Colloquio con Rocco Buttiglione: «Tomismo e dottrina sui divorziati risposati in Amoris Laetitia», ed una nota finale di Ariel S. Levi di Gualdo

— disputationes theologicae —

COLLOQUIO CON ROCCO BUTTIGLIONE: «TOMISMO E DOTTRINA SUI DIVORZIATI RISPOSATI IN AMORIS LAETITIA», ED UNA NOTA FINALE DI ARIEL S. LEVI di GUALDO

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«Esistono dei casi ― pochi o molti non so ― nei quali il divorziato risposato può avere delle buone ragioni da raccontare al confessore per chiedere di potere essere ammesso alla comunione, nel corso di un cammino di Penitenza e di riavvicinamento alla fede».

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Autore:
Ivo Kerže *

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L’On. Prof. Rocco Buttiglione

Rocco Buttiglione, insigne politico e accademico, non necessita certamente di presentazioni estese per i Lettori de L’Isola di Patmos. Negli ultimi tempi ha esposto il suo nome con una serie di pubblicazioni a difesa della dottrina dell’esortazione post-sinodale Amoris lætitia sulla possibilità di ammettere alla Comunione alcuni divorziati risposati viventi more uxorio. Tra queste pubblicazioni, l’ultima e più completa, è la monografia titolata Risposte (amichevoli) ai critici di Amoris lætitia, che è comparsa lo scorso ottobre in libreria [vedere QUI]. In essa l’impianto argomentativo di Buttiglione fa leva sulle condizioni soggettive di peccato mortale, che si basano sulla piena avvertenza ed il deliberato consenso. Qualche settimana fa ho dedicato a questo libro, è soprattutto alla sua tesi portante circa l’aderenza di Amoris laetitia al tomismo, un articolo su L’Isola di Patmos [vedere QUI]. Dopo alcuni giorni lo mandai all’On. Prof. Rocco Buttiglione che molto gentilmente non ha solamente risposto, ma si è reso disponibile a rilasciare per le colonne telematiche di questa rivista di teologia ecclesiale un’intervista dove abbiamo cercato di appurare la problematica in profondità. Concluda il lettore quale delle due parti, in questa intervista-dialogo, abbia esposto gli argomenti più convincenti riguardo a questa seria questione per la vita della Chiesa. Resta in ogni caso il fatto che, aver potuto dialogare con una persona così profondamente colta e priva di pregiudizi, è un grande piacere, ed al tempo stesso anche un onore, per qualsiasi studioso di scienze filosofiche.

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Ivo Kerže ― Nel Suo libro [par. 2.3] ella afferma, partendo dall’articolo I-II, quæstio. 94, a. 6 della Summa theologiæ di San Tommaso d’Aquino, che la legge naturale è nota a tutti noi per natura quanto ai principi primi, che sono effettivamente molto generici, tra i quali spicca quello fondamentale di fare il bene e fuggire il male. Fin qui siamo tutti d’accordo. Nello stesso brano, però, l’Aquinate parla della possibilità di un oscuramento della legge naturale in noi riguardo alla cognizione dei principi secondi ― sono quelli più concreti, come quelli del decalogo ― e alla cognizione della corretta applicazione dei principi al caso singolo. Lei conclude che, quando avviene un tale oscuramento circa il divieto di adulterio ― che è un principio secondo ―, allora non c’è piena avvertenza e quindi non c’è peccato mortale. In questa prima parte dell’intervista mi fermerei sul primo punto, che riguarda l’oscuramento dei principi secondi, lasciando il tema dell’applicazione per la seconda parte. La mia prima obiezione è che San Tommaso parla nel brano citato che questo oscuramento può essere provocato da «malas persuasiones», «pravas consuetudines» ed «habitus corruptos». Tutte e tre le denominazioni denotano un carattere vizioso ― malas, pravas, corruptos, sembra che quindi presuppongano un’ignoranza colpevole. Oltre a ciò il brano cita ― alla fine della responsio il primo capitolo della Lettera ai Romani dove l’Apostolo tratta appunto di una società corrotta ma in maniera colpevole [cf. 1 Rom 20], perché sapeva cosa era bene fare, ma non lo faceva.

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Rocco Buttiglione ― Il testo della Summa theologiæ, I-II a me sembra chiarissimo. I principi secondari della legge naturale ― e la proibizione dell’adulterio è uno di questi ― possono essere sradicati dal cuore dell’uomo in due modi: per un errore conoscitivo simile a quello che può avvenire anche nella conoscenza speculativa e per un vizio. L’errore conoscitivo è sempre cattivo ma non sempre ne deriva una colpa morale. La mala persuasio può essere un semplice errore senza colpa o può anche essere l’effetto di una cattiva azione di cui il soggetto è vittima piuttosto che protagonista. Pensi ad un bambino cresciuto in una cultura antropofaga cui i genitori e gli altri personaggi autorevoli della tribù abbiano insegnato che uccidere i nemici e mangiarli è un atto meritorio. Il soggetto attivo della mala persuasio è l’educatore cui l’educando si affida. Si può almeno accusare l’educando di essersi affidato all’educatore sbagliato? No, se l’educatore sono i genitori cui il soggetto è inclinato dalla natura stessa ad affidarsi. Diverso è il caso del vizio ma anche in questo caso la colpa è almeno fortemente diminuita se il vizio è appreso da una legittima autorità. 

L’errore è tanto più facile quanto più ci si avvicina al caso singolo. È qui che emerge la differenza fra il saggio e l’indotto. Il soggettivismo non vuole vedere il lato oggettivo dell’etica. Per esso qualunque giudizio della coscienza va accettato perché è la coscienza a creare la norma. L’oggettivismo non vuole vedere il lato soggettivo dell’etica. Per esso la coscienza si limita a trascrivere il giudizio della ragion pratica. L’etica realista vede che il soggetto morale deve obbedire alla coscienza e la coscienza dal canto suo può sbagliare nell’interpretare la norma. In tal caso la coscienza deve essere rispettata ― il soggetto non può essere considerato colpevole per essersi attenuto al giudizio della coscienza ― ma il suo giudizio non deve essere assolutizzato. Esso, piuttosto, deve essere corretto attraverso l’accompagnamento ed il discernimento.

Non dimentichi che un principio cardine dell’etica tomista è conscientia erronea obligat. La coscienza può essere erronea senza colpa. Esiste l’errore in buona fede ed esso scusa o almeno diminuisce la colpa. 

Credo che questi siano principi assolutamente tradizionali dell’etica cattolica (e tomista).

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Ivo Kerže ― Nella Sua interpretazione dei testi tommasiani riguardo alla conoscenza dei principi secondari non trovo espresso ciò che San Tommaso dice in Summa theologiæ I-II, quæstio 100, a. 1, ossia che i principi secondari che sono altresì precetti morali del decalogo («Honora patrem tuum et matrem tua, et, Non occides, Non furtum facies») vengono conosciuti subito (statim, e statim, cum modica consideratione) dalla «ragione naturale di ogni uomo», anche di quello cresciuto in un cultura antropofaga. Sono d’accordo con Lei che le «malas persuasiones» della sopra citata quæstio 94, a. 6 sembrano in contraddizione con ciò che ho citato della quæstio 100, a. 1, proprio perché l’Aquinate le compara agli errori speculativi circa le conclusioni necessarie ― anche se in generale pure gli errori speculativi possono essere colpevoli, se derivano per esempio da noncuranza ―. Penso però che questa sembianza di contraddizione si possa risolvere soltanto distinguendo i principi secondari in quelli morali del decalogo, tra i quali figura il divieto di adulterio. Principi secondari che sono comprensibili «statim» da chiunque, ed in altri precetti ― chiamati dai tomisti anche terziari, anche se San Tommaso non usa questo termine ― che seguono, ma in maniera più complicata dai primi principi, nei quali invece si possono intromettere le «malas persuasiones» e dove si può quindi verificare l’ignoranza incolpevole. Vede qualche altra soluzione di questa sembianza di contraddizione?

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Rocco Buttiglione ― Nella quæstio 100 della I-II, San Tommaso ci dice che ci sono i primi principi che sono immanenti alla ragion pratica, i principi secondi che da essi derivano attraverso il ragionamento immediato e le conseguenze pratiche. Per individuare la giusta conseguenza del principio nel caso concreto occorre essere dotto e l’indotto facilmente può sbagliare senza colpa. 

La quaestio 94 a. 6 aggiunge che, mentre in generale i secondi principi sono noti perché immediatamente derivabili dai primi, tuttavia in alcuni casi essi possono essere sradicati dal cuore dell’uomo. Per capire in che modo questo possa avvenire occorre fare un excursus sulla teoria tomista della attenzione. Perché l’intelletto possa compiere la sua operazione propria è necessaria una certa concentrazione dell’attenzione. Questa però può venir meno o per colpevole decisione del soggetto o anche per circostanze indipendenti dalla sua volontà. Non credo che Pascal abbia mai conosciuto la dottrina tomista dell’attenzione, essa però praticamente coincide con la teoria pascaliana del divertissement

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Ivo Kerže ― Riguardo alla teoria tomistica dell’attenzione San Tommaso riporta in Summa theologiæ, I-II, quaestio 77, a. 2 il caso di un geometra che non fa attenzione ad alcune conclusioni che subito ― anche qui utilizza la parola «statim» ― gli dovrebbero balzare agli occhi. Va bene. Però dall’altra parte San Tommaso in Summa theologiæ I-II, quaestio 6, a. 8, dove tratta dell’ignoranza volontaria, dice che un’ignoranza è volontaria e quindi colpevole quando riguarda ciò che uno può e deve sapere: «dicitur ignorantia voluntaria eius quod quis potest scire et debet». Nel caso della legge naturale si tratta appunto di cose alle quali abbiamo il dovere di rivolgere l’attenzione e, quanto riguarda i principi secondi del decalogo, che possiamo comprendere subito in maniera facilissima. Quindi il caso del geometra qui non entra in gioco, perché non è nostro dovere conoscere la geometria.

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Rocco Buttiglione ― Bisogna sapere però che il Santo Dottore distingue una ignoranza incolpevole ― non so cose che non sono tenuto a sapere ― da una ignoranza colpevole ma non malvagia ― non so cose che sono tenuto a sapere perché sono stato negligente ― e da una ignoranza colpevole malvagia ― non so cose che sono tenuto a sapere perché non voglio essere ostacolato nella mia volontà malvagia―. Il primo tipo di ignoranza esclude la colpa, il secondo la diminuisce, il terzo la aggrava (Summa theologiæ, I-II, quæstio 76, a. 3 e 4). 

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Ivo Kerže ― ma d’altra parte San Tommaso in Summa theologiæ, I-II, quaestio 6, a. 8, dove parla del rapporto tra ignoranza e volontarietà ― anche negli articoli da Lei citati la colpevolezza del ignoranza dipende dall’involontarietà che ne consegue ―, parla in modo diverso del tipo di ignoranza dove non so cose che posso sapere e sono tenuto a saperle ― nel brano della quæstio 76: «scire tenetur et potest», in quello della quæstio 6: «potest scire et debet». Nel brano della q. 76 l’Aquinate dice ciò che ha citato Lei, ossia che una tale ignoranza diminuisce il peccato senza toglierlo del tutto. Nel brano della quæstio 6, invece, dice che una tale ignoranza non può causare l’involuntarium simpliciter. Ma solo l’involuntarium simpliciter ridurrebbe di per sé il peccato grave da mortale a veniale (si veda il De maloin quæstio 7, a. 11, arg. 3, che è secondo me un brano molto importante per il nostro tema). Quindi penso che il testo della quæstio 76 vada inteso nel senso che l’ignoranza di ciò che posso e devo sapere diminuisce la colpa ma non riducendo il peccato grave da mortale a veniale.

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Rocco Buttiglione ― Credo che bisogni ricordare prima di tutto che il peccato è sempre una azione contraria al giudizio della ragione recepito dalla coscienza. Coscientia erronea obligat. Il giudizio può essere errato per l’ignoranza di cose che il soggetto non era tenuto a sapere e non poteva sapere facendo uso della ordinaria diligenza. Può accadere che questa ignoranza riguardi i principi secondi della legge naturale, più spesso riguarda il materiale empirico che costituisce la premessa minore del sillogismo applicativo dei principi secondari al caso concreto. Questa ignoranza scusa interamente. 

Esiste poi una ignoranza che scusa ma non del tutto. Essa riguarda cose che il soggetto è tenuto a sapere ed è in grado di sapere facendo uso della ordinaria diligenza ma non sa. Possiamo dire che questa ignoranza fa derubricare il peccato da mortale a veniale? Non credo che questo si possa dire. Non credo però neppure che si possa dire il contrario: che il concetto di ordinaria diligenza ammetta una quantità infinita di gradazioni e non credo si possa determinare in astratto in questo caso la esatta linea di confine fra peccato veniale e peccato mortale. Quanto è grave la mancanza di diligenza? Quali sono state le sue cause? Etc… Pensi ad uno studente che non ha studiato affatto per l’esame e lo paragoni ad uno che ha studiato bene tutto tranne una nota a piè di pagina. In ambedue i casi vi è un deficit del livello di diligenza dovuta, ma il livello del deficit non è lo stesso.

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Ivo Kerže ― Lasciando adesso il tema della conoscibilità dei principi secondi, passiamo all’altro tema, sul quale fa soprattutto leva nel Suo libro: quello che riguarda la conoscibilità della corretta applicazione dei principi. Mi pare che nella Sua esegesi la distinzione tra precetti positivi e precetti negativi non sia evidenziata abbastanza. Infatti in I-II, quæstio 94, a. 4 l’Angelico cita come esempio di difficoltà, nell’applicazione dei precetti, il precetto positivo della restituzione delle cose depositate. I precetti negativi del decalogo (gli intrinsece mala), come il divieto di adulterio, invece obbligano semper et ad semper, in ogni circostanza applicativa, come viene spiegato nel Commento di San Tommaso alla Lettera ai Romani, c. 13, l. 2. Quindi in questi casi l’errore riguardo all’applicazione non può avere luogo.

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Rocco Buttiglione ― Esistono due ragioni possibili di errore. Una riguarda il contenuto oggettivo del precetto secondario della legge naturale. A secondo delle circostanze il contenuto oggettivo del precetto può variare. Il precetto riguarda ciò che per lo più avviene (quod plerumque accidit) ma patisce eccezioni in circostanze straordinarie. Non è questo il caso degli intrinsece mala. Essi, come Lei osserva giustamente, valgono semper et pro semper. Essi sfuggono a questa prima causa di errore. La seconda causa di errore è contenuta nella natura del sillogismo pratico. La premessa maggiore è inequivoca e certa a priori, la premessa minore è invece empirica e passibile di errore. A questo secondo tipo di errore non si sottrae nemmeno il sillogismo la cui premessa maggiore è una proposizione valida semper et pro semper.

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Ivo Kerže ― Riguardo alla premessa minore empirica nei giudizi pratici non riesco bene a capire in che modo può verificarsi qui un errore nei casi dei divorziati risposati. La premessa maggiore è in questi casi il divieto di adulterio ― «non devo avere relazioni more uxorio con un donna che non è mia moglie» ―, la premessa minore empirica è «questa donna qui, non è mia moglie» Detto ciò domando: secondo Lei esistono persone che confondono la donna con la quale compiono adulterio con la loro moglie? Mi pare di no, o forse in casi di malattia mentale o simili.

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Rocco Buttiglione ― Evidentemente esistono casi di incertezza su quale sia la vera moglie, altrimenti non avrebbero ragione di esistere i tribunali ecclesiastici diocesani, la Sacra Rota e via discorrendo. Un caso evidente a cui si può applicare il riferimento di Amoris lætitia al possibile accesso ai sacramenti per i divorziati risposati è proprio quello della convinzione in coscienza della nullità del primo matrimonio. In questi casi di per sé bisognerebbe adire il tribunale ecclesiastico ma … non tutte le diocesi hanno un tribunale ecclesiastico funzionante, è possibile che testimoni decisivi siano irreperibili o testimonino il falso e che sia quindi impossibile fornire la prova canonica, il giudizio può tardare indefinitamente, è possibile che il giudice si sbagli … I ministri del matrimonio sono i coniugi. Se in essi vi è la volontà di contrarre un vero matrimonio la loro unione realizza il sacramento. Se due divorziati i cui precedenti matrimoni sono nulli si uniscono con una autentica intenzione matrimoniale il loro sarà un autentico matrimonio, anche se illecitamente contratto, proprio come le ordinazioni sacerdotali compiute da un vescovo senza il consenso del Papa sono illecite ma valide. È possibile imporre come pena canonica per il matrimonio illecitamente contratto la separazione? Peggio, si può imporre ad un uomo di abbandonare la donna che egli in coscienza sa ― o crede di sapere ― essere sua moglie per convivere con un’altra che egli invece sa ― o crede di sapere ― non esserlo? La risposta della Summa nel testo del Supplementum, quæstio 45, a. 4 è chiarissima: piuttosto subire la pena canonica o cercare rifugio fra gli infedeli ma non tradire la donna che in coscienza so essere mia moglie.

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Ivo Kerže ― A quanto ne so, però, un matrimonio ― a differenza delle ordinazioni dei ministri in sacris ― se non avviene di fronte ad un rappresentante dell’autorità ecclesiastica, solitamente il parroco, non è soltanto illecito, ma anche invalido. Proprio per questo i matrimoni celebrati nelle comunità della Fraternità sacerdotale di San Pio X non erano validi, fino a quando il Romano Pontefice non ha conferita ai loro sacerdoti questa facoltà nel 2017.

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Rocco Buttiglione ― I ministri del matrimonio sono gli sposi. La presenza del parroco e dei testimoni ha la funzione ― importantissima ― di certificare che di vero matrimonio si tratta ma non attiene alla essenza del sacramento. La Chiesa può, in foro externo, rifiutarsi di riconoscere un matrimonio non canonicamente celebrato ma questa è una disposizione di disciplina ecclesiastica che può per giusta ragione essere derogata. Pensi al caso di scuola di un uomo e di una donna isolati in un paese in cui non ci sono sacerdoti; ed il caso non è tanto di scuola: pensi alla storia drammatica delle chiese clandestine e perseguitate In Giappone, in Corea o in Albania. Il Concilio di Trento ha molto insistito  sulla forma canonica del matrimonio e lo ha fatto per una giusta ragione. Basta leggere William Shakespeare per vedere quanti problemi nascessero dalla “elasticità” delle forme del matrimonio prima del concilio tridentino. Ovviamente il rifiuto senza giusta causa di celebrare il matrimonio nella forma canonica prescritta può costituire colpa grave di disubbidienza alla autorità legittima ed anche dar vita ad una presunzione di invalidità che però, ovviamente, non può essere assoluta,  vale cioè fino a prova contraria. In altre parole il matrimonio celebrato senza il parroco ma con una autentica intentio et affectio coniugalis è vero matrimonio davanti a Dio. L’ordinamento canonico, però, per i suoi fini propri, può rifiutarsi di riconoscerlo. Esso non sa se sia vero matrimonio e pertanto si rifiuta di considerarlo come tale. Più esattamente: il matrimonio sussiste se il contenuto dell’atto di volontà dei coniugi coincide con il contenuto del matrimonio cristiano. Se questo contenuto non è stato accertato nelle forme prescritte dal diritto canonico l’ordinamento canonico non ha una certezza a questo proposito e presume che non vi sia un autentico matrimonio. Di qui i problemi ― fortunatamente superati ― per il riconoscimento dei matrimoni celebrati dai sacerdoti della Fraternità sacerdotale San Pio X.

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Ivo Kerže ― Comunque mi pare che qui abbiamo esulato dal tema della Comunione ai divorziati risposati. Il divorzio presuppone in origine un matrimonio valido. Il caso della nullità di questo matrimonio che Lei ha messo qui in rilievo mi pare un tema diverso.

 

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Rocco Buttiglione ― Non proprio. Il divorzio non presuppone un matrimonio valido ma semplicemente la scelta delle parti di adire il giudice civile invece di quello ecclesiastico. Possono fare questa scelta perché convinti che il giudice ecclesiastico non scioglierebbe il vincolo ma anche perché non credenti o anche semplicemente perché vogliono regolare i loro rapporti economici e per il momento non intendono entrare in una nuova relazione. Accade che più tardi, dopo essersi risposati, alcuni vogliano tornare ai sacramenti. Si presentano allora situazioni ingarbugliate che i tribunali ecclesiastici non sempre sono in grado di risolvere.  Facciamo solo un caso, quello probabilmente più frequente. Due giovani battezzati solo superficialmente evangelizzati contraggono matrimonio. Ogni matrimonio fra battezzati è un sacramento. Perché sia un sacramento, però, basta che le parole della formula matrimoniale siano pronunciate? Oppure occorre che esse siano intese nel senso della  Chiesa Cattolica ― per esempio includendo la volontà di avere dei figli, l’obbligo della fedeltà, l’impegno alla testimonianza reciproca dell’amore di Dio in tutte le circostanze della vita etc … ―. Che succede se la formula è stata pronunciata senza intendere ciò che essa davvero voleva significare? La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede si è occupata del problema ed il suo prefetto, Cardinale Joseph Ratzinger, era incline a ritenere che in quei casi non vi fosse un vero matrimonio ma ritenne che l’argomento dovesse essere ulteriormente approfondito.

 Che fare se in questo, ed in altri casi simili, non fosse possibile produrre la prova canonica della nullità ma il confessore si convincesse non solo che il penitente è convinto in buona fede che il vero matrimonio sia il secondo ma anche che egli con ogni probabilità ha ragione? Ammetterlo alla comunione, dopo avere preso tutte le precauzioni opportune per evitare lo scandalo, sarebbe davvero così sbagliato?

Bisogna ricordare il fatto che la sentenza del tribunale ecclesiastico è meramente dichiarativa. Essa non annulla un matrimonio valido ma dichiara che il matrimonio non è mai stato valido. È possibile che i giudici vengano ingannati e dichiarino nullo un matrimonio che invece è valido? Nonostante tutti gli sforzi e tutta la diligenza è possibile. È possibile che i giudici siano tratti in inganno e dichiarino valido un matrimonio che invece è nullo? È possibile, anzi è ancora più possibile perché il tribunale agisce sulla base di una presunzione di validità del vincolo. In altre parole il tribunale dichiarerà che il vincolo sussiste in tutti i casi dubbi nei quali non c’è la prova della invalidità e nemmeno quella della validità. Ancora più possibile è che gli interessati non abbiano la possibilità di adire il tribunale ecclesiastico.

Esistono dei casi ― pochi o molti non so ― nei quali il divorziato risposato può avere delle buone ragioni da raccontare al confessore per chiedere di potere essere ammesso alla comunione, nel corso di un cammino di Penitenza e di riavvicinamento alla fede.

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17 marzo 2018

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* Nato a Trieste nel 1976. Essendo di nazionalità slovena intraprese gli studi alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Lubiana dove ha conseguito la laurea nel 2000, il magistero nel 2001 ed il dottorato nel 2007 in filosofia concentrandosi sopratutto sulla filosofia tomista. Per lunghi anni è stato collaboratore di Tretji dan che è una delle principali riviste dedicate al pensiero cattolico in Slovenia. Nel 2008 fu pubblicata presso la collana Claritas la sua prima opera monografica dal titolo Začetek slovenske filozofije (L’inizio della filosofia slovena). Attualmente insegna filosofia al liceo diocesano di Maribor. In Italia collabora dal 2014 con la rivista Sensus Communis diretta da Antonio Livi.

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UNA NOTA FINALE

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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Giovanni Cavalcoli, O.P. e Ariel S. Levi di Gualdo

Padre Giovanni Cavalcoli, O.P. e io, ormai noti come i Padri de L’Isola di Patmos, ringraziamo il filosofo anziano ed il filosofo giovane per questo loro colloquio: l’On. Prof. Rocco Buttiglione e il Dott. Ivo Kerže, perché il loro è un colloquio che ci rallegra e che ci onora profondamente.

Questo dialogo rappresenta infatti il proficuo scambio che per secoli ha caratterizzato le migliori e più feconde disputationes theologicæ, prima che si giungesse ai tempi attuali nei quali si è scivolati nella peggiore umoralità farisaica in nome della difesa di una verità che per molti è tale solo perché soggettiva, il tutto manifestato attraverso quel iocentrismo che si è sostituito ― come da anni vado lamentando ―, al cristocentrismo. Il tutto procede a spron battuto soprattutto per mezzo di vecchie eresie di ritorno, oggi purtroppo più attuali di ieri e delle quali parla il recente testo della Placuit Deo, commentato pochi giorni dopo la sua uscita da Padre Giovanni Cavalcoli e da me [vedere QUI].

Proprio come spiegavo questa mattina a Roma alle Suore dello Spirito Santo nella meditazione al Santo Vangelo del giorno [cf. Gv 7, 40-53]: Se scribi e farisei non credono, nessuno allora deve credere. Così, la loro non-fede, diviene certezza di verità che Cristo Gesù non è da Dio, mentre invece egli è proprio θεὸν εκ θεοῦ, φῶς ἐκ φωτός, Θεὸν ἀληθινὸν ἐκ Θεοῦ [Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero].

È davvero terribile pensare di poter affermare, come i farisei narrati in questo brano del Santo Vangelo [cf. Gv 7, 40-53] che se io non credo, allora Cristo Signore è falso e che pertanto neppure tu, devi credere. Il tutto sulla base del fatto che la mia fede viene elevata a certezza per la fede tua. Se per ciò io credo, tu credi, ma se io non credo, tu non devi credere, perché è da me che promana quella certezza che regge la verità.

Ricordo sempre un articolo scritto da Padre Giovanni Cavalcoli alcuni anni fa, nel quale egli dedica parole severe alla superbia peggiore: la superbia intellettuale, che non a caso egli definisce come «apologia della superbia» [vedere QUI,  QUI].

Questo agire è la orrenda bestemmia contro lo Spirito Santo, quella per la quale Cristo Dio ammonisce:

«Perciò io vi dico: Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro» [cf. Mt 12, 31-32]

La mancanza di remissione è dovuta al fatto che questo genere di bestemmia non solo chiude, perché la conseguenza di siffatta chiusura è la distruzione di ogni azione di grazia. Per questo, la Chiesa che da Cristo Dio ha ricevuto il mandato di assolvere dai peccati i peccatori [cf. Gv 20, 19-31], non ha facoltà di concedere remissione per il grave peccato contro lo Spirito Santo dell’impenitente totalmente refrattario a qualsiasi forma di pentimento ed ostinato nel peccato [cf. Sant’Agostino, discorso n. 71 sulla bestemmia contro lo Spirito Santo, testo in italiano QUI].

I peccati contro lo Spirito Santo, noti come «bestemmia contro lo Spirito», sono sei, ed è bene forse ricordare ch’essi sono: l’impugnazione della verità conosciuta e l’invidia dei doni di grazia, ai quali si aggiunge il tentativo di distruggere i doni di grazia altrui; la disperazione della salvezza e la presunzione di salvarsi senza merito; l’ostinazione nel peccato e l’impenitenza finale.

Oggi, la «bestemmia contro lo Spirito», a parere mio ― e beninteso sia, è un parere tanto modesto quanto personale ―, non si manifesta più in modo per così dire “classico”, ma in forme parecchio più raffinate e gravi, per esempio attraverso quel processo d’inversione diabolica mediante il quale il bene diviene male ed il male bene, il vizio virtù e la virtù vizio, la verità rivelata eterodossia e l’eterodossia l’unica autentica verità rivelata. Tutto questo conduce inevitabilmente a vivere ostinatamente nella bestemmia, nel peccato sino alla morte; quello stato terribile di peccato che San Tommaso d’Aquino indica come «ostinazione nel peccato» [Summa Theologiæ, II-II, 14, 2].

I nostri due filosofi, dialogando hanno mostrato il desiderio profondo che li spinge a cercare la verità, mai però a imporre la propria verità, perché la verità ― e con essa la grazia ed il perdono di Dio ―, rimane racchiusa nel mistero imperscrutabile del cuore di Colui al quale acclamiamo: Πιστεύομεν εἰς ἕνα Θεόν, Πατέρα Παντοκράτορα, ποιητὴν οὐρανοῦ καὶ γῆς, ὁρατῶν τε πάντων καὶ ἀοράτων [Credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili]. 

Chi serve veramente la verità, cercando di farsi strumento di verità, non si distaccherà mai un istante della propria vita dal cero pasquale, che è Cristo luce del mondo dinanzi al quale nessuno di noi canta: “Oh, mio Dio, come sono io veritiero!”. Tutt’altro. Dinanzi a Cristo luce del mondo noi inneggiamo al nostro peccato sulla ispirazione intuitiva di San Tommaso d’Aquino: «O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem» [O felice colpa, che ci fece meritare un così grande Redentore]. Perché «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» [Rm 5, 20]. 

Tutto questo è molto chiaro ai nostri due filosofi, non lo è invece, purtroppo, ai nuovi affetti dall’eresia pelagiana di ritorno, per la cui conversione non cesseremo mai di pregare, affinché possano uscire dalla dimensione iocentrica per penetrare quella dimensione cristocentrica che ci conduce all’eterno mistero della salvezza.

Roma, 17 marzo 2018

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