesso Sindaco di Bergamo, “credente” e “cattolico” favorevole all’eutanasia?

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Il Vescovo di Bergamo dovrebbe rifletterci, specie considerando che il Beato martire Sant’Alessandro, patrono della sua Diocesi, non ha recusato i dolori della testimonianza nel martirio per Cristo. Dunque il Vescovo non recusi la testimonianza del pastore e salvi la sua Chiesa dai lupi rapaci, che non sono solo gli scafisti che trasportano clandestini, diversi dei quali destinati purtroppo a morire nelle nostre acque. I lupi rapaci sono anche certi Primi Cittadini che si gloriano di firmare per la cultura della morte e che dopo averlo fatto si proclamano credenti. Perlomeno, gli scafisti, non si proclamano credenti e non dichiarano che la loro attività non è in contraddizione con il credo religioso.

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Laconi, 4 settembre 2021

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