I tumori più terribili e difficili da guarire sono le malattie che ci impediscono di essere testimoni di Cristo [Iª La tristezza]

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— Pastorale sanitaria —

I TUMORI PIÙ TERRIBILI E DIFFICILI DA GUARIRE SONO LE MALATTIE CHE CI IMPEDISCONO DI ESSERE TESTIMONI DI CRISTO

Iª La tristezza ]

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Mi colpisce sempre vedere dei cristiani tristi, mi ha sempre colpito. Allo stesso modo mi colpisce vedere sacerdoti e religiosi musoni. Questo perché è una contraddizione palese in coloro che dovrebbero annunciare la Pasqua. Quando celebro la Santa Messa, quando guido un momento di preghiera oppure quando semplicemente entro in una chiesa, mi piace soffermarmi ad osservare le persone. Le osservo perché anch’io, ho bisogno di incoraggiamento da coloro che vivono una fede forte e hanno un rapporto intimo con Dio. E mentre sovente osservo, ecco … i musi lunghi!

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

 

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pagliaccio triste …

Con questo nuovo articolo darò avvio ad un ciclo di riflessioni sulle malattie spirituali più pericolose per la vita di un cristiano. Come sempre desidero citare la Parola di Dio, prendendo come spunto un brano evangelico che ho avuto modo di citare anche altre volte nei miei scritti sulla nostra Isola di Patmos:

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«Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» [cf. Lc 24,13-16].

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Al versetto 16 è evidente una certa cecità del cuore e della mente, ciò vuol dire che vi è qualcosa in questi due discepoli che gli impedisce di riconoscere il Signore risorto. Esistono infatti alcune patologie dell’anima che ci separano da Cristo e che ci impediscono di fare nostra la novità del Vangelo affinché questo trasformi la nostra vita e quella degli altri. È quindi in questi termini che desidero presentare la prima malattia spirituale: la Tristezza.

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Mi colpisce sempre vedere dei cristiani tristi, mi ha sempre colpito. Allo stesso modo mi colpisce vedere sacerdoti e religiosi musoni. Questo perché è una contraddizione palese in coloro che dovrebbero annunciare la Pasqua. Quando celebro la Santa Messa, quando guido un momento di preghiera oppure quando semplicemente entro in una chiesa, mi piace soffermarmi ad osservare le persone. Le osservo perché anch’io, ho bisogno di incoraggiamento da coloro che vivono una fede forte e hanno un rapporto intimo con Dio. E mentre sovente osservo, ecco … i musi lunghi!

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pagliaccio triste …

Cerchiamo anzitutto di capire una cosa: questo genere di tristezza non è data dai rovesci della vita che inevitabilmente tutti ci ritroviamo a sostenere. La tristezza di cui parlo, è quella mista a rassegnazione, è una tristezza che spesso è disperazione, depressione, staticità, arrendevolezza che – per quanto vogliamo maschere con aria mistica e affettata santità – affiora sempre a galla.

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Il cristiano non può che definirsi se non in seno alla gioia, è stato creato per la gioia e la stessa redenzione operata da Cristo – sebbene accompagnata dalla inevitabile tragedia della Passione – non si conclude con il Venerdì Santo ma con la Domenica di Risurrezione espressione della gioia che vince sulla morte. La viva rappresentazione della gioia di Cristo e dei discepoli, ossia dei primi cristiani, emerge dal Vangelo di San Giovanni Apostolo, indicato dai grandi Padri della Chiesa e dagli esegeti, anche come «Il Vangelo della gioia».

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Il segno più credibile di un cristiano dovrebbe essere proprio quello della gioia, l’intima gioia di vivere di Dio e della sua compagnia; l’intima gioia di poter presentare al Padre ogni istante della nostra giornata e avere la certezza di sentirci amati, compresi, perdonati e guariti intimamente. Per questo mi piace citare spesso un passo delle omelie per il Natale di san Leone Magno papa che dice: «Riconosci o cristiano la tua dignità». Cioè siamo chiamati a ri-conoscerci nuovamente, a prendere coscienza della nostra identità, a capire nuovamente chi siamo come credenti. Ogni vita cristiana – quindi anche la mia e la tua – è vita in cui Cristo vive, opera, ama, prega, spera, soffre, si affida al Padre.

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pagliaccio triste …

La vita cristiana è vita di comunione in cui la relazione con Gesù è presente: ecco la mia dignità, ecco la mia gioia! Al contrario, facendo invece spazio alla tristezza, metto in ombra la presenza di Gesù che vive in me e vado avanti spesso con le sole mie forze che verifico essere inadeguate. Inoltre, questo atteggiamento di melanconia spirituale viene rafforzato da espressioni come queste: «Siamo nati per soffrire !», «Non valgo a nulla, cosa posso mai fare di buono?», «Io sono zero, Dio è tutto», «Siamo nelle mani di Dio, non possiamo farci più nulla», «Merito di soffrire a causa dei miei peccati, Dio giustamente mi punisce». Tutti questi modi di pensarsi “cristiani”, pongono una seria caparra sulla gioia che Dio vuole per i suoi figli, che Cristo ci ha meritato con la sua risurrezione e che lo Spirito Santo continuamente riversa nei nostri cuori come dono gratuito.

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Tale situazione d’ombra è spesso il risultato derivante dalla nostra bassa autostima spirituale e di una pessima o assente formazione spirituale e catechetica. Mi spiego meglio …

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… l’autostima spirituale è la consapevolezza del valore che ciascuno attribuisce a se stesso in relazione alla persona di Dio, l’atteggiamento che ognuno ha nei propri confronti come persona amata, accettata e valorizzata da Dio. Questa autostima spirituale in parte dipende da noi e dalla nostra esperienza di Dio, in parte dipende da coloro che ci hanno educato alla fede affinché potessimo sentirci cristiani amati e degni di valore. Avere una bassa autostima spirituale è anche indice dell’immagine di Dio che ci siamo coltivati. Possiamo percepire Dio come un contabile, colui che segna sul taccuino i nostri errori e difetti pronto a farci pagare il conto. Possiamo percepire Dio come il dittatore che ci priva della gioia e ci chiede solo sacrifici, possiamo farci l’idea di Dio come simbolo dell’efficienza che vuole tutti perfettivi senza la possibilità di sbagliare o manifestare debolezze. Oppure abbiamo sperimentato l’idea di Dio come truffatore che promette tutto e mantiene niente, o l’idea del Dio giudice vendicativo che si diverte a punire e castigare l’uomo per manifestare la sua forza.

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pagliaccio triste …

Tutte queste immagini di Dio sono indicative del modo patologico con cui ci percepiamo cristiani e il modo che abbiamo di vivere lo stile del Vangelo all’interno delle nostre comunità religiose. E con questi presupposti si crea il pericolo serio di una problematica autostima spirituale.

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Può capitare che come cristiani tendiamo a non considerare gli aspetti positivi della nostra vita, negando o non vedendo il bene che Dio opera in noi. Ci sembra più naturale considerare i lati negativi e piangere sconsolati sulle nostre miserie. Anche una certa educazione religiosa, guidata da un falso e deviato concetto di umiltà, ci ha condotti a sentirci in colpa ogni qual volta parliamo delle nostre qualità e di quello che di bello e santo stiamo vivendo nel rapporto con Dio.

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La confessio laudis, cioè la manifestazione delle cose belle – e quindi della gioia – che il Signore compie nella mia vita è indispensabile per far tramontare una volta per tutte la tristezza. Ecco perché durante la confessione sacramentale, prima ancora dell’accusa dei peccati, è necessario manifestare al sacerdote le realtà gioiose di cui devo rendere grazie a Dio.

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La Sacra Scrittura e l’antropologia cristiana più autentica ci dicono che l’uomo non è un essere negativo, perduto e sconsolato. Esiste un ottimismo ben radicato che vede positivamente l’uomo e questo deriva proprio dall’unione con Dio che dona bellezza, conforto, dignità e fa risplendere continuamente il volto del Figlio su ogni realtà creata. L’uomo è creato non solo nel bene e nell’amore infinito di Dio ma è strutturato come realtà molto buona [cf. Gn 1,31] e come realtà positiva che ha il suo modello in Gesù Signore del mondo [cf. Col 1,16-17]. Neanche la prima disobbedienza [cf. Gn 3] riesce ad intaccare la stima e l’amore che Dio prova per l’uomo, tanto da continuare a valutare la sua creatura con un personale atto d’amore e di cura. Per questo motivo, all’apice del dramma del peccato originale, l’uomo riceve ugualmente una promessa di redenzione e gli viene donato un nuovo abito che possa ridargli dignità e valore [cf. Gn 3,15; 21].

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pagliaccio triste …

Nella storia del popolo di Israele Dio assiste sempre l’uomo affinché nulla sminuisca il suo valore, la sua certezza di essere amato. Né l’arroganza del faraone d’Egitto, né la fame e la sete del deserto, né la malattia, l’ostinazione e la mormorazione riescono a convincere Dio a rigettare e disistimare l’uomo creato molto buono. Non sono le cose esterne – buone o cattive – che determinano il nostro valore di cristiani, non è quello che la gente dice di me che mi rende cristiano migliore o peggiore, è il valore che ho per Dio che mi rende amabile.

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Sulla scia di questo pensiero, lo psicologo James Bugental afferma che la nostra vera identità non sta all’esterno di noi stessi, non deve essere ricercata nelle conferme esterne, nelle sicurezze esterne. La nostra vera identità, il nostro tesoro lo possiamo trovare scavando nel campo della nostra anima, nell’intimo di noi stessi: luogo in cui Dio prende dimora e si rivela nella gioia.

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È in questo sacrario che posso trovare l’immagine originaria che Dio ha pensato per me, la parola originaria che Dio ha pronunciata nel crearmi e che è capace di dare senso e gioia a tutta una vita, anche a quella più rovinata e apparentemente inutile.

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[fine della Iª meditazione]

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Cagliari, 20 gennaio 2019

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Ridi, pagliaccio !

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7 commenti
  1. Ornella Antoniutti
    Ornella Antoniutti dice:

    Invece io, ma devo confessare che non ho letto tutto l’articolo, non sopporto la perenne letizia che mi mostrano alcune persone assidue frequentatrici di parrocchia…. sarà invidia per la loro capacità di nascondere preoccupazioni e problemi? L’enorme carico di sofferenza che opprime l’intera Creazione e che sta diventando insostenibile, qualora vi si ponga pensiero, non può lasciare indifferenti e “lieti” , malgrado la fiducia nella Salvezza sia salda e certa.

    • Padre Ariel
      Ivano Liguori, Ofm. Capp. dice:

      Carissima Ornella, pace a te!

      Con il tuo commento mi dai modo di chiarire alcune problematiche che la tua risposta ha suscitato.
      Per questo ti ringrazio.

      Quando ti riferisci alla «perenne letizia» sul volto di alcuni frequentatori della parrocchia, lasci anche intendere un mal celato senso di sopportazione verso l’atteggiamento di questi fratelli cristiani.

      Sicuramente questo ti crea disagio o forse – come noti anche tu – una sorta di invidia per la capacità di nascondere i problemi.

      Anzitutto, la gioia di questi fratelli potrebbe essere effettivamente non autentica e il loro sorriso artificioso, utile solo come palliativo davanti ai disagi della vita. Ma questo non ci è dato saperlo, perciò sospendiamo il giudizio per amore di carità.

      In psicologica è stato classificato un modo di sorridere denominato sorriso Pan Am, in riferimento alle assistenti di volo della nota compagnia americana ormai non più in servizio. Queste hostess della Pan American, si esercitavano per sfoderare un sorriso di cortesia da usare con nonchalance davanti ai viaggiatori.

      Di fatto – questa comunicazione non verbale – non trasmetteva empatia e interessamento verso il viaggiatore ma solo sterile formalità.

      Fatta questa premessa, ti devo dare ragione, in alcuni casi si utilizza questa tipologia di sorriso senza trasmettere nulla: né un calore umano, né una seria esperienza di fede.

      La Lettera ai Filippesi [cf. Fil 4,5] ricorda ai cristiani di essere sempre affabili, ma si premura di specificare che la fonte di questa letizia è la vicinanza del Signore.

      Come potrai leggere dal mio articolo, la gioia cristiana è anzitutto la certezza di una presenza.
      La letizia del cristiano non è sentimentalismo o peggio formalismo, è l’opzione fondamentale nello scegliere Cristo quotidianamente. La gioia nasce da una decisione per Gesù, significa accettarlo nella vita come Signore e salvatore.

      San Giacomo nella sua lettera [cf. Gc 1,2-3] ci dice come la letizia è perfetta quando sperimenta dei momenti di verifica, specie nelle difficoltà. Questo non significa che la sofferenza e l’avversità portino la gioia. Tuttavia, quando davanti a una prova sappiamo che la nostra vita è ben radicata in Cristo, nessuno può strapparci dalle sue mani [cf. Rm 8,35-37] e questo significa mettere in gioco la fede, che agisce anche attraverso i nostri sentimenti mantenendoci sereni.
      Questa tipologia di letizia perfetta la vediamo nella beata Vergine Maria, che davanti alla passione di Gesù – pur soffrendo – non ha mai perso la gioia, non ha mai recriminato contro Dio per l’ingiusta sorte del figlio. Stessa gioia la troviamo nei martiri, che hanno affrontato la morte consapevoli di essere vittoriosi davanti al male.

      La gioia cristiana è un dono della fede frutto dell’azione dello Spirito Santo [cf. Gal 5,22] e la sua perfezione non dipende solo dalle nostre disposizioni ma anzitutto dalla presenza di Cristo che vive in noi.

      Forse davanti alla difficoltà di gioire di molto uomini – non sono tanto le motivazioni a mancare – quanto la fede, ragione più che sufficiente per restare nella tristezza.

      Ti benedico.

      • Zamax dice:

        Aggiungo che S. Paolo (2 Corinzi, 7, 10) fa lo stesso ragionamento riguardo alla “tristezza”, per quanto riguarda la sfera del peccato nel caso in questione, ma che si può allargare per analogia al complesso della vita spirituale: “Poiché, la tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che mena alla salvezza, e del quale non c’è mai da pentirsi; ma la tristezza secondo il mondo produce la morte. ” Quindi nella “tristezza secondo Dio” c’è sempre un fondo di lietezza.

      • Padre Ariel
        don Ciro dice:

        Caro Padre Ivano,

        complimenti per i tuoi articoli (e per quelli dei padri Paolo e Gabriele), questa Isola felice sta diventando sempre più un solido approdo per i cattolici internauti e anche per noi preti.
        Da prete quarantenne a prete quarantenne tale tu sei, ti confido che 4 anni fa sono stato ricoverato per 10 giorni in un certo ospedale di Roma, dove prestavano servizio cinque giovani sacerdoti non italiani (ma questo è irrilevante), che non sono mai passati una volta a salutarmi, pure se gli era stato segnalato dal personale medico che in quel reparto c’era un prete ricoverato.
        Celebravano la Messa nella cappella dell’ospedale, passavano un po’ di tempo al bar dell’ospedale, e poi sparivano.
        Nel mentre, tre o quattro suore non italiane (ma questo è irrilevante) giravano per i reparti a portare le sante comunioni come delle pubblicitarie che ti danno per strada dei volantini di reclame.
        Ho sofferto molto più di questo e per questo che per gli interventi ortopedici.
        Venne padre Ariel di domenica e celebrò la Messa nella mia camera di ospedale, senza mai avere preso da quell’ente ospedaliero un centesimo in stipendio, come invece prendevano quei preti non italiani (ma questo è irrilevante, che non fossero italiani).
        La prossima volta mi faccio ricoverare nel tuo ospedale di Cagliari !

        don Ciro
        dalla ridente Napoli, dove si ride in tutti i sensi
        soprattutto a livello ecclesiale ed ecclesiastico

      • ornella
        ornella dice:

        Gentilissimo padre Ivano, ringrazio vivamente per la esaustiva risposta che mi ha dedicato. Indubbiamente la Fede e la preghiera sono sostegno e sollievo nelle avversità, ma rimango dell’opinione che il mostrarsi sempre gioiosi sia anche una dote di carattere: ci sono tra noi persone estroverse, e altre più pensose. Sarà che stiamo attraversando un momento molto difficile, sia nell’ambito familiare che “mondiale”, oserei dire. Per cui, appunto, vedersi circondati da sorrisi Pan Am, o che sembrano tali, non aiuta, ma acuisce il disagio.
        Conservo nel cuore la Sua benedizione.

  2. Zamax dice:

    [Sulla tristezza] Io sono fra i più immuni da tale passione. E non mi piace né la stimo, benché il mondo, quasi per partito preso, abbia preso a onorarla di particolare favore. Ne vengono adornate la saggezza, la virtù, la coscienza: sciocco e mostruoso ornamento. Gli Italiani, con scelta più acconcia, hanno battezzato col suo nome la malvagità. Giacché è una qualità sempre nociva, sempre folle. E, in quanto sempre vile e bassa, gli stoici vietano ai loro saggi di provarla. (Michel de Montaigne, Saggi, Libro I, Cap. II)

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