In questa terribile notte buia, per il nuovo anno 2019 il programma di lavoro è stato dettato a L’Isola di Patmos dal Beato Apostolo Pietro: «Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi»

 — Theologica —

IN QUESTA TERRIBILE NOTTE BUIA, PER IL NUOVO ANNO 2019 IL PROGRAMMA DI LAVORO È STATO DETTATO A L’ISOLA DI PATMOS DAL BEATO APOSTOLO PIETRO: «IL VOSTRO NEMICO, IL DIAVOLO, COME LEONE RUGGENTE VA IN GIRO, CERCANDO CHI DIVORARE. RESISTETEGLI SALDI NELLA FEDE, SAPENDO CHE I VOSTRI FRATELLI SPARSI PER IL MONDO SUBISCONO LE STESSE SOFFERENZE DI VOI»

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«La Chiesa, questa Sposa dell’Agnello Immacolato, è ubriacata da nemici scaltrissimi che la colmano di amarezze e che posano le loro sacrileghe mani su tutte le sue cose più desiderabili. Laddove c’è la sede del beatissimo Pietro posta a cattedra di verità per illuminare i popoli, lì hanno stabilito il trono abominevole della loro empietà, affinché colpendo il pastore, si disperda il gregge» [S.S. Leone XIII, Exorcismus in Satanam et Angelos Apostaticos]

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

Il periodo che segna la fine e l’inizio di un nuovo anno, più che tempo di bilanci e programmi è un’occasione particolare in più per affidarsi a Dio e alla Beata Vergine Maria Mater Dei, soprattutto in questi tempi non felici, dinanzi ai quali sovviene alla mia mente il tenero ricordo del compianto Cardinale Carlo Caffarra, che in uno dei nostri ultimi colloqui, quando il 19 agosto 2017 ebbe la bontà di chiamarmi per farmi gli auguri per il mio 54° compleanno, nel volgere del discorso mi disse:

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«Che la Chiesa viva un momento drammatico che non ha precedenti storici, soltanto ciechi e irrazionali possono negarlo, semmai rimanendo in passiva attesa che tutto passi e giungano come per incanto tempi migliori».

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E proprio col Cardinale Carlo Caffarra affrontai più volte complessi e dolorosi discorsi legati a quei passi delle Sacre Scritture oggi usati da non pochi esegeti, sicuri di poterli utilizzare come fossero pillole omeopatiche con le quali curare un tumore degenerato nella sua irreversibile fase terminale. Sia chiaro: «pillole omeopatiche» non sono certo le Sacre Scritture o taluni passi in particolare, lo è il modo in cui taluni presumono di usare in maniera surreal rassicurante quei passi della Parola di Dio che racchiudono al proprio interno la tragedia del nostro presente. A questo si unisce un’operazione di per sé peggiore: usare le Sacre Scritture monche, estrapolando un pezzo di frase dal contesto e farne uso per far dire ad esse ciò che su di esse non è proprio scritto. È presto detto che usare a questo modo la Parola di Dio per imporre o per suggellare col soprannaturale le proprie opinioni umane, sotto certi aspetti potrebbe essere peggio che enunciare un’eresia. Forse fu proprio questo modo di agire che fece dire a Karl Marx — il quale non s’inventò il concetto ma lo estrapolò da Tito Lucrezio Caro — che «La religione è l’oppio dei Popoli». E aveva ragione, se con questa definizione egli intendeva quel genere di religiosità che usa Dio in modo pretestuoso, o per così dire oppiaceo, al fine primo e ultimo d’imporre le idee soggettive e del tutto opinabili dell’uomo. Da sempre esiste infatti un ateismo molto peggiore dell’ateismo classico che nega Dio: l’ateismo di chi usa Dio per divinizzare le proprie opinioni ed interpretazioni, mutandole in verità divine non passibili di discussione e di smentita. Da sempre, l’ateismo peggiore, non è il negare Dio, ma il sostituirsi a Dio; non è il negare la sua Parola, ma lo stravolgimento della sua Parola. E oggi, purtroppo, nella Chiesa visibile brulicano vescovi e preti che sono dei perfetti atei devoti praticanti.

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Per inciso ricordiamo che Tito Lucrezio Caro [Campania 94 a.C. – Roma 54 a.C], nella sua opera De rerum natura, afferma in che modo siano evidenti le infauste conseguenze della religione, adducendo come esempio il caso di Ifigenia, spiegando appresso che il mito è una rappresentazione falsata della realtà, il cosiddetto evemerismo, che prende nome da Εὐήμερος [Evemero da Messina, vissuto tra il IV e III secolo a.C. nella Magna Grecia] da cui si sviluppa l’idea che all’origine degli dèi, altro non vi sarebbero state che delle personalità umane, segnate da particolari doti e talenti, ed infine giunte ad attribuirsi natura divina e conseguente culto di adorazione da parte delle popolazioni. La religione, secondo l’Autore classico romano, è per ciò la causa principale dell’ignoranza e dell’infelicità degli uomini. Ora, siccome Tito Lucrezio Caro nasce circa un secolo e muore circa mezzo secolo prima della nascita di Cristo, è presto detto ch’egli non si rivolge al Cristianesimo, ma a quello spirito religioso negativo che percorre l’intera storia dell’umanità. Lungo sarebbe il discorso di carattere antropologico e storico per spiegare e dimostrare con rigore scientifico che nella storia dell’umanità, la decadenza, a volte la scomparsa di molte antiche civiltà, è sempre stata preceduta dalla decadenza religiosa, che giunta al suo culmine ha prodotto il collasso dei sistemi politici e di governo, infine la totale decadenza con conseguente scomparsa di quelle civiltà stesse.

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IL PROBLEMA ESCATOLOGICO DELLA GRANDE APOSTASIA NELLA CHIESA VISIBILE

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Da tutto quanto sin qui narrato noi ci sentiamo però immuni con una presunzione senza limiti, perché, facendo taglia e cuci sulle Sacre Scritture, estrapoliamo da esse delle pillole omeopatiche del tipo: «Cristo Signore ha assicurato che le porte degli inferi non prevarranno!». È vero, lo ha detto. Però, vogliamo chiederci su che cosa le porte degli inferi non prevarranno? Quando infatti Cristo Signore dice a Pietro:

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«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» [Mt 16, 18]

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è a dir poco d’obbligo domandarsi: a quale Chiesa si riferiva? Ovvio: alla sua, o meglio: alla Chiesa del Verbo di Dio, giacché la definizione mistica e soteriologica di Chiesa ce la fornisce il Beato Apostolo Paolo indicando Cristo come «il capo del corpo che è la Chiesa» [Col 1, 18]. È quindi naturale che le porte degli inferi non prevarranno su Cristo, nella stessa misura in cui Satana, tentando nel deserto l’uomo Gesù [Cf Mt 4, 1-11], non poté certo far vacillare il Verbo di Dio incarnato. Temo però che serpeggi — oggi forse persino più di ieri — una certa confusione dinanzi alla quale sorge la domanda: non è che l’animale religioso, o se preferiamo l’animale teologico, sia giunto a confondere la Chiesa corpo mistico di Cristo, di cui il Cristo glorificato è capo e noi membra vive, con quella palese struttura di peccato tal è l’attuale Chiesa visibile, strutturata su una gerarchia umana e composta di uomini, non pochi dei quali vivono ormai al di là del bene e del male, dopo avere da tempo smarrito il senso stesso, del bene e del male? Perché nel caso in cui taluni non lo avessero capito, è proprio facendo riferimento a questo genere di struttura che Cristo Signore afferma con un terribile interrogativo: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» [Lc 18, 8]. Che motivo avrebbe mai avuto, il Verbo di Dio, di lanciare questo interrogativo che pesa più di quanto possano pesare i macigni di un’intera montagna, se la Chiesa è di Cristo ed è governata dallo Spirito Santo e quindi «le porte degli inferi non prevarranno contro di essa»? [Mt 16, 18]. Forse, quello di Cristo Signore sulla fede, è per caso un interrogativo inopportuno che necessita di essere corretto sul piano metafisico e sul piano dogmatico? Può anche essere, perché in fondo, Cristo Signore, era un principiante animato da buone intenzioni, sprovvisto come tale di tutti quegli strumenti della scolastica e della metafisica che verranno solo secoli dopo. Insomma: nella sua “divina ignoranza” non conosceva e non applicava la logica di Aristotele.

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Fatto ciò, bisogna procedere anche a cambiare il Catechismo della Chiesa Cattolica, molti articoli del quale sono resi di giorno in giorno lettera morta, o svuotati dal loro significato, grazie ad una odierna prassi pastorale che dobbiamo naturalmente credere che sia ispirata rigorosamente dallo Spirito Santo, anzi dettata parola per parola, intervista su intervista direttamente dalla Terza Persona della Santissima Trinità. E se così stanno davvero le cose, allora sarebbe bene correggere tutti i testi delle Sacre Scritture che fanno ad esempio riferimento  alla grande apostasia nella Chiesa:

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«Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti [cf. II Ts 2,4-12; I Ts 5,2-3; 2 Gv 7; 1 Gv 2,18.22]. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra [cf. Lc 21,12; Gv 15,19-20] svelerà il “mistero di iniquità” sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’Anticristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne [cf. II Ts 2,4-12; I Ts 5,2-3; 2 Gv 7; I Gv 2,18.22]. Questa impostura anti-cristica si delinea già nel mondo ogni qualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome di millenarismo [cf. Sant’Offizio, Decretum de millenarismo (19 luglio 1944): DS 3839] soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato “intrinsecamente perverso” [Pio XI, Lett. enc. Divini Redemptoris (19 marzo 1937): AAS 29 (1937) 65-106, che condanna “il falso misticismo” di questa “contraffazione della redenzione degli umili” (p. 69); Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 20-21: AAS 58 (1966) 1040-1042]. La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso quest’ultima Pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione [cf. Ap 19,1-9]. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa [cf. Ap 13] secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male [cf. Ap 20,7-10] che farà discendere dal cielo la sua Sposa [cf. Ap 21,2-4]. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell’ultimo giudizio [cf. Ap 20,12] dopo l’ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa» [Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 675-677].

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Se il Catechismo tutt’oggi in vigore, per quanto sovrastato e di fatto accantonato dalla nuova pastorale del buonismo, supportandosi sull’Apocalisse del Beato Apostolo Giovanni e sulle altre Lettere Apostoliche, oltre ed anzitutto che sul Santo Vangelo stesso, afferma:

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«Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male» [Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 677]

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in che modo corretto e molto poco fantasioso, dovremmo leggere e interpretare quel «non prevarranno»? Perché se qualcuno pensa che le potenze degli inferi non prevarranno mai sulla Chiesa visibile oggi visibilmente ridotta ad una struttura di peccato che produce al proprio interno peccato e che lo diffonde all’esterno, in tal caso meglio abbandonare la metafisica e la dogmatica e darsi alla ben più salutare e soddisfacente arte della gastronomia e della enologia.

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LA NOSTRA CONTEMPORANEITÀ È SCRITTA COME IN UNA CRONACA DI ATTUALITÀ NEL LIBRO DELL’APOCALISSE

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In questi ultimi tempi ho meditato sempre più spesso su diversi temi collegati tra di loro da un comune filo conduttore, a partire dalla struttura dell’Apocalisse redatta dal Beato Apostolo Giovanni in un’isola dell’Egeo nota come Isola di Patmos, detta anche il luogo dell’ultima rivelazione, da cui prende nome non a caso questa nostra rivista. Come sappiamo, l’Apocalisse parla dell’Anticristo e della sua sconfitta finale, prima della quale egli seminerà però un male che al momento non riusciamo forse neppure a immaginare nella sua devastante portata. Ovviamente, quello apocalittico è un linguaggio allegorico che illustra al di là delle immagini qualche cosa di molto reale; e si tratta di qualche cosa che oggi potremmo ragionevolmente definire nella propria fase avanzata di realizzazione. Scrive il Beato Apostolo:

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«Vieni, ti farò vedere la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque.  Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione» [Ap 17, 2]

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E poco avanti prosegue:

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«È caduta, è caduta
Babilonia la grande
ed è diventata covo di demòni,
carcere di ogni spirito immondo,
carcere d’ogni uccello impuro e aborrito
e carcere di ogni bestia immonda e aborrita. 
Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino
della sua sfrenata prostituzione,
i re della terra si sono prostituiti con essa
e i mercanti della terra si sono arricchiti
del suo lusso sfrenato» [Ap 18, 2-3].

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Per lungo tempo si è pensato — e gli esegeti lo hanno spiegato con grande dovizia — che il Beato Apostolo, usando un linguaggio allegorico, in queste righe avesse celata l’immagine di Roma e dell’Impero Romano. A tal proposito, in un mio precedente scritto cercai di spiegare:

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«… facendo uso di un’immagine vetero testamentaria Il beato Apostolo Giovanni si rivolge all’Impero Romano, quindi a Roma celata dietro «Babilonia la grande», il tutto per motivi che chiunque può capire. Motivi legati in parte alla sicurezza e in parte alla diffusione del testo, onde evitare la loro distruzione da parte dei romani che all’epoca nutrivano forti sospetti verso il movimento gesuano e la relativa diffusione del suo messaggio. Trascorsi ormai duemila anni, viene da affermare che mai come oggi quel riferimento all’antica Roma celata dietro l’immagine di Babilonia sia attuale, posto che da tempo Roma «ha abbeverato tutte le genti col vino del furore della sua fornicazione» [vedere articolo, QUI].

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Dopo avere dipinto queste immagini, il Beato Apostolo seguita affermando che il Popolo Eletto deve fuggire da Babilonia:

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«Uscite, popolo mio, da Babilonia
per non associarvi ai suoi peccati
e non ricevere parte dei suoi flagelli. 
Perché i suoi peccati si sono accumulati fino al cielo
e Dio si è ricordato delle sue iniquità. 
Pagatela con la sua stessa moneta,
retribuitele il doppio dei suoi misfatti.
Versatele doppia misura nella coppa con cui mesceva. 
Tutto ciò che ha speso per la sua gloria e il suo
lusso, restituiteglielo in tanto tormento e afflizione.
Poiché diceva in cuor suo: Io seggo regina,
vedova non sono e lutto non vedrò; 
per questo, in un solo giorno,
verranno su di lei questi flagelli:
morte, lutto e fame;
sarà bruciata dal fuoco,
poiché potente Signore è Dio
che l’ha condannata» [Ap 18, 4-8]

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Cosa s’intende dire col drammatico invito:

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«Uscite, popolo mio, da Babilonia per non associarvi ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli»? [Ap 18, 4]. 

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Il significato di questo drammatico invito ho tentato di rappresentarlo in un mio articolo nel quale spiego in che modo la Chiesa visibile, dopo la Shoah del mondo cattolico, sarà portata sul banco degli imputati al nuovo processo di Norimberga, dove udremo un esercito di ecclesiastici affermare: «Ma io ho solo obbedito a degli ordini superiori!» [l’articolo è leggibile, QUI]. 

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IL NOBILE VALORE SALVIFICO DELLA FUGA DINANZI AI COMPLICI ATTIVI ED AI COMPLICI PASSIVI

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Vi sono momenti nei quali è necessario fuggire, oppure allontanarsi in modo deciso, che è anch’esso sinonimo di fuga, in virtù del fatto che all’interno di una struttura di peccato, quindi di una struttura marcia che produce peccato al proprio interno e che lo diffonde al proprio esterno, esistono due diversi generi di gravi responsabilità: la complicità attiva di coloro che generano il male e lo diffondono, per seguire con la complicità passiva, non per questo meno grave, di tutti coloro che pur di non perdere il proprio posticino al sole tacciono e fingono di non vedere, dimenticando come il Signore fece fuggire i suoi pochi fedeli sopravvissuti dalle Città di Sodoma e Gomorra prima della loro distruzione, invitandoli a non voltarsi indietro mentre la sua ira si sarebbe scatenata, salvo finire mutati, come accadde alla moglie di Lot, in una statua di sale [cf. Gen 19, 1-29]. 

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In una Chiesa nella quale il diritto ecclesiastico è stato sostituito dai capricci arbitrari di soggetti capaci a colpire degli innocenti con la inaudita cattiveria distruttiva degna di un Joseph Goebbels, tutti i buoni officiali e segretarietti che assistono impotenti, salvo lamentarsi con i loro intimi dentro le chiuse stanze, sono altrettanto responsabili e complici nel peccato; e finiranno un giorno distrutti assieme a tutti gli altri abitanti di Sodoma e Gomora. Quando infatti all’interno di una struttura di peccato non è possibile fare niente, allora è necessario fuggire dalla complice impotenza passiva, rinunciare senza esitazione al proprio posticino al sole, rivolgendo supplica al proprio vescovo diocesano per chiedere la grazia di essere mandato a fare il curato nella più sperduta delle parrocchie di campagna o di alta montagna. È infatti bene chiarire che la giustificazione «non potevo fare niente», o quella ben peggiore data dai gerarchi nazisti a Norimberga: «ho ubbidito agli ordini superiori», non può salvare il colpevole dalla giusta forca degli uomini, ancor meno dal ben più severo castigo dato dalla giustizia e dalla misericordia di Dio, che ricordiamo: «Egli castiga ed usa misericordia» [Tb 13, 1].

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La verità è che purtroppo il peccato e con esso le strutture di peccato, fanno comodo a tutti: a chi genera il peccato, a chi lo commette, a chi lo copre ed a chi dinanzi ad esso assiste silenzioso e impotente, nel desiderio interiore non meno perverso di poter ricavare qualche cosa dal peccato. È la verità, che non fa comodo ai peccatori attivi come ai peccatori passivi; per questo costoro cercano in tutti i modi, col ricorso alla falsità ed a mezzi coercitivi e violenti, di distruggere la verità assieme al bene che da essa procede. 

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PIETRO ESERCITA IL PROPRIO MAGISTERO INFALLIBILE SOLO SE È APERTO ALLA GRAZIA DELLO SPIRITO SANTO, ALTRIMENTI LA GRAZIA DELLO SPIRITO SANTO NON È IN LUI E NON AGISCE PER MEZZO DI LUI

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Cristo Signore ricorda il pericolo e le insidie di Satana in modo molto preciso a Pietro stesso, all’interno di un discorso dal quale a molti piace estrapolare e citare solo un pezzo di frase: «Conferma i tuoi fratelli» [Lc 22, 32], per dare in tal modo vita non tanto ad un Super Pietro, ma ad un Super Pontefice. Questa frase, però, è preceduta da un tragico “prima”, ed è seguita da un drammatico “dopo”. Proviamo allora ad analizzarla tutta, evitando di far dire a Cristo Signore ciò che il Verbo di Dio non ha detto, considerando ch’Egli mette seriamente in guardia Pietro dicendogli:

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«Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano;  ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede».

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Fermiamoci a questa prima parte e proviamo a domandarci: ma dov’è che Cristo Signore — a quel Pietro al quale aveva detto «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» [Mt 16, 18] — afferma e rassicura che la sua fede non verrà mai assolutamente meno? Cristo Signore non lo afferma affatto, Egli rassicura Pietro che pregherà affinché la sua fede «non venga meno», non afferma e non garantisce affatto che la fede di Pietro non verrà mai ed in alcun modo meno. Cosa peraltro ampiamente dimostrata dalla prosecuzione della frase, quando Cristo Signore, a Pietro che tutto baldanzoso afferma:

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«Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte» [Lc 22, 33]

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senza esitare risponde:  

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«Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» [Lc 22, 34].

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La sequenza è dunque questa: Cristo Signore mette Pietro in guardia contro Satana, assicurandolo che pregherà affinché la sua fede non venga meno, ma nel caso in cui venisse anche meno, Dio, come i fatti dimostrano, non farà nulla per impedirlo, perché altrimenti negherebbe un suffisso stesso della creazione dell’uomo, che è la libertà ed il libero arbitrio; e Dio non può contraddire sé stesso. Infatti Pietro, che è il primo sommo maestro della dottrina e della fede, non trova di meglio da fare che rinnegare poco dopo per tre volte il Verbo di Dio fatto uomo, ed il tutto dopo che Cristo Signore, durante l’ultima cena, lo aveva istituito sacerdote e capo del Collegio degli Apostoli, vale a dire Sommo Pontefice [Cf Lc 22, 7-19]. Non aveva forse ricevuto Pietro, viepiù da Cristo Dio in persona, una grazia speciale ed altrettanta assistenza del tutto speciale dello Spirito Santo che, è bene ricordarlo, non “nasce” solo successivamente, a Pentecoste, poiché già aleggiava sulle acque nei giorni della creazione del mondo? [Gen 1, 1-2].

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Sappiamo pure che le vicende di Pietro non finiscono qua, perché lo stesso Beato Apostolo Paolo ci narra che ad Antiochia riprese e rimproverò pubblicamente il Principe degli Apostoli proprio in materia di dottrina e di fede [cf. Gal 2, 11-14]; perché se Pietro avesse proseguito e indotto i Christi fideles in quell’errore, oggi noi non saremmo cristiani, saremmo solo una sette eretica di matrice giudaica, a causa di Pietro che mostrò in quel frangente di non comprendere, o di avere compreso male alcuni dei fondamenti del mistero della rivelazione e della redenzione. Anche in questo caso, forse bisogna capire che solo diciotto secoli dopo sarà definito quel dogma della infallibilità pontificia che rende il Romano Pontefice non soggetto ad erranza in materia di dottrina e di fede, mentre invece Pietro, scelto da Cristo Dio in persona, a quanto pare poteva tranquillamente errare in materia di dottrina e di fede, evidentemente perché il dogma della infallibilità pontificia non era stato ancora proclamato?

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Vediamo quale fu l’errore di Pietro ed a cui riguardo ci narra il Beato Apostolo Paolo:  

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«Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei”?» [cf. Gal 2, 11-14]

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Molti non sanno cosa significhi il tutto, cerchiamo allora di riassumerlo in breve: Pietro, prima di questo episodio narrato da Paolo, prendeva i pasti con i pagani ed aveva insegnato che la salvezza si ottiene mediante la fede, posto che non è cristianamente concepibile l’osservanza della legge fine a se stessa senza la fede dalla quale nascono le opere [cf. Giac 2, 14-26]. Però, quando si unirono alla comunità alcuni ebrei, per timore di dar loro dispiacere a prendere pasti con i pagani, egli si ritirava a mangiare in disparte osservando tutte le meticolose disposizioni della legge rabbinica — la cosiddetta כַּשְׁרוּת kasherùt —, perché agli ebrei era proibito prendere cibi assieme ai pagani, considerati impuri; ed in tal modo dava ambiguamente ad intendere che la salvezza si ottiene mediante il rispetto delle leggi rabbiniche, quelle racchiuse poi nel תַּלְמוּד Talmud, dove a partire dal III secolo sono redatte queste norme in vigore già molto prima dell’epoca gesuana; norme in seguito codificate nel XVI secolo nel testo normativo שולחן ערוך Shulkhan aruck. Questo comportamento fu reputato da Paolo molto pericoloso su quello che oggi chiameremmo piano strettamente dottrinale. Infatti, questo modo di agire, avrebbe indotto i pagani a farsi una loro Chiesa, oppure a sottostare a quelle che erano le prescrizioni della הֲלָכָה halakha, la legge rabbinica eretta dall’interpretazione dei rabbini stessi sui dettami del Libro del Levitico e del Libro del Deuteronomio; oppure, i pagani, avrebbero dovuto sottostare alle הֲלָכוֹת halakhot [leggi degli ebrei], a partire dalla circoncisione. Agendo a questo modo Pietro metteva a serio rischio l’unità della Chiesa, al punto tale che Paolo lo riprende pubblicamente ed in modo severo, dandogli dell’ipocrita e dicendogli nella sostanza: come puoi evangelizzare se sei proprio tu il primo ad essere ambiguo e privo di chiarezza nell’annunciare il mistero della Rivelazione e della Redenzione?

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Così stanno le cose e così si svolsero i fatti: Pietro, scelto ed eletto da Cristo Signore, ha errato in materia di dottrina e di fede rischiando di compromettere l’unità della Chiesa, un fatto documentato e poi tramandato attraverso la storicità dei sacri testi dalle Lettere Paoline. Per il resto, chi ha letto ed inteso, faccia per suo conto le proprie valutazioni. Pur precisando dal mio canto che, a prescindere dalle antiche dispute apostoliche antiochene ed a prescindere dalle ironie teologiche che io ho speso su chi considera l’infallibilità del Romano Pontefice in materia di dottrina e di fede come una sorta di magia dello Spirito Santo che agirebbe persino al di là della volontà stessa del Successore di Pietro, il dogma della infallibilità pontificia resta fuori discussione e la sua applicazione è esplicata nella costituzione dogmatica Pastor Aeternus del Beato Pontefice Pio IX e successivamente nella Ad tuendam fidem del Santo Pontefice Giovanni Paolo II. L’esercizio del magistero infallibile, comporta però ben precise caratteristiche e requisiti che non possono prescindere dalla libertà e dal libero arbitrio di chi questo magistero infallibile lo esercita. Queste caratteristiche sono riassunte dal raffinato teologo Cardinale Charles Journet [1891-1975] che nella sua opera Eglise du Verbe Incarné  spiega: 

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«L’assioma “dov’è il Papa lì è la Chiesa”, vale quando il Papa si comporta come Papa e Capo della Chiesa; in caso contrario, né La Chiesa è in lui, né lui è nella Chiesa».

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Esattamente come accadde ad Antiochia ed esattamente come potrebbe ripetersi nel corso della storia, senza che il dogma della infallibilità pontificia sia minimamente ed in alcun modo intaccato, tutt’altro: riconoscere la libertà ed il libero arbitrio, con la relativa possibilità di accettare o di rifiutare la grazia di stato, vuol dire tutelare, ed a mio parere anche nel migliore dei modi, il dogma stesso della infallibilità. Questo il motivo per il quale poco tempo fa, in un quesito che potremmo chiamare pura e semplice speculazione accademica, mi interrogai: «Può un Romano Pontefice legittimamente eletto e Successore legittimo del Beato Apostolo Pietro essere privo della grazia di stato?» [vedere articolo, QUI]. Seguendo la logica delle Sacre Scritture, a partire dal mistero della creazione stessa e dal Libro della Genesi, pare proprio di si, basti considerare che Dio non impedì ad Adamo ed Eva di commettere quel peccato originale a causa del quale fu consegnata una natura corrotta e mortale a tutta l’umanità che da loro è discesa; una povera umanità che quel peccato non lo ha commesso, ma che a causa loro lo ha ereditato attraverso la corruzione di questa natura a causa del loro peccato di ribellione a Dio Padre. Ora, perché Dio, se non per quei due sciagurati, ma perlomeno per la povera umanità che da essi sarebbe seguita, non sospese la loro libertà ed il loro libero arbitrio impedendogli di compiere quel peccato? Da ciò ne possiamo logicamente e teologicamente dedurre che tutti gli uomini, compresi fedeli cattolici, presbiteri, vescovi e persino il Romano Pontefice, possono essere chiusi alla grazia santificante o rifiutare la grazia santificante, perché mai, Dio, si è messo contro la libertà dell’uomo, né mai ha sospeso per un solo minuto nell’uomo l’esercizio di questa facoltà, né mai ha agito su di esso al di là della sua volontà, non lo ha fatto con Adamo ed Eva, non lo ha fatto con Caino, non lo ha fatto con Giuda Iscariota, non lo ha fatto con il Beato Apostolo Pietro che dopo essere stato consacrato sommo sacerdote e scelto come Vicario di Cristo sulla terra, dà avvio al proprio ministero rinnegando Cristo, dandosi alla fuga, deviando dalla retta dottrina, tentando nuovamente la fuga anche nella vecchiaia a Roma, se Cristo stesso, come narra la tradizione, non gli fosse apparso sulla Via Appia, o cosiddetta Via del Quo Vadis? Per inciso: secondo il racconto del testo apocrifo degli Atti di Pietro, nella vecchiaia, il Principe degli Apostoli, era tornato a darsi alla fuga, questa volta a Roma, durante le persecuzioni anti-cristiane di Nerone. Mentre percorreva la Via Appia, Cristo Risorto gli apparve. Pietro domandò: «Quo vadis, Domine?» [Dove vai, Signore?]. Cristo Signore rispose: «Eo Romam, iterum crucifigi» [Sto andando a Roma per essere nuovamente crocifisso]. Solo allora, nella vecchiaia, Pietro cessò di fuggire, tornò a Roma ed accettò la grazia santificante del martirio. 

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A conclusione di questo discorso merita ricordare sempre per quanto riguarda la libertà e il libero arbitrio —, che Dio Padre, per realizzare il mistero dell’incarnazione del Verbo, attese la risposta della Beata Vergine Maria, la ripiena di grazia, dopo avere bussato alle porte delle sua libertà e del suo libero arbitrio. Perché Maria, la Immacolata Concezione, è stata sì, predestinata, ma non è stata affatto preordinata. E Maria, all’Arcangelo Gabriele, avrebbe potuto anche dire di no, nel pieno e legittimo esercizio di quella libertà dei figli di Dio che è parte strutturale del mistero stesso della creazione.

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L’IMMAGINE DELLA CHIESA COME STRUTTURA DI PECCATO CHE TANTO SPAVENTÒ DIVERSI PONTEFICI DALLA FINE DELL’OTTOCENTO AGLI INIZI DEL NUOVO MILLENNIO

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Riguardo poi il mio enunciato circa la Chiesa visibile ridotta a struttura di peccato che produce peccato al proprio interno e che lo diffonde all’esterno, vorrei richiamarmi a tre diversi Pontefici del Novecento, a partire dal Sommo Pontefice Leone XIII che dopo una visione scrisse una preghiera a San Michele Arcangelo imponendone la recita nel 1886 al termine di ogni Santa Messa in tutte le chiese della orbe catholica. La preghiera originale è molto lunga e pochi ne conoscono il testo originale integrale, mentre quella che veniva recitata al termine delle Sante Messe era una sua riduzione. Nel testo originale integrale dell’ Exorcismus in Satanam et Angelos Apostaticos, il Sommo Pontefice Leone XIII scrive:

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«Ecclesiam, Agni immaculati sponsam, faverrimi hostes repleverunt amaritudinibus, inebriarunt absinthio; ad omnia desiderabilia eius impias miserunt manus. Ubi sedes beatissimi Petri et Cathedra veritatis ad lucem gentium constituta est, ibi thronum posuerunt abominationis et impietatis suae; ut percusso Pastore, et gregem disperdere valeant» [Traduzione italiana: «La Chiesa, questa Sposa dell’Agnello Immacolato, è ubriacata da nemici scaltrissimi che la colmano di amarezze e che posano le loro sacrileghe mani su tutte le sue cose più desiderabili. Laddove c’è la sede del beatissimo Pietro posta a cattedra di verità per illuminare i popoli, lì hanno stabilito il trono abominevole della loro empietà, affinché colpendo il pastore, si disperda il gregge».

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Domanda: che cosa vide in questa terribile visione il Sommo Pontefice Leone XIII, per essere giunto a scrivere ed a profetare che Satana ed i suoi accoliti prenderanno il controllo della «sede di Pietro» e da un certo punto a seguire della «Cattedra della Verità», vale a dire del papato, pur senza riuscire a prevalere alla fine su di essa? O forse il Sommo Pontefice Leone XIII non era consapevole del fatto che il Romano Pontefice, custode supremo della verità, non può mai errare in materia di dottrina e di fede, godendo di una assistenza del tutto speciale dello Spirito Santo, il quale — ribadisco — non può operare contro la volontà ed il libero arbitrio dell’uomo, salvo far cadere Dio in contraddizione con sé stesso? Ritengo che il Sommo Pontefice Leone XIII le prerogative del Romano Pontefice le conoscesse tutte e molto bene, anche perché egli fu tra i Padri che composero l’assise del Concilio Vaticano I, nel quale il dogma della infallibilità pontificia in materia di dottrina e di fede fu solennemente suggellato.

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IL MYSTERIUM INIQUITATIS E LA CHIESA COME STRUTTURA DI PECCATO CHE PRODUCE PECCATO AL PROPRIO INTERNO E LO DIFFONDE ALL’ESTERNO

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Dal Pontefice Leone XIII procediamo con un salto agli anni Sessanta del Novecento, quando il giovane teologo Joseph Ratzinger, cinquant’anni fa, scriveva:

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«Se non vogliamo nasconderci nulla, siamo senz’altro tentati di dire che la Chiesa non è né santa, né cattolica: lo stesso concilio Vaticano II è arrivato a parlare non più soltanto della Chiesa santa, ma della Chiesa peccatrice; se a questo riguardo gli si è rimproverato qualcosa, è per lo più di essere rimasto ancora troppo timido, tanto profonda è nella coscienza di noi tutti la sensazione della peccaminosità della Chiesa» [Introduzione al Cristianesimo, 1968].

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In una situazione di questo genere, che cosa possiamo fare? Specie considerando che sedici anni dopo quelle analisi del giovane Joseph Ratzinger il Santo Pontefice Giovani Paolo II, che nel mentre lo aveva chiamato a presiedere la Congregazione per la dottrina della fede, nell’ormai lontano ottobre del 1984, durante la sua seconda visita apostolica in Germania, affermò che «Il mondo sta vivendo il XII libro dell’Apocalisse»? [vedere mio vecchio articolo, QUI

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Analizzando e sviluppando certi temi, ormai quasi due anni fa scrissi un lungo articolo nel quale parlavo di certe problematiche sotto il titolo: «La caduta dell’impero: quelle brutte storie del Vaticano II che nessuno racconta per non intaccare il superdogma …» [vedere QUI]. Tre mesi fa, in un altro articolo, spiegai invece in che modo possiamo e forse dovremmo reagire dinanzi ad una Chiesa visibile affetta da una decadenza dottrinale e morale ormai irreversibile [vedere QUI]. Oggi, agli inizi di quest’anno 2019, dopo tanto scrivere, dopo avere usato in passato toni molto severi, per poi passare all’ironia e persino al salutare sberleffo, devo prendere tristemente atto in che modo la severità non scalfisca neppure di striscio certi ecclesiastici che sono ormai al di là dall’essere dei semplici peccatori, perché costituiscono ormai un radicato gruppo di potere intoccabile formato da figure diaboliche che vivono incancrenite nel proprio peccato. E del loro grave e turpe peccato si manifestano pubblicamente fieri, perché le loro turpitudini peccaminose vanno di pari passo col potere ch’essi gestiscono; un potere che li ha resi ormai ubriachi e deliranti onnipotenza, proprio come la grande prostituta narrata nell’Apocalisse del Beato Apostolo Giovanni [cf. Ap 18, 2-3]. Dinanzi a questo anticamera dell’Inferno il quesito al quale dare adeguata risposta è molto semplice, oserei dire lapalissiano, ed è il seguente: nel concreto, che cosa possiamo e dobbiamo fare per imperativo di coscienza, animati dalle teologali virtù della fede, della speranza e della carità? Perché se non diamo una risposta, pur povera che sia, a quel punto il parlare rischia di essere un parlare fine a se stesso, una speculazione fine a se stessa, una analisi fine a se stessa, infine una critica sterile fine a se stessa. E le sterili critiche fini a se stesse, non nobilitano chi le formula e non aiutano chi le raccoglie, specie se chi le raccoglie è un Popolo di Dio sempre più smarrito in cerca di risposte, punti di riferimento e guide affidabili e sicure.

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In quattro anni di attività pubblicista su L’Isola di Patmos [2015-2018], sono svariate decine gli articoli dove parlo della decadenza irreversibile, spiegando che da essa, una volta superata la soglia del non ritorno, indietro non si torna, perché è impossibile. Comunque, di certi temi già parlavo in un mio libro scritto tra il 2008 e il 2009 e pubblicato alla fine del 2010, quando certi fatti oggi esplosi in tutta la loro scandalosa devastazione erano ancora lontani da venire, basti rammentare le mie analisi sulla omosessualizzazione della Chiesa visibile, che giunsi a paragonare allo scoppio di un vero e proprio nubifrocio universale. E Dio solo sa quanti nemici mi conquistai attraverso quelle righe, sebbene oggi, i problemi da me anticipati ieri, siano poi esplosi attraverso scandali morali molto gravi e di proporzioni mondiali, facendo accanire i miei nemici di più ancòra, casomai qualche pia anima ingenua pensasse che qualche Autorità Ecclesiastica abbia ammesso: “Purtroppo avevi ragione e ci avevi visto giusto, vorrà dire che imporremo ai tuoi aguzzini di lasciarti in pace”. Soprattutto, un decennio fa, a proposito degli scandali inevitabili che sarebbero infine esplosi, spiegai in che modo, superata la cosiddetta soglia del non ritorno, neppure per opera dello Spirito Santo la rotta si sarebbe più potuta invertire, perché la Terza Persona della Santissima Trinità non può sovvertire le leggi della fisica. È infatti una “legge fisica”, come lo è quella della forza di gravità, il fatto che un processo di decadenza, una volta entrato nella sua fase irreversibile, non è più arrestabile. A tal proposito, nel mio scritto di tre mesi fa, in tono critico amareggiato portai l’esempio del paracadute:

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«Certi soggetti non esiterebbero a rivoluzionare le leggi della fisica in nome della loro soggettiva verità e della loro altrettanto soggettiva logica, ma il quesito che costoro dovrebbero porsi è in fondo molto pratico e anche molto semplice: per uno spaventoso errore al quale possono avere anche concorso sia i tanto criticati modernisti sia i tanto criticati rahneriani, oppure anche e solo per una negligenza a dir poco assurda, è accaduto che un paracadutista si sia lanciato dall’aereo senza avere indossato il paracadute, perché questa è la situazione attuale della Chiesa: un lancio dall’aereo senza paracadute. Ebbene, i grandi maestri della logica aristotelica, della scolastica e della metafisica, a questo punto dovrebbero portare le migliori argomentazioni per spiegare che questo paracadutista, precipitando verso il suolo da duemila metri di altezza, può comunque arrestarsi, risalire, provvedere a indossare il paracadute e lanciarsi di nuovo. Se poi questi soloni della metafisica risponderanno che egli si è lanciato senza paracadute per colpa dei Modernisti e di Karl Rahner, io replicherò che ciò, fosse anche vero, ormai è cosa del tutto irrilevante, perché la causa andava individuata e annientata prima che costui si lanciasse. Se poi, peggio ancora, dinanzi al paracadutista che precipita senza paracadute, coloro che non possono mai essere privi di una risposta “logica” per tutto, si attaccassero a dire che c’è lo Spirito Santo, a quel punto io replicherò che lo Spirito Santo non è Mago Merlino, quindi li inviterò a spiegare in che modo la Terza Persona della Santissima Trinità, dinanzi ad un libero atto singolo o collettivo della volontà dell’uomo che comporta delle precise conseguenze, annullerà la sua libertà ed il suo libero arbitrio per riportarlo sull’aereo, fargli indossare il paracadute e poi lasciarlo di nuovo lanciare, dopo avere nel mentre sconfessato i modernisti ed i rahneriani, per causa dei quali egli si è lanciato senza paracadute […]» [l’articolo intero è contenuto QUI]. 

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UNO PSEUDO TOMISMO CRITICO E AGGRESSIVO DAL QUALE SI PASSA POI AD ACCUSE DI ERESIA VERSO CHIUNQUE ANALIZZI I PROBLEMI IN ALTRO MODO, NON SERVE A NIENTE, DISPERDE ANCORA DI PIÙ IL GREGGE ED È SOLO DISTRUTTIVO

 

La mia povera esperienza ed i risultati del lavoro svolto nel corso degli ultimi anni, mi hanno infine insegnato, come poc’anzi ho accennato, che le critiche severe, le battaglie contro gli ecclesiastici immorali fieri della propria immoralità e soprattutto piazzati fino ai sommi vertici della Chiesa, non servono più a niente. Neppure le sapienti ironie ed i salutari sberleffi, servono più per smuovere una simile situazione incancrenita, o se preferiamo questa caduta senza paracadute. Devo dire che a questa conclusione sono giunto attraverso la preghiera e la meditazione sui testi sacri, tra i quali mi è stato di particolare aiuto il sapienziale Libro dell’Ecclesiaste:

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Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace [Ec 3, 1-8].

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Sia chiaro: non ho né gettato la spugna sul ring di pugilato, né ho alzato bandiera bianca dinanzi al nemico, meno che mai da leone ruggente sono divenuto un castrato del Settecento barocco che canta con la voce di una soprano afona. Molto semplicemente, nel tracciare un piano di lavoro per l’anno nuovo, ho riflettuto sul fatto che

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«c’è un tempo per stracciare e un tempo per cucire, c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare …».

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E oggi bisogna misurare bene, su che cosa parlare, per evitare che il parlare, ma soprattutto il denunciare ed il criticare, sia solo fine a se stesso, con il solo risultato di non scalfire minimamente gli accoliti di Satana, ma al tempo stesso disorientare però ancòra di più il Popolo di Dio molto sofferente e smarrito, che ha bisogno di essere sostenuto nella grande prova. E dubito che il Popolo di Dio, in questo immane sfacelo, possa essere sostenuto offrendogli grandi lezioni contro le eresie dei Modernisti e contro la teologia di Karl Rahner, spiegando quanto sia importante ripartire dalla scolastica e da San Tommaso d’Aquino, insomma: innaffiare le margherite del giardino per evitare che col calore della casa che brucia possano appassire, perché ciò che solo conta, mentre tutto brucia, è salvare il bel ricordo di quando in passato le margherite fiorivano attorno alla casa.

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Anche per questo ho cessato di discutere con gli innamorati dei metodi, utili per speculare sulle verità della fede e per giungere pienamente alle stesse verità della fede, ma non sempre efficaci in tutte le situazioni storiche e sociali. Ma soprattutto ho cessato di discutere con coloro che finiscono col divinizzare il metodo, che rimane sempre e solo uno strumento per giungere alla verità; e non è detto che questo metodo, pure se risultato efficace per secoli, lo sia sempre sino al ritorno di Cristo Signore alla fine dei tempi. Mi riferisco alla scolastica ed a San Tommaso d’Aquino, ed a coloro che dinanzi alla caduta senza paracadute dall’aereo insistono in modo ostinato che è necessario arrestare la caduta, riportare il paracadutista sull’aereo, fargli indossare il paracadute della scolastica ed il doppio paracadute di sicurezza di San Tommaso d’Aquino, poi farlo nuovamente lanciare, cosicché il lancio e la discesa a terra vada a buon fine. Sono forse io un anti-scolastico ed un anti-tomista? Giammai! Io sono un autentico prodotto filosofico-teologico ed un autentico cultore della scolastica e del tomismo. Ciò di cui devo essere logicamente e razionalmente consapevole — come ripetutamente e per molti inutilmente ho spiegato nei miei scritti — è che sia la scolastica sia il tomismo richiedono un preciso linguaggio e delle precise tecniche speculative che al presente risultano ormai perdute da oltre mezzo secolo. Solo per dare di nuovo vita al loro necessario e naturale linguaggio — prima ancòra di poter pensare al recupero della scolastica e del tomismo —, occorrerebbero decenni di duro lavoro, da svolgere in modo non so quanto proficuo, considerando che nel mentre lo stabile dell’intera casa brucia velocemente, ossia mentre ci sono, oggettivamente e logicamente, delle priorità parecchio maggiori e più impellenti. Esempio concreto e non passibile di facile smentita: se oggi noi parliamo un linguaggio scolastico e metafisico di impianto tomista, i primi a non capire sono i vescovi, non pochi dei quali rasentano l’analfabetismo teologico, formati come sono, la gran parte di loro, sui sociologismi emotivi fatti passare per teologia che hanno invasa la Chiesa intera nella stagione del post-concilio Vaticano II. E come già ho scritto in un altro precedente articolo: se in una libreria contenente copie uniche di libri preziosi divampa un incendio e solo pochi testi possono essere sottratti alle fiamme, sinceramente io ritengo di avere il dovere e l’obbligo morale di mettere in salvo i testi dei Santi Vangeli, le Lettere Apostoliche e gli Atti degli Apostoli, non certo la Logica di Aristotele, l’opera di Sant’Anselmo d’Aosta e quella di San Tommaso d’Aquino, perché né Aristotele, né l’Aostano né l’Aquinate ci sarebbero di alcuna utilità senza i Santi Vangeli, le Lettere Apostoliche e gli Atti degli Apostoli. E se qualcuno tenta di replicare che l’Aostano e l’Aquinate servono proprio per poter leggere e capire la Parola del Verbo di Dio, in tal caso è bene rispondere che per oltre un millennio, il patrimonio di fede della Rivelazione, è stato trasmesso e tutto sommato capito prima ancora che nascessero Sant’Anselmo d’Aosta e San Tommaso d’Aquino, preceduti da numerosi e grandi Santi Padri e Dottori della Chiesa.

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NOSTRO COMPITO PASTORALE E TEOLOGICO E DI METTERE IN SALVO I SEMI DEL SANTO VANGELO E CON ESSI CUSTODIRE IL SENSUS FIDEI NEL POPOLO DI DIO

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Sulla nostra Isola di Patmos grava per ciò questo drammatico e felice compito: mettere in salvo i fondamenti della Santa Fede Cattolica — la cosiddetta «banca del seme» [cf. QUI] — e con essi il sensus fidei nel Popolo Santo di Dio sempre più smarrito e disperso. È pertanto necessario avvertire e vivere verso il Popolo di Dio quella autentica commozione cristologica su cui sta scritto:

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«Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» [Mc 6, 34].

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Compito nostro è salvare ciò che il Verbo di Dio ha insegnato, proteggendo la sua Parola dalle falsificazioni, dalle adulterazione e dalle mistificazioni, consapevoli che non è possibile vivere a Sodoma e Gomorra, neppure assistendo passivi all’abominio del peccato, perché è in queste situazioni che Dio Padre ci spinge e ci stimola a quel grande valore che è la fuga verso la salvezza, al contrario di chi cinico e impotente rimane immerso nell’abominio in attesa di tempi migliori, o in attesa che le cose cambino. Dio Padre, dalla fuga dall’Egitto sino alla fuga da Sodoma e Gomorra, i propri figli li stimola a fuggire ed a mettersi in salvo dall’abominio della desolazione.

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Molto più complesso, terribile e doloroso è invece il dramma di noi presbìteri, se pensiamo che forse un giorno potremmo trovarci persino nella situazione di dire di no a quelle stesse Autorità Ecclesiastiche alle quali abbiamo promessa filiale e devota obbedienza, nel caso in cui costoro ci comandassero, o cercassero di imporci qualche cosa di contrario al Santo Vangelo; e ciò che va contro al Santo Vangelo, solamente i sofisti impenitenti possono tentare di interpretarlo in bonam partem arrampicandosi sopra a degli specchi cosparsi d’olio. E, una eventualità del genere, per un qualsiasi presbitero è un dramma doloroso al quale è difficile anche e solo pensare, perché verrebbe data origine ad un lacerante conflitto con la natura stessa del carattere sacerdotale, che è di per sé frutto di comunione e obbedienza all’Autorità Apostolica. Anche a questo quesito doloroso e lacerante esiste però risposta: quando infatti siamo stati consacrati nel Sacro Ordine, il Vescovo ordinante non ci ha messo tra le mani il libello delle sue personali volontà soggettive o le sue pseudo teologie emotive, né ci ha chiesto di attenerci ai contenuti delle sue esternazioni più o meno corrette e felici; nelle nostre mani è stato messo il sacro libro del Santo Vangelo. E quando dopo la Preghiera Consacratoria e l’imposizione delle mani, il Vescovo ci ha consegnato la patena con il pane ed il calice con il vino, ci ha detto:

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«Ricevi le offerte del Popolo Santo per il Sacrificio Eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore».

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E la fonte della consapevolezza che ci porta a renderci conto di ciò che facciamo e ad imitare ciò che celebriamo, affinché la nostra vita sia conforme al mistero della croce di Cristo Signore, è tutta quanta racchiusa nei Santi Vangeli, non certo nelle campagne mondane di stampo politico-sociologico portate ormai avanti da molti vescovi che hanno deciso di piacere ai figli di questo mondo, sino a mitigare od annacquare il Santo Vangelo e le Lettere Apostoliche, nel caso in cui questi testi non piacessero e non fossero graditi ai figli di questo mondo, che entrano ed escono ormai dai sacri palazzi nella loro veste di atei devoti o di pervertiti impenitenti che plaudono al grido di “viva la rivoluzione!”, mentre al tempo stesso i devoti fedeli, come una vera e propria emorragia, disertano sempre più le nostre chiese affermando sempre più numerosi : «Io mi vergogno di questa Chiesa … io mi vergogno di essere cattolico». 

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Nella notte buia e nello smarrimento, sarà nostro sostegno e soccorso la parola del Beato Apostolo Paolo che ci ammonisce:

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«Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàthema! L’abbiamo gia detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàthema! Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» [Gal 1, 8-10]

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Per questo oggi risuona in noi l’accorato invito del Beato Apostolo Pietro:

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«Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il Diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi» [I Pt 5, 8-9].

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Forse a breve noi faremo la fine che fecero molti ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. E faremo diversa ma simile fine per l’opera luciferina di quei Goebbels ecclesiastici e laici compiacenti che oggi sono attaccati come dei polipi alla Cattedra di Pietro, proprio come narra la Preghiera a San Michele Arcangelo del Sommo Pontefice Leone XIII. Una cosa è però certa: nella futura Norimberga Celeste, ad essere legati mani e piedi e gettati fuori nelle tenebre dove sarà pianto e stridore di denti [cf. Mt 22, 13], saranno certi attuali, devastanti e mortiferi Goebbels, ecclesiastici e laici, non certo noi devoti servitori di Cristo e della sua Chiesa sino alla fine, per la sincera fede nella vita del mondo che verrà e nella piena consapevolezza che «molti sono chiamati, ma pochi eletti» [cf Mt 22, 14].

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Amen!

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dall’Isola di Patmos, 1 gennaio 2019

Nella solennità della Gran Madre di Dio

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Ringraziando tutti i cari Lettori che ci hanno sostenuti, ricordo, come ormai ben sanno i nostri numerosi affezionati, che la nostra opera si regge interamente sul vostro sostegno economico [cf. QUI], ed a tal proposito ricordiamo:

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«Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo» [I Cor 9, 13-14].

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Dal Bello al Moro: la santità non è il decaduto Premio Nobel, le canonizzazioni sono pronunciamenti del magistero solenne dai quali poi indietro non si torna

― Theologica: i saggi di fine estate de L’Isola di Patmos  ―

DAL BELLO AL MORO: LA SANTITÀ NON È IL DECADUTO PREMIO NOBEL, LE CANONIZZAZIONI SONO PRONUNCIAMENTI SOLENNI DAI QUALI POI INDIETRO NON SI TORNA

Indice I. SE LA SANTITÀ È SCISSA DALLA LOTTA CONTRO IL PECCATO, DIVIENE PURA BONTÀ FILANTROPICA ―  II. GLI ASPETTI TEOLOGICI DELLA SANTITÀ ALLA LUCE DEL MISTERO DELLA CREAZIONE E DELLA REDENZIONE ― III. L’AVVENTO DELL’ERA CRISTIANA ED I BEATI MARTIRI ― IV. CHI PROCLAMAVA CERTI SANTI E BEATI IERI, CHI LI PROCLAMA OGGI ― V. LE CAUSE DI BEATIFICAZIONE E CANONIZZAZIONE: LA FIGURA DEL POSTULATORE ― VI. DINANZI AI PRESUNTI MIRACOLI IL POSTULATORE DEVE ESSERE IL PIÙ SCETTICO TRA GLI SCETTICI, SE VUOLE RENDERE DAVVERO UN BUON SERVIZIO ― VII. BEATI E SANTI IN CORSA, BEATI E SANTI IN PRUDENTE ATTESA: IL CASO DI PADRE LÉON DEHON ACCUSATO DI ANTISEMITISMO. IL PROBLEMA DEI SANTI CHE HANNO FAVORITA LA PERSECUZIONE DI ALTRI SANTI: IL CASO DEL SANTO FRATE PIO DA PIETRELCINA E DEL SANTO PONTEFICE GIOVANNI XXIII ― VIII. GAUDETE ET EXULTATE, LA LETTERA APOSTOLICA NELLA QUALE I MARTIRI CRISTIANI MENZIONATI DAL SANTO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II SONO RACCHIUSI SOTTO IL TITOLO FILMICO: «I SANTI DELLA PORTA ACCANTO» ― IX. NOI PECCATORI A SERVIZIO DELLE CAUSE DI BEATI E SANTI.  SAREBBE BENE RICORDARE CHE ALCUNI GRANDI PECCATORI SCRISSERO ALCUNI DEI CANONI PIÙ BELLI ED EFFICACI DEI CONCILÎ DELLA CHIESA ― X. LE BEATIFICAZIONI E LA CANONIZZAZIONI NON SONO IL PREMIO PULITZER ED IL PREMIO NOBEL. ALCUNE LEGITTIME PERPLESSITÀ SU ALCUNI PROCESSI DI BEATIFICAZIONE IN CORSO, SEBBENE NELLA “CHIESA DEL CONFORMISMO” NON SI DISPUTI PIÙ ― XI NELLA FASE PROCESSUALE SI DEVE ASCOLTARE TUTTI, COMPRESI COLORO CHE SI RITIENE SIANO PREVENUTI, PERCHÉ NON ASCOLTANDO SI POSSONO COMPIERE DANNI PEGGIORI, A VOLTE PERSINO IRREPARABILI.

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

L’umiltà come principio del realismo gnoseologico

― I saggi estivi de L’Isola di Patmos  ―

L’UMILTÀ COME PRINCIPIO DEL REALISMO GNOSEOLOGICO

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L’umiltà è radicalmente virtù dell’intelligenza, con la quale essa, riconoscendosi dipendente dall’essere, ordinata all’essere e al di sotto dell’essere, si apre al reale, sta soggetta al reale e in ascolto dei suoi impulsi, si lascia formare dal reale e si adegua al reale: adaequatio intellectus et rei. Questa adaequatio è atto dell’intelletto, ma la volontà vuole che l’intelletto si adegui. La prima, fondamentale umiltà è obbedire alla realtà, ossia alla verità.

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PDF  saggio formato stampa
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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

È curioso come nel secolare confronto fra realismo e idealismo ci si sia sempre fermati da parte di ambo i contendenti, su considerazioni e confutazioni di mero ordine teoretico, peraltro spesso interessanti e profonde; ma non ci si sia mai preoccupati da ambo le parti di chiarire il rapporto esistente fra realismo e idealismo da una parte e, corrispettivamente, dall’altra, il rapporto fra umiltà e superbia, approfondendo e motivando il fatto che mentre l’umiltà dà luogo al realismo, l’idealismo, soprattutto nel suo sbocco panteista, è frutto della superbia. Per la verità, la dialettica umiltà – superbia è tradizionale nell’etica cristiana; ma non così nell’etica idealista, che preferisce contrapporre servitù a libertà. È chiaro che ciò che per il realismo è superbia, per l’idealista è l’audacia del pensiero, che si erge oltre ogni limite e per la sua forza incontenibile si eleva fino all’orizzonte infinito dell’Assoluto, anzi, che rivela la propria assolutezza celata sotto l’apparenza dell’empirico.

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Così per l’idealista, il realista è ingenuo, schiavo del pregiudizio dell’esistenza di un mondo esterno, di leggi naturali che coartano la libertà dello spirito e di un Dio trascendete, ultra-mondano, punitore e premiatore di una condotta meschinamente interessata e servile. Ammettere una trascendenza dell’essere nei confronti del pensiero, per l’idealista vorrebbe dire rendersi schiavi di questo essere; mentre per lui l’essere dev’essere liberamente posto dal pensiero e regolato dal pensiero.

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Come non c’è via di mezzo o mediazione fra umiltà e superbia, così non esiste una posizione intermedia o mediatrice fra realismo e idealismo, così come non esiste mediazione tra il sì e il no, tra l’essere e il non – essere. Alcuni, come Leibnitz, Wolff, Schelling, Husserl e Bontadini, hanno pensato che si tratti di due opposti estremismi, per cui si sono ritenuti in dovere di stabilire una posizione mediana; ma senza alcun risultato, se non quello di giustapporre delle tesi in contraddizione fra di loro.

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In tal modo, nella storia della gnoseologia, ossia delle dottrine della conoscenza, troviamo sostanzialmente due scelte o orientamenti di fondo: o il realismo o l’idealismo. E questo perché? Perché il conoscere comporta il rapporto fra l’idea e la realtà. L’alternativa si pone quando ci chiediamo qual è l’oggetto della conoscenza. L’oggetto può essere o l’idea o la realtà. Se poniamo che l’oggetto è l’idea, abbiamo l’idealismo. Se poniamo che è la realtà, abbiamo il realismo. Qual è la concezione giusta? È il realismo, perché l’idea è mezzo e non fine od oggetto del conoscere. Infatti, ci serviamo delle idee per raggiungere o cogliere il reale, il quale dunque è l’oggetto del conoscere. L’idea può essere oggetto del conoscere, ma in seconda battuta, successivamente, dopo che abbiamo conosciuto il reale o la cosa o l’ente, riflettendo sul mezzo interiore, del quale ci siamo serviti o che abbiamo formato per conoscere l’oggetto.

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La via alla verità del conoscere è l’umiltà, la quale consiste nel sottomettere l’intelletto alle cose, all’essere, al reale. E questo è appunto il realismo. Ma l’umiltà conduce all’obbedienza, perché l’umiltà è quella virtù che ci rende consapevoli di essere dipendenti da un superiore. L’anima ― dice Santa Caterina da Siena ― «tanto è obbediente, quanto umile e tanto umile quanto obbediente» [1] [c. 154]. Noi siamo in basso [humus] ed egli è in alto. Ma è in alto non per opprimerci, ma al contrario, perché ci vuol beneficare, ci vuole innalzare a sé, donare a noi ciò che ha lui. L’umile è così aperto e disponibile a ricevere, ad accogliere il bene che il superiore vuol donargli, a conformarsi alle sue direttive, attento ai suoi comandi o ai suoi incitamenti.

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L’umile, che riconosce questa sua soggezione, è pronto ad obbedire, ossia a fare ciò che il superiore gli comanda. L’umiltà conduce alla grandezza, ossia a partecipare di ciò in cui il superiore è superiore, accogliendo quel bene che è proprio del superiore e che ora, obbedendo, diventa suo. In tal senso San Paolo dichiara di «rendere ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo» [II Cor 10,5].

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L’umiltà è radicalmente virtù dell’intelligenza, con la quale essa, riconoscendosi dipendente dall’essere, ordinata all’essere e al di sotto dell’essere, si apre al reale, sta soggetta al reale e in ascolto dei suoi impulsi, si lascia formare dal reale e si adegua al reale: adaequatio intellectus et rei. Questa adaequatio è atto dell’intelletto, ma la volontà vuole che l’intelletto si adegui. La prima, fondamentale umiltà è obbedire alla realtà, ossia alla verità. Umiltà, poi, di conseguenza, sarà l’atto del volontà col quale essa mette in pratica il bene conosciuto dall’intelletto. L’umiltà sfocia nella carità. Viceversa, il rifiuto cartesiano di fondare il sapere e la certezza sull’ adaequatio alle cose esterne, è una forma di disobbedienza al reale, che è segno di superbia. È inoltre una posizione auto-contraddittoria, perché la sua conclamata volontà di trovare la verità lo obbliga a praticare l’ adaequatio; ma nel momento in cui pratica l’ adaequatio per negare l’ adaequatio, dimostra che quella volontà è insincera.

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L’idealismo introduce così nel pensiero, con la negazione del principio di non-contraddizione, al di là della retorica hegeliana della «riconciliazione», un’intima, voluta ed insanabile lacerazione interiore, e introduce quindi un principio di disonestà e di doppiezza nel pensare e nel parlare. Del resto, Cartesio irrideva al principio di identità, considerandolo cosa vuota e inutile. L’idealismo, sotto l’apparenza della «scienza» ed anzi spacciandosi per il «sapere assoluto», che non è altro che la gnosi, è così aperto a tutti i trucchi della sofistica ed all’arte del più raffinato inganno.

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La volontà umile e leale, invece, obbedisce al reale per mezzo dell’intelletto. Così si esprime l’amore per la verità. Esso comporta umiltà e obbedienza. La volontà lascia che il reale agisca sull’intelletto, che lo attui, che lo fecondi, che lo determini. Così l’intelletto si innalza, si eleva: da vuoto diventa pieno, pieno dell’oggetto conosciuto.

 

L’ATTEGGIAMENTO DELL’IDEALISTA

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Nell’idealismo l’intelletto non si assoggetta, ma comanda. Non si ritiene al di sotto dell’essere, ma al di sopra. L’essere dipende da lui perché l’essere è l’essere pensato da lui. Questo è l’atteggiamento della superbia, la quale comporta il moto esattamente opposto a quello dell’umiltà: mentre nell’umiltà l’intelletto si assoggetta all’essere, nella superbia l’intelletto vuol assoggettare a sé l’essere. L’inferiore vuol stare al posto del superiore.

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Come Adamo, vuol decidere lui, al posto di Dio, ciò che è bene e ciò che è male [cf. Gen 3,5]. Non più dunque l’adeguamento al comando divino, ma la disobbedienza, la quale appunto, come insegna Santa Caterina, «viene dalla superbia, che esce dall’amore proprio di sé, privandosi dell’umiltà» [2] [c. 154]. Occorre peraltro distinguere, con Santa Caterina, un duplice rivolgersi dell’io su se stesso: quello che lei chiama «conoscimento di sé», e da questo nasce l’umiltà: «L’umiltà esce dal conoscimento di sé» [3]; «nel conoscimento di te ti umilierai, vedendo te per te non essere e l’essere tuo cognoscerai da Me» [c. 4]. In questa autocoscienza il mio pensiero si subordina al mio essere, il quale è prova dell’esistenza di Dio. Il cognoscimento di sé fonda un’autocoscienza realistica, perché l’io appare come reale, indipendente dall’atto di pensarlo e non come semplice pensato. Santa Caterina inoltre parla anche di un’altra autocoscienza, che è «l’amor proprio di sé», che dà origine alla superbia [c. 38]. E la superbia, dal canto suo, toglie il «cognoscimento di sé», che è la sana autocoscienza del realismo, fondata sulla conoscenza delle cose, e guidata dall’umiltà. Infatti, il sé posto dall’amor proprio di sé non è oggettivo, indipendente dall’atto di pensarlo, ma è il sé assolutizzato dell’idealista.

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Invece la sana autocoscienza realistica conduce alla scoperta di Dio [c. 128]. Il realismo, che comporta l’aderenza, l ’adaequatio, l’obbedienza alle cose, dà la certezza iniziale del sapere, ed apre, nell’umiltà, l’occhio dell’intelletto alla verità sull’io, sul mondo e su Dio. Viceversa, «L’amore proprio offusca l’occhio dell’intelletto» [c. 136], perché l’io, ritenendosi autosufficiente e principio primo del sapere della certezza, diventa autoreferenziale, non sta aperto alla realtà oggettiva, ma si chiude superbamente in se stesso e nelle proprie idee. Al posto dell’ontologia nasce l’ideologia. Ma con ciò stesso, se l’idealista crede di vedere, ma in realtà si acceca. Si priva di quella che Santa Caterina chiama la «santa discrezione», che si può chiamare anche “discernimento”, ossia quella virtù intellettuale, eventualmente arricchita dai doni spirituali dell’intelletto e della sapienza, per la quale l’intelletto o la ragione, nutriti di esperienza, e prudenti nella riflessione, sulla base dei valori oggettivi, distinguono, nelle situazioni concrete, il vero dal falso e il bene dal male. Per converso, l’«indiscrezione» è effetto dell’amor proprio [cf. c. 121].

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Con l’amor proprio mi attacco al mio io come fosse Dio. Non mi riconosco come creatura, ma assolutizzo il mio io come se non dipendesse da nulla. Non conosco la verità, ma “sono” la verità. Il mio io, il mio pensiero non sono fondati, ma fondanti. Il mio pensiero non presuppone più il mio essere, ma lo fonda, perché identifico il mio essere col mio esser pensato da me.

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Per l’idealista la realtà è l’idea che io ho della realtà. Sono infallibile, perché il mio pensiero coincide con l’essere. L’essere, infatti, è l’essere pensato da me, è la mia idea, è l’essere pensante che sono io. Io non sono un io che può pensare, ma un io pensante. Essendo il pensante identico all’essere, perché l’essere è idea, è essere pensato, io divento pensiero sussistente e con ciò stesso essere sussistente che pensa se stesso. Autocoscienza assoluta. Per l’idealista io esisto da me stesso, non da altro. Non dipendo da nessuno, ma solo da me stesso. Penso da me stesso, non perché ho attinto a una realtà esterna. L’idealista non tiene conto del fatto che, se nell’atto di pensare me stesso, mi colgo pensante, è perché penso una realtà esterna. Essa — quella che San Tommaso chiama quidditas rei materialis — infatti è l’oggetto iniziale del sapere. Dunque nel sapere parto da essa e non da me stesso pensante. Essa e non me stesso è la prima certezza.

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IL DUBBIO TOMISTA E IL DUBBIO CARTESIANO

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È vero che la certezza spirituale è più forte di quella sensibile delle cose fuori di me. Tuttavia, questa certezza più nobile la otteniamo partendo dalle umili ma inoppugnabili certezze sensibili, che sono invalidate solo dalla patologia psichica, per cui non c’è assolutamente alcuna ragione di metterle in dubbio. Per questo, il dubbio cartesiano è un dubbio irragionevole, assurdo e ipocrita, dato che non sorge dall’umiltà realistica di accogliere le cose come sono e il valore delle idee che le rappresentano, ma dalla superbia di non volersi abbassare ad accettare quelle umili benché saldissime certezze. Eppure è Dio stesso Che ci offre lo spettacolo meraviglioso della natura e di tutte le creature sensibili, dalle quali soltanto [cf. Rm 1, 20] possiamo arrivare, per analogia, alla scoperta dello spirito, dell’io pensante e di Dio stesso. Dunque il mettere deliberatamente in dubbio e scartare quelle certezze, scambiarle per illusioni o falsi punti di partenza, è stato in Cartesio un atto di folle superbia e di stoltezza, mascherato dal pretesto di fondare e far partire il sapere dalla certezza dello spirito e non da quella dei sensi. Ma così Cartesio si è gettato nell’abisso ― quello che Kant chiamerà il «baratro della ragione» [4] ― pretendendo poi di essere soccorso da Dio.

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Lo dimostra la storia del pensiero che nasce da lui, fino a Fichte, Schelling, Hegel, Husserl, Nietzsche ed Heidegger. Il rifiuto della certezza iniziale del senso, la pretesa di darsi presuntuosamente da sé la certezza, anziché riceverla umilmente dalle creature e quindi da Dio, è pagata alla fine al caro prezzo dello scetticismo totale e del nichilismo della modernità. Anche San Tommaso sostiene la legittimità ed anzi la necessità di una universalis dubitatio de veritate [5] per dar inizio alla filosofia; ma la avanza come semplice ipotesi, del tutto assurda, da non prendere sul serio e da non esercitare come invece ha fatto Cartesio. Per questo, per l’Aquinate vi è certezza di esistere perché si pensa e non perché si dubita; e tale certezza peraltro è basata sulla certezza originaria del senso comune. Invece, anche la soluzione agostiniana del dubbio scettico accademico, similmente alla soluzione cartesiana, non è esente da un vizio di fondo. Sant’Agostino, infatti, come farà Cartesio, fonda il principio della certezza nella coscienza che, se dubito, esisto [«si fallor, sum»[6], senza badare al fatto che il dubitare non è un vero pensare, ma un semplice oscillare inceppato del pensiero, per cui il dedurre la propria esistenza da questo dubitare insensato, non può costituire un atto veramente fondante della certezza. Sant’Agostino peraltro salva la certezza con l’argomento a posteriori, dato che ammette la veracità dei sensi, mentre Cartesio, che non l’ammette, sbaglia ancor più gravemente, restando chiuso nel suo cogito.

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Osserviamo inoltre che, anche ammesso e non concesso che il dubitare sia un pensare, è vero che nel momento in cui io rifletto sul mio pensare, mi colgo come pensante; ma ciò non mi autorizza ad affermare che io penso per essenza. Il mio essere non è fondato o posto dal mio pensare; ma, al contrario, il mio essere è fondamento e presupposto del mio pensare. Non sono o esisto perché penso, ma penso perché sono. Il mio pensare dipende da me, ma non il mio essere. È vero che se penso, sono; ma sono anche se non penso. Solo Dio è Pensiero sussistente, perché è Essere sussistente. Solo Lui può dire in modo assoluto: “Io Sono”. Dunque, come insegna Santa Caterina, l’amor proprio di sé è un disordinato amore di sé, che priva dell’amore di Dio:

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«Chi ama sé di disordinato amore è privato dell’amore di Me» [c.128]. Tale amore genera la superbia, la quale a sua volta genera la disobbedienza: «La disobbedienza viene dalla superbia, che esce dall’amore proprio di sé, privandosi dell’ umilità»[c. 154].

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REALISMO E IDEALISMO

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Noi ci accorgiamo di conoscere le cose. Quando le conosciamo, ci identifichiamo intenzionalmente con loro. Esse entrano in noi, nel nostro spirito o nella nostra mente evidentemente non nel loro essere o nella loro materialità, ma smaterializzate, mediante un’immagine o un’idea o in un concetto. Ne cogliamo la verità o realtà in un giudizio o in un’intuizione. Ma come è possibile che quella stessa cosa o realtà, materiale o spirituale, che è fuori di noi, indipendente da noi, diventi ad un tempo presente alla nostra mente, intima ad essa? Appunto mediante l’idea o rappresentazione, che ci formiamo dell’essenza di quella cosa, partendo dall’esperienza sensibile, se è materiale, o per analogia con le cose materiali, se è spirituale.

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Invece, la concezione sbagliata della conoscenza è l’idealismo, per la quale l’oggetto sarebbe l’idea, ossia l’essere pensato. Per cui o si parte dall’idea e si raggiungono le cose esterne [7]; oppure la cosa stessa o la realtà o l’ente si risolve nell’idea o nel pensiero o nel pensato o nel pensante [8]. L’essere è l’essere pensato. L’essere si identifica col pensiero. L’essere si identifica con la coscienza di pensare se stessi. L’essere è interno al pensiero, non fuori del pensiero. Ma perché questa concezione è sbagliata? Per due motivi. Primo, perché se noi abbiamo in noi le idee delle cose e del nostro io, non è perché il nostro conoscere parta dalle idee delle cose o del nostro io che le pensa, ma perché, avendo in precedenza contattato coi sensi le cose, ci siamo formati le idee delle cose che abbiamo contattato. E riflettendo su queste idee che abbiamo prodotto, prendiamo coscienza del nostro io, che produce le idee e pensa le cose. Quindi, il nostro conoscere non parte dalle idee delle cose o dalla coscienza del nostro io, ma parte dalle cose. In secondo luogo, l’essere è pensato una volta che è pensato, ma non prima di essere pensato. L’essere, quindi, è distinto dal mio pensiero. È vero che, pensando l’essere, l’essere diventa intenzionalmente in me pensiero, essere pensato. Ma in stesso resta distinto dal mio pensiero; è davanti al mio pensiero [ob— iectum], fuori e indipendente dal mio pensiero. L’essere è regola di verità del mio pensiero, il quale sarà vero se è adeguato o conforme all’essere, alla realtà, alle cose, se li rappresenta fedelmente come sono in se stessi.

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La verità nel realismo è conformità del soggetto all’oggetto; mentre nell’idealismo avviene il contrario: è l’oggetto che si conforma al soggetto, è dedotto dal soggetto e dipende dal soggetto. Per questo, la Chiesa lo qualifica come «soggettivismo» [9]. Ma soggettivismo è anche lo gnosticismo, che non è altro che la gnoseologia dell’idealismo. Infatti, lo gnosticismo, come l’idealismo, è quella gnoseologia secondo la quale la mente umana, divina per natura, s’innalza da sé alla scienza divina. Dice pertanto la Lettera Gaudete et exultate:

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«Lo gnosticismo suppone «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» [n. 36, testo QUI].

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E ciò per il fatto che abbiamo visto che l’oggetto del pensiero, per l’idealismo, è lo stesso pensiero, è l’idea, che è coincidenza di essere e pensiero, di ideale e di reale. L’essere è l’essere pensato. Essere è pensare. E, per conseguenza, pensare equivale ad essere. Ma questo è lo stesso essere divino e l’oggetto stesso del sapere divino. E dunque nello gnosticismo idealista il sapere umano eleva se stesso al sapere divino.

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L’IDEALISMO È UNO GNOSTICISMO

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Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?

Dillo, se hai tanta intelligenza!

Gb 38,4

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Giustamente il Maritain ha parlato di «gnosi hegeliana» [10]. Ed ha rilevato come

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«il razionalismo inaugurato da Cartesio è giunto con Hegel al termine delle sue conquiste. Tutto è sottoposto all’impero della Ragione che è, nel senso più decisamente univoco, l’Essenza [Wesen] dello Spirito divino, come dello spirito umano».

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Hegel espresse in maniera trionfale, nella Conclusione delle sue Lezioni sulla storia della filosofia [11], questo esito finale dell’impresa cartesiana, esito finale che egli stesso aveva determinato con la sua opera filosofica. Egli lo rappresenta come il «discoprimento di Dio, quale Egli si sa» [p. 412]. In questa sintesi finale, Hegel riassume il cammino della filosofia fatto da Cartesio ai suoi tempi, ossia all’elaborazione del suo sistema. Oggetto della filosofia, per Hegel, è «il pensiero della Totalità, il mondo intellegibile, è l’Idea concreta» [p. 413], «l’idealità di tutta la realtà»[ibid.]. Con Cartesio, continua Hegel, «penetrò in essa» [nell’idealità] «il principio della soggettività, dell’individualità e Dio come Spirito divenne reale a Se stesso nell’autocoscienza» [ibid.]. Per questo

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«l’opera dell’età moderna è comprendere questa Idea come Spirito» [ibid.]. Ma «per procedere dall’Idea che sa al proprio saperSi dell’Idea, occorre l’opposizione infinita» [ibid.]. «In tal modo lo Spirito produsse questo mondo spirituale, come una natura, la prima creazione dello Spirito. L’opera dello Spirito consiste ora nel ricondurre quell’al di là nella realtà e nell’autocoscienza; il che vien fatto in quanto l’autocoscienza pensa se stessa e conosce l’Essenza assoluta che pensa se stessa. Il pensiero puro si è sollevato in Cartesio sopra questo sdoppiamento» [p. 414]. Così «l’idea è quieta nella sua irrequietezza» [pagg. 415— 416]; «gli opposti sono in sé identici, poiché la vita eterna consiste appunto nel produrre eternamente l’opposizione e nell’eternamente risolverla. Sapere nell’unità l’opposizione e nell’opposizione l’unità. Ecco il sapere assoluto» [ibid.]. «L’autocoscienza finita» [umana] «ha cessato di essere finita; e in tal modo d’altra parte l’Autocoscienza assoluta» [divina] «ha conseguito quella realtà, che prima le mancava. Tutta la storia universale in genere e la storia della filosofia in particolare, rappresentano solo questa lotta», ossia del soggetto che nega se stesso e si riconcilia con sé, «e sembrano esser pervenute alla loro meta nel punto in cui l’Autocoscienza assoluta, di cui esse hanno la rappresentazione, ha cessato di essere alcunché di estraneo, in cui dunque lo Spirito è reale come Spirito. Infatti tale è esso in quanto sa se stesso come Spirito assoluto, e questo lo sa nella Scienza» [p. 416]. Ecco appunto la Gnosi.

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Hegel vuol dire che con l’idealismo l’uomo si infinitizza e Dio si finitizza, sicché si ha quella che Hegel chiamerà «l’identità della natura umana e della natura divina», ossia il panteismo. Non più la cosa in sé esterna al soggetto, non più un Dio trascendente e astratto, ma il Dio concreto e storico, che è la stessa autocoscienza del soggetto umano. Infatti, la ragione cartesiana, che si esprime nel cogito, non è la facoltà di un soggetto, che si aggiunge al soggetto, attuandone le capacità o le forze; ma è lo stesso soggetto, inteso come originariamente [«aprioricamente»] ed essenzialmente pensante e ragionante. In pratica, come ragione sussistente. Ma questa è già la ragione divina.

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Troviamo nel concetto cartesiano della ragione, del sapere e del pensiero un’impronta evidentemente gnostica. Egli infatti, nel Discorso sul Metodo [12], esprime la volontà di «aggiustare tutte le sue opinioni al livello della ragione»; progetta di fondare una «scienza universale, che possa elevare la nostra natura al massimo della sua perfezione» [13]; un pensiero, che non prende nulla dal di fuori, ma tutto, persino le sensazioni, da se stesso [14].

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Cartesio è indubbiamente realista nel considerare il mondo dei corpi come esterno allo spirito umano, oggettivamente conoscibile ed esistente in se stesso come creato da Dio, anche se il sapere non è fondato sui sensi, ma è garantito dal veridicità di un Dio conosciuto a-priori come intimo alla mente. In Cartesio, quindi, la distinzione fra l’io umano e l’Io divino comincia a diventare sfumata e si annebbia, perché l’io umano, il cogito, non incontra più un Tu divino davanti a sé, come ob—iectum, oggettivo, scoperto come causa creatrice dell’io e del mondo contattato dai sensi, ma come idea di Dio trovata dal cogito nell’orizzonte della coscienza. Quindi in Cartesio non è che io ho l’idea di Dio perché Egli esiste, ma Dio esiste perché Ne ho l’idea. È già il Dio dell’idealismo, che giungerà fino ad Hegel. Per contro, in Cartesio, la ragione non accetta per vero altro che ciò che essa concepisce chiaramente e distintamente. L’interesse della ragione si sposta dall’attenzione al reale al suo modo di concepire il reale. È reale solo ciò che è alla sua misura, solo ciò che è razionale, concepibile chiaramente e distintamente. Ciò che le appare oscuro e indistinto viene quindi respinto come inesistente.

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Abbiamo qui un altro colpo contro la teologia, nella quale la ragione si trova davanti all’oscurità e in-distinzione della natura divina, benché essa sia chiara e distinta in se stessa. Ancora una volta Dio è identico al concetto di Dio. Ma se il concetto lo produco io, come non finirò per identificare Dio col mio io? È questo il cammino che conduce a Kant, Fichte, Schelling ed Hegel. Quindi, già in Cartesio la ragione umana si considera implicitamente divina o quanto meno capace di divinizzarsi. Non c’è da meravigliarsi, allora, se la ragione, così concepita, è capace di elevarsi o auto-trascendersi, così da raggiungere il livello della “gnosi”, ossia del sapere divino o del pensiero divino sussistente e creatore dell’uomo, per cui l’uomo, come diceva Gentile, ha il potere di creare se stesso [«autoctisi»].

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IL SORGERE DELLO GNOSTICISMO

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Così il soggetto non invoca più la salvezza da Dio, ed essa non è più un dono della sua grazia, ma si salva da sé, perché già da sé possiede una forza divina. La Deo placuit rileva così nello gnosticismo l’«inconsistenza delle pretese di auto salvezza, che contano sulle sole forze umane» [n. 13 testo QUI]. L’uomo non ha bisogno della grazia, perché già l’io umano, fondato sul cogito, ha in se stesso il principio della propria auto elevazione all’Assoluto. Nulla viene dall’alto sull’uomo a sollevarlo; ma egli stesso si innalza a Dio col potere del pensiero e della volontà. È un tema anche pelagiano.

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In Kant resta un residuo di realismo nella cosa in sé esterna all’intelletto. Ma qui l’idealismo fa un passo avanti rispetto a Cartesio. Mentre infatti, rispetto a Cartesio, la cosa in sé perde valore, ma continua ad esistere, in Kant diventa inconoscibile in se stessa e l’intelletto acquista troppo potere, perché Kant gli attribuisce addirittura il potere di dar forma all’oggetto della conoscenza sperimentale, che, come è noto, non è più la cosa in sé, ma il fenomeno. Restano però il sapere morale, la critica della ragione e l’idea di Dio.

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Ma con Fichte, ecco che l’idealismo fa un altro passo, nella risoluzione dell’essere nel pensiero. Cartesio aveva dedotto il sum dal cogito. Ma si trattava di semplice atto di pensiero, di una deduzione logica, per la quale io so di esistere. Ma questo mio esistere è creato da Dio, è indipendente da me. Invece l’io fichtiano «pone» [setzt] il non-io non solo logicamente, ma anche ontologicamente, quindi produce se stesso. Dunque non occorre più che l’io sia creato da Dio. Da qui si comprende come Fichte fu accusato di ateismo. Egli si difese citando Dio come Io assoluto, ma non si vede come questo Io, che è il fondamento dell’io empirico, possa esserne il creatore. Che un io sia profondo o superficiale, è pur sempre lo stesso io. Dunque, l’io empirico, come insegnerà Fichte, non ha che da prendere coscienza di essere una manifestazione contingente del suo Io assoluto e svolgere le potenzialità divine insite in esso. In tal senso la Lettera della CDF Deo Placuit nota che «il riduzionismo individualista di tendenza neo-gnostica promette una liberazione meramente interiore» [n. 11 testo QUI]Ma l’Io di Fichte, come è noto, aggiunge all’Io penso kantiano [Ich denke überhaupt] il fattore dialettico dell’auto-negazione, come affermazione e posizione del non-Io, opposto all’Io. Fichte esplicita l’ auto-contraddizione già presente, come abbiamo visto, nel cogito cartesiano e nella dialettica teologica kantiana:

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«Se nell’Io è posta l’assoluta totalità della realtà, dev’esser posta necessariamente nel non-Io l’assoluta totalità della negazione; e la negazione stessa dev’esser posta come assoluta totalità. L’una e l’altra, l’assoluta totalità della realtà nell’Io e dell’assoluta negazione della totalità nel non-Io, debbono essere unificate mediante la determinazione. Perciò l’Io in parte determina e in parte è determinato» [15].

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Schelling innalza ancor più l’Io di Fichte aggiungendo alla negazione del non-Io da parte dell’Io l’identità di essere e pensiero, di essere e divenire, di soggetto e oggetto, di ideale e reale, di Spirito e natura, di teoria e prassi. Tuttavia, come riferisce Hegel, «Schelling chiama concetto la comune categoria dell’intelletto, mentre invece concetto è il pensiero concreto, in se stesso infinito». E cita lo stesso Schelling: «Non resta dunque altro, se non rappresentarlo» [l’Assoluto] «in un’intuizione immediata» [16]. Ma Hegel dubita dell’oggettività e dell’universalità di tale intuizione. Per questo egli compie il passo definitivo e conclusivo della prometeica scalata all’Assoluto, iniziata, senza piena consapevolezza da Cartesio, convinto invece di dare prove migliori dell’esistenza di Dio di quanto aveva fatto San Tommaso. E questo passo consiste nel sostenere che l’essenza di Dio non si può cogliere in una vaga ed indeterminata intuizione, dove tutto è indifferente a tutto e si confonde con tutto, ma solo nel concetto logico e razionale come autocoscienza dell’Idea.

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Hegel supera il precedente gradino stabilito da Schelling rispetto a Fichte. Questi aveva aggiunto rispetto a Kant l’eliminazione della cosa in sé, d’ora innanzi prodotta dall’Io nell’Io. Con Hegel giungiamo così al termine della parabola cartesiana: quel cogito che arrogantemente sin dall’inizio oltrepassa i giusti e naturali limiti dell’io ed umilia la realtà delle cose create da Dio, abbassando Dio ed innalzando se stesso, proseguirà la sua opera di trasferimento all’uomo degli attributi divini, sicché alla fine l’uomo è diventato Dio e Dio è sparito. Hegel è colui che conduce il principio cartesiano del cogito alle sue estreme conseguenze; egli ha l’audacia di esplicitare chiaramente e coscientemente il punto di arrivo della scalata al cielo intrapresa dal cogito cartesiano, col famoso principio dell’«identità della natura umana e della natura divina» [17] sulla base del divenire di Dio, che si oppone frontalmente all’«atreptos» del dogma calcedonese.

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Invece, la Placuit Deo ci avverte che la via della salvezza che ci offre Cristo, «non è un percorso meramente interiore, al margine dei nostri rapporti con gli altri e con il mondo creato» [n. 11, testo QUI]. Non si tratta di partire dall’io e chiudere tutto nell’io. «La grazia che Cristo ci dona non è, come pretende la visione neo-gnostica, una salvezza meramente interiore, ma che ci introduce nelle relazioni concrete che Lui stesso ha vissuto. La Chiesa è una comunità visibile» [n. 12]. Si tratta di aprirsi alla realtà, al mondo, agli altri, a Dio, alla società. Lo gnostico invece, chiuso nel suo io, si edifica un’area sociale, una claque per conto proprio, separandosi dall’effettiva comunione ecclesiale, che solo il realista può percepire e vivere, crea una setta per avere a suo servizio una massa di ingenui plagiati, miopi fanatici o furbi adulatori. Lo gnosticismo è un’esaltazione esagerata dell’io, del sapere e del pensiero umano, come dice la Gaudete et exultate:

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«Lo gnosticismo è una delle peggiori ideologie, poiché, mentre esalta indebitamente la conoscenza o una determinata esperienza, considera che la propria visione della realtà sia la perfezione. In tal modo, forse senza accorgersene, questa ideologia si autoalimenta e diventa ancora più cieca» [n. 40].

 

Lo gnostico cade in questo inganno perché specula sul pensiero astrattamente preso, nella sua assolutezza, senza considerare le condizioni e i limiti, nei quali esso viene esercitato dall’uomo. Inoltre, la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede Deo Placuit fa notare ancora la caratteristica dello gnosticismo: il suo interiorismo assoluto, che si risolve in un assoluto individualismo, per cui tutto è nell’io, dall’io e per l’io:

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«il riduzionismo individualista di tendenza neo— gnostica promette una liberazione meramente interiore» [n. 11]. La libertà non comporta nessun legame con una legge morale oggettiva, ma si risolve in un puro atto della propria volontà. Per questo, la Lettera avverte che la via della salvezza che ci offre Cristo, «non è un percorso meramente interiore, al margine dei nostri rapporti con gli altri e con il mondo creato» [n. 11]. «La grazia che Cristo ci dona non è, come pretende la visione neo— gnostica, una salvezza meramente interiore, ma che ci introduce nelle relazioni concrete che Lui stesso ha vissuto. La Chiesa è una comunità visibile» [n. 12].

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Inoltre, la Gaudete et exultate fa notare come lo gnosticismo

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«a volte diventa particolarmente ingannevole, quando si traveste da spiritualità disincarnata. Infatti, lo gnosticismo ‘per sua propria natura vuole addomesticare il mistero’, sia il mistero di Dio e della sua grazia, sia il mistero della vita degli altri» [n. 40]. «Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo» [n. 37].

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Lo gnosticismo è una spiritualità disincarnata perché risolve l’essere nel pensiero e la materia nello spirito. Lo stesso metodo cartesiano, con la sua diffidenza per l’esperienza sensibile e quindi per l’ intellegibilità della sostanza materiale, dimostra la sua ascendenza, forse inconsapevole, dal dualismo gnostico manicheo di spirito buono— materia cattiva, citato sia dalla Placuit Deo che dalla GaudeteMa proprio questa operazione ultra spiritualista si volge nel suo contrario, come appare dal materialismo di Marx, il quale dice di averlo ricavato da Hegel semplicemente «mettendo al posto della testa quella testa che prima era al posto dei piedi e mettendo al loro posto i piedi, che prima erano al posto della testa», vale dire che, se Hegel fa derivare la materia dallo spirito, Marx fa derivare lo spirito dalla materia. Non sono le idee che guidano il mondo materiale – economico, ma è questo a guidare le idee.

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Inoltre, come nota la Gaudete et exultate, lo gnostico si ritiene in possesso della scienza assoluta, ossia onnicomprensiva come Scienza dell’Assoluto. Lo gnostico è onnisciente, non certo nel senso di conoscere i dettagli di tutte le cose — si rende conto infatti anche lui che pensare ciò sarebbe pura follia — , e tuttavia in un senso, che non per questo non denota una smisurata superbia. Lo gnostico si ritiene onnisciente nel senso che è convinto di possedere la Scienza della Totalità. Se nulla è fuori dell’essere e l’essere è l’essere pensato da lui, ne viene che non esiste nulla che non sia oggetto del pensiero dello gnostico. L’essere coincide con l’essere pensato da lui; quindi non può darsi un essere che egli ignori o che trascenda il suo pensiero, compreso Dio. In tal senso la Gaudete ed exultate dice che

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«Gli “gnostici” giudicano gli altri sulla base della verifica della loro capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine» [n. 37]. «Tipico degli gnostici è credere che con le loro spiegazioni possono rendere perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il Vangelo» [n. 39]. «L’equilibrio gnostico è formale e presume di essere asettico, e può assumere l’aspetto di una certa armonia o di un ordine che ingloba tutto» [n. 38].

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Un esempio di questo ideale gnostico lo troviamo in Schelling, laddove afferma:

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«il mio punto di vista è in generale il cristianesimo nella totalità del suo sviluppo storico, il mio fine è quella sola Chiesa veramente universale [se ‘Chiesa’ può esser qui la parola esatta], che solo nello spirito va costruita, e che può consistere soltanto nella perfetta comprensione del cristianesimo, della sua effettiva fusione con la scienza e la conoscenza in generale» [18].

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Hegel elogia lo gnosticismo, sebbene con riserva, con queste parole:

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«Tutte queste forme vanno a finire nel torbido, ma in complesso hanno come principio le medesime determinazioni e nascono dal bisogno generale e profondo della ragione di determinare e intendere come concreto ciò che è in sé e per sé» [19].

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Tuttavia, lo sbocco finale nefasto del razionalismo cartesiano non fu immediatamente avvertito dallo stesso Cartesio e dai suoi stessi contemporanei, i quali viceversa ne rimasero ammirati, come fossero stati davanti a un genio filosofico di grandezza inaudita, e così bevvero allegramente il veleno senza accorgersene.

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Lungimirante, come sempre, fu la Chiesa, che nel 1663 mise all’Indice le opere di Cartesio. Ma purtroppo, tale era il successo del filosofo messianico, che rivoluzionava tutto il pensiero filosofico elaborato nei millenni precedenti, che quasi nessuno, nemmeno tra i teologi, tenne conto del saggio avvertimento della Chiesa, tranne i tomisti, che, per la loro prudenza critica, è assai difficile trarre in inganno, anche da parte dei più astuti impostori. Chi restava fedele alla verità era considerato un sorpassato, un arido scolastico, un cocciuto conservatore e via di questo passo.

 

Per l’idealista, cioè per lo gnostico, anche ciò che ai sensi appare esterno, è interno all’io, alla coscienza e al pensiero, in quanto pensato. Infatti l’idealista non si rende conto o non vuol riconoscere che la cosa in sé, benché nell’atto del conoscere entri, in quanto rappresentata, nell’orizzonte della coscienza, in se stessa, nella sua realtà, è fuori del nostro pensiero o della nostra mente; è extra animam, come dice San Tommaso. «Non è la pietra che è nell’anima — dice Aristotele — , ma l’immagine della pietra». E’ evidente che le nostre idee non sono esterne alla nostra mente; ma ciò non ci autorizza a credere, con gli idealisti, che la realtà coincida con le nostre idee, se non intenzionalmente ed accidentalmente nell’atto di conoscere il vero.

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CARATTERI DELL’IDEALISMO

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È assioma idealista che non si dà essere fuori dal pensiero, ma che l’essere è sempre nel pensiero. L’essere è sempre pensato. Non si pensa l’essere, ma l’essere pensato, perché essere ed essere pensato coincidono. Si pensa il pensiero, perché l’essere è pensiero [20]. Tutto è ad un tempo essere e pensiero. Ora, però, solo in Dio l’essere coincide col pensiero, perché Dio è Essere sussistente e Pensiero Sussistente. Dice San Tommaso:

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«In Dio [21] il sapere è la sua sostanza». In Dio «l’intelletto, l’oggetto del pensare [id quod intelligitur], l’idea [species intellegibilis] e il pensare sono la stessa cosa» [22].

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Invece nell’uomo c’è distinzione tra il suo essere e il suo pensare. L’uomo non è, come credeva Cartesio, un soggetto pensante — solo Dio, nel quale essere e pensare s’identificano, può essere questo — , ma è un soggetto che può pensare. E se non pensa, non per questo non è un uomo, essere atto a pensare. Dio è per essenza pensiero, è per essenza pensante. Nell’uomo invece il pensare è una semplice facoltà, per quanto essenziale, ma che può restare allo stato di semplice facoltà, senza passare all’atto. Per l’intelletto umano l’essere o l’ente, creato da Dio, è indipendente dal pensiero, trascende il pensiero ed è regola della verità del pensiero. Per essere nel vero, la mente umana deve umilmente adeguarsi all’essere, deve obbedire alle leggi dell’essere. Dio, invece, ideatore e creatore dell’essere, non ha l’essere come oggetto davanti a Sé e indipendente da Sé. Così Egli conosce Se stesso e il mondo non come essere distinto dal suo pensare, ma come essere immanente al suo Io. È evidente che anche per noi il pensato in quanto pensato è all’interno del nostro pensiero. Ma prima di essere pensato non può che essere fuori, nella realtà esterna: quello che San Tommaso chiama res extra animam. L’essere entra spiritualmente o intenzionalmente, come concetto o idea o rappresentazione, nel nostro pensiero, una volta che lo pensiamo o conosciamo.

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Se invece tutto è essere e pensiero, tutto è idea, come credono gli idealisti, e non esiste un essere distinto dal pensiero; se l’ente come tale, compreso quello divino, è immanente al nostro pensiero; se è vero quel che dice Rahner, che «la natura dell’essere è conoscere ed essere conosciuto» [23]; se l’essere è «essere cosciente» [24]; se l’essere «è sempre anche conosciuto» [25]; se l’essere «è lo stesso soggetto conoscente» [26], l’essere come tale e non solo l’essere divino s’identifica col pensiero, allora abbiamo il panteismo. Secondo l’idealista, noi, pensando l’essere, pensiamo Dio, perché l’essere è Dio. Ma d’altra parte, poiché l’essere s’identifica con l’essere pensato, e il nostro essere è essere pensato, il nostro essere si identica con l’essere divino, che è appunto l’essere pensato.

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Per l’idealista, anche l’essere non pensato è comunque pensato. E quindi non esiste un essere non pensato. È chiaro del resto che se io penso l’essere, questo essere è pensato. Ma prima che lo pensi o se non lo penso, lo ignoro e non è pensato da me. Invece nell’idealismo, siccome il punto di partenza e l’oggetto del sapere sono l’idea e la coscienza che l’io ha di sé come pensante, la verità del sapere è la conformità del reale o dell’essere all’idea o all’autocoscienza. Ora invece l’identità del pensiero con l’essere è il sapere assoluto, perché è un sapere che non ha nulla che sia al di fuori o al di là di questo sapere. È il sapere divino. E così per converso l’identità dell’essere col pensiero è l’essere assoluto, perché questo essere è in atto tutto ciò che il pensiero può pensare. E dunque è l’essere divino. E dunque la gnoseologia idealista comporta il panteismo, ossia l’identificazione del pensiero umano col pensiero divino, il che è quello che nella Gaudete et exultate è definito come «gnosticismo», la divinizzazione del sapere umano, della quale abbiamo il più cospicuo esempio in quella che Hegel, chiama «Scienza assoluta» o «Idea assoluta».

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Dobbiamo dire, invece, che l’oggetto della metafisica non è l’io, non è il soggetto pensante o auto-cosciente, ma è l’ente, che sta davanti [ob— iectum] all’io. La certezza fondante iniziale da cui parte la metafisica e sulla base della quale la ragione costruisce tutto il suo sapere, non è quella del proprio pensare o dubitare, come credeva Cartesio; e non è neppure Dio, come credeva Hegel; ma è la certezza dell’esistenza e della conoscibilità delle cose sensibili esterne, come ha stabilito Aristotele. Certamente la certezza spirituale che nasce dalla scoperta del nostro io pensante, si rivelerà più solida di quella sensibile, dato il maggior valore ontologico delle cose spirituali rispetto a quelle materiali. E ancor maggiore sarà la certezza di fede. Ma la certezza suprema della fede sarebbe nulla, se non fosse la maturazione suprema di una certezza assoluta, benché umile, che inizia già con la percezione delle cose sensibili. La certezza dell’esistenza del proprio io consegue alla certezza dell’esistenza e della conoscenza delle cose, perché è solo riflettendo sulla nostra capacità di raggiungere questa certezza originaria, che noi scopriamo il nostro io, come soggetto dotato di una mente che le ha conosciute. Noi non ricaviamo o deduciamo la conoscenza delle cose da quella del nostro io, come credeva Cartesio, ma al contrario, come ha stabilito Aristotele, noi ci accorgiamo di possedere una facoltà conoscitiva che attinge alle cose, dopo che le abbiamo raggiunte; e dalla coscienza del nostro saperle conoscere giungiamo all’affermazione del nostro io come soggetto conoscente.

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IL REALISMO LUTERANO

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La gnoseologia luterana è realista, perché Lutero sa che esiste un mondo esterno, esiste l’io ed esiste Dio, rivelatosi nella Scrittura e oggetto di conoscenza di fede. Questa, per Lutero, è la realtà, per cui egli riconosce che per essere nella verità, bisogna che la mente si adegui a questa realtà. Eppure Lutero disprezzava la metafisica. Come mai? Perché il suo realismo è difettoso e alla fine si volge in soggettivismo. Perché? In che senso? Perché Lutero è convinto che la certezza e la verità non sono date dalla ragione, ma dalla fede. Egli crede alla realtà in sé, creata da Dio, indipendente da lui; non riduce il reale alla sua idea, come farà Hegel; si ritiene une creatura di Dio e non soggetto assoluto, come faranno Fichte e Schelling; per lui Dio esiste in sé, incarnato in Cristo, Giudice e Signore del mondo, e non come una semplice sua idea, come in Kant.

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Solo che Lutero intende il suo realismo come un salto immediato del cuore dall’esperienza sensibile all’esperienza emotiva o intuizione interiore della Parola di Dio e del mistero di Cristo — ciò che Kierkegaard chiamerà «il salto della fede» — senza passare dalla mediazione della ragione e quindi della metafisica. E quindi senza passare dalla mediazione sociale della Chiesa, che può essere accettata solo sulla base di un realismo razionale, per il quale il cattolico, illuminato dalla fede e convinto dall’apologetica, riconosce dai segni di credibilità la divinità della Chiesa [27]Infatti, la metafisica dà fondamento all’antropologia ed alla morale. E ciò consente a sua volta di riconoscere la Chiesa come comunità umana, che dà storicamente prova di godere di un’assistenza divina infallibile nella conservazione del Vangelo. Invece, l’ente come tale non interessa a Lutero, perché la sua mente non si cura di applicare il principio di causalità al livello della realtà o degli enti, per passare, come insegna San Paolo [Rm 1, 19 – 20], dalla considerazione degli effetti creati [visibilia] a quella del Creatore [invisibilia], summum EnsNon che egli non creda nell’universalità del pensiero. Percepisce perfettamente l’universalità della Parola di Dio e del messaggio evangelico e sapeva cogliere i bisogni universali dell’uomo. Altrimenti il suo messaggio non avrebbe avuto tanto successo. Nel contempo sentiva un grande bisogno di concretezza.

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Lutero crede in Dio creatore e salvatore. Affetta di ascoltarne la Parola e vuole predicarla. Tuttavia, egli crede in Dio non perché sa dimostrativamente, con la ragione, che Dio esiste, ma perché lo sente nel cuore, con quel sentimento che i Tedeschi chiamano «Gemüth» [28], una certezza oscura originaria, della quale non si sa render ragione e non occorre render ragione. Questo irrazionale sentire sarà ancora presente nel «Gefühl» di Schleiermacher. Lutero, col termine «fede», quindi, non intende l’accoglienza della Parola di Dio, sul presupposto che sa con la ragione che Dio esiste, ma intende precisamente questo «sentimento». Ciò è collegato col fatto che, benché Lutero senta Dio come altro da sé e trascendente a sé, e con ciò egli resti nel realismo ed eviti il panteismo, nel quale invece cadrà Hegel, Lo sente così intimamente ed abitualmente in lui, che non ipotizza neppure l’eventualità di perdere tale unione a causa del peccato, e ciò proprio in base alla sua convinzione, che egli reputa «fede», che sempre e comunque Dio è in lui e con lui.

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È ciò che la Chiesa da tempo chiama «immanentismo», che non è ― si badi bene ― la pura presenza di Dio nell’intimo dell’anima; di ciò infatti parla anche Sant’Agostino, il quale non per questo è un immanentista. Ma si tratta di ciò di cui parla la Pascendi Dominici gregis [nn. 10, 33, 35, 39, 62, 65,73, 80 testo QUI]Occorre dunque distinguere accuratamente immanentismo e panteismo, benché possano assomigliarsi. L’immanentismo non nega la trascendenza divina. È l’errore di Lutero. Invece nel panteismo si ha l’identificazione della natura umana con quella divina e del sapere umano con quello divino, ossia lo gnosticismo, sul presupposto dell’identificazione del pensiero con l’essere, della quale abbiamo già parlato. È questo l’errore dell’idealismo tedesco [29]È chiaro allora che con Lutero il realismo viene meno per essere sostituito da una vaga emozione soggettiva non concettuale, che richiama da vicino l’«esperienza trascendentale» di Rahner. E ricorda anche quella «esperienza» [n. 21, 22, 25, 39, 78, 79 testo QUI] o quel «sentimento» senza fondamento oggettivo, che sono smentiti dalla Pascendi di San Pio X [nn. 10 – 12, 14, 16, 18, 19, 21, 23, 38, testo QUI]. Qui il realismo è sostituito dal soggettivismo.

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UN CONFRONTO FRA IL DIO DI SAN TOMMASO E IL DIO DI HEGEL

Esaltavit umile

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Il frutto più alto dell’umiltà nell’esercizio dell’intelletto è dato dalla concezione che la mente si fa di Dio, perché, quanto più la mente si rende disponibile ad accogliere la realtà, tanto più la forza dell’intelletto, fecondato dal reale, adeguato al reale e proteso al reale, che è il fine e il bene dell’intelletto, ha la possibilità di attuarsi e realizzare il massimo delle sue possibilità, sorretto anche dalla grazia, fino a cogliere la verità più sublime e raggiungere il sapere più elevato, che riguardano l’essenza e gli attributi di Dio. L’umiltà, come soggezione o adaequatio della mente al reale, obbedienza al reale ed accoglienza del reale, conduce la mente a sapere che essa da sé non è nulla e che tutto ciò che è e che ha, a cominciare dal suo stesso esistere, lo ha da Dio, che l’ha creata. Essa si accorge del fatto che essa ha l’essere, ma non è l’essere. Non è da sé, ma da altro, cioè da Dio. Senza questo Altro, essa sarebbe nulla. Invece la superbia, effetto e lascito del peccato originale, spinge l’io a ritenersi auto-fondato ed autosufficiente nell’essere. Anzi, Fichte arriverà ad interpretare il sum cartesiano come «Io sono l’essere» e «pongo il mio essere». L’io non si chiede: perché esisto? Ci sono e basta. Oppure dà delle risposte del tutto insufficienti, come quella del darwinismo.

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L’umiltà, che si esprime nel realismo, estingue la febbre e il tumore della superbia e conduce il soggetto alla realtà ed alle dimensioni reali della sua esistenza, limitata, debole e peccatrice. Così purificato, il soggetto si trova nelle migliori condizioni per operare il massimo e per essere innalzato dalla grazia, che gli rivela i misteri della divinità. Invece all’io cartesiano non viene in mente di essere stato creato da Dio, ma come fosse un Io assoluto, all’origine del reale e del pensiero, pretende di dimostrare l’esistenza di Dio deducendola da una supposta inesistente idea innata di Dio, dimenticando che, se io posso produrre l’idea di Dio, non per questo posso produrre Dio.

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È interessante allora confrontare quale idea di Dio scaturisce dai due metodi opposti del realismo e dell’idealismo, scegliendo due casi emblematici, come quello di San Tommaso ed Hegel e considerando il concetto di Dio sotto tre angolature: Dio come Essere e Spirito; Dio come Idea assoluta; e Dio come Sapere assoluto. Sia per San Tommaso che per Hegel Dio si pone sul piano dell’essere. Sia per l’uno che per l’altro Dio è l’Io o Soggetto assoluto. Sia per l’uno che per l’altro è Idea assoluta, Scienza assoluta, Spirito assoluto. Sennonché però, mentre per San Tommaso l’essere è distinto dal divenire, per Hegel coincide col divenire [30], il che implica già un’identificazione di Dio col mondo e quindi dell’io umano con l’Io divino. Per San Tommaso, Dio, Essere assoluto, identico a Se stesso, crea il mondo dal nulla. Per Hegel, Dio, sintesi di essere e nulla, diviene mondo negando se stesso e si determina come mondo, il quale, negando se stesso, diviene Dio.

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Mentre per San Tommaso allora l’io umano è distinto dall’Io divino, per cui Dio è un Tu rispetto all’io umano, per Hegel Dio è la sostanza ed essenza ultima dell’io umano, che è solo un «momento» passeggero e contingente dell’Io assoluto. L’io sono del cogito tomista conduce alla scoperta dell’Io Sono divino come il Tu assoluto che mi ha creato. L’io sono del cogito cartesiano mi conduce in Hegel alla coscienza che Io sono assolutamente in senso divino e che i tu che ho davanti a me li pongo io col mio pensiero e per i miei interessi. Mentre per Tommaso Dio è purissimo Spirito [31], semplice [32], identico a se stesso, bontà infinita, immutabile [33], immortale, trascendente, indipendente dal mondo, per Hegel Dio è essenzialmente mutevole, diveniente, contraddittorio, dialettico, mondano, materiale, mescolato al male e mortale.

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Dice infatti Hegel:

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«Il sé» [il cogito cartesiano] «attua la vita dello Spirito assoluto. Questa figura è quel concetto semplice, che peraltro abbandona la sua essenza eterna» [Dio si aliena] «ed è là» [nella concretezza] «o agisce. Esso ha nella purezza del concetto lo scindere o il sorgere, perché la purezza è l’assoluta astrazione o la negatività» [il divenire]; «similmente esso ha l’elemento della sua effettualità» [il mondo] «o dell’essere in lui nello stesso puro sapere, perché il sapere puro è l’immediatezza semplice, la quale è tanto essere che esserci» [il concreto], quanto essenza; l’un momento è il pensiero negativo, l’altro è lo stesso pensiero positivo. Tale esserci è infine e altrettanto l’esser da lui – sia come esserci che come dovere» [il buono] «riflesso in se stesso, ossia l’esser— cattivo» [34].

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Sia nell’uno che nell’altro caso Dio è l’Idea assoluta.

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«L’Idea assoluta — dice Hegel[35], e in ciò Tommaso potrebbe essere d’accodo — è essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità». In tal modo, sia per Tommaso che per Hegel Dio, è Verità assoluta, in quanto, come dice l’Aquinate, «l’Essere divino non solo è conforme al suo intelletto, ma è il suo stesso intelligere»[36], identità di essere e pensiero.

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Sia per San Tommaso che per Hegel l’Idea divina è l’«idea logica» [p.936], il Concetto che Dio ha di Stesso e delle cose. È l’idea che Dio ha di Se stesso e delle cose. È l’Idea razionale della Ragione divina [37].

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«L’Idea divina — dice Hegel [38] — è l’unico oggetto e contenuto della filosofia. Contenendo in sé ogni determinatezza, ed essendo sua essenza di tornare a sé attraverso il suo determinarsi o particolarizzarsi, essa ha diverse configurazioni, e il compito della filosofia è di conoscerla in queste».

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In Hegel l’idea umana è un momento dell’Idea divina; Dio pensa Se stesso nell’uomo come uomo; in San Tommaso l’idea umana è una partecipazione analogica dell’Idea divina e l’uomo pensa se stesso in Dio come Dio.  L’Idea divina hegeliana, però, a differenza di quella tomista, che distingue in Dio l’Idea unica ― ossia l’Idea che Dio ha di Sé o il Logos [Verbum[39] ― dalle molte idee, corrispondenti alle cose create, non trascende le idee delle cose come l’increato trascende il creato, ma come l’universale si concretizza nel particolare, o come l’indeterminato si determina nel determinato, o come la sostanza si determina nel modo d’essere. Per questo, in Hegel l’Idea divina è sillogistica e dialettica, è il metodo del sapere [cf. p. 937], è il

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«movimento del concetto»[p. 937]; «è afferrata nel concetto» [p. 936], il quale «è tutto e il suo movimento è l’attività assoluta universale, … è la forza assolutamente infinita, cui nessun oggetto, per quanto si presenti come esteriore, lontano dalla ragione e da lei indipendente, potrebbe opporre resistenza, esser rispetto ad essa di una natura particolare e rifiutarsi ad esser da lei penetrato» [pp. 937— 938].

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Qui si vede come Hegel dia alla ragione umana un potere che in realtà è del tutto al di sopra delle sue reali possibilità e funzioni, fosse anche perfettamente sana come lo era prima del peccato originale. Figuriamoci nello stato presente, afflitta, indebolita ed offuscata com’è da tanti mali, difetti e cattive inclinazioni, per rimediare ai quali occorre, oltre ad una severa disciplina della ragione, un’intensa vita di grazia. Vediamo come in Hegel il pelagianesimo si congiunge allo gnosticismo.

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Viceversa, in San Tommaso l’Idea divina è l’idea che Dio ha delle cose che crea. Ciò non significa che nella mente divina vi sia una pluralità di idee, come avviene nella mente umana. Con una sola Idea, che è Dio pensato da Sé, Dio concepisce tutte le cose [«Deus Uno intelligit multa» [40]]. Le idee sono molte, in quanto cose pensate da Dio in quanto pensate prima di esistere nella realtà esterna a Dio. E in tal senso esistono più idee nella mente divina [41]; ed è l’Idea che Dio Padre ha di Se stesso, ossia il Logos o Verbo divino, la persona del Figli[42]Nell’uno e nell’altro caso Dio è Scienza assoluta. Per San Tommaso, «dato che l’Essenza divina è la sua stessa Idea» [species intellegiblis], «segue necessariamente che il suo sapere» [intelligere] «sia la sua essenza e il suo essere» [43]Per Hegel il sapere assoluto è la filosofia. Essa è il sapere che Dio ha di Stesso come uomo. Ciò che la filosofia sa di Dio è ciò che Dio sa di Se stesso. Quindi la ragione umana sa ciò che di Sé sa la Ragione divina, perché in fondo, come dice Hegel, la ragione è una sola: essa è divina. Pertanto l’uomo, in quanto ragiona, è Dio, sa ciò che Dio stesso sa. La ragione cartesiana è giunta al culmine delle sue aspirazioni. Da qui lo gnosticismo di Hegel. Dice infatti Hegel che la filosofia

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«è l’Idea che pensa se stessa, la verità che sa» [ossia la verità sussistente, fatta persona, l’«io sono un io pensante» di Cartesio], «la logicità col significato che essa è l’universalità convalidata dal contenuto concreto come dalla sua realtà. La scienza è, per tal guisa, tornata» [dialetticamente] «al suo cominciamento» [il puro essere]; «e la logicità è il suo risultato come spiritualità: dal giudizio presupponente, in cui il concetto era solo in sè» [l’essere astratto] «e il cominciamento, alcunché di immediato, e quindi dall’apparenza, che aveva colà», [il dato empirico] «la spiritualità» [ossia l’io cartesiano] «si è elevata al suo proprio principio» [ossia all’Io assoluto] «come a suo elemento»[44].

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CONCLUSIONE

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L’uomo ha un bisogno innato di grandezza. Tuttavia questo bisogno va incanalato e moderato, per non divenire eccessivo e fonte di tragiche illusioni. Aspirazione ragionevole, non è quella di essere infinito, dettata dalla superbia, ma di contemplare l’Infinito, dettata dall’umiltà. Infatti, tra la finitezza umana e l’infinità divina esiste un dislivello invalicabile. Pretendere di superarlo è folle superbia, è quella che i Greci chiamano hybris.

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Come insegna il Concilio Lateranense IV, «tra il creatore e la creatura non si può notare una somiglianza tale, che non si debba notare una maggiore dissomiglianza» [45]. L’uomo, benché creato ad immagine e somiglianza di Dio, mediante la fede e la grazia, può superare bensì le forze della ragione ed essere ammesso a partecipare alla vita divina, ma solo fino ad un certo punto concessogli da Dio e non oltre.

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Se bastasse la ragione per comprendere perfettamente nel concetto l’essenza divina, non sarebbero state necessarie la divina rivelazione e la fede per aggiungere alla ragione contenuti che essa da sé non riesce a cogliere. E anche con tutto ciò la mente umana, anche nella gloria celeste, resta fondamentalmente al di sotto della comprensione che Dio ha di Se stesso. La ragione da sé può certamente conoscere Dio per analogia e mediante le creature. Ma da sola non può conoscere l’essenza divina per essenza o quidditativamente, come diceva Tommaso de Vio detto il Cardinale Caetano. Può conoscere l’Infinito solo finitamente, non infinitamente, come solo Lui può conoscere Se stesso.

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Esiste, è vero, un’esaltazione irrazionalistica e fideistica della fede, che si pretende costruire sulle rovine della ragione, come se la ragione fosse contro la fede e questa dovesse sostituire la ragione nella conoscenza di Dio. Quello che accade in questi casi, allora, è che la mente non viene effettivamente illuminata dalla Parola di Dio, ma viene illusa da umani ritrovati vanamente spacciati per «scienza assoluta». S. Paolo ci mette in guardia contro questa truffa: «Guardate che nessuno v’inganni con la filosofia ed una vana fallacia, secondo la tradizione degli uomini e secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» [Col 2,8].

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Varazze, 24 luglio 2018.

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NOTE

[1] Dialogo, c. 154.

[2] Ibid., c. 154.

[3] Ibid., c. 9.

[4] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p. 491.

[5] In XII libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, a cura di R. Spiazzi, l.III, lect.I, n. 343, Edizioni Marietti, Torino 1964, p. 97.

[6] cf. E. Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969, p. 55.

[7] Questa è la forma cartesiana.

[8] Questa è la forma hegeliana.

[9] cf. la recente Lettera Apostlica Gaudete et exultate, di Papa Francesco, n. 36.

[10] La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia 1971, pagg. 215— 220.

[11] III, 1, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1981, pagg. 410— 418.

[12] Parte II, n. 2.

[13] cf. J.Maritain, Le songe de Descartes, Buchet— Chastel,Paris 1932, p. 17.

[14] cf. E. Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin, op.cit., p. 321. Gilson sbaglia, tuttavia, nell’attribuire la stessa cosa a Sant’Agostino, che al contrario ammette che la cosa esterna influisce nei sensi e quindi nell’anima: «Omnis res, quamcumque cognoscimus, congenerat in nobis notitiam sui» [De Trin., IX, 12, 18]. «Nemo de illo corpore utrum sit intelligere potest, nisi cui sensus quidquam de illo nuntiarit» [De Trin., XI, 5, 9].

[15] La dottrina della scienza, Editori Laterza, Bari 1971, p. 104.

[16] Lezioni sulla filosofia della storia, III,1, Editrice La Nuova Italia, Firenze 1981, p. 387.

[17] Lezioni sulla filosofia della religione, Zanichelli Editore, Bologna 1974, vol.II, p. 366. G. Cavalcoli, LA DIALETTICA NELLA CRISTOLOGIA DI HEGEL, Sacra Doctrina, 6, 1997, pagg. 87— 140.

[18] Filosofia della Rivelazione, Editrice Bompani, Milano 2002, p. 1413.

[19] Lezioni sulla storia della filosofia, 3,I, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1985, p. 27.

[20] cf. i miei due studi: PENSARE IL PENSIERO. CONSIDERAZIONI SULLA DIGNITÀ, LE FUNZIONI E I LIMITI DEL PENSIERO, I, Divinitas, 2001, 3, pp. 279— 300 PENSARE IL PENSIERO. CONSIDERAZIONI SULLA DIGNITÀ, LE FUNZIONI E I LIMITI DEL PENSIERO, II, Divinitas, 1, 2001, pagg. 43— 72.

[21] Summa Theologiae, I, q 14, a. 4.

[22] Ibid. Questa tesi dell’Aquinate è stata dogmatizzta dal Concilio di Firenze del 1442: «in Deo omnia sunt unum» [Denz. 1330].

[23] Uditori della parola, Edizioni Borla, Roma 1977, p. 66.

[24] Ibid.

[25] Ibid., p. 67.

[26] Ibid., p. 68.

[27] J.V. de Groot, O.P, Summa apologetica de Ecclesia Catholica ad mentem Sanctae Thomae Aquinatis, Ratisbonae 1906; R.— M. Schultes, O.P, De Ecclesia caholica. Praelectiones apologeticae, Lethielleux, Paris 1931; R. Garrigou— Lagrange, OP, De Revelatione per Ecclesiam catholicam proposita, Edizioni Ferrari, Roma 1932; A. Beni – S. Cipriani, La vera Chiesa. Le font della Rivelazione, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1953.

[28] cf. G. Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante, Fratelli Bocca Editori, Milano 1946, pagg. 192— 194; 201; 296; 298 ss.

[29] N. Hartmann, La filosofia dell’idealismo tedesco, Mursia Editore, Milano 1983.

[30] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p. 93; Scienza della logica, Edizioni Laterza, Bari 1984, p.71.

[31] Summa Theologiae, I, q. 36, a. 1, ad 1m.

[32] Ibid., I, q.III.

[33] Ibid., q.IX.

[34] Fenomenologia dello Spirito, Edizioni Nuova Italia, Firenze 1988, vol. II, pagg. 293— 294.

[35] Scienza della Logica, Op. Cit., p.935.

[36] Summa Theologiae, I, q.16, a. 5.

[37] Ibid., I— II, q. 93, a. 1.

[38] Scienza della logica, op. cit., p. 935.

[39] Summa Theologiae, I, q.34.

[40] Ibid., q.15, a.3, ad 2m.

[41] Ibid., I, q.15, a.2.

[42] Ibid., q.34, aa.1— 2.

[43] Ibid., q.14, a.4.

[44] Enciclopedia, op.cit., pagg.527— 528.

[45] Denz. 806.

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Giovanni

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CHE COSA È LA TEOLOGIA SCOLASTICA E CHI SONO GLI STOLTI CHE LA DISPREZZANO?

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Ebbene, i nemici della teologia scolastica sono quei discoli divenuti adulti, che oggi insegnano in molte Facoltà teologiche cattoliche e protestanti, e sono tutti quei presuntuosi, che, dalle loro ristrette vedute o nei loro sogni rivoluzionari, mostrano altezzosamente disprezzo, ora con linguaggio grossolano, ora con termini bizantini, per la teologia scolastica, considerandola una sequela aggrovigliata, acritica e piena di pregiudizi e di leggende, di teorie astratte e vuote, incomprensibili, vane, inutilmente sottili, superate, sterilmente polemiche, senza sviluppo, senza senso storico, estranee agli interessi e al modo di esprimersi degli uomini del proprio tempo.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P..

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È un pregiudizio frequente che la teologia scolastica sia un periodo della storia della teologia cattolica ormai chiuso, eventualmente col Concilio Vaticano II, che avrebbe dato il via a una nuova teologia chiamata con vari nomi: «trascendentale», «narrativa», «kerygmatica», «esistenziale» ed altri. Altri parlano genericamente di teologia “moderna”, che utilizza la cosiddetta “filosofia moderna” fondata da Cartesio. Sono i modernisti. Essi già ai tempi di San Pio X sostenevano questa tesi, giudicando la teologia scolastica come «ridicolo sistema tramontato già da gran tempo» [cf. QUI]. Pio XII, nell’enciclica Humani Generis, disapprova il «disprezzo della teologia scolastica», che porta a «trascurare e respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni, che da persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede» [cf. QUI].

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L’espressione “teologia scolastica”, dunque, non è una semplice categoria storica, ma una categoria perenne dello spirito, una categoria teoretica o epistemologica, che significa semplicemente quello che dice la parola: quella teologia che si insegna e si apprende nella scuola, dove con questo termine scuola s’intende esattamente quello che comunemente s’intende: istituzione pubblica o privata educativo-formativa, finalizzata sistematicamente e metodicamente alla comunicazione e all’apprendimento del sapere o della scienza. L’istruttore è il maestro o docente e l’apprendista è il discepolo, scolaro o studente. Precisiamo che come è stolto il disprezzo per la teologia scolastica, altrettanto stolto è il disprezzo per la teologia neoscolastica, espressione escogitata da teologi cattolici del secolo scorso, legati all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, i quali fondarono la Rivista di filosofia neoscolastica [cf. QUI]in risposta alla sollecitazione del grande Papa Leone XIII, che, con l’enciclica Aeterni Patris [cf. QUIdel 1879, si fece promotore della rinascita del tomismo [1]. Si potrà discutere sulla scelta degli Autori da loro preferiti, ma non c’è dubbio che l’espressione in se stessa è più che legittima, a significare la capacità di sviluppo, di progresso e di rinnovamento proprio della filosofia e della teologia scolastiche.

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La teologia scolastica è dunque quella che si può e deve a buon diritto chiamare anche teologia “scientifica”, contro una cosiddetta “teologia scientifica”, che pretenderebbe di utilizzare il concetto positivistico di scienza al posto della scienza metafisica. Certo, può far problema pensare che la teologia possa essere una scienza, perché ciò implica evidenza di princìpi, univocità di concetti, deduzione e dimostrazione razionale [2]Occorre pertanto precisare che la teologia è scienza non in quanto prende inizio dalla ragione o da evidenze razionali, perché i suoi princìpi e assiomi di partenza sono le verità di fede; e tuttavia è scienza in quanto procede sillogisticamente o deduttivamente usando argomenti di convenienza, per cui la certezza della conclusione è di tipo razionale, ma esplicita un dato di fede, per cui, se la conclusione viene negata, ne segue la negazione di un dogma. Per esempio, che nell’inferno sia presente la divina misericordia non risulta dalle parole di Cristo, ma è una conclusione che si può trarre con certezza, che però non è certezza di fede, benché quanto dice Cristo sui dannati sia verità di fede.

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La coltivazione teologica dell’intelletto, però, sia in Aristotele che nella Bibbia, comporta due gradi, il primo subordinato al secondo: il primo è la scienza [gr. ἐπιστήμη ebraico daàt מדע]. In questo grado l’intelletto [gr. νοῦς, eb. binà רבו], partendo dai princìpi primi immediatamente intuìti del senso comune, mette in moto la ragione [gr. λόγος, eb. dabàr סיבה], la quale, mediante il sillogismo, giunge a conclusione certa; da questo grado razionale l’intelletto poi sale al secondo, quello della sapienza [gr. σοφία, eb. hokmàh אינטלקט], nel quale l’intelletto non solo sa, ma gusta quello che sa e ne gode. La scienza coglie il vero. La sapienza coglie il vero come buono e bello [cf. Platone QUI, QUI e QUI]. La teologia scolastica si ferma al primo grado, ma pone le condizioni per salire al secondo, che è quello proprio della teologia mistica.

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Purtroppo, però, come sappiamo bene, l’idea di scuola, disciplina e studio dà sempre fastidio a qualcuno, soprattutto ai pigri, ai ciarlatani, ai presuntuosi, agli invidiosi e ai falsi novatori. Chi, quando faceva le scuole elementari, non ha visto, sulla parete dell’edificio scolastico, la scritta «Abbasso la scuola!»? Ebbene, i nemici della teologia scolastica sono quei discoli divenuti adulti, che oggi insegnano in molte Facoltà teologiche cattoliche e protestanti, e sono tutti quei presuntuosi, che, dalle loro ristrette vedute o nei loro sogni rivoluzionari, mostrano altezzosamente disprezzo, ora con linguaggio grossolano, ora con termini bizantini, per la teologia scolastica, considerandola una sequela aggrovigliata, acritica e piena di pregiudizi e di leggende, di teorie astratte e vuote, incomprensibili, vane, inutilmente sottili, superate, sterilmente polemiche, senza sviluppo, senza senso storico, estranee agli interessi e al modo di esprimersi degli uomini del proprio tempo.

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Ora,  “teologia scolastica” non è semplicemente, come vorrebbero farci credere costoro, una stagione storica della teologia, sorta nel XII secolo, sclerotizzatasi, a loro dire, nei secoli XVI-XVII, mummificatasi nel XIX secolo e definitivamente dissoltasi, come sostiene Rahner, col Concilio Vaticano II, per essere sostituita dalla teologia di Rahner, come pensano oggi molti. Per questo non ha senso contrapporre la teologia scolastica, che alcuni chiamano «classica», a una supposta teologia «moderna», che l’avrebbe soppiantata e che sarebbe adatta alla modernità. Esiste piuttosto una teologia scolastica antica e una teologia scolastica moderna. È evidente che oggi il teologo postconciliare è tenuto a praticare la scolastica moderna ed anzi a farla avanzare, anche se in quella antica è sempre possibile rivisitare, sviluppare o riprendere temi o spunti, che erano rimasti in uno stato di insufficiente elaborazione o svolgimento o soltanto di abbozzo.

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Il termine classis, da cui «teologia classica», comporta l’idea della distinzione chiara, precisa e ordinata: la classificazione, virtù importante della mentalità romana. La Grecia ha kategoria, che, a livello della predicazione, implica la stessa cosa, soprattutto la concettualizzazione. Il corrispondente nella Sacra Scrittura è dabàr סיבה, la parola, il λόγος, come atto chiarificatore della mente. Così il testo classico è assimilabile al testo sacro e quindi al dogma. Il primo ha carattere profano, razionale, filosofico; il secondo, religioso e teologico. L’uno e l’altro è inviolabile, inderogabile ed intangibile; dev’essere accuratamente ed esattamente compreso ed insegnato, gelosamente custodito e conservato nella sua integrità. È verità certa, fondante, definitiva, regolatrice ed assoluta, è sorgente perenne di sapienza per tutte le generazioni. Può essere commentato ed approfondito, ma non cambiato o migliorato. Interpretato, ma non reinterpretato, perché non muta di significato nel tempo, ma il suo senso è sempre quello.

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Quindi, tirare fuori il pretesto della storia e del “progresso”, come fanno i modernisti, per cambiare il significato alle verità perenni della ragione e della fede, è una truffa degna del massimo disprezzo. I modernisti, profanatori del sacro, confondono infatti il dovere sacro di conservare la sacra tradizione e il testo sacro con il conservatorismo gretto e miope di chi si rifiuta di imparare e di avanzare sul cammino della verità, aperti al soffio dello Spirito Santo, confondendo l’immutabilità con l’immobilismo e la saldezza con la rigidità della morte. E non ci vengano, costoro, a farsi difensori di SanTommaso e della teologia scolastica!.

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CARATTERI DELLA TEOLOGIA SCOLASTICA

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Riprendiamo il discorso. Così dunque come esiste una cultura classica, esiste certamente una teologia classica, i cui valori, avendo un carattere perenne ed assoluto, devono essere conservati e sviluppati. È necessario pertanto che il teologo, saggio estimatore della sana modernità, non accecato o sviato dai paraocchi della miopia modernista, non tratti con sussiego e presunzione il ricchissimo patrimonio, inestimabile ed immarcescibile, della classicità, se non vuol tornare alla barbarie e al nichilismo dell’antichità.

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La teologia scolastica, come dice la parola, non è altro che quella teologia che si apprende e viene insegnata nella scuola, intesa appunto come istituzione educativa, ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa, finalizzata all’istruzione ed alla comunicazione o trasmissione metodica, sistematica e socialmente o pubblicamente organizzata del sapere. Nel caso della teologia scolastica, il sapere che viene appreso e insegnato è la teologia. Si capisce allora come, alla luce di questa definizione semplice e logica, il parlare di un’estinzione della teologia scolastica ad opera del Concilio, che al contrario ne raccomanda caldamente la prosecuzione e il progresso sotto la guida di San Tommaso d’Aquino, è una grave stoltezza.

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Certamente, la teologia scolastica o della scuola non è l’unica forma di teologia. Si può diventare teologi e grandi teologi, addirittura Dottori della Chiesa, senza aver frequentato una scuola ufficiale o accademica di teologia, senza aver ottenuto un titolo accademico e tanto meno senza aver insegnato teologia in una scuola o facoltà della Chiesa. L’importante, certo, è lo studio, che può essere sotto la guida di un maestro, ma l’apprendimento può avvenire anche in modo autodidatta, per mezzo o della ricerca o della lettura personale o della meditazione. Abbiamo allora la lectio divina della tradizione monastica. Oppure la conoscenza di Dio può avvenire per esperienza interiore nella carità, come dono dello Spirito Santo, e allora abbiamo la teologia mistica. Questa teologia può essere praticata da chiunque, uomo o donna, giovane o adulto, dotto o indotto, laico o religioso. In ogni caso il cattolico ha il dovere di far teologia sottomettendosi all’interpretazione che la Chiesa dà della divina Rivelazione.

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La teologia scolastica, invece, nella conoscenza del dato rivelato, utilizza le risorse della ragione umana, come la logica, l’esegesi biblica, le scienze bibliche, la patrologia, la dottrina della Chiesa, l’agiografia, l’antropologia, l’etica naturale, la storia, le scienze naturali, la metafisica e la teologia naturale, utilizzando un metodo induttivo-deduttivo, quindi scientifico. La teologia scolastica è scienza di conclusioni razionali tratte dal dato rivelato [3]. La teologia scolastica assicura la formazione teologica seminariale del sacerdote, di per sé non obbligato a conseguire titoli superiori, salvo che intraprenda la carriera del teologo docente nelle facoltà ecclesiastiche.

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La teologia scolastica si divide in teologia naturale e teologia rivelata o soprannaturale. La prima è fondata sulla sola ragione e fa parte della filosofia; la seconda si basa sul dogma. Quest’ultima comprende due discipline fondamentali: la dogmatica e la morale. La prima considera le verità di fede speculative; la seconda, quelle pratiche. La propedeutica alla teologia rivelata costituisce la teologia fondamentale o apologetica, la quale fa da introduzione alla teologia rivelata, dimostrando i motivi di credibilità della Rivelazione, le ragioni del credere e risponde alle obiezioni. La teologia scolastica, inoltre, è di aiuto al Magistero nella preparazione dei suoi documenti, nel proporgli temi da trattare o problemi da risolvere, nell’interpretarne e difenderne gli insegnamenti, nella rispettosa critica di direttive pastorali imprudenti o inopportune, e nel segnalargli le eresie pericolose in circolazione, suggerendo come confutarle.

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LA DEFORMAZIONE DELLA TEOLOGIA SCOLASTICA AD OPERA DI LUTERO

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Lutero, invece, benché fosse dottore in teologia, con la sua ribellione alla Chiesa Romana, rinnegò la sua formazione scolastica, e pretese di basare la teologia esclusivamente sulla Sacra Scrittura e sulle scienze bibliche, non nell’interpretazione della Chiesa, ma sul suo giudizio personale. Egli pensò che la teologia scolastica, soggetta alla dottrina della Chiesa, che aveva appreso, non gli fosse servita per approfondire la verità del dato rivelato, ma che al contrario lo ingannasse circa la verità del Vangelo, in quanto mediata sia dalla ragione, che egli credeva totalmente corrotta dal peccato, sia dal Magistero della Chiesa, che egli considerava fallibile. Ovviamente Lutero, nonostante la sua polemica contro la ragione, onde evitare di cadere nell’irrazionalità, si trova ben obbligato ad usare comunque la ragione; tuttavia, mancando di una razionalità purificata e disciplinata nella logica, finisce per fraintendere quella Parola di Dio, che egli crede, liberatosi dalla filosofia scolastica, di contattare direttamente, senza farsi aiutare da essa.

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Abbiamo così il paradosso dell’immensa produzione della teologa protestante, organizzata a livello universitario ed accademico che, da Lutero ad oggi, da una parte affetta disprezzo per la teologia cattolica scolastica approvata dalla Chiesa, per esempio San Tommaso con la sua scuola, mentre dall’altra non ha fatto altro che costruire un’altra scolastica, peraltro senza la purezza dottrinale e la piena fedeltà al Vangelo proprie della scolastica cattolica, nonostante l’incalcolabile quantità di energie intellettuali profuse e di studi indefessi nel corso dei secoli. È un grave fraintendimento dell’insegnamento del Concilio il credere che esso promuova un progresso e un rinnovamento della teologia con l’ordinare l’abbandono della teologia scolastica. Sarebbe una disposizione insensata, non un progresso, ma un tornare indietro nella storia della teologia ai tempi della teologia monastica del sec. XI, o addirittura alla teologia omiletica e biblica dei Padri, prima che Abelardo e San Anselmo fondassero e dessero il via alla teologia dialettica e scientifica, che è appunto la teologia scolastica.

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LE ORIGINI DELLA TEOLOGIA SCOLASTICA

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La teologia scolastica è sorta a seguito della rinascita intellettuale del sec. XII e XIII, soprattutto per impulso dei Domenicani, presto seguìti dai Francescani, con l’approvazione e l’appoggio del Papato. Da qui la fondazione delle Facoltà teologiche di Parigi, di Oxford e, nel XIV secolo, di Bologna, dopo la fondazione dell’Università di Bologna nel XI secolo. Nel corso dei secoli successivi fino ad oggi il Papato ha sempre avuto cura della qualità, del buon andamento e dello sviluppo della teologia scolastica, ossia delle scuole e delle Facoltà della Chiesa, in modo particolare che fossero conformi al dogma e potessero quindi usare correttamente della ragione, della filosofia e delle scienze per l’introduzione e la giustificazione del dato rivelato e per l’interpretazione, l’esplicitazione, la spiegazione, la difesa, l’approfondimento e la diffusione della Parola di Dio.

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Così, ciò che, seguendo questa linea educativa ininterrotta, il Concilio Vaticano II e il Magistero papale promuovono fino ai nostri giorni [4] riguardo alla teologia, non è affatto, contrariamente a quanto vorrebbero i modernisti di ieri e di oggi, l’abbandono dei metodi collaudati, degli enunciati fondamentali e dei princìpi perenni della filosofia scolastica [5], quanto invece l’allargamento e l’affinamento della sua sensibilità, dei suoi interessi e dei suoi orizzonti, la prosecuzione delle ricerche, il consolidamento e l’approfondimento dei dati acquisiti, il recupero dei valori dimenticati, la correzione di vedute superate, la vigilanza contro gli errori insorgenti, la deduzione di nuove conclusioni scientifiche, l’apertura di nuove piste di indagine, la formulazione di nuove ipotesi esplicative, una maggiore attenzione ai valori ed ai difetti della modernità, una maggiore collaborazione reciproca fra teologi, una maggiore libertà di pensiero, sempre nell’obbedienza al Magistero, nella fuga da ogni esibizionismo ed individualismo, il miglioramento dell’apertura ecumenica, evangelizzatrice e missionaria, nell’opera di inculturazione, nel dialogo interreligioso, interdisciplinare ed interculturale, l’uso di un linguaggio maggiormente comprensibile all’uomo d’oggi.

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La teologia scolastica, pur nella comune accettazione della dottrina cattolica, abbraccia una pluralità di correnti e di scuole, che rispecchiano diversi livelli di perfezione teoretica e una varietà di impostazioni, di orientamenti, di accentuazioni e di preferenze. Secondo il criterio della fondatezza, del rigore argomentativo e logico, nonché di perfezione speculativa, la Chiesa dà la palma a San Tommaso, senza escludere gli altri Dottori. Badando al fatto della diversità, gli orientamenti principali sono l’affettivismo bonaventuriano, che si distingue dall’intellettualismo tomista e questi dal volontarismo univocista scotista, distinto a sua volta dal volontarismo essenzialista suareziano. Ma all’interno della stessa scuola tomista non mancano le sfumature come tra il Capreolo e il Gaetano, dei quali il primo pone la sussistenza della persona nella linea dell’essere, mentre il secondo la pone nella linea dell’essenza [6].

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LA DECANDENZA SCOLASTICA MEDIOVALE

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Nelle scuole di teologia patrocinate dalla Chiesa non sono mancate, nei secoli, pericolose deviazioni, le quali, se per un certo tempo hanno potuto essere tenute a bada dalla vigilanza della Chiesa, in seguito, per il sorgere di Università e istituti accademici laici indipendenti o addirittura ostili alla Chiesa cattolica, per esempio protestanti, per la loro incompatibilità col dogma cattolico, hanno dato origine a lungo andare a filosofie e teologie anticristiane. Sono, questi, per esempio, i casi famosi di Abelardo nel XII secolo e di Guglielmo di Ockham nel XIV secolo.

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Meister Eckhart era dottore in teologia, ma non esercitò la docenza, bensì si limitò alla predicazione ed agli scritti. Fu uomo pio e addirittura un mistico. Tuttavia ebbe alcune espressioni che sapevano di cristologia panteistica [«io sono Cristo»], che gli procurarono una condanna dopo morte nel 1329 da parte di Giovanni XXII, condanna, però, alla quale egli umilmente promise di sottomettersi, nel caso essa fosse avvenuta, e per questo atto di umiltà egli ricevette le lodi del Papa, che pur aveva disapprovato alcune sue tesi, e non fece, come alcuni vanitosi dei nostri giorni, che si fanno vanto di contestare il Magistero della Chiesa e riescono ad evitare la condanna o per le vergognose protezioni di cui godono o per la loro astuzia o per la scarsa vigilanza dei pastori.

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Quanto ad Abelardo, il quale risolveva la morale nell’aspetto soggettivo-inenzione respingendo quello oggettivo-contenutistico, fu condannato, su segnalazione di San Bernardo, dal Concilio di Sens del 1141. Invece Ockham, più astuto, riuscì a riscuotere credito clandestinamente all’interno della Chiesa, benché in costante contrasto con lei, per cui fu condannato nel 1348. Ma ciò non impedì ai suoi discepoli, per alcuni secoli, come per esempio Gabriel Biel, nel XV secolo, di ottenere uno spazio all’interno della teologia ecclesiale, tanto che Lutero, come è noto, si vantò di essere discepolo di Ockham, mentre i Domenicani, che non si lasciavano abbindolare facilmente [7], soprattutto col Card. Gaetano nel XVI secolo, combatterono duramente suoi errori. Ma l’occamismo, che dette origine all’empirismo inglese, forte della raccomandazione luterana, è sopravvissuto fino ai nostri giorni, oltre che naturalmente nella teologia luterana, essendo sfociato nell’attuale modernismo, soprattutto nelle correnti esistenzialistica, storicista, fenomenologia ed empirista.

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Il concretismo occamista conduce anche al materialismo. Lo stesso idealismo trascendentale, per quanto lontano dall’occamismo per il suo spiritualismo razionalista, ha in fondo un’anima nominalistica, evidente in Kant, nel momento in cui per lui l’astrazione non serve a cogliere l’essenza delle cose e la realtà universale dell’ente, partendo dall’esperienza, ma solo a dedurre a priori un’idea da un’altra. La dottrina kantiana del fenomeno ricorda molto l’intuizione occamista del concreto. Facciamo un elenco degli errori di Guglielmo di Ockham, germi patogeni del pensiero dei secoli seguenti fino ad oggi.

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  1. Oggetto della metafisica non è l’ente universale, ma quello singolare concreto, immediatamente esperito.
  2. L’operazione astrattiva allontana dal concreto e quindi dalla realtà.
  3. Con l’astrazione non si coglie un’essenza reale universale, ma solo una vaga immagine generale, che si designa con un nome [“nominalismo”], che raccoglie e designa una collezione di individui simili fra di loro.
  4. Dato che l’universale non ha realtà oggettiva, ma è solo un nome, non esistono necessità logiche fondate su di un’essenza oggettiva universale, ma solo fatti empirici mutevoli e contingenti, collegati tra di loro per associazione di idee. Per questo non si può dare una dimostrazione razionale certa, inconfutabile o inoppugnabile, ma solo conclusioni probabili e sempre rivedibili.
  5. Il vero non è tale perché l’intelletto si adegua al reale, ma perché la volontà vuole che sia vero.
  6. Quindi il bene non è ricavato dal vero, ma è deciso dalla volontà.
  7. Dio non vuole qualcosa perchè è bene, ma qualcosa è bene perchè Dio lo vuole.
  8. Dunque la legge morale non si fonda su di una natura umana oggettiva, universale e astratta, ma solo sulla natura concreta: la natura umana è quella data e singola natura umana e la somma degli individui. La legge morale, quindi, non dipende dalla verità dell’uomo, ma solo dalla volontà di Dio, che, se volesse, potrebbe decretare come bene l’omicidio o l’adulterio.
  9. Così per me, se voglio imitare la libertà divina, non esistono valori non negoziabili, ma li accetto solo se mi conviene.

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LA FILOSOFIA LAICA CONTRO LA TEOLOGIA SCOLASTICA

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La teologia scolastica, come abbiamo visto, sorse per iniziativa della Chiesa, in particolare del Concilio Lateranense IV del 1215, che ordinò ai vescovi di farsi aiutare da buoni teologi per l’istruzione e la formazione del clero. Era ovvio che i docenti dovessero essere sacerdoti, religiosi o secolari. Fu questa la grande chance per la nascita dell’Ordine Domenicano. Infatti San Domenico si appoggiò su questo canone del Concilio per dare il via al suo Ordine di Predicatori, mandando i suoi frati ad addottorarsi nei principali centri teologici di allora, Parigi, Bologna ed Oxford, e perché formassero buoni sacerdoti e vescovi da mettere a disposizione del Papa perché li inviasse a predicare il Vangelo in tutta Europa.

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Nel Medioevo, come è noto, la cultura filosofica e teologica si svolgeva sotto la presidenza e la protezione della Chiesa, ed era praticata da sacerdoti e religiosi, perché era ordinata alla formazione culturale dei sacerdoti e dei vescovi. La filosofia era esclusivamente al servizio della teologia e quindi della fede. Ma già nel Medioevo, soprattutto dietro lo stimolo dei Domenicani, valorizzatori, con SanTommaso d’Aquino, San Alberto Magno e Santa Caterina da Siena, della funzione dei laici, dei valori umani e civili, della scienza, delle arti e della razionalità, cominciarono a farsi strada, nel campo della filosofia e della teologia, anche i laici. Esempio fra tutti, benché allora molto raro, fu Dante Alighieri.

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Ma l’exploit della cultura laica, che tendeva a sottrarsi alla supervisione della Chiesa, dopo le prime avvisaglie con la Scuola Palatina di Carlo Magno nel IX secolo e Scoto Eriugena, e la Corte di Federico II di Sicilia nel XIII secolo, fu l’Umanesimo italiano del XV secolo e ancor più il Rinascimento, che giunse ad essere un vero e proprio ritorno di paganesimo, con la sua albagia, la sua carnalità, la sua dissolutezza e le sue superstizioni.

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L’Umanesimo italiano del ’400 ebbe, per impulso di Lorenzo de’Medici, quindi al di fuori delle istituzioni accademiche ecclesiastiche, la sua anima teologica nell’Accademia Platonica fondata da Marsilio Ficino, fattosi prete a 50 anni, ma già affermato nel campo della teologia e della mistica di tendenza ermetica e platonica. Nell’ambiente fiorentino ecco dunque fiorire il pensiero politico volpino di Machiavelli e l’umanesimo paganeggiante di Giovanni Pico della Mirandola, inutilmente contrastato dal Savonarola, vero teologo scolastico, benché estraneo all’istituzione accademica della Chiesa, ed anzi perseguitato da Papa Alessandro VI, smanioso di dominare sull’appetibile Firenze attraverso i Medici.

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Col sorgere del Rinascimento, il Papato perde progressivamente sia il prestigio teologico sia quello morale sulla cristianità europea, per cui ecco il moltiplicarsi di filosofi e teologi laici, che sempre più si mettono in urto con la teologia della Chiesa, ossia la teologia scolastica, come ad esempio nel secolo XVI, il sensista materialista Bernardino Telesio e Pietro Pomponazzi dell’Università di Padova, il quale negava l’immortalità dell’anima con la pretesa di rifarsi ad Aristotele. In questo clima, a completare la desolazione dei tempi, in opposizione al paganesimo rinascimentale, ma anche purtroppo alla teologia scolastica, facendo di tutte le erbe un fascio, come è noto, ci mancava che sorgesse la riforma luterana, ulteriore colpo alla teologia scolastica, benché questa volta si trattasse, con Lutero, di un teologo formato nella teologia scolastica. Ma ecco che Lutero, dopo un inizio che parve essere sincero e promettente, fece chiaramente comprendere alla Chiesa che sotto la copertura di un’apparente fede fervorosa e fiduciosa in Cristo misericordioso, continuava ad ardere la stessa fiamma impura dell’orgoglioso ed egocentrico io rinascimentale.

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Il Concilio di Trento ripristina la teologia scolastica gravemente danneggiata e deplorevolmente calunniata da Lutero, ed avvia, con una rinnovata raccomandazione della dottrina dell’Aquinate, una nuova vigorosa e feconda stagione della teologia scolastica, che ha un suo importante esponente in Francesco Suarez, il cui sistema, come è noto, cerca di accostare Tommaso, Scoto ed Ockham. Questo sincretismo prepara l’avvento di Cartesio, il quale, come è noto, fu allievo di Gesuiti.

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CARTESIO NEMICO DELLA TEOLOGIA SCOLASTICA

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Ma con Cartesio, nel sec. XVII, la filosofia dei laici diventa ancora più arrogante e, avanzando la stolta anche se fascinosa pretesa di aver trovato il primo incontrovertibile principio della certezza e della verità non nell’adesione o adaequatio dell’intelletto all’ente sensibile conosciuto per mezzo dei sensi — la tomistica ed aristotelica quidditas rei materialis —, ma in una immediata ed originaria — in realtà inesistente — coscienza di pensare. Tale coscienza non era quindi ricavata da una precedente esperienza delle cose sensibili, ma da quella autocoscienza [«cogito»], che Cartesio vorrebbe identificare con la coscienza di esistere («sum»), con la conseguenza che il cogito viene ad identificarsi col sum [Hegel] o il sum viene «posto» (setzt) dal cogito [Fichte].

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È chiaro che questa concezione del principio del sapere, che implica una concezione idealistica del principio dell’essere, è il totale sovvertimento della filosofia e della teologia scolastiche; non solo, ma è anche il sovvertimento delle basi della ragione e della fede cristiana. Il che è ancora più grave, nonostante le assicurazioni di Cartesio in contrario. Benché dunque si parli di una scuola cartesiana e si siano fatti tentativi — per esempio Malebranche e Leibnitz, fino ad Hegel, e Gioberti, gli ontologisti dell’800, Bontadini e i modernisti — di costruire una teologia sulla base del cogito, questi tentativi sono falliti o illusori, e per questo la Chiesa, mentre da una parte ha messo all’Indice le opere di Cartesio nel 1663, da allora non ha fatto che raccomandare, fino al Concilio Vaticano II ed oltre, una teologia scolastica basata sulla visione aristotelico-tomista.

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Per questo, è estremamente deplorevole che oggi come oggi l’influsso cartesiano-idealista, per opera dei modernisti, senza significativi interventi dell’autorità ecclesiastica, sia penetrato nelle stesse istituzioni accademiche della Chiesa, con la conseguenza di formare sacerdoti, vescovi e teologi sedicenti «progressisti», senza carattere e senza personalità, come canne sbattute dal vento, pavidi ed opportunisti, oppure ambiziosi e vanagloriosi, proni a servire e a cercare consensi dal mondo. Il cartesianismo è così alle origini dell’idealismo trascendentale tedesco del XIX secolo, tuttora vivo in quanto questo idealismo è congiuntamente uno sviluppo del luteranesimo. Ma non si può considerare vera teologia scolastica, ossia scientifica, perché non ha fondamento né nella ragione né nella fede, ma è quella che Antonio Livi chiama giustamente una «equivoca filosofia religiosa»[8].

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Ma Cartesio è anche alle origini dell’illuminismo e della dottrina massonica, oggi pure potente nel mondo. È anche all’origine della fenomenologia husserliana. Heidegger deriva da Husserl. Severino è un idealista eternalista. Quanto all’occamismo, esso è ancora vivo nell’empirismo inglese e nell’esistenzialismo. Il marxismo è sorto da un’opposizione ad Hegel. L’idealismo a sua volta è stato ed è l’ispiratore del modernismo, del quale il Concilio ha saputo cogliere le istanze positive, eliminando il veleno, sicché la teologia scolastica oggi può valersi di queste istanze purificate dal Concilio.

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SE VOGLIAMO CUSTODIRE IL DOGMA, DOBBIAMO CONTINUARE E MIGLIORARE LA TEOLOGIA SCOLASTICA

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Oggi, nelle stesse istituzioni educative, scolastiche ed accademiche della Chiesa, non esiste quasi più da nessuna parte l’intento di fare filosofia scolastica in continuità, sia pur progredita, con quella dei secoli passati, e spesso si è perduto o si disprezza il concetto stesso di teologia scolastica, così come lo abbiamo definito in conformità con il Magistero della Chiesa. Si crede, con Rahner, che la teologia scolastica o «neoscolastica», come la chiamano, sia finita col Concilio Vaticano II: cosa che in realtà è assolutamente falsa, giacché, come è noto al di fuori di chi non vuol sapere, proprio questo grande Concilio è quello che, diversamente da tutti gli altri, ha raccomandato San Tommaso, Principe degli Scolastici [9].

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E c’è da notare peraltro che il discepolato tomista non richiede sempre un’assoluta uniformità di pensiero, ma dà spazio ad una certa diversità di opinioni. Per esempio, il concetto di sussistenza della persona può essere avvicinato o all’essenza o all’esistenza. Nel primo caso appare più chiaro l’elemento dell’immutabilità dell’essenza e quindi dell’immutabilità della legge morale; nel secondo caso, invece, appare più chiara la concretezza e la mutabilità esistenziali di ogni singola persona, per cui è facilitata la giusta applicazione della legge morale nei casi concreti.

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A partire dall’immediato post-concilio hanno così cominciato ad affermarsi, nelle scuole della Chiesa, delle forme e dei metodi di teologia, i quali, benché comunque obbligati ad organizzare giuridicamente e tecnicamente le scuole, si sono di fatto deliberatamente rifiutate di porsi in continuità, sia pur progressiva e innovatrice, con la precedente teologia scolastica, col triste risultato di avviare cattive scuole, di carattere modernista, semenzai di eresie, per l’assenza o la falsificazione dei valori, dei princìpi e dei metodi antichi di secoli, sicuri e comprovati, della precedente teologia scolastica. In questi cinquant’anni dal Concilio vi sono stati vari tentativi di rinnovare, correggere, ammodernare e migliorare l’insegnamento, la didattica e i contenuti della teologia negli istituti della Chiesa, ma purtroppo si è in gran parte avviato e prodotto un falso rinnovamento, che in realtà è decadenza e imbarbarimento di tipo modernistico, per lo più influenzato dal protestantesimo e dall’idealismo tedesco.

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Un segno evidente di questo grave degrado culturale, è lo spregio quasi universale nel quale è tenuta la metafisica, soprattutto nella sua impostazione realistica, qual è quella di San Tommaso, che è proprio quella raccomandata dalla Chiesa. Sulle nozioni fondamentali della metafisica, che poi sono quelle più originarie, spontanee, evidenti ed incontrovertibili della ragione, impera la più crassa ignoranza, al posto della quale ci si accontenta delle creazioni fantastiche, della favolistica e della mitologia. Ovviamente enorme è il danno per la comprensione del dogma, che viene falsificato o svuotato di senso, dato che esso è per lo più formulato in concetti metafisici.

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Al di là dell’orpello delle strutture, dell’erudizione storica e dei servizi tecnici, il livello scientifico, intellettuale e sapienziale è spesso disceso al di sotto di quello medioevale. Eresie prenicene o protestanti, che si credevano superate da secoli, si sono ripresentate, ed anzi sono oggi in auge, come se la Chiesa in tutto questo tempo nulla avesse insegnato o chiarito. Il modernismo, che sembrava esser stato sconfitto da San Pio X, ha invece covato sotto la cenere, ed è tornato allo scoperto peggio di prima, dopo il Concilio, falsamente presentandosi come il suo interprete. Le tendenze teologiche, ormai dominanti negli istituti ecclesiastici, che oggi si contendono la successione alla teologia scolastica, sono la teologia della liberazione di Schillebeeckx e la teologia trascendentale di Rahner. Entrambi, a parte le loro caratteristiche proprie, ripudiano la teologia speculativa e sono soggette ad influssi protestanti e massonici.

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La teologia modernista, col pretesto della predicazione e dell’evangelizzazione, sulla spinta di Lutero, seguìto da Barth e Bultmann, si risolve nella teologia «kerygmatica», ridotta così o a pastorale [Rahner] o a prassi di liberazione [Schillebeeckx]. Invece, la teologia, come scienza o conoscenza speculativa e dimostrativa, sistematico-deduttiva di un insieme ordinato completo, logicamente connesso, di proposizioni fisse, certe, precise ed immutabili, è ripudiata o come impossibile o come residuo medioevale o come insieme di schemi antiquati, astratti, astorici e rigidi, incapaci di incidere sul concreto dell’esistenza.

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Altra caratteristica della teologia modernista è il suo storicismo, [Kasper, Küng, Grillo, Forte e Bordoni], dipendente dalla sua negazione di una verità immutabile e sovrastorica. Non si tratta tanto di ridurre la teologia alla storia della teologia, il che sarebbe già un errore, ma si tratta di un errore più grave, che concerne la stessa produzione formale del sapere: lo stesso far teologia non è un ragionare o dedurre o un dimostrare, ma un narrare, un raccontare. L’«evento» [Ereignis] si sostituisce al concetto e quindi al dogma. Con ciò non intendo dire che un dogma non possa avere come contenuto un fatto storico, per esempio la crocifissione di Cristo, ma nello storicismo è l’atto stesso del sapere che è un «evento»; dal che il divenire o mutare dello stesso oggetto formale dell’atto e quindi l’impossibilità di una verità immutabile.

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Una corrente teologica sorta di recente nell’ambito della teologia morale in particolare in rapporto alla vasta problematica concernente l’etica sessuale e familiare, è la cosiddetta queer theology (queer =strano, bizzarro), ma meglio denominata dai teologi seri «pornoteologia», secondo una espressione coniata a inizi anni Settanta dal Padre Cornelio Fabro. Si tratta infatti di una sconcia tendenza pseudoteologica ed ereticale, la quale sostituisce la legge naturale, giudicata “astratta”, ”superata” e ”rigida”, con l’obbedienza cieca alla pulsione istintiva e soggettiva del piacere sessuale, la «libido» freudiana, in base alla quale ognuno è libero di scegliere il «proprio orientamento sessuale». Si tratta, in fondo, di una spudorata ripresa del vecchio epicureismo pagano, sempre allettante per gli uomini carnali, con un’ipocrita verniciatura teologica [povera teologia!], dove di divino non c’è niente, ma solo la pura esaltazione del piacere.

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Davanti a un tale imbarbarimento e abbrutimento della teologia, sotto i più vani e speciosi pretesti e le false apparenze della “odernità postconciliare”, occorre allora dire a chiare lettere che il Concilio Vaticano II, il cui indirizzo negli studi teologici trova un luminoso orientamento ed una poderosa sollecitazione ed applicazione nell’enciclica Fides et Ratio di San Giovanni Paolo II [cf. QUI], alla quale hanno fatto seguito l’enciclica Lumen Fidei [cf. QUI] e la recente Costituzione Apostolica di Papa Francesco Veritatis Gaudium [cf. QUI], col suo richiamo a San Tommaso d’Aquino, conferma autorevolmente l’attualità e l’importanza della teologia scolastica per la formazione del clero e per confrontarsi costruttivamente con i valori e gli errori della modernità.

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Varazze, 17 giugno 2018 

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NOTE

[1] Vedi la commemorazione di questo avvenimento negli Atti del convegno promosso dalla diocesi di Perugia nel 2003, pubblicati a Perugia nel 2004, “La filosofia cristiana tra Ottocento e Novecento e il Magistero di Leone XIII”.

[2] Cf il numero monografico di Divus Thomas, Il destino ecclesiale della teologia come scienza, n.40, gen.-apr., 1/2005; A.Livi, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.

[3] Cf A.Gardeil, Le donné révélé et la théologie, Les Editions du Cerf, Paris 1932.

[4] Vedi la recente Costituzione Apostolica di Papa Francesco “Veritatis gaudium” sulla riforma degli studi ecclesiastici.

[5] Cf. G. Mattiussi, SJ, Le XXIV tesi della filosofia di SanTommaso d’Aquino approvate dalla S. Congregazione degli Studi, Tipografia della Pontificia Università Gregoriana, Roma 1947.

[6] U. Degl’Innocenti, Disaccordo del Capreolo col Gaetano a proposito della personalità, in Il problema della persona nel pensiero di SanTommaso, Libreria Editrice della pontificia Università Lateranense, Roma 1967, pp.122-154.

[7] Occorre arrivare al sec. XX, con la corrente di Schillebeeckx, per avere Domenicani carenti di senso critico e vittime dei pregiudizi moderni.

[8] Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da un’equivoca “filosofia religiosa”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.

[9] Cf. Optatam Totius,  16 QUI e Gravissimum Educationis, 10 QUI.

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

La gnoseologia teologia di Walter Kasper, che di questi tempi si diletta anche a dare degli gnostici agli altri

— Theologica —

 LA GNOSEOLOGIA TEOLOGICA DI WALTER KASPER, CHE DI QUESTI TEMPI SI DILETTA ANCHE A DARE DEGLI GNOSTICI AGLI ALTRI

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Seguendo la dialettica hegeliana, Walter Kasper si è allontanato dal cristianesimo ancor più di Lutero, perché Lutero, almeno, aveva visto, seppur maldestramente, i rischi di una ragione superba e, seppur in modo arrogante, l’importanza fondamentale dell’obbedienza alla Parola di Dio, mentre la dialettica hegeliana trasforma Dio in un sillogismo e dissolve il Mistero nel divenire della storia.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

Il nostro modo di concepire l’agire morale e la nostra stessa condotta morale  dipendono dalla nostra concezione della realtà e da come concepiamo la conoscenza della realtà, cioè dalla nostra “gnoseologia”. Questo vale per tutti e quindi vale anche per il famoso teologo Walter Kasper. E in questo saggio vedremo come funziona in lui questo rapporto.

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Da molti decenni il Cardinale Walter Kasper, in qualità di guida delle attività ecumeniche della Chiesa, svolge un modo di fare ecumenismo, che non avvicina i fratelli separati alla piena comunione con la Chiesa, ma al contrario li lascia nei loro errori e nella loro condizione di separatezza, come se tale condizione non fosse un difetto da riparare, ma semplicemente il segno di un modo di essere cristiano diverso da quello cattolico e altrettanto legittimo, anzi complementare.

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Ma così è successo e succede che non solo i protestanti non si convertono al cattolicesimo, ma molti cattolici, attratti dagli errori di Lutero, e visto che non vengono più corretti come un tempo, e che è cessata l’opera dei cattolici di convertire i protestanti, si fanno l’idea che la Chiesa abbia corretto il suo giudizio su Lutero, ed abbia scoperto che aveva ragione lui, o che quanto meno il suo modo di concepire il cristianesimo può essere oggetto di scelta facoltativa anche per i cattolici. Così questi cattolici si sentono autorizzati a scegliere almeno qualcuna delle posizioni di Lutero, nella convinzione di poter continuare a dirsi cattolici, anzi forse pensano di potere essere considerati “progressisti” ed  “avanzati”. Ma l’insidia più sottile è il fatto che certi errori di Lutero vengono presentati come verità cattoliche, per cui molti cattolici ignari e ingenui ci cascano. E bevono il veleno senza accorgersene. Uno dei più abili operatori di questa colossale truffa è Karl Rahner.

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A questo punto occorre trovare una via di uscita a questa situazione, perché la fede cattolica si sta affievolendo, mentre è in aumento l’influsso di Lutero. Occorrerebbe pertanto che il Sommo Pontefice fermi questa interpretazione modernistica dell’ecumenismo e promuova l’attuazione dell’autentico ecumenismo, così come risulta dal vero insegnamento del Concilio.

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Il rapporto tra metafisica e dottrina della Chiesa

Nella teologia di Walter Kasper, come in ogni sistema teologico, il tutto risulta dalla coesione consequenziale delle parti tra loro connesse: se si mina il fondamento, crolla tutto il resto, come la statua della visione di Daniele [Dn 2, 21-31]. Tutto parte dalla conoscenza. Se questa è sana, tutto il resto regge; altrimenti tutto crolla. Dedichiamo allora questo saggio alla sua gnoseologia, senza mancar di far vedere la verità di questo assunto. Diciamo allora che è falso dire che «la Chiesa non sostiene una determinata metafisica» [1], giacché essa invece raccomanda da secoli quella di San Tommaso d’Aquino. Ma lo fa sulla base della convinzione che la metafisica è una scienza certa, perenne, incontrovertibile, oggettiva ed universale, sapere fondamentale, frutto immarcescibile della ragione umana come tale, adatta a tutti gli uomini e a tutte le culture, in ogni tempo e luogo.

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La Chiesa crede non in una data metafisica, ma nella metafisica come tale, così come essa non promuove la ragione di Tizio o di Caio, ma la ragione umana come tale, di qualunque persona umana, in ogni tempo e in ogni luogo. Per questo, nelle sue istituzioni educative, culturali ed accademiche, la Chiesa promuove la metafisica nella sua perfezione epistemologica e nel suo progresso, volendola esente da errori e difetti, nella libertà della discussione, della ricerca e dell’insegnamento. Essa sa bene che esistono diverse forme, sistemi od orizzonti di pensiero metafisico, alcuni validi, che essa ammette nella sue scuole, soprattutto il sistema di San Tommaso, ma poi anche quello, ad esempio, di Sant’Agostino o di Sant’Anselmo o di San Bonaventura, o di Alessandro di Hales o del Beato Duns Scoto o di Francesco Suarez; mentre altri, invece, pericolosi, essa li guarda con riserva o sospetto, come per esempio quello di Scoto Eriugena o di Guglielmo di Ockham o di Nicolò Cusano o di Marsilio Ficino, o di Campanella o di Cartesio o di Leibniz o di Wolff o del Beato Antonio Rosmini, benchè veneri la santità di quest’ultimo. Altri sistemi essa li respinge senz’altro, benché nella sua magnanimità, esorti i   teologi a recuperare in essi quanto può esserci di valido. Sono le dottrine che si trovano in contrasto col realismo della sana ragione, e che quindi contrastano con la fede, come per esempio le idee di Giordano Bruno o di Spinoza o di Kant o di Fichte, o di Schelling o di Hegel o di Gentile o di Heidegger o di Severino o di Rahner.

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Per quanto riguarda gli eretici, la Chiesa, nel momento in cui ne condanna gli errori, chiede ai teologi di evidenziare in essi quanto è rimasto del comune patrimonio di fede, nella speranza che essi si correggano e vogliano riunirsi alla Chiesa. Con tutti gli uomini, credenti e non credenti, la Chiesa dialoga sulla base della ragione naturale, al fine di introdurli, se possibile, al mistero di Cristo. Tuttavia, non esistono diverse o differenti metafisiche, così come esistono diverse o differenti opinioni. Infatti, lo ripetiamo, la metafisica è una scienza e non un’opinione, così come, per esempio, non sono opinioni la geometria, la fisica, la botanica, la geografia o l’anatomia.

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La Chiesa raccomanda l’uso della metafisica di San Tommaso d’Aquino

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La Chiesa, pertanto, tra le diverse metafisiche prodotte nel passato, a seguito dell’apparire della sistemazione teologica di San Tommaso d’Aquino nel XIII secolo, ha scelto ed ha preferito certamente una data metafisica, appunto quella di San Tommaso [2], ma non come avesse scelto un’opinione tra altre dottrine discutibili o caduche. Ciò naturalmente non vuol dire che la metafisica di Tommaso sia priva di difetti o non sia perfezionabile, o che non possa sorgerne in futuro una migliore [3]. Questa preferenza della Chiesa è motivata dal modo eccellente col quale San Tommaso sa motivare l’armonia tra ragione e fede [4], in ordine alla elaborazione di una apologetica, di una teologia razionale e di un’etica naturale, nonché all’interpretazione della Scrittura ed alla formulazione e spiegazione del dogma.

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Prima della comparsa di San Tommaso, la Chiesa si dava premura certamente che la Sacra Scrittura fosse commentata ed interpretata utilizzando sani concetti razionali e filosofici, mentre i dogmi che erano stati definiti in precedenza, come per esempio i dogmi cristologici, erano stati formulati con l’utilizzo di categorie metafisiche, dovutamente adattate, ricavate dalla filosofia greca, come del resto avevano già fatto i Santi Padri della Chiesa e Sant’Agostino servendosi della filosofia platonica per la elaborazione della loro teologia.

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Ma prima di San Tommaso non era sorto nessun teologo che fosse stato capace di organizzare con tanta sapienza tutto il sapere teologico in un unico sistema razionale. Questa esigenza cominciò a farsi sentire a partire dal XIII secolo [5]. Ci si era accorti infatti che gli insegnamenti biblici e i dogmi che la Chiesa aveva ricavato da essi, benché si trovassero sparsi in documenti che si erano susseguiti nel corso di secoli e benché molti di questi documenti avessero ad oggetto la narrazione di fatti riflettenti l’azione divina nella storia ― per esempio il passaggio dall’Antica alla Nuova Alleanza, l’Incarnazione e la Redenzione, la fondazione e lo sviluppo della Chiesa ―, contenevano però anche delle verità speculative, razionalmente collegabili tra di loro; verità universali, immutabili ed eterne, razionali e rivelate «cielo e terra passeranno; ma le mie parole non passeranno» [Mt 24, 35], verità che si riferiscono soprattutto a Dio, Che, nella sua purissima spiritualità, immutabilità ed eternità, è in Se stesso al di là dello spazio e del tempo, trascende la storia e il divenire del mondo, benché, con l’Incarnazione del Figlio di Dio, Dio abbia unito a Sé in Cristo una singola umanità nell’unità di una sola Persona divina, e per conseguenza, per il tramite di quest’uomo Gesù, abbia unito a Sé, «senza confusione» e o senza mutazione», come si deduce dal dogma cristologico di Calcedonia, ogni uomo, la storia, il tempo e il mondo.

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Per questo, il Concilio Vaticano II ha potuto dire che «con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» [GS 22], non certamente nel senso rahneriano che tutti gli uomini siano in grazia, ma in quanto Cristo offre a tutti la possibilità di unirsi a Lui e così di salvarsi, come sappiamo bene dagli insegnamenti evangelici e dogmatici concernenti le condizioni per salvarsi. E’ quello che dice Cristo: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» [Gv 12,32]. Ma non tutti si lasciano attrarre.

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La Chiesa si guarda bene dall’imporre a tutto il popolo di Dio, come fosse sua dottrina ufficiale, qualunque teoria, idea o scelta mutevole, contingente o limitata al campo della particolarità o dell’opinabilità, si tratti di una tendenza politica, di una corrente culturale o artistica o di culto o devozioni o spiritualità o modo di vivere la fede e la condotta morale. Ma essa lascia in ciò a tutti piena libertà di scelta. Essa, invece, in base all’autorità che le è stata conferita da Cristo, impone assolutamente a tutti i credenti, pena la dannazione eterna, solo ciò che, per comando di Cristo, è universalmente necessario ed obbligatorio per la salvezza di tutti. Ma nessuno le impedisce di proporre anche dottrine umane ben fondate ed universalmente valide, connesse con le verità di fede, al fine di facilitarne l’apprendimento [catechesi] o di introdurre ad esse [apologetica] o di trarne delle conclusioni o di favorire lo sviluppo dogmatico [teologia speculativa o morale] o di consentire buoni commenti alla Scrittura [esegesi biblica] o di favorire la pietà e la santità [teologia spirituale].

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In nome di questa sua facoltà, che è anche suo dovere, la Chiesa raccomanda soprattutto ai pastori e ai teologi San Tommaso [6], non ovviamente perchè la sua dottrina sia necessaria alla salvezza, ma per la validità, l’utilità e l’universalità del suo pensiero in ordine ai suddetti scopi. Per questo, della dottrina dell’Aquinate, Pio XI disse che la Chiesa l’ha fatta sua, edixit esse suam. E Tommaso è stato chiamato dalla Chiesa Doctor communis Ecclesiae.

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L’analogia dell’ente secondo Kasper

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Kasper pensa di poter fare un collegamento fra analogia, dialettica e pensiero storico. L’idea non è male; ma purtroppo il risultato, come vedremo, è deludente. Egli dice:

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«La struttura dell’ “in-al di sopra di” è caratterizzante sia per l’analogia, sia per la dialettica, sia per il pensiero storico. Se ora mettiamo a confronto dialettica e analogia, questo non vuol significare che l’analogia entis sia la ‘forma del pensiero cattolica’ [7]. Non può e non potrà darsi ‘la forma di pensiero cattolica’ per la ragione che la Chiesa non ha sostenuto una determinata metafisica. La Chiesa deve testimoniare il Vangelo e certamente assolve a questo compito usando il linguaggio umano. Ha dunque bisogno, a tal fine, della filosofia come riflessione critico-metodologica e come interpretazione dell’esperienza umana dell’essere. Tale pensiero è ancora profondamente storico» [8].

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Osserviamo che è vero che l’analogia unisce e collega l’ente immanente, mondano, all’ente trascendente, divino. Ma il rapporto immanenza-trascendenza è ben distinto nel caso della dialettica e della storia. La dialettica, infatti, non conosce una trascendenza, perché resta sul piano dell’univocità e si limita all’opposizione fra l’essere e il non-essere, tra l’affermazione e la negazione. Essa resta sul piano mondano e delle opinioni. Per salire a Dio, all’intelletto non servono concetti opposti tra di loro, oltre a tutto limitati all’ambito delle apparenze, come quelli dialettici, sia perché Dio, benché trascendente, non si oppone al mondo, non è nemico del mondo, ma, al contrario, è in armonia col mondo, è in comunione con esso, avendolo creato Lui; e sia perché, per spiegare le certezze mondane, abbiamo bisogno di un fondamento primo e certissimo e non oscillante come quello dialettico. Se il fondamento vacilla, che sarà del resto?

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Per salire dunque dal mondo a Dio, occorre un concetto che, pur applicandosi al mondo, abbia la duplice qualità di essere da una parte in continuità con la nozione di Dio e quindi predicabile anche di Dio; ma dall’altra bisogna che la nozione o il livello che tale concetto raggiunge non sia troppo basso e non resti al livello dell’essere mondano, al fine di poter esprimere la trascendenza o la superiorità di Dio rispetto al mondo. Altrimenti, invece di raggiungere Dio, avremmo solo un idolo o un dio pagano. Inoltre, occorre una nozione sufficientemente universale, che sia applicabile a tutte le cose, perché Dio deve spiegare l’esistenza di tutto il mondo. Occorre dunque utilizzare il concetto più vasto e più universale che possediamo. Ma questa nozione deve anche essere sufficientemente elevata, perché non deve spiegare solo l’esistenza delle cose materiali, ma anche il mondo dello spirito. Occorre dunque che essa astragga, trascendendole, dalle cose materiali e quindi anche dallo spazio, dal tempo, dal divenire e dalla storia, per poter considerare lo spirito, che è immateriale e che, pur potendo operare nella storia, tocca però realtà e valori sovrastorici, immutabili e incorruttibili. Il semplice pensiero storico non è sufficiente per ottenere o avere un concetto di Dio. Benché infatti indubbiamente Dio abbia creato la storia e la governi, e benché Si sia incarnato in Gesù Cristo, ed abbia vissuto tra noi, resta sempre in Se stesso immutabile e al di sopra della storia e la natura umana storica di Cristo è distinta dalla natura divina.

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Peraltro, la suddetta operazione astrattiva, come dimostra il Cardinale Gaetano [9], comporta tre gradi di superamento della materia: fisico, matematico e metafisico [10]. Al termine di tale operazione, siamo in possesso della nozione che è dotata di tutti i precedenti requisiti: la nozione analogica, metafisica e trascendentale dell’ente come ente [ens ut ens] e delle sue proprietà trascendentali [unum, verum, bonum, pulchrum, res, aliquid]. Il pensiero del Gaetano è importante nel mostrare come procede l’intelletto nel raggiungere il sapere metafisico. Si tratta di un’elevazione dell’intelletto, per la quale esso, formando il concetto metafisico dell’ente, è in grado di costruire la teologia speculativa, concependo Dio come Primo e Sommo Ente. Per questo, è rimasta famosa l’esortazione del Gaetano: «Disce elevare ingenium, aliumque rerum ordinem ingredi».

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Questa è la nozione migliore per distinguere Dio e mondo e, nel contempo, per passare dal mondo a Dio e da Dio al mondo. E c’è da notare che qui il movimento intellettuale non ha nulla a che vedere con la «oscillazione», della quale parla Kasper, perché qui non si tratta di oscillare tra il sì e il no, ma di passare da un sì più basso a un altro sì supremo. Negando la possibilità dell’utilizzo di un unico concetto analogico dell’ente per congiungere Dio e mondo, Dio e storia, Kasper dimostra di fraintendere o di non aver capito che cosa è l’analogia entis, perché, certo, mentre l’ente reale è molteplice, il concetto analogico dell’ente o è uno [11] o non è niente, benché anch’esso sia internamente diversificato, appunto per riflettere la realtà molteplice dell’ente. Questa mancata percezione dell’unità dell’ente trascendentale spiega alcuni errori di Kasper.

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Primo, il rifiuto della teologia sistematica. Egli ha presente i sistemi razionalisti ed immanentistici idealisti e fa bene a rifiutarli. Ma egli sbaglia nel rifiutare il sistema come tale, che è invece un bisogno imprescindibile della ragione e della scienza. Sapientis est ordinare, come dice San Tommaso. E la teologia è una scienza e una sapienza. E come tale, la teologia non è un semplice convergere, incontrarsi e discutere fra teologi; non è un semplice scambio di opinioni; non è una semplice ricerca personale o comune. Queste certamente sono cose buone. Ma la teologia, in quanto servizio al Magistero della Chiesa e alle anime e introduzione all’accoglienza dello stesso Magistero, deve avere una forma scolastica, metodica, educativa e formativa, soprattutto in ordine alla formazione del clero. Si tratta di trasmettere ai discepoli nozioni ormai acquisite, certe e definitive, utili al ministero e alla vita di pietà, fondate sul dogma, sulla Scrittura e sulla Tradizione.

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Il problema per l’edificazione di una teologia sistematica è su quale principio fondarsi o da dove partire. L’errore degli idealisti non è stato quello di voler costruire un sistema unitario, deduttivo ed universale. L’errore è stato quello di fondarsi sul cogito cartesiano, anziché sull’ente. E la teologia sistematica si fonda appunto su Dio come Ens primum et summum, come Ipsum Esse per se subsistens.

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Così si spiega la presente dichiarazione di Kasper:

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«La teologia deve rimanere ancorata alla follia della predicazione, aperta e non chiusa al dialogo, che qui diviene rimando all’apertura e alla temporaneità della nostra situazione escatologica, e rende impossibile un ampio sistema teologico» [12].

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Questa impostazione occamistica comporta incresciose conseguenze nella teologia dogmatica, che viene privata delle sue fonti, che sono appunto gli insegnamenti della Chiesa, della Scrittura e della Tradizione. Dice Kasper:

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«Non esiste un indice ufficiale dei dogmi della Chiesa […] Perciò la domanda che talvolta viene posta ingenuamente, quanti dogmi propriamente esistano, non può avere assolutamente risposta» [13].

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Rispondiamo dicendo che non è affatto un’ingenuità chiedersi quanti e quali siano i dogmi e non è affatto impossibile, ma è di interesse vitale per la salvezza, rispondere con certezza a tale domanda, così come è del tutto legittimo chiedersi quali e quanti siano gli organi vitali del corpo umano. E a tale domanda risponde la Chiesa stessa nei suoi documenti ufficiali, soprattutto negli insegnamenti dei Papi e dei Concili. All’uopo, occorre però anzitutto possedere un giusto concetto di “dogma” [14], conforme alla dottrina cattolica, distinguendolo dai gradi superiori e da quelli inferiori del dato rivelato. Il grado supremo sono gli stessi espliciti insegnamenti del Signore contenuti nella Sacra Scrittura e nella Tradizione, che sono le fonti stesse della Rivelazione, e sono quindi i fondamenti dei dogmi [15], che invece sono interpretazioni infallibili della Parola di Dio, proposte dalla Chiesa. I dogmi sono gli articoli della fede. Esso sono riassunti nel Simbolo della Fede. Il loro numero a qualità sono contenuti nel Catechismo e sono illustrati dalla teologia dogmatica.

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Secondo, nella linea della gnoseologia occamista, che fu propria anche di Lutero, Kasper non riesce a superare e ad unificare la struttura molteplice del pensiero, segno, anche questo, che non ha compreso l’analogia dell’ente, perché appunto la nozione dell’ente è la più universale e quella che, come abbiamo visto, consente all’intelletto di congiungere Dio e il mondo. Si spiegano così la mentalità dialettica e lo storicismo di Kasper. Infatti, sia la dialettica che il pensare storico, per la loro stessa essenza, hanno a fondamento una dualità concettuale: la dialettica, fa il confronto tra il sì e il no; lo sviluppo storico, ha la dualità atto-potenza.

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Terzo, l’assunzione della dialettica hegeliana comporta due conseguenze nefaste, già presenti in essa, e cioè da una parte, una deleteria opposizione tra il vero e il vero e, dall’altra, la ipocrita sintesi [«oscillazione»] tra il vero e il falso. Le conseguenze in teologia sono gravissime, addirittura blasfeme: da una parte l’ostilità tra Dio e l’uomo, mancando una nozione di ente che colleghi l’Uno all’altro; dall’altra, un’orrenda alleanza tra Cristo e Beliar, per cui si spiega perché Cristo, quando raccomanda di non oscillare tra il sì e il no, fa presente che «il di più viene dal maligno» [Mt 5,37]. Questo «di più» è l’aggiunta di un terzo termine, la «sintesi» hegeliana del sì e del no.

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Si badi bene che la suddetta oscillazione non ha nulla a che vedere con l’oscillazione propria dello stato di dubbio, nel quale il pensiero si muove disagiato tra il sì e il no senza sapersi decidere, perché non ha ragioni né per l’uno né per l’altro. Ma il desiderio del soggetto è di trovare la verità e di fermarsi in essa, non interessa se essa è nel sì o nel no. Invece l’oscillazione dell’ipocrita è studiata e voluta, col preciso scopo di ingannare e di apparire o far apparire quello che non è. Il linguaggio dell’ipocrita non avanza una possibilità di scelta tra il sì e il no, ma pretende di affermare e negare simultaneamente. Egli si ritiene dispensato dall’osservare il principio di non-contraddizione.

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L’oscillazione della quale parla Kasper comporta dunque una trasgressione del principio di non-contraddizione, già presente nella astuta dialettica hegeliana, maestra di doppiezza, e per nulla richiesta dalla onesta e leale dialettica aristotelico-tomista [16], la quale comporta non un abbinamento, ma un semplice confronto tra l’affermazione e la negazione, al fine di chiarire, se possibile, che scelta fare, in ciò simile al dubbio, con la differenza che qui il pensiero si sposta continuamente tra i due poli, mentre nella dialettica il pensiero si ferma  debolmente e provvisoriamente in uno dei due.

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L’idea, sposata da Kasper, col pretesto del “mistero”, che Dio sia al di sopra e indipendente dal principio di non-contraddizione, ha avuto le sue prime avvisaglie nel XIII secolo con la teoria della «doppia verità», per cui ciò che è vero in filosofia può esser falso in teologia e viceversa. Guglielmo di Ockham, dal canto suo, ammette che Dio, de potentia absoluta, non fa nulla di contradditorio, ma questo può farlo nella creazione, ossia de potentia ordinata, per cui, se Lui volesse, l’adulterio potrebbe essere ad un tempo lecito e illecito.

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Ma chi crede che la contraddizione sia risolvibile in Dio, sempre col pretesto della mistica, è Nicolò di Cusa nel XV secolo, con la sua famosa coincidentia oppositorum. Osserviamo che se in Dio il sì e il no coincidono, allora vuol dire che non vale più il comando di Cristo di tenerli separati e di non congiungerli, il che ovviamente è blasfemo

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Lutero e Hegel partono da qui e purtroppo Kasper li segue nel momento in cui fa propria la dialettica hegeliana. In tal modo Dio entra in contraddizione con Se stesso e si verificano le assurdità che abbiamo visto circa la teoria kasperiana degli attributi divini. Le conseguenze morali di questa “teologia mistica” si possono immaginare e sono oggi sotto i nostri occhi. Le vedremo al termine di questo saggio.

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Sulla sua già accennata linea di pensiero, Kasper afferma altresì:

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«Il cristianesimo, per la sua universalità, non può vincolarsi a una determinata filosofia, anzi spezzerà e metterà in crisi ogni categoria filosofica. Proprio la teologia biblica, come osserva Fuhrmans, ha giustamente posto in luce che il pensiero cristiano è pensiero storico-dinamico» [17].

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Rispondiamo ricordando che il cristianesimo è una vita soprannaturale, che nasce da una verità divina rivelata da Cristo alla ragione umana, che viene coltivata, educata, purificata ed elevata dalla filosofia. Certamente, la verità cristiana non è dedotta dalla verità di ragione, né questa può avere la pretesa di fondarla o dimostrarla. Tuttavia, l’esercizio della ragione, meglio se educata dalla filosofia, è condizione indispensabile per la conoscenza e l’approfondimento della verità cristiana, la quale si aggiunge a quelle già note dalla ragione, e quindi per l’esistenza stessa del cristianesimo, il quale è stato fondato da Cristo per il bene dell’uomo, animale razionale.

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Dunque, in realtà, il cristianesimo, benché per sua essenza trascenda ogni filosofia e non sia il parto di alcuna filosofia o di alcuna mente umana, è tuttavia sostanzialmente vincolato non a una determinata filosofia, ma alla filosofia, in ordine alla sua stessa esistenza o per lo meno al suo melius esse. E il minimo che si possa dire è che il cristianesimo è vincolato all’uso della retta ragione, come condizione di possibilità dello stesso cristianesimo, perché esso è attuazione dell’uomo in quanto essere ragionevole. Nulla peraltro, in questa ottica, impedisce alla Chiesa, di scegliere, tra le varie filosofie, quella che maggiormente favorisce l’accesso della ragione alla fede. Per questo la Chiesa, come ho detto sopra, raccomanda in modo speciale la filosofia di San Tommaso.

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Il pensiero cristiano non può essere assolutamente ridotto a un «pensiero storico-dinamico» ma è anche un pensiero speculativo-sistematico, necessario alla formulazione dei dogmi ed alle scienze teologiche. Questo esclusivismo di Kasper dipende dal fatto che il suo non è un semplice onesto pensare storico, ma è un pensiero storicistico, negatore dell’immutabilità della verità, secondo il modulo modernista, già a suo tempo condannato dal Santo Pontefice Pio X.

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Il relativismo filosofico provoca il relativismo dogmatico

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Questa mancata percezione dell’universalità del sapere filosofico ridotto a una contingente molteplicità di «forme di pensiero», ossia di opinioni mutevoli, relativizza al mutare dei contesti storici non solo la teologia, ma anche il dogma, dato che la Chiesa, nel definire un dogma, utilizza nozioni della ragione naturale giustificate dalla filosofia.

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Kasper intende l’universalità del cristianesimo non come fondata su verità universali ― i dogmi della fede ―, ma su quella che egli chiama «cattolicità originaria» o «ecumenica», che abbraccia in sé, come momenti «particolari», che egli chiama «confessionali» [18], le due dogmatiche del cattolicesimo e del protestantesimo. Solo che ci si domanda quali sarebbero i contenuti di questo cattolicesimo sopradogmatico. Evidentemente anche qui c’è il retroterra del denken hegeliano, che costituisce la totalità dialettica onnicomprensiva del pensiero, che nega, sintetizza e supera in sé i momenti delle Vorstellungen, che sono i dogmi o le «confessioni» delle varie religioni positive.

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Kasper rifiuta l’idea della Chiesa come comunità diffusa nel mondo, effetto della predicazione di una verità unica ed universale — il Vangelo —, che, partendo da Roma, come centro della missione, sede del Successore di Pietro, si diffonde a cerchi concentrici nel mondo, ma come un «poliedro a molte facce» [19], ossia come una collezione o federazione di diverse interpretazioni particolari ed opinabili del Vangelo, magari in contrasto le une con le altre.

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È chiaro qui l’influsso della gnoseologia occamista [20], nella quale l’universale non irraggia da un’unità d’essenza a tutti comune ― unum in multis ―, ma è una semplice collezione di individui allo stesso livello, indipendenti l’uno dall’altro e connessi tra di loro solo in un’immagine confusa. Si tratta di un’universalità non formale o speculativa, ma meramente materiale e collettiva, come quando diciamo: un “consenso universale” per dire: “di tutti”.

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Kasper vorrebbe evidenziare il fatto del progresso dogmatico, ma lo intende alla maniera modernista, non come esplicitazione o spiegazione di una verità immutabile, ma come superamento dialettico di una tesi opposta del passato. Infatti, come vedremo, secondo lui, per interpretare la Parola di Dio, non si deve usare la filosofia di San Tommaso, ma la dialettica hegeliana.

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Per Kasper il dogma non riflette una realtà oggettiva, esterna al soggetto, ma, alla maniera idealista, «il dogma ha valore solo in quanto esprime l’interno» [21]. Esso non è una mediazione o interpretazione infallibile della Parola di Dio fatta dal Magistero della Chiesa, una volta per tutte, ma una tesi del Magistero, che dev’essere vagliata e controllata, confrontandola con la Scrittura. È il metodo di Lutero: «Il dogma ― dice Kasper ― dev’essere compreso alla luce della Testimonianza della Scrittura» [22]. Egli approva Rahner, il quale afferma che «un dogma può benissimo essere vero e tuttavia umanamente prematuro, colpevole, pericoloso, ambiguo, tentatore, temerario» [23]. Non faccio commenti. Secondo il suo linguaggio dialettico che dice e non dice, il dogma può essere ad un tempo «definitivo» e «provvisorio»:

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«Un dogma è la forma provvisoria in cui la verità escatologico-definitiva di Cristo diviene evento. Provvisorio è il termine con cui si vuole esprimere il carattere di anticipazione proprio del dogma; quindi non è da intendere proprio in opposizione a ‘definitiva’, bensì nel senso originario della parola, quale anticipo precursore degli escata» [24].

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Osserviamo ancora che l’universalità del messaggio evangelico e del dogma cattolico non è data, come crede Kasper, dalla semplice convergenza pragmatica, dialogica o dialettica, in perenne evoluzione, di una pluralità di particolari «forme di pensiero» e di modi incoerenti e contrastanti di intendere o interpretare il dogma, il Vangelo e la Tradizione, ma dalla universalità di un certo numero di precisi contenuti di fede, immutabili e assolutamente veri, universalmente condivisibili ed effettivamente e comunemente condivisi e accettati da ogni fedele.

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Bisogna dunque sostenere l’esatto opposto di quanto sostiene Kasper, e cioè che il cristianesimo, proprio per la sua universalità e per favorire al meglio tale universalità, e la sua diffusione in tutti i tempi e un tutti i luoghi,  soprattutto nelle sue forme più colte ed elevate, è istituzionalmente ed essenzialmente vincolato e debitore alla filosofia e precisamente, tra le varie filosofie, a quella o a quelle che meglio aiutano la ragione ad accedere alla conoscenza di fede. Infatti, il sapere cristiano, in quanto sapere di apertura universale, destinato a tutti gli uomini, non può che radicarsi su quanto nel sapere umano è universale, e ciò non è altro che l’effetto di quella facoltà conoscitiva che caratterizza l’uomo come uomo, ossia quella facoltà che tutti possiedono, e che è appunto la ragione. Ora, come si sa, la filosofia è appunto il supremo sapere della ragione. Essa, per dirla con San Tommaso, è il perfectum opus rationis.

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In base a quanto detto, apparirà evidente che affermare poi che il cristianesimo «spezza e mette in crisi ogni categoria filosofica» è una grave calunnia ai danni del cristianesimo, che potrà essere uscita dalle labbra di Lutero in un accesso d’ira contro la Chiesa Cattolica, ma che sorprende e scandalizza leggere nel libro di  un teologo cattolico, oltre a tutto oggi Cardinale. A smentita di questo grave falso storico di Kasper, proprio lui che tanta importanza dà alla storia, si deve dire che a «spezzare e mettere crisi ogni categoria filosofica» sono stati semmai i barbari, che nei secoli bui del Medioevo assaltavano e distruggevano le abbazie, dove i monaci conservavano i tesori della cultura classica e cristiana.

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Il «pensiero storico» secondo Kasper

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Il piano del Signore sussiste per sempre, i pensieri del suo cuore per tutte le generazioni [Sal 33,1]

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Secondo Kasper, occorrerebbe in teologia sostituire il «pensiero storico» al pensiero metafisico. Ma cosa intende egli esattamente con questa espressione, che abbiamo già incontrata? Qui troviamo il nucleo della sua gnoseologia. Il «pensiero storico», per Kasper, non è soltanto il pensiero o il sapere di colui che narra i fatti storici, ma è soprattutto il vero pensare come tale, ossia pensiero aderente alla realtà, perché per Kasper la realtà è storia. Come abbiamo già visto, il pensare storico, quindi, per lui, non è un pensare annoverabile tra altre forme di pensiero, come, per esempio, il pensiero metafisico. No. Anzi, il pensiero metafisico non è neppure un vero pensare, perché suppone come oggetto delle realtà immutabili, che non esistono, perché per Kasper, come per Eraclito, tutto muta: panta rei. E quindi, anche in campo morale non si dà una scienza o una teologia morale, che abbia ad oggetto valori o doveri assoluti, universali ed immutabili, ma anche il moralista, per essere aderente alla realtà dell’agire umano e stabilirne le norme, deve far uso del pensare storico, deve pensare «storicamente», ossia deve concepire norme variabili, mutevoli, eccepibili, condizionate, contestualizzate, perché tali sono le norme reali della condotta umana, mentre il credere che l’agire umano possa essere regolato da princìpi universali ed astratti, magari su basi metafisiche, è un’illusione deleteria, che irrigidisce l’agire togliendogli il suo proprio dinamismo, la sua libertà e la sua apertura al progresso [25].

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Ma per Kasper non muta solo l’oggetto dei concetti ― e questo può essere giusto, se si riferiscono a cose mutevoli ―, ma mutano i concetti stessi, muta il loro significato, che non è mai assoluto, ma sempre storicamente  condizionato, e quindi cambiano di significato anche i dogmi della Chiesa, in quanto formulazioni concettuali. Tale mutamento, per Kasper, oltre a comportare un’evoluzione nella storia ed una diversificazione nelle varie culture e religioni, consiste essenzialmente in una «oscillazione» o duplicità simultanea di significato tra i due poli opposti della contraddizione, perché Kasper assume la concezione hegeliana del reale come «dialettico», ossia contradditorio. Ne viene che la realtà e quindi la verità viene espressa proprio attraverso il congiungimento del sì e del no.

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Vediamo come Hegel stesso spiega questo procedimento:

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«Il compito consiste nell’attuare l’universale e nell’infondergli spirito, togliendo i pensieri determinati e solidificati. È peraltro assai più difficile render fluidi i pensieri solidificati, che render fluida l’esistenza sensibile. … I pensieri divengono fluidi, quando il puro pensare, questa immediatezza interiore, si riconosca come momento, o la pura certezza di sè astragga da sé. … Deve abbandonare il fisso nel suo autoporsi: sia il fisso del puro concreto, che è lo stesso Io in opposizione di contro al contenuto distinto, sia il fisso dei differenti, i quali, posti nell’elemento del puro pensare, partecipano di quella incondizionatezza dell’Io» [26].

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Kasper applica questo metodo in teologia, sicché, parlando degli attributi divini, ne viene che Dio è al contempo conoscibile e inconoscibile, essere e divenire, semplice e differenziato, immutabile e mutevole, eterno e temporale, impassibile e passibile, potente e impotente, finito ed infinito, immortale e mortale, celeste e mondano [27]. Kasper parla qui della Persona di Cristo ed evidentemente confonde la natura umana di Cristo con quella divina, come del resto aveva già fatto Hegel [28].

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Diamo un esempio di questo metodo dialettico hegeliano nel modo col quale Kasper vorrebbe convincerci dell’unità, in Dio, di potenza ed impotenza:

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«Dio è talmente sovrano nella sua potenza e libertà, che può anche permettersi di rinunciare a tutto senza “perdere la propria faccia”. E così la potenza si afferma proprio nell’impotenza di Dio, la sua signoria nella schiavitù, la sua vita nella morte» [29]. È talmente assurdo quello che dice, che  non vale neppure la pena di confutarlo.

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Influssi luterani

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Kasper, sulla scia di Hegel, riecheggiando l’eresia di Marcione, oppone il Dio identità e «astratto» dell’Antico Testamento al Dio «concreto» e dialettizzato [cioè trinitario] del Nuovo, ossia Cristo, sviluppa dialetticamente l’impostazione luterana del passaggio storico dal Dio adirato e punitore veterotestamentario al Dio dolce e «misericordioso» del Vangelo. Per cui fa le lodi di Lutero che, contro la cristologia «metafisica» di San Tommaso, avrebbe finalmente scoperto, dopo sedici secoli, il vero volto del Cristo evangelico. Egli infatti attribuisce a Lutero il merito di rappresentare

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«una rottura con tutta una teologia impostata su basi metafisiche. Il Riformatore non parte da un concetto filosofico di Dio per capire la croce, ma cerca di capire Dio proprio a partire dal fenomeno della croce. Questa nuova impostazione la ritroviamo espressa nella stessa “disputa di Heidelberg” del 1518: “Non è denominato degnamente teologo, colui che considera con l’intelletto le cose invisibili di Dio per mezzo delle cose fatte, ma colui che intende con l’intelletto le cose visibili e posteriori di Dio per mezzo delle sofferenze e della croce”. […] Il mistero nascosto di Dio non va situato al di là: un simile Dio speculativo non c’interessa. Noi non dobbiamo penetrare i misteri della maestà divina, ma accontentarci del Dio della croce. Dio lo possiamo trovare soltanto in Cristo; se lo cerchiamo al di fuori di lui, troveremo solo il diavolo. Partendo da queste premesse, Lutero giunge a un capovolgimento dell’intera cristologia» [30].

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È falso che «Dio lo possiamo trovare soltanto in Cristo». Dio Lo troviamo con la ragione, prima di trovarLo, e meglio, in Cristo. Lutero e con lui Kasper dimentica infatti che non potremmo sapere che Cristo è Dio, se già non sapessimo che Dio esiste, quel Dio dimostrato dalla ragione [Rm 1,20], e Che già conosceva Mosè [Es 3,14]), prima che Cristo apparisse nel mondo.

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Non si tratta affatto di «cercare Dio fuori di Cristo». Nessun cristiano di buon senso sogna una follia del genere, ma si tratta di cercare Cristo partendo da Dio, perché, se la ragione non trova anzitutto Dio, come Creatore del mondo partendo dalle cose del mondo, non trova neanche Cristo; e chi crede, come Lutero e Kasper, di trovare Cristo indipendentemente o contro una previa conoscenza razionale di Dio, incontra solo un falso Cristo, e cioè il «dio di questo mondo» [II Cor 4,4], che è il diavolo.

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Non c’è niente di male a indagare filosoficamente sulla natura divina indipendentemente dal dogma cristologico. Questa non è altro che la teologia razionale. Tale indagine è utile al dialogo interreligioso ed è utilissima per chiarire il significato del dogma cristologico, e ci preserva dal cadere nella confusione che Kasper fa fra attributi umani e attributi divini.

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Il significato e lo scopo della dialettica

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Kasper pensa che lo strumento conoscitivo della teologia sia la dialettica. Gli manca il concetto di teologia come scienza [31], e quindi come scienza speculativa. Su questo punto egli è più vicino a Lutero che ad Hegel, il quale fa coincidere la dialettica con la scienza speculativa. Oltre a ciò, il grave errore di Kasper è quello di credere che per l’interpretazione della Scrittura e del dogma sia meglio rifarsi alla concezione hegeliana della dialettica, anziché a quella aristotelica. Infatti, l’enorme vantaggio che, nell’ordine delle suddette finalità, offre la dialettica aristotelica rispetto a quella hegeliana è che, mentre la prima è una scuola di umiltà per la ragione, educandola e regolandola sul piano dell’argomentazione probabile e quindi abituandola a correggere gli eventuali errori o ad evitare false apparenze, la dialettica hegeliana, che risolve il reale nelle opposizioni del pensiero e negli effetti della volontà, incentiva la superbia del soggetto illudendolo di essere un momento della dialettica dell’ Assoluto. E sappiamo come tutta l’etica biblica non sia altro che una sfida tra l’umiltà e la superbia, tra Cristo e Beliar per la signoria sul cuore dell’uomo.

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Seguendo la dialettica hegeliana, Kasper si è allontanato dal cristianesimo ancor più di Lutero, perché Lutero, almeno, aveva visto, seppur maldestramente, i rischi di una ragione superba e, seppur in modo arrogante, l’importanza fondamentale dell’obbedienza alla Parola di Dio, mentre la dialettica hegeliana trasforma Dio in un sillogismo e dissolve il Mistero nel divenire della storia.

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Kasper insiste ancora in questi termini:

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«La Chiesa deve raccogliere la saggezza di tutti i popoli e di tutti i tempi, anche di tutte le forme di pensiero, poiché il suo annuncio è sempre più grande e oltrepassa ogni pensiero. La teologia, dunque, ha proprio il compito di distruggere ogni singola forma di pensiero, di integrarla, e di superarla in un’altra. Per questo la teologia dovrà sempre pensare dialetticamente” [32].

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Osserviamo che la teologia non è la somma di più teologie tra di loro diversificate e tanto meno contrastanti fra loro. Le teologie dei vari autori o delle varie scuole sono manifestazioni diverse della teologia come tale, ossia come scienza nella sua universalità. La teologia non deve affatto distruggere o superare alcuna singola forma di pensiero, ma al contrario riconoscerla, integrarla e valorizzarla e, nella sua accogliente universalità, deve rispettarle e promuoverle tutte e far sì che dialoghino tra di loro in una reciproca complementarità.

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La teologia deve sì pensare dialetticamente nel formulare nuove opinioni e nello scambio o critica delle medesime, ma deve soprattutto essere in continua ricerca e far opera di scienza, raggiungendo conclusioni certe e dimostrate, universalmente condivisibili, che un domani la Chiesa potrebbe elevare al rango di dogma, come è accaduto per alcune tesi della teologia tomista.

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«La dialettica, per Kasper, è soltanto la debole immagine del dialogo e traduce propriamente in un monologo ciò che normalmente avviene nel dialogo: il passaggio attraverso i molteplici aspetti della verità, che viene fissata nella sua non oggettivabilità» [33].

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Diciamo che la dialettica non è solo monological’elaborazione personale delle proprie opinioni dialettiche ―, ma anche dialogica, nel senso che essa regola la discussione o il dialogo tra due pensanti, come per esempio avviene nei Dialoghi platonici o come avviene sistematicamente, dopo l’impulso dato da Abelardo nel XII secolo, nei trattati teologici medievali, chiamati Summae, nell’uso scolastico. In essi il maestro risolve un problema, la Quaestio, attraverso il confronto di ipotesi opposte, il metodo del sic et non, per il quale il maestro motiva il suo parere scientifico od opinabile che fosse, rispondendo alle obiezioni contrarie.

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Quando per esempio San Tommaso, nella Quaestio IX della Prima Pars della Summa Theologiae si domanda se Dio è immutabile, esamina bensì alcune opinioni che sostengono che Dio diviene, ma, concluso l’esame di questi pareri, formula la sua sentenza, poggiata sulla Bibbia, che afferma con chiarezza e certezza, senza ambiguità o riserve, che Dio (a.1) e solo Dio (a.2) è assolutamente immutabile, a differenza di un Kasper o un Rahner, per i quali, in base all’ «oscillazione» dialettica, Dio è ad un tempo immutabile e mutabile.

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La dialettica hegeliana

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Kasper ispira la sua concezione della dialettica a quella di Hegel. Vediamo dunque il suo pensiero. La dialettica, per lui, è azione della «sostanza-soggetto», cioè dello «spirito» o del «sé»:

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«La sostanza è il movimento del porre se stesso o in quanto essa è la mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso. Come soggetto, essa è la pura negatività semplice ed è, proprio per ciò, la scissione del semplice in due parti o la duplicazione opponente; questa, a sua volta, è la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione; soltanto questa eguaglianza che si ricostituisce o la riflessione entro l’esser altro in se stesso – non un’unità originaria come tale, né un’unità immediata come tale – è il vero. Il vero è il divenire di se stesso, il circolo, che presuppone e ha all’inizio la propria fine e che solo mediante l’attuazione e la propria fine è effettuale» [34].

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Ma per Hegel Dio stesso è dialettico, ossia diviene storicamente:

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«La vita di Dio … degrada fino all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo. In sé quella vita è l’intatta uguaglianza ed unità con sé, che non è mai seriamente impegnata nell’esser altro e nell’estraneazione, e neppure nel superamento di questa estraneazione. Ma siffatto in sé è l’universalità astratta, nella quale, cioè, si prescinde dalla natura di esso di essere per sé e quindi, in generale, dall’automovimento della forma. … Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto e divenire se stesso» [35].

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Ancora Hegel:

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«Il fine attuato o l’effettuale esistente è movimento;  è divenire giunto al suo dispiegamento; ma proprio questa inquietudine è il Sé; ed esso è uguale a quella immediatezza e a quella semplicità del cominciamento perché è il risultato, perché è ciò che è tornato in se stesso. Ma ciò che è tornato in se stesso è appunto il Sé; e il Sé è l’eguaglianza che si rapporta a Sé» [36].

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Il movimento dialettico, per Hegel, è il moto dello spirito per il quale, nella storia, l’accidentale diventa sostanziale, il relativo diventa assoluto, la morte diventa vita, il falso diventa vero e il nulla diventa essere, in forza dell’ «immane potere del negativo», per il quale il sé oppone sé a sè e, negando questa opposizione, torna a sé. Ma l’opposizione dialettica affermazione-negazione, per Hegel, non è limitata all’ambito del pensiero e del linguaggio, ma riguarda l’essere stesso, il reale, in forza del ben noto principio idealista dell’identità dell’essere col pensiero.

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La negazione è atto dello spirito e quindi è un atto dell’intelletto, della volontà e del linguaggio. Ma siccome per Hegel l’essere è spirito, la negazione è anzitutto un atto pratico nell’ambito del reale, cioè è un annullare o, come si esprime Hegel, è un «togliere» [Aufhebung]. Ma ecco che dal nulla “magicamente” risorge l’essere.

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Ecco dunque la «magìa» della dialettica:

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«Che l’accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, che ciò che è legato nonché reale solo nella sua connessione con altro, guadagni una sua propria esistenza determinata e una sua distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare, del puro io. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo  il mortuum, questo è ciò per cui si richiede la massima forza […] Quella vita che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Essa guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione [ …] Lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere. Essa è il medesimo che sopra fu detto Soggetto, mentre nel proprio elemento dà esistenza alla determinatezza, supera l’immediatezza astratta e cioè, in genere, solo essente, ed è quindi la verace sostanza, l’essere o l’immediatezza, che non ha la medesima fuori di sé, ma è questa stessa” [37].

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Così commenta Tomas Tyn, O.P. questa dialettica di un Assoluto, effetto del «negativo» che associa la vita alla morte, l’essere al nulla. Essa promette una vana ed impossibile conciliazione tra di essi, che non può essere altro che un’oscillazione tra l’uno e l’altro, uno stare fra il sì e il no, un servire a due padroni:

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«I fronti si oppongono l’uno all’altro irriconciliati, momenti fugaci di una dialettica lacerante, che eleva se stessa a principio assoluto, dopo aver posto l’identità tra l’essere e il nulla, due nichilismi – uno equivocante» [Hegel] «d’un tutto fondato sul nulla, l’altro univocante d’un tutto che, indifferente com’è ai suoi momenti particolari, nulla di fatto riesce a fondare, perché è già, per immediata identità» [Schelling] «indifferentemente tutto – che la dialettica pretenderebbe unire in un terzo ed assoluto nichilismo, per il quale il nulla del tutto coinciderebbe col tutto del nulla» [38].

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In base alla dialettica hegeliana, che Kasper fa sua, non è mai possibile fare delle affermazioni o delle negazioni nette ed assolute, valide sempre ed in ogni caso, sia in campo dogmatico che in campo morale. Bisogna esprimersi in modo che ciò che noi diciamo possa essere interpretato nel senso opposto a quello che appare. Il nostro sì deve lasciar trasparire un no. Sotto al sì deve esserci un no. Questo giudicare doppio, con un giudizio manifesto e un altro sottostante o soggiacente o nascosto, ma non tanto da non farsi riconoscere, un giudizio opposto al primo, è detto in greco ypò-krinein, da cui il termine italiano “ipocrisia”. Per questo, il linguaggio teologico di Kasper, diventa di prammatica un vero e proprio imperativo morale. Si tratta di patteggiare col falso, nascondendolo sotto il vero, in modo che il pesciolino che ci ascolta, abboccando all’amo, ingerisce il veleno. Infatti, in base a questi princìpi e a queste vie tortuose, qualunque proposizione, anche dogmatica, è manovrabile ed equivocabile, può andar soggetta a interpretazioni contrastanti e produrre effetti morali dannosi, opposti a quelli che appaiono in  superficie.

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Ma ciò, per il dialettico hegeliano non deve creare scrupoli o turbare, anzi è cosa normale, che consente la libertà di pensiero e il pluralismo teologico, come per esempio la coesistenza di cattolicesimo e luteranesimo. Al contrario, per l’hegeliano sono proprio la precisione e l’univocità che sono segno di una visione ingenua, unilaterale e incompleta del reale, che non tiene conto della sua storicità e della sua contradditorietà dialettica.

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La doppiezza eretta a sistema

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Labbra bugiarde, parlano con cuore doppio [Sal 12,3]

Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno ed amerà l’altro o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro [Mt 6,24]

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L’opporre il no al sì può essere disobbedienza o atto di virtù. Disobbedienza, se diciamo di no a Dio. Virtù, se diciamo di no al peccato. Ma ci può essere anche la negazione teoretica, quando diciamo di no a una tesi. E anche qui ci può essere l’onesto o il disonesto: l’onesto, se diciamo di no al falso; il disonesto, se diciamo di no al vero. Cristo ci comanda di dire sì a ciò che è sì e no a ciò che è no. Non dobbiamo contraddire alla verità e dobbiamo condannare il falso. Chi sta a metà, viene dal diavolo. Questa è la doppiezza, rappresentata nella Bibbia dalla lingua biforcuta del serpente.

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Questo è il senso delle parole di San Paolo:

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«Quello che decido, lo decido secondo la carne, in maniera da dire allo stesso tempo “sì, sì” e “o, no”? Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è “sì” e “no”. Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono diventate “sì”» [II Cor 1, 17-20].

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La dialettica, come abbiamo visto, gioca col sì e col no. Può essere un gioco pericoloso, quando vogliamo fare i furbi o se vogliamo ingannare gli altri. Esistono delle regole sia del ragionare dialettico che di quello scientifico. Sono ad un tempo regole logiche e regole morali. Aristotele, che curava l’onestà nel ragionare [39], ebbe premura di fare un elenco di fallacie nel pensare e nel parlare, gli «elenchi sofistici», per metterci in guardia contro la disonestà nel pensare e nel parlare, ossia contro la doppiezza e l’ipocrisia. Ora, purtroppo Kasper si dichiara ammiratore non della sana dialettica aristotelica, utilizzata da San Tommaso, ma di quella di Hegel, che è somma maestra di ambiguità, insinuazioni malevole, inganni fascinosi, sofismi, scorrettezze e disonestà nel ragionare e nel concludere.

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Kasper collega l’analogia non alla concezione tomista, ma alla dialettica di Hegel, per cui non c’è da meravigliarsi se egli, come abbiamo già visto, cade in un concetto falso dell’analogia. Riprendiamo adesso il discorso in relazione a questa doppiezza della dialettica hegeliana, la quale, ben lungi dal prestarsi ad interpretare la Scrittura, la falsifica alle radici.

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Kasper si dichiara a favore dell’analogia, ma non ne ha un concetto giusto. Egli dice:

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«L’analogia sostiene esistere fra assoluto e finito identità e differenza. Essa unisce identità e diversità, negazione e posizione in un centro oscillante. Questo centro, tuttavia, non è un concetto d’essere che comprende Dio e il mondo, cosa che potrebbe ricondurre, per la verità, a una qualche forma della filosofia dell’identità, ma significa, nel senso dell’analogia di proporzionalità, solo una corrispondenza [non identità] di proporzioni dei due analogati» [40].

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Alcune osservazioni. Dio e il mondo esistono. Eppure Dio esiste diversamente dal mondo. Si può dunque predicare l’essere nell’uno e nell’altro caso. Ma il significato dell’essere nei due casi è diverso. Dunque abbiamo un qualcosa – l’essere – che predichiamo di tutto in molti modi, sensi o significati diversi. To on pollacòs legòmenon, come diceva Aristotele. L’essere si dice in molti modi. È sempre l’essere per ciascun ente, mondo e Dio, quindi abbiamo un solo concetto, ma con una pluralità di diversi significati. Tra Dio e il mondo non c’è identità, ma somiglianza e diversità. Non sono la stessa cosa. Sono due realtà diverse, differentissime. Due cose non possono ad un tempo essere identiche e differenti. Non si può affermare e negare ad un tempo l’identità o la differenza. Dio e il mondo fanno due. Eppure sono compresi in un unico concetto analogico dell’essere. E questo perché la nozione dell’essere contiene in sé le sue differenze, senza tuttavia astrarre completamente da esse.

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L’affermazione e la negazione non entrano nell’analogia, ma nella dialettica. Nell’analogia non si tratta affatto di trovare un «centro oscillante» tra due opposti, ma semmai di spostare l’attenzione dell’intelletto fra i vari analogati, per esempio, nel considerare il concetto analogico della vita, partire dalla vita vegetativa e salire fino alla vita divina.

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Nell’analogia il sì non sta assieme col no, non si «oscilla» tra il sì e il no, perché sarebbe doppiezza, ma ogni analogato è nell’ordine del sì, così come in Cristo, che è il sommo analogato «c’è stato solo il sì» [II Cor 1,17]. L’analogia si pone sul piano della diversità, della somiglianza, della concordanza, della relazione, del confronto, della proporzione.

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Kasper ha ragione a collegarla col dialogo. Ma ha torto a collegarla con la dialettica. Quest’ultima impone una scelta tra il sì e il no, anche se giunge alla verità confrontando due tesi opposte. Il dialogo invece dice scambio, comunicazione, integrazione, correzione, arricchimento, complementarità reciproci.

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Continua Kasper:

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«L’uomo può pensare unicamente in quel duplice movimento» ― oscillatorio ―  «che significa un continuo trascendere il finito verso l’infinito e un continuo concretizzarsi dell’infinito verso il finito. Un tale pensiero dev’essere caratterizzato come pensiero storico; esso si trova in una dialettica mai conclusa di passato e di futuro, di libertà e necessità, in una dialettica disposta sempre oltre se stessa e, come tale, dev’essere circoscritto rispetto ad ogni pensiero statico. In quanto radicalizzazione della problematica trascendentale, esso coglie anche l’assoluto innanzitutto come momento interno a questa storicità» [41].

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La salita del pensiero verso il trascendente e l’universale astratto, e il ritorno nel singolare concreto ed immanente, valgono per il pensiero morale, che deve stabilire l’azione concreta, non per quello della metafisica e della teologia speculativa, che, una volta salita al cielo, contempla, nel pensiero statico, ossia stabile ed immutabile,  le «cose di lassù» [Col 3,1]. È falso dunque che l’uomo può pensare unicamente nel pensiero «storico», considerando oltre a tutto che cosa Kasper intende con questa espressione, come abbiamo già visto.

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Il concepire poi l’Assoluto come «momento interno della storicità» della coscienza, sa molto di idealismo. Certamente Dio è presente ed intimo alla coscienza di ogni uomo. Ma il presentarLo nei suddetti termini dà un’immagine falsa dello stesso Assoluto, Che sembra essere un pensiero, sia pur sublime, ma pur sempre una semplice idea umana, immanente ai limiti storici della coscienza, mentre in realtà il Dio eterno e infinito li trascende all’infinito.

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Continua Kasper:

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«Le moderne interpretazioni del principio di analogia […] fanno propria l’impostazione trascendentale e intendono l’analogia come esplicazione dell’autocompimento dello spirito, che può esprimere il finito unicamente nell’orizzonte dell’infinito non più oggettivabile e quindi non più enunciabile univocamente» [42].

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Benché si tratti di «moderne interpretazioni dell’analogia», esse tuttavia non capiscono che cosa è l’analogia, la quale non suppone alcun trascendentalismo idealista e nessun «autocompimento dello spirito», ma semplicemente la nozione analogico-trascendentale dell’ente. Per questo, il vero sapere analogico in teologia non esprime affatto «il finito unicamente nell’orizzonte dell’infinito», ma lo esprime nell’orizzonte dell’essere analogico.

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La teologia non parte affatto dal concetto di Dio, per conoscere il mondo alla luce di quel concetto; ma, al contrario, parte dall’esperienza sensibile del mondo per risalire a Dio come causa e creatore del mondo [Rm 1,20; Sap 13,5]. Non è vero che Dio non è oggettivabile, ossia conoscibile in concetti. Lo è, certo, non univocamente, ma analogicamente.

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La concezione dialettica di Dio

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Dice Kasper:

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«L’assoluto dev’essere conosciuto solo nel e con quel centro oscillante di posizione e negazione. Ciò che nella teologia scolastica viene giustapposto in modo relativamente estrinseco come via positionis e via negationis, qui diviene, invece, peculiare movimento globale del pensiero, anzi diviene l’esercizio dello spirito stesso. L’assoluto è allora conosciuto unicamente in quanto movimento dialettico dello spirito e non in un cosiddetto concetto analogo» [43].

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Kasper a un certo punto, scopre le carte e manifesta con tutta chiarezza che la sua «analogia» non è altro che uno specchietto per le allodole, che nasconde in realtà la dialettica hegeliana della sintesi tra il sì e il no, il sapere e non sapere:

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«Non è forse vero che l’uomo, anche e proprio nella sua apertura all’infinito, rimane pur sempre spirito finito? E in questo spirito finito potrà egli pensare l’infinito? O non dovrà conoscerlo e misconoscerlo allo stesso tempo?» [44].

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Come esiste una visione doppia nella vista fisica ― per esempio il vederci degli ubriachi o la miopia ―, così ne esiste una nella vista dello spirito. E come è anormale e sgradevole la prima, così è ancor più anormale e spiacevole la seconda. Questa peraltro non è inevitabile e non c’è da provarne alcun gusto, come invece pare ne provi Kasper.

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Con una vista doppia, Dio dunque appare doppio: eterno e temporale, immutabile e mutevole, impassibile e sofferente, punitore e complice del peccato, misericordioso e crudele, ecc.. Kasper fraintende completamente il rapporto fra teologia positiva e teologia negativa: non comprende che non si tratta assolutamente di affermare e negare simultaneamente lo stesso attributo divino. Ciò sarebbe quel dire sì e no, che Cristo attribuisce al diavolo. Si tratta, invece, proprio come insegna la teologia medioevale ingiustamente da lui disprezzata, proprio di separare accuratamente, senza contrapporre, il momento della teologia positiva da quello della negativa, per il fatto che la seconda si costruisce sulla base della prima, in quanto, mentre quella afferma un attributo divino nella sua assolutezza ― per es. la bontà ―, la seconda lo nega evidentemente non in quanto tale, ma, ponendosi dal punto di vista del nostro modo umano di concettualizzare e di quanto noi possiamo comprendere della bontà divina. Il metodo scolastico conserva il contenuto trascendentale del concetto di bontà, ma ne nega il modo finito col quale la bontà si realizza nelle nostre conoscenze umane [45].

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Davanti al Mistero divino, il concetto non entra in contraddizione con se stesso, ma al contrario si afferma nella sua massima potenza e assurge alla sua massima dignità, certo non col suo modo d’essere finito [46], ma nel suo contenuto teologico. Qui Hegel aveva ragione contro Schelling. E il concetto, nel momento nel quale avverte questo suo limite, si rende conto di essere infinitamente superato dal modo d’essere divino. E proprio questa esperienza gli fa capire di aver raggiunto Dio, perché, se non avvertisse di essere superato, ciò che concepisce non sarebbe Dio, ma un idolo. Su questo punto Schelling non aveva tutti i torti.

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Il Dio di Schelling e di Hegel

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Kasper propone una teologia, la quale mette assieme l’idea di Dio in Schelling con quella di Hegel, nonostante il forte contrasto che le divide. Ma entrambe derivano dalla concezione luterana di Dio, e questo spiega, secondo me, questo fatto di congiungerle. Resta comunque che, mentre Schelling punta l’attenzione sul Deus absconditus, Mistero assoluto e indifferenziato di identità ideale-reale, soggetto-oggetto, inconoscibile e indicibile, «coincidentia oppositorum», il Dio del quale si può dire tutto e il contrario di tutto, «stoltezza della predicazione», un Assoluto che, come è noto, appare ad Hegel la «notte ― come egli dice ―, nella quale tutte le vacche sono nere», Hegel considera il Dio che si fa storia ed appare nella coscienza sub contraria specie, il Deus revelatus, l’evento Cristo, il Logos, la Ragione, la Parola, il Concetto, l’«Universale concreto».

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Kasper, Per quanto riguarda Schelling, nel far sua la sua concezione, la riporta in questi termini:

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«L’infinito non oggettivo, originario, non può essere saputo oggettivamente, ma soltanto in modo assoluto. Questo sapere trascendentale, tuttavia, non sta semplicemente accanto al sapere oggettivo, ma lo comprende e lo rende possibile, non è tematizzabile in se stesso, non deve essere oggettivato e quindi falsato. Lo si scopre solo nella dialettica, in quell’oscillare e in quel passare dall’uno all’altro» [47].

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Questa conoscenza «assoluta» è sempre la dialettica, come in Hegel: la sintesi del sì e del no, dell’affermazione e della negazione, con la differenza che mentre in Hegel l’Assoluto può e deve essere concepito razionalmente e determinatamente, per cui, come dice Hegel «il Mistero è svelato», il sapere assoluto di Schelling è indifferente alle distinzioni concettuali, lasciandole nelle loro opposizioni, e quindi dà l’impressione di apprezzare l’esperienza mistica e l’oscurità divina, ma nel momento in cui questo sapere viene espresso, ricade nell’«oscillazione» tra il sì e il no, che abbiamo già vista. É in fondo la coincidentia oppositorum del Cusano, che pure abbiamo già vista.

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Anche per San Tommaso, certamente, Dio è l’Assoluto, ma ciò non impedisce che si possa avere un concetto, benché imperfetto, dell’essenza di Dio, esprimibile nel linguaggio, già in base alla ragione e ancor più grazie alla fede. Questo concetto, prodotto dalla nostra ragione, sia pur illuminata dalla fede, non può indubbiamente comprendere o abbracciare esaustivamente l’essenza divina nella sua infinità. E tuttavia la può conoscere limitatamente nella sua verità. Nel contempo, San Tommaso non nega che la nostra parola venga a mancare, quando consideriamo, soprattutto nell’esperienza della carità, l’infinita bontà divina. E quindi non nega affatto l’esperienza mistica. Ma si guarda bene dal basarla sull’oscillazione tra il sì e il no. Essa invece nasce da un sì a Dio detto con tutte le proprie forze e sulla base delle verità di fede.

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Resta comunque, come abbiamo visto, che noi possiamo concepire Dio facendo ricorso al concetto analogico dell’essere, per il fatto che la Scrittura ci insegna che Dio è «Colui Che É» [Es 3,14], quindi, come osserva San Tommaso, Dio è un Ente, la cui essenza è quella di essere assolutamente e infinitamente. In tal senso Dio è l’Infinito e l’Assoluto. Parliamo di concetto analogico, per il fatto che, come insegna la Scrittura [Sap 13,5], noi possiamo sapere che Dio esiste e quindi possiamo farcene un concetto, partendo dalla considerazione degli enti, ossia delle cose, che sono effetti della sua potenza creatrice: «Di fatti, dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’Autore». Se infatti tutte le cose hanno in comune il fatto di esistere e di avere l’essere, un essere del quale partecipano, senza che nessuna di esse sia l’essere per essenza, la ragione ci obbliga ad ammettere che, avendo esse ricevuto l’essere, debba esistere un Essere, Che lo abbia dato loro, cioè che le abbia create, un Essere che, per spiegare l’esistenza degli enti, a sua volta non abbia ricevuto l’essere, ma che sia puro ed infinito Essere, quello che San Tommaso chiama ipsum Esse per Se subsistens, Dio.

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Una volta dunque che noi abbiamo formato la nozione universalissima  dell’essere,  siamo in grado di poter predicare l’essere sia delle cose, che di Dio, ma dobbiamo tener presente che lo predichiamo nei due casi non in senso univoco, come se di esse e di Dio l’essere si potesse predicare nello stesso senso, ma in due sensi molto diversi, ossia analogici, perché, mentre le cose hanno l’essere, ossia sono finite, Dio è l’Essere infinito. Per questo l’Aquinate dice che mentre la realtà creata è id quod habet esse, Deus est suum esse. E d’altra parte, esagerando la diversità tra la creatura e il Creatore e cadendo nell’equivocità dell’essere per un falso misticismo e senso del mistero, non si può dire che l’essere non si può predicare di Dio, in forza della “trascendenza” di Dio e della sua superiorità nei confronti di tutti i concetti umani. Questo è l’errore di Schelling, nel quale cade anche Kasper.

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Il Dio dell’idealismo proposto da Kasper oscilla tra l’equivocità e l’ univocità. Questa tendenza è in nuce già nel Dio di Lutero, che congiunge la concezione agostiniana del Dio interiore alla coscienza e luce della coscienza, fonte di verità eterne, col Dio di Ockham, che è un Dio che non tiene conto delle nostre certezze, un Dio quindi, sui cui attributi si può equivocare, perché la sua imperscrutabile e insindacabile volontà non comanda ciò che è bene, ma ciò che Egli vuole che sia bene. Per cui, se Dio permettesse l’adulterio, esso sarebbe lecito. Infatti, per Ockham, dato che non ammette l’esistenza di essenze universali, non esiste una natura umana, regolata da leggi morali universali, valide per ogni individuo, per cui il bene dell’uomo non è l’osservanza di queste leggi, ma semplicemente il fatto che ogni singolo uomo compia il volere di Dio nella sua situazione particolare e variabile da uomo a uomo. I doveri dell’uomo non sono motivati da una ragione, che non dà certezze, ma solo da opinioni, e dal solo fatto che Dio vuole così e potrebbe volere diversamente.

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Il Dio dell’idealismo approvato e raccomandato da Kasper e da lui considerato migliore e più biblico di quello di San Tommaso, è una congiunzione della concezione luterana di Dio con quella cartesiana, attraverso Kant e Fichte.

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L’agostiniano Dio nella coscienza ha un riflesso sia in Lutero che in Cartesio, ma mentre in Agostino la coscienza entra in se stessa per aprirsi alle cose esterne che conducono a Dio ed alla compagine visibile, istituzionale e sacramentale della Chiesa con a capo il Vicario di Cristo, con Lutero e Cartesio, il Dio nella coscienza diventa, per dirla con Kasper

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«il principio moderno della soggettività, il processo durante il quale l’uomo diventa cosciente della propria libertà come autonomia, e se la rende punto di partenza, misura e mezzo per un’intera concezione del reale» [48].

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Dio e la storia

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La proposta kasperiana è chiara: è quella di sostituire, nell’interpretazione della Rivelazione cristiana, la filosofia tomista con quella idealista, nonostante le secolari raccomandazioni a favore di San Tommaso fatte dai Sommi Pontefici, fino alle prescrizioni del Concilio Vaticano II e dei seguenti Pontefici, come San Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio e le ripetute condanne dell’idealismo da parte del Magistero della Chiesa sin dal XIX secolo. É evidente, altresì, in Kasper, l’intento di favorire Lutero dietro le lodi tributate a Schelling e ad Hegel.

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Prendiamo in esame alcune dichiarazioni significative di Kasper. Egli ritiene che

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«la filosofia di Hegel … offre al teologo degli strumenti concettuali che lo aiutano, più di quanto non sia stata capace la tradizione metafisica del passato, a capire l’avvenimento di Cristo e a riflettere su Dio non più in termini filosofico-astratti, bensì concretamente, a pensare cioè Dio come il Dio e Padre di Gesù Cristo» [49].

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Vediamo quali sarebbero secondo Kasper questi «strumenti concettuali», che fanno conoscere il mistero cristiano meglio di San Tommaso. Egli dice:

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«Un Dio che ora viene pensato entro l’orizzonte della soggettività, non può essere compreso come l’Esistente supremo, perfettissimo e immutabile. Si giunge così, dopo i diversi tentativi intrapresi dallo scotismo e dal nominalismo medievali, come pure da pensatori quali Meister Eckhart e Nicolò Cusano, a una de-sostanzializzazione del concetto di Dio» [50].

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Kasper loda Hegel perché è giunto a concepire l’Assoluto

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«non come sostanza ma come soggetto, in quanto si aliena nell’altro da sé» [51]. «L’Intero (Dio) non è altro che l’essenza che si compie attraverso la sua evoluzione» [52]. «Questa comprensione storica di Dio ― spiega Kasper [53] ― è mediata sul piano cristologico e raggiunge il suo apice nell’interpretazione del fenomeno della croce, nel tentativo di capire la morte di Dio»

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«L’avvenimento della croce ― continua Kasper parlando di Hegel ― è la descrizione esteriore della storia dello Spirito assoluto»[di Dio]; «per essa avviene in Dio una “scissione”»; la morte di Dio significa che egli nega se stesso: «in questa auto-alienazione la morte rappresenta il vertice massimo della finitudine, la negazione suprema e quindi anche la migliore manifestazione dell’amore di Dio» [54].

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Dice ancora Kasper:

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«Per sua stessa essenza lo Spirito assoluto pone in se stesso la sua differenza da sé. Secondo Hegel, questa è un’esegesi filosofica del detto biblico: ‘Dio è amore’» [55].

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É qui evidente un’interpretazione dialettica del Mistero della Croce, la quale nulla ha a che vedere con quanto la dottrina della Chiesa e la Scrittura insegnano sull’argomento [56].

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Conseguenze in antropologia e morale

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Se la casa è fondata sulle sabbie mobili del divenire e dell’incertezza, non c’è da stupirsi se essa non possa avere una salda struttura e garantire una sicura abitabilità. E di fatti l’antropologia kasperiana e la morale che ne discende ci lascia in balìa delle onde del mare agitato della storia, senza una meta fissa e senza un porto riparato nel quale rifugiarci, che non sia ciò che si svolge nella dialettica della nostra coscienza soggettiva. Poco ci aiuta il richiamo ad un “Assoluto” impelagato come noi nelle vicende, nelle sventure e nelle oscurità di questa vita mortale, tanto che non si capisce se è Lui che ci soccorre o noi dobbiamo soccorrere Lui.

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Dice Kasper:

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«L’uomo si trova davanti a un mistero insuperabile, anzi egli stesso è un mistero impenetrabile. Non è possibile ricavare le linee essenziali della nostra esistenza» [57].

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Non si risolve il delicatissimo problema dell’essenza dell’uomo, nonché dei fini e delle leggi della sua vita con un misticismo a buon mercato, che non è altro che una comoda ma vergognosa fuga dalle proprie responsabilità. In tal modo, si abbandona la gravissima questione morale nelle mani di qualunque ciarlatano. Per un teologo cattolico la cosa, poi, è ancora più grave, considerando il ricchissimo e millenario patrimonio dottrinale, del quale dispongono in merito l’antropologia e la morale cattolica.

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La riduzione dell’uomo, fatta da Kasper, a mera possibilità di recepire la grazia, a mero vaso della grazia, può dar l’impressione di un’alta spiritualità, ma in realtà è una schietta impostura, anzi è un’assurdità, perché la grazia è un perfezionamento della natura: se non esiste il perfezionabile, non può esistere neppure la perfezione che dovrebbe perfezionarlo.

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Dice infatti Kasper:

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«L’infinita distanza che separa l’uomo da Dio, la creatura dal suo Creatore, e la cui mediazione si preannunzia nella persona dell’uomo come interrogativo e come speranza, non può essere colmata da possibilità umane. Per sua stessa essenza questa mediazione non può provenire che da Dio. Nella sua personalità, l’uomo è soltanto grammatica, potentia oboedientialis, pura e passiva possibilità di questa mediazione» [58]. «L’antropologia è, per così dire, la grammatica di cui Dio si serve per autoesprimersi; ma la grammatica in quanto tale rimane aperta agli enunciati più diversi e trova la sua determinazione concreta soltanto nella vita umana di Gesù» [59].

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L’uomo davanti a Dio non è  solo una passiva «grammatica», ma è una creatura libera fatta a sua immagine, con ben precise finalità e regolata da ben precise leggi, della cui obbedienza deve render conto a Dio; non è un nastro registratore, ma un soggetto personale attivo, un interlocutore capace di rispondere di sì o di no, e che Dio chiama a dirgli di sì.

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Nell’etica che discende dall’antropologia kasperiana tutto è possibile e il contrario di tutto. Niente è stabile, niente è universale, niente è necessario, niente è assoluto. Ma tutto diviene, tutto è storicizzato, tutto è relativo, tutto è diversificato, tutto è contestualizzato, tutto è particolare e concreto.

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Le note conturbanti di questa etica relativista e storicista dovrebbero metterci in allarme e farci consapevoli dell’importanza delle buone basi metafisiche e teologiche della morale, se non vogliamo che la condotta umana, abbandonando le vie del Vangelo, scenda al livello dell’homo homini lupus.

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Varazze, 24 maggio 2018

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NOTE

[1] L’Assoluto nella storia nell’ultima filosofia di Schelling, Jaca Book, Milano 1986, p.492.

[2] Cf G.Cavalcoli, San Tommaso e la filosofia cristiana, in La filosofia cristiana tra Ottocento e Novecento e il Magistero di Leone XIII, in Atti del Convegno di Perugia del 29.V-1.VI 2003, a cura della Curia Arcivescovile di Perugia, Perugia 2004, pp.323-332; AA.VV., Tommaso d’Aquino e l’oggetto della metafisica, Armando Editore, Roma 2004.

[3] E’ la convinzione dei rahneriani che ormai Rahner abbia soppiantato S.Tommaso o sia il S.Tommaso del nostro tempo. Tale convinzione, con buona pace dei rahneriani, ovviamente si basa su di un fraintendimento  delle verità fondamentali della ragione e della fede.

[4] Vedi la grande enciclica di S.Giovanni Paolo II Fides et Ratio del 1998.

[5] Cf E.Gilson, Lo spirito della filosofia medioevale, Ed.Morcelliana, Brescia 1964.

[6] Alcuni testi sull’importanza e l’attualità del pensiero di S.Tommaso: G.Mattiussi, Le XXIV Tesi della filosofia di S.Tommaso d’Aquino approvate dalla Congregazione degli Studi, Tipografia della Pontificia Università Gregoriana, Roma 1947; J.Maritain, Le Docteur Angélique, Desclée De Brouwer&C.ie, Paris 1930; A.Fernandez –M.Cordovani – M.Maggiolo – R.Spiazzi, La missione del tomismo, Edizioni S.Sisto Vecchio, Roma-Napoli 1967; C.Giacon, Le grandi tesi del Tomismo, Edizioni Patron, Bologna 1967; P.Parente, Terapia Tomistica per la problematica moderna da Leone XIII a Paolo VI, Edizioni Logos, Milano 1979; J.A.Weisaheipl, Tommaso d’Aquino.Vita, pensiero, opere, Jaca Book, Milano 1988; N.Sarale, S.Tommaso d’Aquino oggi, Editrice Civiltà, Brescia 1990; A.Livi, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1997; R.Spiazzi, Il pensiero di S.Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1997; R.Garrigou-Lagrange, La sintesi tomista, a cura di M.Bracchi, Prefazione di A.Livi, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2015.

[7] Qui Kasper polemizza con lo Przywara.

[8] L’Assoluto nella storia, op.cit., p.492.

[9] Come è noto, il Gaetano fu incaricato da Papa Leone X di ingiungere a Lutero a ritrattarsi. Purtroppo la missione fallì perché Lutero avrebbe voluto difendersi, ma al dottissimo e pio Cardinale domenicano, obbediente al Papa, non fu concesso di discutere con Lutero. A questo punto Lutero non volle saperne di correggersi e restò attaccato alle sue idee, come poi avrebbe fatto per il resto della sua vita. Chissà che invece, se i due avessero potuto dialogare, al Gaetano non fosse stato possibile, con la sua eccezionale capacità di persuasione, ad aprirsi uno spiraglio nella coscienza di Lutero circa l’importanza della metafisica per interpretare la Parola di Dio. Cf su questo argomento interessante lo studio approfondito dello storico domenicano Charles Morerod, oggi Vescovo di Losanna, Cajetan et Luther en 1518, Fribourg en Suisse 1994.

[10] Cf J.Maritain, Sept leçons sur l’Etre et les premiers principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1934, pp.88-96.

[11] Non può essere in se stesso diviso o molteplice, benchè abbia molteplici significati, perché deve coprire tutta l’ampiezza e l’estensione dell’essere e fuori dall’essere non c’è che il nulla. Fu già questo l’errore di Enrico di Gand, nel sec.XIII, il quale pensava che esistessero due nozioni analogiche dell’ente simili fra di loro, una per Dio e una per il mondo. Cf E.Bettoni,  Duns Scoto filosofo, Editrice Vita e Pensiero, Milano 1966, pp.67-69.

[12] L’Assoluto nella storia, op.cit., p.504.

[13] Il dogma sotto la Parola di Dio, Herder-Morcelliana, p.48.

[14] Denz. 1507, 3020, 3074,. 3540; Catechismo della Chiesa Cattolica, n.88-90; Cf« il Codice del 1917: «Christus Dominus fidei depositum Ecclesiae concredidit, ut ipsa, Spiritu Sancto iugiter assistente, doctrinam revelatam sancte custodiret et fideliter exponeret» [Can.1322§1]; Melchior Canus, De locis theologicis, Venetiis 1786, pp.88-93; R.-M.Schultes, Historia dogmatum, c.I, Lethielleux, Paris 1922; A.Gardeil, Le donné révélé et la Théologie, Les Éditions du Cerf, Paris 1932; S.Cartechini, Dall’opinione al domma. Valore delle note teologiche, Edizioni “La Civiltà Cattolica”, Roma 1953; Y.Congar, La Foie et la Théologie, Desclée, Tournai, 1962, pp.54-71; F.Marín-Sola, La evolución homogenea del dogma católico, Madrid-Valencia 1963, cc.III e IV; G.Cavalcoli, La questione dell’eresia oggi, Edizioni Viverein, Roma 2008, pp.215-223.

[15] Cf Conc. Vat.II, Cost.Dogm. Dei Verbum,cc.II e III.

[16] Della quale parla il Maritain nelle già citate Sept Leçons, pp.45-50.

[17] L’Assoluto nella storia, op.cit., p.61.

[18] Cf Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica, Queriniana, Brescia 2016, p.54.

[19] Egli fraintende questa immagine proposta da Papa Francesco, il quale non si riferiva all’essenza della Chiesa, il cui centro organizzativo è evidentemente il Papa, ma all’ecumenismo.

[20] Vedi l’interessante analisi della metafisica di Guglielmo di Ockham in T.Tyn Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1991, pp.243-258.

[21] Il dogma sotto la parola di Dio, Ed. Queriniana, Brescia 1968, p.47.

[22] Op.cit.,p.137.

[23] Ibid., p.65.

[24] Ibid., p.148.

[25] Per questo, l’ammissione, sostenuta dal Card.Kasper, di casi nei quali la S.Comunione potrebbe essere concessa ai divorziati risposati, non è fondata, come io ho sostenuto in questo sito, sul fatto che qui è in gioco una semplice legge ecclesiastica, ma dipende dal fatto che egli, a causa della sua gnoseologia storicistica, non può accettare l’indissolubilità del matrimonio come valore assoluto ed universale.

[26] Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1988, vol.I, p.27.

[27] Vedi i passi di Kasper nel mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004, pp.321 e 325.

[28] LA  DIALETTICA NELLA CRISTOLOGIA DI HEGEL, in Sacra Doctrina, 6,1997, pp.87-140. Non si tratta di communicatio idiomatum,  perché  Kasper attribuisce l’umano non alla natura divina in quanto è unita alla natura umana nella Persona di Cristo (“Dio è morto”, “Dio soffre”), ma alla natura divina come tale. Per lui, come per Hegel, Dio è essenzialmente umano. Indipendentemente dall’uomo, Dio non è Dio. Secondo il coscienzialismo idealista, Dio è Dio nella coscienza dell’uomo e in quanto pensato dall’uomo. Tutto nella coscienza, niente fuori della coscienza. È, in fondo, il cogito cartesiano sviluppato da Fichte.

[29] Gesù il Cristo, Queriniana , Brescia 1975, p.231.

[30] Gesù il Cristo, Ed.1981, pp.250-251.

[31] A.Livi, Vera e falda teologia. Come distinguere l’autentica ”scienza della fede” da un’equivoca “filosofia della religione”, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.

[32] L’Assoluto nella Storia, op.cit., p.493.

[33] Ibid., p.503.

[34] Fenomenologia dello Spirito, op.cit., pp. 14,15.

[35]Ibid.

[36] Ibid., p.17.

[37] Ibid., p.26. Il difetto della gnoseologia hegeliana è dato dal fatto che il punto di partenza del sapere non è dato dall’affermazione dell’evidente, ossia della cosa sensibile che fronteggia l’esperienza e la ragione, cioè l’oggetto, ma, al contrario, dalla sua negazione: l’oggetto è un opposto al soggetto, per cui il vero è dato dal fatto che il soggetto, negando l’oggetto, lo identifica di nuovo con sé. Cf il mio articolo La negazione della verità del senso comune in Hegel, in La certezza della verità, Raccolta di contributi di vari Autori a cura di Antonio Livi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2013, pp.143-148.

[38] Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, op.cit. p.875.

[39] È strano che Lutero abbia accusato Aristotele di essere un sofista, mentre il grande sofista era proprio lui.

[40] L’Assoluto nella storia, op.cit., pp.493-494.

[41] L’Assoluto nella storia, op.cit., pp.491-492.

[42] Ibid., p.494.

[43] Ibid., pp. 494-495.

[44] Gesù il Cristo, Ed. Queriniana, Brescia 1975, p.65.

[45] Quindi, quando Gesù dice che «solo Dio è buono» [Mc 10,18], evidentemente non nega che anche le creature siano buone [Gen 1, 10,13, 18, 21, 25] nel loro modo finito; ma semplicemente vuol dire che solo Dio è assolutamente ed infinitamente buono. Cf J.-H.Nicolas, Dieu connu comme inconnu. Essai d’une critique de la connaissance théologique, Desclée De Brouwer, Paris 1966, pp.145-146.

[46] Bisognerebbe che fosse infinito anche il modo d’essere di tale concetto. Ma qui esiste un solo Concetto adeguato, che è il Logos.

[47] L’Assoluto nella storia, op.cit., p.491.

[48] Gesù il Cristo 1981, p.253.

[49] Gesù il Cristo 1981, p.256.

[50] Ibid. p.253

[51] Ibid., p.254

[52] Ibid.

[53] Ibid.

[54] Ibid..254-255.

[55] Ibid.

[56] Vedi il mio trattato Il Mistero della Redenzione, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2004.

[57] Ibid. p.65.

[58] Ibid., p.346.

[59] Ibid., p.66.

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

La filosofia di Martin Heidegger e il Nazismo

— Theologica —

LA FILOSOFIA DI MARTIN HEIDEGGER E IL NAZISMO

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Nel 1933, l’anno stesso dell’ascesa al potere di Hitler, Martin Heidegger divenne rettore dell’Università di Friburgo ed assunse il ruolo di filosofo ufficiale e più autorevole del Partito Nazional Socialista, la cui tessera egli conservò senz’alcun pentimento fino al 1945, anche se già nel 1934 egli dette le dimissioni, non però per un recesso dalla dottrina nazista, ma perché a suo dire, il Nazismo, nei fatti era venuto meno alla sua essenza e per aver rinunciato al suo radicalismo «spirituale». 

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

Accingendomi a trattare questo delicato argomento filosofico-teologico per la nostra pagina di Theologica, hanno risuonato spesso nella mia mente le parole del compianto Cardinale Giacomo Biffi, che per anni fu mio Vescovo quando vivevo a Bologna e svolgevo il mio ministero presso lo Studio Teologico Domenicano:

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«Noi ci imbattiamo spesso in profeti del nulla, che non hanno niente da dire all’uomo come uomo,  ma lo dicono con grande impegno e dovizia di mezzi, annunciatori aggressivi del vuoto esistenziale,  che essi cercano di mimetizzare con lo scintillio di una razionalità puramente formale,  portatori di una cultura di morte, che tentano di imporsi come maestri di vita» [Esplorando il disegno, LDC 1994, p. 308].

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Delle parole accompagnate dal monito contenuto nel Libro della Sapienza:

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Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole; ritenendola amica,  si consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché son degni di appartenerle [1,16].

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Nell’ampio dibattito internazionale su Martin Heidegger [1889–1976] in corso da settant’anni a questa parte non si è indagato e riflettuto finora abbastanza sul legame di questo filosofo col nazismo. Legame al quale Heidegger, da rettore dell’Università di Friburgo, dette molta importanza sul piano teoretico, parlando di un «nazionalsocialismo spirituale» ed elogiando Adolf Hitler come «guida del pensiero».

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Questo accostamento ci aiuta a capire da una parte quali sono state le radici intellettuali e gli impulsi fondamentali del nazismo, dall’altra, ci fa comprendere meglio le conseguenze pratiche della metafisica di Heidegger. In particolare, considerando quali sono le conseguenze pratiche della metafisica di Heidegger, comprenderemo perché Heidegger ha avuto ammirazione per la dottrina nazista.

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Bisognerà allora brevemente ricordare i princìpi dell’ontologia esistenziale heideggeriana, mettendoli a confronto con la dottrina e il programma nazisti, che Hitler riassume nella sua famosa opera Mein Kampf, la quale peraltro, al di là del programma storico-politico-nazionale di orientamento socialista-statalista, ha alle spalle un retroterra morale e spirituale profondi, radicati nella tradizionale fiera autocoscienza che la «nobiltà cristiana di nazione tedesca» aveva maturato ormai da secoli,  soprattutto a partire dalla formidabile spinta datale da Lutero, il quale ebbe la geniale ma diabolica idea, foriera di enorme successo tra i Tedeschi, che dura tuttora, di concepire un modo tedesco di essere cristiano ― fin qui nulla di male ―, ma da questo si sviluppò il veleno del conflitto con la Sede Apostolica Romana, nella convinzione ostinatissima di aver ritrovato o trovato l’autentico Vangelo ― in pratica una riedizione dell’eresia di Marcione ― proponendosi ed imponendosi come profeta, dottore e riformatore cristiano del popolo tedesco, che egli seppe però conquistare solo in parte, perché sempre, fino ad oggi, è rimasta una parte cattolica della popolazione che ha mantenuto, spesso tra sofferenze ed umiliazioni, la fedeltà a Roma ed alla precedente tradizione cattolica, spesso accusata ingiustamente dai protestanti di scarso spirito patriottico, mentre in realtà sono proprio i cattolici tedeschi a mantenere alto nei secoli l’onore cristiano di questa grande e nobile Nazione.

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Un’umiliazione del genere la subirono i cattolici tedeschi in occasione dell’ascesa di Hitler al potere. Infatti, mentre i cattolici, per la loro fedeltà a Roma, vennero accusati di anti-patriottismo, i protestanti educati da Hegel, sulla scorta di Lutero, spinti a considerare lo Stato come suprema manifestazione della volontà di Dio, non ebbero difficoltà a prestare al Führer un’obbedienza assoluta, la quale, come sappiamo, giunse, per molti di loro, a seguirlo in una spaventosa guerra di aggressione all’Europa, accompagnata dallo sterminio dei tedeschi di religione israelitica. Per questo si può dire con certezza che la dottrina hegeliana dello Stato è una delle basi teoriche del nazismo.

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IL NICHILISMO COME ANIMA DEL NAZISMO

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La tendenza nichilista è di antica origine manicheo-zoroastriana, ed è legata alla concezione ciclica dell’esistenza, presente nel mondo pagano, sia occidentale che orientale, per esempio in India, con l’antichissimo simbolo della svastica. Il ritorno al punto di partenza annulla tutto il moto intermedio, anche se è vero che nell’antichità, per esempio in Platone e nello Pseudo-Dionigi, il cerchio è il simbolo della perfezione dello spirito, che riflette su se stesso.

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Non si può escludere peraltro che la coincidenza del punto di arrivo col punto di partenza possa essere intesa come la corrispondenza della causa efficiente con la causa finale, il che sarebbe segno di saggezza. Ma purtroppo di fatto la svastica è stata assunta dai nazisti per significare l’eterna opposizione vita-morte, che è un principio anche della massoneria esoterica [kein Leben ohne Tod, kein Tod ohne Leben].

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Anche le antiche concezioni dualiste e gnostiche della realtà hanno un aspetto nichilistico, in quanto considerano la materia come non-essere e come male. Da questo punto di vista, Pitagora e Platone non sono esenti da una sfumatura nichilistica.

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Il nichilismo come negazione di Dio, entra nel cristianesimo con Marcione, col suo disprezzo per il Dio dell’Antico Testamento e nel corso della storia del cristianesimo ogni tanto ricompare, come per esempio con i catari del XIII secolo. Il pessimismo luterano nei confronti della ragione e del libero arbitrio ha certamente un carattere nichilistico.

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L’idealismo tedesco, che riduce l’essere al pensare e l’oggetto al soggetto, ha certamente un aspetto nichilistico, in quanto nega la realtà esterna o la dissolve nell’idea, per concludere alla fine con l’ateismo, dimenticando il fatto che è partendo dalle cose che noi sappiamo che Dio esiste. Ma se l’essere si riduce alle idee del soggetto, è chiaro che il soggetto non arriva a Dio, ma semmai si chiude nel proprio mondo, fa Dio di se stesso e resta con un pugno di mosche in mano. È la misera storia di Nietzsche.

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La cosa interessante è che la storia del nichilismo va di pari passo con l’odio per gli Ebrei, a causa della valorizzazione biblica dell’essere creato ed increato. Infatti si nota che ogni nichilista è sempre un antisemita, ed è logico, perché nessun popolo, come quello degli antichi israeliti, ha il senso della realtà, sia essa quella materiale creata, sia essa quella spirituale divina.

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Per definire il nichilismo nietzschiano-nazista collochiamolo nel quadro più ampio e opportuno del nichilismo in generale. Il nichilismo, infatti, ha molte forme. Esso, in generale, è la tendenza a negare l’essere, sia esso materiale o spirituale, mondano o divino, il proprio o l’altrui essere.

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Il nichilismo, come ogni moto pratico dello spirito, è l’applicazione pratica di una teoria. Vediamone allora innanzitutto la base teorica o gnoseologica. Essa punta su Dio e sull’azione umana. Il nichilismo teorico è la convinzione che l’essere non esiste; l’essere è nulla, non vale niente. Tutto è nulla. Esso è bene espresso dal lamento amaro e sconsolato del Qohelet: «tutto è vanità». Questo è anche il nichilismo buddista. Tuttavia, nel Qohelet, la vanità della quale parla è la vanità di questo mondo. Resta sempre affermata l’esistenza di Dio, Che dà senso al mondo da Lui creato.

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Il nichilismo nazista appare come potenza di essere, essere in espansione, essere aggressivo, e tuttavia suppone il suddetto quadro gnoseologico. Tuttavia per esso l’esistenza non ha senso. Esiste originariamente solo il nulla. Il nulla è il fondo di tutte cose. Tutto è apparenza. Tutto è soggettivo, non c’è niente di oggettivo. La metafisica è illusione. Nulla è intellegibile. Di tutto si può dubitare. Affermare e negare sono la stessa cosa. Si trova anche nei sofisti greci e negli scettici.

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Diversa forma di nichilismo è quella hegeliana, per la quale l’essere è contraddetto o annullato dal nulla. L’essere coincide col non-essere. L’essere non può stare senza il non-essere. L’essere è, ed al tempo stesso non è. Tutto diviene, tutto passa e tutto ritorna.

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Altra forma è il nichilismo leopardiano: l’essere sorge da sé dal nulla, tutte le cose vengono dal nulla e tornano al nulla. Il più viene dal meno e il più torna al meno. Tutto è assurdo, a caso, senza senso e senza ragione. Non c’è nulla per cui valga la pena di vivere. Questo è un nichilismo pessimista; invece quello nazista è ottimista. È un inno alla vita, che però finisce con la morte tragica, è un «essere-per-la-morte».

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Nichilismo teologico. Per il nazista Dio è l’espandersi dell’uomo come volontà di potenza. Dio è nel nazista non come un Tu che è presente all’io, ma come forza originaria, intima, profonda e fondamentale dell’io. Il nazista non nega semplicemente l’esistenza del Dio creatore cristiano, ma lo sopprime attivamente, lo uccide, lo annulla, come insegna Nietzsche.

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Notare la differenza dal nichilismo hegeliano. Per esso, Dio è identità di essere e non-essere. Egli è quindi nulla ed essere ad un tempo. Il mondo non è qualcosa, ma è nulla. Dio è tutto e nulla. Quindi Dio non crea, cioè non trae il mondo dal nulla. Ma il mondo appartiene all’essenza di Dio, che è essere e non essere ad un tempo, vero e falso, buono e cattivo. Dio nega se stesso così come il non-essere nega l’essere. Dio non può esistere senza il mondo. Come l’essere si identifica col non-essere, così Dio si identifica col mondo.

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Il nichilismo pratico è una forma di disprezzo o di odio nei confronti del reale, che appare odioso e cattivo. Da qui il desiderio o il tentativo di annullarlo come nemico, per sostituirlo con la propria volontà, con le proprie idee o con un mondo fittizio inventato da noi.

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L’«istinto di morte», del quale parla Freud, l’«essere-per-la-morte» [sein zum Tode] di Heidegger, l’affermarsi a scapito degli altri, lo spirito polemico o litigioso, lo spirito di contraddizione [1], la violenza, lo spirito di sopraffazione ― come la «volontà di potenza» [Wille zu Macht] di Nietzsche ― la volontà di dominio, la volontà omicida, lo spirito prometeico, la volontà di annullare Dio, sono forme di nichilismo. Il nichilismo nietzschiano e nazista ha così il carattere di un nichilismo aggressivo, per il quale l’essere è male e va distrutto. È l’odio o il disprezzo per la realtà, per l’essere e quindi per il vero e il buono. È volontà distruttiva, volontà di morte, di annullare, di annientare, di uccidere. Questa è la forma più grave, che sconfina con la pazzia, come è successo a Nietzsche, secondo le sue ben note formule: «la verità è menzogna»; «occorre trasvalutare tutti i valori».

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È chiaro che nessun nichilista crede seriamente che l’essere non esista o sia un sogno o sia contraddittorio, perché si tratta di una tale assurdità, che non è neanche pensabile. Esiste bensì la riduzione eracliteo-hegeliana dell’essere al divenire. Ed è in fondo l’idea heideggeriana dell’essere, se non fosse che essa tende al nichilismo col suo credere che l’essere «appare» dal nulla.

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Ma anche l’idea di un divenire assoluto si può esprimere a parole, ma non si può realmente pensare. L’idea giusta del divenire è solo quella di Aristotele, come passaggio dalla potenza all’atto. Ma qui siamo sempre sul piano dell’essere e non c’è alcuna contraddizione.

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LA NASCITA E LA FINE DELLA TRAGEDIA

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L’impresa nazista fu concepita e realizzata sotto il segno di una concezione tragica della vita e in particolare dell’eroe, che combatte per una causa disperata, sapendo in partenza che sarà sconfitto e ciononostante si lancia nella guerra. Essa si ispira alla concezione nietzschiana della vita e del superuomo, i cui princìpi sono già presenti nell’opera giovanile La nascita della tragedia, dotta opera di filologo e conoscitore della letteratura greca, dove già da allora appare la teoria nicciana della scaturigine della serenità apollinea, che rappresenta la razionalità, da un fondo originario tenebroso, caotico e sfrenato, il dionisiaco, che rappresenta l’autocomprensione dell’io.

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Nell’ulteriore produzione nietzschiana, con Ecce homo, appare il mito del Fato, il Destino [Geschick], che avrà molta importanza in Heidegger e nel nazismo. Nel contempo Nietzsche elabora la famosa teoria del superuomo e della volontà di potenza, da cui la prospettiva dell’uomo che da una parte è destinato alla morte, mentre dall’altra vuole sconfinatamente la propria potenza e le propria autoaffermazione, per cui, se da una parte ama il Fato [amor Fati], dall’altra sente se stesso come Fato al posto di Dio, che egli sopprime [morte di Dio] per affermare se stesso. Zarathustra in Così parlò Zarathustra è il modello del superuomo, che sale alle altezze della verità e da là scende compassionevolmente tra gli uomini ad insegnar loro a salire là da dove egli è disceso, onde prendano coscienza della loro infinita potenza, che nel contempo è corsa verso la morte, in un eterno ciclo di vita-morte e morte-vita.

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La mia tesi è che la grande tragedia dell’età moderna comincia con Lutero e finisce con Hitler. Ma oggi il virus capace di gettarci ancora in questa tragedia — la “gettatezza” [Geworfenheit o “deiezione”, come la chiama Heidegger] — è ancora vivo, ed è la teologia di Rahner, il quale, per sua esplicita dichiarazione, negli ultimi anni della sua vita, affermò che Heidegger era stato il ”suo unico maestro”.

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Nel 1933, l’anno stesso dell’ascesa al potere di Hitler, Heidegger divenne rettore dell’Università di Friburgo ed assunse il ruolo di filosofo ufficiale e più autorevole del Partito Nazional Socialista, la cui tessera egli conservò senz’alcun pentimento fino al 1945, anche se già nel 1934 egli dette le dimissioni, non però per un recesso dalla dottrina nazista, ma perché a suo dire, il Nazismo, nei fatti era venuto meno alla sua essenza e per aver rinunciato al suo radicalismo «spirituale».

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Il concetto che Heidegger si era fatto dell’ideale nazista era desunto da Nietzsche, il quale, benché facesse derivare lo spirito dal corpo, tuttavia presagiva ed auspicava una progenie di signori e di padroni emergente sulla massa dei deboli e dei pecoroni non su base biologica, come sarà poi nel nazismo razzista, ma per la forza della volontà, per la quale, come già diceva Hegel, «la volontà vuole se stessa».

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Altro ingrediente dell’ideale nazista era l’idea della missione umanizzante, liberante e salvifica del popolo tedesco, come popolo eletto da Dio tra tutti i popoli a insegnare al mondo il vero concetto di Dio e la libertà divina.

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Da qui discendeva la convinzione che alla Germania spettava, per diritto divino, il dominio su tutti i popoli: Deutschland über Alles, mediante la guerra di conquista, sul modello biblico di come Israele, per volontà divina, conquistò la terra promessa scacciando da essa o facendo prigionieri gli abitanti che vi trovava.

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Da qui nasce l’antisemitismo nazista: considerandosi quello germanico il popolo divinamente eletto, non poteva tollerare accanto a sé un altro popolo eletto, quale quello degli israeliti. L’idea razzista fu una materializzazione dell’idea della missione liberatrice-dominatrice, di carattere spirituale. In tal senso Heidegger si rifiutò di accettare tale volgarizzazione, per la quale ai suoi occhi il nazismo perdeva così la sua elevatezza spirituale.

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LUTERO E LA MISSIONE DEL POPOLO TEDESCO

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In fondo era l’idea già lanciata a suo tempo da Lutero col suo pamphlet An den christlichen Adel des deutscher Nation von des christlichen Standes Besserung [Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca sull’emendamento della società cristiana]. Grazie a Lutero il popolo tedesco si scopriva, contro la Roma falsificatrice farisaica del Vangelo e contro gli Ebrei del Dio terribile dell’Antico Testamento, il vero annunciatore del Vangelo della misericordia divina per tutti, senza opere e senza meriti, che le soldataglie tedesche luterane imporranno agli abitanti di Roma col Sacco del 1527.

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Con questa esaltazione bellicosa ed irrazionale del popolo tedesco Lutero si prendeva la rivincita, prima, contro quella Roma pagana imperiale, che nell’Antichità aveva cercato di domarlo; poi, contro quella Roma dei Papi, che lo aveva sfruttato e umiliato.

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Lutero, col suo Dio interiore, irrazionale e fatale, si poneva così, con una violenta polemica contro la Roma papale, nel solco di una precedente tradizione spirituale apparsa nel XIV secolo con Meister Eckhart, il quale, senza cadere negli eccessi antiromani di Lutero, ma tuttavia incrinando la piena comunione dottrinale con Roma [2], inaugurava un modo specificamente tedesco di far teologia, fondata sulla categoria del Gemüth, ossia come “sentimento” pre-razionale e mistico [3]. Il termine Gemüth è assai difficilmente traducibile, perché rappresenta un complesso di fattori psichici di per sé distinti tra di loro, ma che vengono espressi tutti assieme nel Gemüth. Esso potrebbe essere assimilato al termine biblico “cuore”. Comporta finezza di sguardo interiore, di  gusto e discernimento, profondità di intuito, sapienza morale, purezza di coscienza, robustezza di convinzione. Ma Lutero, rompendo con Roma, ha traviato il popolo tedesco dalla sua vera missione all’interno della civiltà e della Chiesa, missione che si era già fatta luce nei secoli precedenti coi suoi santi, come per esempio San Bonifacio, San Brunone, Santa Ildegarda, Santa Gertrude, Sant’Alberto Magno e i mistici renani. Invece Lutero ha esaltato il suo popolo in una maniera sbagliata, ha iniettato in lui il virus della superbia, il quale, nel corso dei secoli successivi, a causa di un progressivo allontanamento dalla verità e dalla fede cristiana, lo ha condotto alla follia del nazismo ed alla catastrofe della seconda guerra mondiale.

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Permane così nei secoli la convinzione dei Tedeschi di essere popolo eletto da Dio, che va di pari passo con la convinzione di possedere una propria potente e rivoluzionaria teologia, espressione del genio intuitivo e guerriero tedesco, contraria e superiore a quella razionale e moderata latina o greca, considerata debole o decadente. E questa convinzione di essere il popolo sano, forte ed eletto va di pari passo nei secoli, fino al nazismo e allo stesso Karl Rahner, con la convinzione del primato della filosofia e della teologia tedesca su tutte le altre filosofie e teologie dell’umanità.

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Così nel XV secolo appare la Teologia tedesca, auto-incensazione della Germania e della sua teologia, di ignoto autore, teologia del fondo oscuro dell’anima e dello slancio mistico ineffabile, opera della quale Lutero curò la pubblicazione. Essa, con la sua tendenza immanentistica, concorre certamente alla costituzione ed alla fama della teologia di Lutero.

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Anche la famosa tesi cusaniana della coincidentia oppositorum in Dio è stata sfruttata dagli idealisti, probabilmente male interpretando il pensiero del buon Cusano, per avallare il loro Dio assurdo della contraddizione, del sì e del no.

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I luterani tedeschi si accorsero di quanto potevano utilizzare a loro favore il cogito cartesiano sin dal suo primo sorgere, benché fosse stato inventato da un cattolico: vedi per esempio Leibniz. Infatti l’io cartesiano, al di là della sua apparente razionalità, si sposa benissimo con l’io luterano. Basta porre come oggetto interiore immediato dell’autocoscienza cartesiana la Parola di Dio, come fece Lutero, al posto dell’idea innata cartesiana, e il gioco è fatto. È vero che Lutero era sostanzialmente realista del realismo biblico. Ma il suo era un realismo interiorista, di tipo agostiniano, diffidente dell’esperienza del senso, per cui il passaggio all’idealismo non era difficile.

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Fece questo passo la gnoseologia kantiana e da allora, fino a Nietzsche ed Heidegger, il soggetto o l’io è diventato padrone dell’essere, in barba a Lutero, che pur seppe conservare il realismo biblico cattolico, presente nello stesso San Tommaso d’Aquino ed in Guglielmo di Ockham, che era stato maestro di Lutero. Infatti per l’Aquinate ed Ockham, come insegna la Bibbia, l’essere non è prodotto o espansione dell’io, ma è creato da Dio.

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Nel XVII secolo appare poi Jakob Böhme, contorto e paradossale filosofo dell’ Abgrund, dell’abisso insondabile e del Dio crudelmente misericordioso, origine del paradiso e dell’inferno, del bene del male. Böhme, visionario geniale e temerario, dalla fantasia sbrigliata, ignorantissimo di filosofia scolastica, ma tanto meglio, sarà considerato per eccellenza dai Tedeschi il philosophus teutonicus, e preparerà il sorgere dell’idealismo del XIX secolo, soprattutto con Fichte, Hegel, Hölderlin e Schleiermacher, dove il Gemüth diventa il Gehfühl, sentimento dell’Assoluto. Il Gemüth è presente anche in Kant, che parla altresì dell’abisso o “baratro della ragione” [die Abgrund des Vernunft] [4].

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Anche l’ebreo Spinoza, benché ebreo, viene cooptato dagli idealisti, soprattutto da Hegel, come «colui dal quale occorre cominciare per far filosofia». Il fatto che Spinoza fosse stato giustamente cacciato come empio dalla sinagoga dopo essere stato colpito da cherem [dall’ebraico חרם, scomunica] era per gli idealisti un titolo in più di gloria, che li confermava nel loro antisemitismo.

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Hegel e Schelling vedono in Giordano Bruno, principe dell’occultismo magico rinascimentale, un ispiratore e precursore del panteismo idealista, con particolare riferimento all’opposizione dell’essere col non-essere, che, secondo il Nolano, sarebbe una sorgente di potenza magica. Hegel trae da qui spunto per la sua dialettica e per il ”potere del negativo”. Bruno, benché non tedesco, viene adottato dagli idealisti come nuovo tassello alla “filosofia tedesca”.

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Il Gemüth riappare come sfondo della coscienza in Husserl, maestro ad un tempo di Heidegger e di Edith Stein. Paradigmatica è per la cultura tedesca e per la storia della civiltà europea e della Chiesa, la vicenda dei rapporti fra queste tre grandi figure della filosofia tedesca. Edmund Husserl e la Edith Stein, ebrei, Martin Heidegger, antisemita.

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Husserl, agli inizi della sua ricerca filosofica, fu suscitatore di grandi speranze in molti spiriti anelanti al vero sapere, delusi o insoddisfatti dallo storicismo relativista, dal meschino positivismo e dal piatto psicologismo dell’epoca. Si sentiva anche il bisogno di tornare al realismo gnoseologico, guastato dall’idealismo hegeliano. Fu così che Husserl lanciò il famoso programma: «torniamo alle cose stesse!».

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E per attuare tale programma, per il quale sarebbe bastato tornare a San Tommaso d’Aquino, come pochi anni prima Leone XIII aveva invitato a fare, Husserl concepì un piano estremamente ambizioso, ossia quello di fondare addirittura una nuova scienza, la «fenomenologia», la quale finalmente, dopo la crisi delle scienze europee, avrebbe assicurato definitivamente all’umanità il metodo, i princìpi e contenuti della «filosofia come scienza».

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All’inizio Husserl parlava di una wesenschau, un’intuizione o esperienza dell’essere come essenza oggettiva, che appare come «fenomeno», dato di fatto, manifestazione o rivelazione immediata e certa della verità universale, spirituale e logica alla coscienza.

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Fin qui Heidegger e la Stein seguirono Husserl. Ma in seguito, sia il primo che la seconda cominciarono a prendere le distanze. Heidegger, sensibile da una parte alla tematica del soggetto esistente concreto e dall’altra alla tematica dell’essere cha appare nei presocratici, avviò la sua ontologia esistenziale, mentre la Stein, dopo che Husserl, mancando alle promesse, volle rivalorizzare Cartesio e quindi abbracciò l’idealismo, scoprì il realismo tomista e lo accolse, tanto da scrivere un’opera di metafisica «Essere finito ed essere eterno» [Endliche sein und ewigen sein] con la quale metteva in luce il fatto che l’uomo, partendo dalla conoscenza delle cose, nella sua finitezza si trova davanti all’Essere eterno, ossia Dio, per cui veniva a confutare il soggettivismo autoreferenziale sia di Husserl che di Heidegger, chiusi entrambi alla realtà oggettiva dell’essere, e quindi all’incontro dell’io con Dio: Husserl, per il fatto che per lui l’essere, privo della sua indipendenza dalla coscienza, si era ridotto ad essere un semplice ”correlato” o “fenomeno” della coscienza; Heidegger, perché aveva ridotto l’essere alla finitezza e temporalità del fragile uomo peccatore e mortale.

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É interessante il confronto fra l’esito del cammino esistenziale di Heidgger e quello della Stein. Questa sarebbe morta martire ad Auschwitz nel 1942. Heidegger, invece da perfetto istrione quale era sempre stato, lo fu fino alla fine e, perché nonostante la pessima figura che aveva fatto col nazismo, si continuasse a parlare di lui, seppe ancora una volta, con incredibile abilità mistificatoria,  raccogliere attorno a sé l’attenzione sia degli atei che dei credenti sprovveduti.

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Così, dopo l’ignominiosa fine del suo venerato Führer, ebbe la vergognosa faccia tosta di presentarsi nel 1946, con la sua famosa Lettera sull’umanesimolui, il teoreta dell’ «essere-per-la-morte», come l’avvocato della dignità dell’uomo, «pastore dell’essere», rifiutando con affettato sdegno di casta vergine l’ammiccante e volgare proposta del suo degno compare Sartre, esistenzialista ateo, di associarsi al suo «esistenzialismo», perché lui, disse Heidegger, era il «filosofo dell’essere», concludendo nella famosa frase: «ora solo un dio ci può salvare», ma che in realtà non è affatto il Dio cristiano, ma il ”sacro” di Hölderlin e quindi, daccapo, il dio dei nazisti.

 

ULTERIORI  VICENDE DEL GEMÜTH

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Il Gemüth si ritrova  in Heidegger e col nazismo. Esso è certamente vicino al Gefühl di Scleiermacher ed è sotteso al Geist hegeliano. Kant, nella stessa Critica della Ragion pura,  usa questo termine; ma il traduttore italiano,  non sapendo come renderlo, ricorre al termine “spirito”.

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Il Gemüth è altresì strettamente connesso all’Erfahrung, come esperienza spirituale o interiore, in Hegel, Heidegger e Rahner: quella con una connotazione emotiva dell’atto morale; mentre questa è un atto meramente gnoseologico. Il motivo ricorrente del Gemüth è la convinzione che la ragione concettuale non sia la funzione gnoseologica primaria e profonda dell’uomo, ma che questa funzione primaria giaccia a-prioricamente, più in profondità, previamente e pre-categorialmente nello spirito o nella coscienza. Per questa somiglianza dell’io oscuro inintellegibile ed a-priorico con l’auto-coscienza cartesiana, Cartesio, sebbene cattolico, ma in realtà auto-centrico, troverà molto successo nel sorgere dell’egocentrismo idealista tedesco, fino ad arrivare all’Io assoluto di Fichte e all’io di Nietzsche, che si afferma sulle ceneri del Dio che ha ucciso.

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La teologia tedesca, nella sua tormentata storia, oscilla continuamente tra due tendenze contrarie, tra le quali non trova mai pace: quella gnostica del Dio gnostòsconoscibile, razionale, comprensibile, e concettualizzabile, che trova la sua massima espressione nel Dio-Concetto di Hegel, dove il mistero è svelato; e quella agnostica del Dio àgnoston, della misteriosofia pagana, inconoscibile, irrazionale, inintellegibile, non-concettualizzabile, mistero assoluto ed impenetrabile.

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Questo Dio si trova in Heidegger [il “sacro”] e in Rahner. Non è tanto il vero Dio, quanto piuttosto ”un” dio o “il” dio, il che lascia intendere un retroterra politeistico. È questo il dio di Hölderlin, di Heidegger e del nazismo, non privo di rimandi all’antica mitologia germanica.

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I teologi tedeschi hanno sempre fatto un’enorme fatica a comprendere e ad accogliere la nozione analogico-partecipativa dell’essere, che è la garanzia per accedere ad una nozione autentica di Dio, quale è quella biblica, che evita sia lo gnosticismo politeista che l’agnosticismo della falsa mistica. Si tratta della nozione paolina di Dio, per la quale Dio è conoscibile, ma incomprensibile; se ne può parlare con verità e per analogia, ma, al vertice dell’esperienza mistica, è meglio tacere.

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Il Tedesco sente il bisogno dell’esperienza mistica, di sentire Dio con sé, ed è un ottimo desiderio;  sa che Dio è nel profondo della coscienza, intimior intimo meo, ma manca di criterio, di umiltà e di sobrietà nell’immergersi in queste profondità abissali ed imperscrutabili, per cui si perde incautamente nell’oscurità, ma nonostante ciò pretende di profetare o vaticinare, mentre in realtà pronuncia con aria oracolare parole senza senso, che gli ingenui ascoltano avidamente e fanno oggetto di infinite discussioni ed interpretazioni, senza mai cavare un ragno dal buco.

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E’ stupefacente, ma anche disgustoso, al riguardo, l’astuzia con la quale Heidegger, dopo la disfatta di quel nazismo nel quale aveva giocato un ruolo di primo piano, senza dare alcun segno di pentimento, riuscì a rifarsi l’immagine, da molti anni svanita dietro l’esaltazione di Nietzsche, del profondo indagatore dell’essere [5], tanto da non disdegnare di parlare di Dio «salvatore dell’uomo» e dell’uomo «pastore dell’essere» e «casa dell’essere», salvo a mantenere un cordiale disprezzo per la teologia cristiana, da lui chiamata con sussiego «ontoteologia», cosa volgare e grossolana, mentre invece sì, il suo Dio era il «Dio divino». E questo sarebbe colui che Rahner ha chiamato il «suo unico e vero maestro».

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HEIDEGGER E NIETZSCHE

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Nietzsche non risparmia critiche al popolo tedesco, ma sempre sul presupposto scontato che si tratta di una «razza di signori», nella quale egli funge da guida sovrumana della nuova umanità senza Dio, il suo vate e führer filosofico, così come Hitler ne sarà il führer politico. Le ambizioni di Heidegger non saranno diverse. Heidegger si vantava di aver scoperto una volta per tutte, dopo i primi bagliori di Anassimandro, Eraclito e Parmenide, il senso o la verità dell’essere, dopo quella che da allora, prima di lui, è stata la ”storia dell’errore”, cristianesimo compreso. E in una nota scritta nel 1933, si rifà ad Hitler, che, a suo dire, «ha risvegliato una nuova realtà che mette il nostro pensiero sulla strada giusta e gli conferisce forza d’urto» [6].

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Il primo contatto con la metafisica Heidegger lo ha nel suo saggio giovanile del 1916 Die Kategorien und Bedeutungslehre des Duns Scotus, dove egli incontra l’univocità scotista dell’essere, nonché l’intuizionismo e il volontarismo del grande teologo francescano. Questi orientamenti di fondo resteranno sempre in Heidegger, anche quando egli, a contatto con la metafisica di Parmenide ed Eraclito, perderà la luce della fede cattolica, nella quale era stato educato, tanto da aver avuto il pensiero, presto abbandonato, di farsi gesuita. Subentra infatti nel suo animo la presunzione, che d’ora in avanti non lo abbandonerà più, tipica dello gnosticismo idealista, di aver raggiunto un grado di intelligenza speculativa superiore a quello assicurato dal realismo gnoseologico biblico e dalla teologia cattolica.

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L’interesse metafisico permane, ma sembrano nel contempo intervenire influssi luterani, come quello dell’ ”angoscia” [Angst], della deiezione [Geworfenheit], della preoccupazione [Sorge], della colpa [Schuld], della concentrazione sull’io come concretezza esistenziale [Dasein].

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La perdita della fede invece causa in Heidegger un’assolutizzazione della metafisica a scapito della teologia. La metafisica non conduce più a Dio, ma si ripiega su stessa e sull’uomo, sul Dasein. Resta la consapevolezza che l’essere trascende l’ente [la «differenza ontologica»]; ma questo «essere» [seyn] non è l’ ipsum Esse, non è Colui Che È [Es 3,14].

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Per Heidegger l’essere non è atto dell’ente, ma negazione dell’ente. Incontrando il pensiero di Nietzsche, egli, nella sua monumentale opera di 900 pagine su Nietzsche, elaborata nel corso di dieci anni [1930-1940] nel pieno dell’ascesa del nazismo, giunge a concepire l’essere, sulla sua scorta,  come impulso irrefrenabile, come volontà assoluta di azione bellica irrazionale.

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La verità, sulla scorta di Nietzsche, non è adeguazione all’ente già dato, ma  rivelazione o apparizione dell’ente voluto dal soggetto. La verità non è principio ma effetto della volontà. Non è vero ciò che esiste, ma ciò che io voglio che esista. La verità coincide con la libertà. Lo stesso concetto riappare in Heidegger e lo si ritrova in Rahner.

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L’essere, come già in Duns Scoto, non è analogico o diversificato, ma univoco. E’ autocomprensione. Non è gerarchico, ma orizzontale. La trascendenza non è un salire,  ma un estendersi, un uscire da sé, un’”estasi”. L’ente non si concettualizza, ma appare; si precomprende [Vorverständnis] e si sperimenta. Come già in Duns Scoto, l’essere non è connesso all’intelletto, ma al volere. Non all’astratto, ma al concreto. Non all’universale, ma all’individuo. Il vero è il bene. Da qui verrà fuori l’idea heideggeriana della verità come libertà, che riapparirà il Rahner.

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L’essere, il senso o la verità dell’essere per Heidegger, è possibilità, poter fare, tendenza, volere, agire, divenire, finitezza, presenza, tempo, evento, vita, libertà, storia. L’essere non è prima del nulla, ma emerge dal nulla. L’essere è il pensato, il vissuto, il nascosto. Anche il non-essere, il male e il falso entrano nell’essere. Il divenire è meglio dell’essere. Io sono nella totalità dell’essere [Dasein]. L’essere è l’uomo agente nel mondo.

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Cambiare, divenire, mutare è meglio che conservare. L’uomo è un essere «storico». L’essere è «evento» [Ereignis]. La volontà è sempre in movimento, senza meta fissa; stabilisce la legge e decide del bene e del male. Non la legge nella situazione; ma la situazione crea la legge. In ciò sta la libertà. «Io voglio» al posto del “tu devi”. Distruggere e creare. «libertà per il nulla nella necessità liberamente voluta di un eterno ritorno» [7]. Il pensiero è rammemorante [andenken] perché pensare è ritrovare l’originario, ciò che si è perduto. Il futuro è ritorno del passato. Non esiste un progresso, ma una circolarità.

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Quando tutto diviene, nulla diviene. Nell’etica heideggeriana, come in quella di Nietzsche, non c’è passaggio o progresso dalla morte alla vita, dal meno al più, ma un’eterna, disperante ed esperante conflittualità fra morte e vita. Come nel mito di Prometeo, il fegato del dio ricresce sempre e viene divorato dal corvo, o nella fatica di Sisifo, egli deve sempre ricominciare dopo esser giunto alla vetta.

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Amor Fati, secondo la prospettiva nicciana. E Platone: «Tutto ciò che è grande sta nella tempesta» [8]. Emergere sugli altri è meglio che servire gli altri. La violenza è il segno della forza. Il forte non solleva il debole, ma lo domina. L’odio è l’arma della vittoria. Il vincitore ha sempre ragione. Lo sconfitto ha sempre torto. Il dato di fatto coincide col giusto e col buono.

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La Germania nazista si fece la convinzione che il popolo tedesco aveva da Dio [Gott mit uns] la sacra missione di instaurare in Europa, sotto la guida del Führer, mediante l’uso della forza e una guerra-lampo di conquista [blitz Krieg], un nuovo ordine rivoluzionario politico-spirituale «millenario» [III Reich] «socialista» [«nazionalsocialista»], comportante l’eliminazione del popolo ebraico, in quanto esso era considerato massimo rappresentante della religione del Dio trascendente schiavista, dal quale aveva tratto origine il cristianesimo.

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L’antisemitismo, prima di essere odio per il popolo ebraico, è odio per il loro testo sacro, ossia l’Antico Testamento, e quindi per il Dio creatore trascendente e legislatore, che castiga il peccato ed esige riparazione mediante un sacrificio. Come avviene nell’eresia di Marcione, i Tedeschi con Lutero respinsero questo Dio per sostituirlo col Dio di Cristo. Sennonché quella concezione ostile al Dio veterotestamentario si ritorse contro il Dio cristiano falsandolo. Infatti avvenne con Lutero che, sempre nella linea di Marcione, pretendeva di esaltare la misericordia del Dio cristiano, le opere riparatrici non sono più necessarie, sicché la legge morale viene relativizzata e resa facoltativa, la libertà cristiana diventò pretesto alla licenza e la vita di grazia cominciò ad essere intesa in senso panteistico, mentre  la dignità umana esaltata da Cristo cominciò ad essere talmente gonfiata, che alla fine si finì nell’ateismo. Il primo esito fu quello di Hegel; il secondo fu quello di Nietzsche.

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L’IMPRESA DEL NAZIONALSOCIALISMO

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I nazisti credevano di aver condotto a termine la riforma luterana di liberazione della coscienza, che attraverso Hegel giunge a Nietzsche [9]. Heidegger fu il maggior interprete di questa evoluzione spirituale, per cui fu il filosofo che dette alla cultura nazionalsocialista le sue basi teoriche. La base teologica del nazismo è la convinzione del  nazista di avere Dio con sé. Tale convinzione si sviluppa nell’idealismo panteista hegeliano con la dottrina della divinità dello Stato. Per quanto riguarda l’etica, il nazismo assume la concezione nicciana della volontà di potenza. Sulla base di Nietzsche Heidegger invece fornisce al nazismo la concezione dell’uomo e del suo destino come auto-comprensione atematica in situazione emotiva e pre-comprensione storica di sé come esserci, progetto e decisione della propria esistenza creatrice e dominatrice nel mondo come essere-per-la-morte. Da qui il grande progetto nazista dell’invasione armata dell’Europa al fine di occupare quello che Hitler chiamava “spazio vitale” del popolo tedesco, cui spettava a suo dire di diritto, per cui gli era consentito occuparlo con la forza. Era questo anche il programma di Mein Kampf.

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Per ottenere questo fine Hitler applicò la lezione di Nietzsche di aumentare gradatamente l’aggressività senza un termine preciso, ma in maniera indefinita e insaziabile, fino al limite delle proprie forze, ossia fino al crollo finale. E così effettivamente avvenne. Un cammino tragico verso la morte mediante l’esercizio della volontà di potenza. Non si trattò di conquistare un dominio in Europa, che fosse atteso e favorito o gradito dalla stessa Europa. Eppure il principio nietzschiano era proprio quello che la «razza dei signori», esponente del superuomo, aveva dal destino la missione di sottomettere i popoli decadenti, ancora irretiti negli ideali borghesi della democrazia e  dell’uguaglianza, insomma dell’”esistenza inautentica”, come dirà Heidegger, quando non proprio nella trappola della religione, della morale e della spiritualità. Dunque alla base dell’impresa hitleriana ci fu la dottrina della nicciana volontà di potenza, che Heidegger interpretò nel suo Nietzsche come essenza dell’uomo tedesco — la ”belva bionda”, come lo chiamava Nietzsche —, destinato al dominio sul mondo e congiuntamente come totalità dell’essere [seyn] autoprogettantesi [Entwurf] e “gettato” [Geworfenheit], nella «cura» [Sorge] e nella colpa [Schuld], emergente dal nulla [Nicht] e proteso verso la morte.

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Per quanto la Germania durante il nazismo fosse assurta al livello di una grande potenza mondiale con la sua cultura, la sua industria, la sua tecnica, la sua economia, la sua organizzazione sociale e le sue forze armate, nonché con le sue colonie e l’alleanza dell’Italia e del Giappone, che aveva saputo attirare a sé, e non mancassero simpatie per Hitler in vari ambienti europei, tuttavia l’impresa bellica della conquista dell’Europa dalla Francia, all’Inghilterra, alla Scandinavia, alla Russia, ai Balcani, fino al Nord Africa, associata peraltro all’eliminazione degli Ebrei, non poteva non apparire ad ogni mente sana una follia. Per questo, bisogna dire che, se Heidegger appoggiò questa impresa, ciò si spiega — e non potrebbe essere diversamente — che coi princìpi stessi, fondamentalmente nichilistici ed atei della sua metafisica, soprattutto di quella fase centrale, che dette l’appoggio al superomismo ateo e nichilista nicciano. Io credo che gli stessi nazisti, Hitler ed Heidegger compresi, sapevano già all’inizio che sarebbe finita male.

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Perché allora intraprenderla? Qui entriamo nel vivo dell’ateismo nichilista o diciamo sic et simpliciter del nichilismo, perché, come abbiamo visto, ogni ateismo è un nichilismo. Tuttavia, dobbiamo tener presente che il nichilista nega l’essere e quindi il bene non in modo assoluto, giacché, come abbiamo visto, questo è impossibile. Al di là delle espressioni reboanti, che fanno colpo sugli sciocchi [«tutto è nulla», «l’essere è il non essere», «tutto è vanità», ecc..], il cosiddetto nichilista è in realtà nient’altro che un volgare e misero omuncolo disperatamente aggrappato a se stesso, non è altro che il figlio di Adamo peccatore, bene attaccato ai beni di questa terra. Certo è mosso da uno spirito mortifero e distruttivo, che è l’essenza stessa del peccato. Infatti il clima ideologico dell’heideggerismo, del nietzschianismo e del nazismo sono in fondo quelli della tragedia, descritta dallo stesso Nietzsche, del quale sono rimaste famose le parole «incipit tragoedia», a significare che si stava per entrare in una tragedia. Sarebbe stata la tragedia della prima e poi della seconda guerra mondiale. Ma il virus della tragedia non è del tutto debellato. Esso resta assopito tra le pieghe della storia anche di oggi. E non ci vorrebbe molto a risvegliarlo..

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LA TRAGEDIA PUÒ RICOMINCIARE

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Il pensiero di Heidegger infatti fu assunto poi da Rahner, come ispirazione di fondo, negli anni della sua formazione teologica negli anni Venti del Novecento, nel corso di quali egli seguì entusiasticamente le lezioni di Heidegger. Così Rahner, alla fine della sua vita, dopo aver tentato di fare di Tommaso, negli anni 1939–1941, un idealista, dichiarò apertamente appunto che Heidegger era stato l’ «unico suo maestro».

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E difatti, benché Rahner non lo citi mai espressamente, non è difficile notare l’influsso heideggeriano nella teologia, nella metafisica, nella gnoseologia, nell’antropologia e nell’etica di Rahner.  In teologia, l’inintelligibilità ed ineffabilità del mistero divino della teologia rahneriana, ricorda da vicino il ”nulla” heideggeriano, dal quale appare l’essere, un nulla che non è semplice non-essere, ma appartiene all’orizzonte impenetrabile ed ineffabile dell’essere nascosto.

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In metafisica, l’essere come autocoscienza di Rahner, colto a priori come orizzonte trascendentale della comprensione categoriale, è certamente l’essere heideggeriano dell’auto-comprensione dell’uomo nel mondo, condizione a-priori di possibilità della conoscenza e dell’esperienza del mondo. In gnoseologia la precomprensione [Vorgriff] atematica rahneriana dell’essere corrisponde alla Vorverständnis di Heidegger. La tematizzazione o concettualizzazione è il momento successivo e derivato, di carattere empirico, dell’autocoscienza originaria o esperienza trascendentale dell’identità dell’essenza con l’essere, nella quale l’essere coincide col pensare. In questo modo Dio non si distingue più dall’io e da Dio, in quanto l’uno e l’altro costituiscono univocamente l’orizzonte dell’essere, nel quale l’essere, seppur finito come essere umano, coincide col divenire e col volere come essere divino.

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Rahner parla bensì di Dio, come del resto anche Heidegger. Ma potremmo chiederci che Dio è e se è il vero Dio, Essere sussistente, immutabile ed impassibile, conoscibile  “per analogia” [Sap 13,5] e «per ea quae facta sunt» [Rm 1,20], creatore del cielo e della terra, distinto dal mondo, ossia il Dio di Gesù Cristo? Non sembrerebbe proprio, perché gli attributi,  la via e il modo con cui Dio è conosciuto sono in stridente contrasto col vero Dio. Il Dio di Rahner, vertice dell’uomo, a-tematicamente, immediatamente ed originariamente sperimentato, mistero inintelligibile e innominabile, assomiglia di più al superuomo di Nietzsche che al vero Dio della ragione e della fede.

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L’istanza etica, in Rahner si configura come «spirito nel mondo». L’uomo appare come esserci [Dasein] dell’essere, quindi come storicità e come auto trascendenza nell’orizzonte dell’essere. Come spirito, l’uomo è libertà che non agisce sulla base di una legge morale dettata da una natura umana fissa e definita;  ma il soggetto agente determina liberamente il proprio essere destinato alla morte. L’agire umano, per Rahner, non è regolato da leggi morali oggettive, universali ed immutabili. Siccome l’agire è nel concreto e nella mutabilità e varietà delle circostanze, sta ad ogni singola persona, soggetto concreto, decidere secondo coscienza il da farsi. La singola persona, quindi, secondo Rahner, ha il dovere, la facoltà e la responsabilità di aggiungere, a suo arbitrio, modificandola, all’astrattezza di per sé inoperante della legge morale, quell’elemento di concretezza, che la rende operativa, ma per ciò stesso mutevole.

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Può così accadere, secondo Rahner, che un comando divino, per esempio, come quello della misericordia, non avendo nella sua astrattezza un carattere di assolutezza, possa essere sostituito, in certi casi, in nome della ”libertà”, dalla pratica della violenza. In tal modo Rahner, con uno stile perfettamente nietzschiano, con queste sconcertanti parole, viene addirittura a giustificare la violenza: «La realizzazione della libertà … è già restrizione dell’ambito della libertà di un altro e della sua essenza e ciò inevitabilmente. Nessuno può agire liberamente, senza con ciò usare ‘violenza’ ed esercitare una forza fisica sull’altro» [10].

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Anzi Rahner arriva addirittura a parlare di una «necessità trascendentale della violenza», la quale, «condizione di possibilità della libertà creaturale, deve essere riconosciuta teologicamente anche come naturale, voluta da Dio ed intrinsecamente non peccaminosa» [11].

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Per quanto riguarda  il significato cristiano della morte, Rahner, che non crede all’immortalità dell’anima, ma ritiene che con la morte muore tutto l’uomo, non concepisce neppure una sopravvivenza dopo la morte, ma secondo lui la vita eterna consiste nella morte stessa, come «compimento personale di sé» e come momento in cui l’uomo raggiunge il suo «compimento» e la «libertà raggiunge la propria definitività» [12]. È la stessa idea di Heidegger dell’essere umano come «essere-per-la-morte». È la stessa idea nietzschiana e nazista della morte come atto eroico di libera volontà nel volere ciò stesso che vuole il Destino [Geschick] ovvero il comando del Führer.

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I virus della tragedia dunque non sono morti, ma solo dormono. Di fatto, come ha notato Papa Francesco, è già in atto la terza guerra mondiale, la quale peraltro non distrugge i corpi, come le altre due, distrugge le anime col peccato mortale. Non trionfa la morte fisica, ma quella interiore, sotto le apparenze della vita. Imperversa la tragedia interiore sotto l’apparenza della tranquillità e della normalità.

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Ciò su cui dovremmo meditare profondamente è  come sia stato possibile che un grande popolo come il popolo tedesco, così ricco di qualità umane e spirituali, di così antiche tradizioni cristiane e civili, abbia potuto lasciarsi sedurre e trascinare da un pazzo indemoniato come Hitler in un’impresa criminale assolutamente folle di voler assoggettare il mondo alla Germania, insieme col progetto sacrilego di sopprimere il Popolo Messianico e Sacerdotale, dal quale è nato il Salvatore dell’umanità.

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Che cos’è, quali idee, quali interessi, quali impulsi, quali scopi, quali errori, quali illusioni, quali pretesti, quali cattivi esempi, quali cattivi maestri, quale volontà lo hanno spinto a tanto? Occorre rispondere a queste domande, e vedremo che i virus che ci hanno avvelenati non sono morti.

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Oggi che corre voce che l’Inferno non esiste e Dio non castiga, in realtà l’Inferno e l’imperversare di Satana li stiamo sperimentando all’interno della Chiesa. Oggi che si proclama il «primato della coscienza», siamo più che mai tormentati dalla coscienza. Oggi, in piena retorica dialogistica, siamo ferocemente chiusi a chi non la pensa come noi. Oggi ci immaginiamo di essere accarezzati da un Dio «misericordioso» da noi inventato, perché vogliamo avere il permesso di peccare senza essere puniti. Mai come oggi le anime, che secondo Rahner sarebbero tutte in grazia, sono state in realtà così prive della grazia. Da cosa si capisce? Dall’ignoranza colpevole. Mai infatti come oggi abbiamo avuto a disposizione tanti mezzi e così efficaci per istruirci nella fede. Eppure mai come oggi si è giunti tanto a negare o ad ignorare le fondamenta stesse dell’esistenza, della conoscenza e della vita, ed hanno pullulato tante eresie tra gli stessi teologi, vescovi e cardinali.

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I Tedeschi, che non sono riusciti a conquistare l’Europa e il mondo con le armi, non hanno abbandonato l’intento di conquistare il mondo. Ma tentano adesso di conquistarlo sottomettendolo a Lutero e ai suoi epigoni, fino ad Hegel, Marx, Nietzsche ed Heidegger. Rahner è il cavallo di Troia per mezzo del quale Lutero dovrebbe sottomettere la Chiesa e il mondo alla Germania. L’ostacolo a questa operazione è certamente il papato. Contro di lui si concentrano oggi tutte le potenze diaboliche. Si nota che oggi il Romano Pontefice avverte i colpi, a volte vacilla, sembra crollare, sente le seduzioni, è attorniato da figli del Diavolo. Occorre stringersi attorno a lui, sollecitarlo alla vigilanza ed aiutarlo nella lotta tremenda contro Satana.

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Varazze, 6 maggio 2018

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NOTE

[1] Cit.da K.Löwith, op.ct., p.294.

[2] Cf A.Colombo, op.cit., p.65. Una frase probabilmente strumentalizzata.

[3] Cf K.Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del sec. XIX,  Edizioni Einaudi, 1993.

[4] Saggi di spiritualità, Edizioni Paoline 1969, p.308.

[5] Ibid., p.309.

[6] I passi di Rahner sono reperibili nel mio Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, pp.134-144.

[7] cf. l’eracliteo polemos pater panton.

[8] Vedi le sue proposizioni condannate da Papa Giovanni XXII nel 1329 (Denz.950-980).

[9] Cf G.Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca pre-protestante, Fratelli Bocca Editori, Milano 1946, pp 192-194; 208; 296; 298ss.

[10] Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1965, p.491.

[11] Vedi la sua famosa Lettera sull’umanesimo del 1946.

[12] Cit. da A.Colombo, I maledetti. Dalla parte sbagliata della storia, Edizioni Lindau, Torino 2017, p.65.

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L’episcopato tedesco e l’intercomunione eucaristica con i protestanti. Pietro si lava le mani come Pilato: «trovate una soluzione unanime tra di voi»

 — Theologica —

L’EPISCOPATO TEDESCO E L’INTERCOMUNIONE EUCARISTICA CON I PROTESTANTI. PIETRO SI LAVA LE MANI COME PILATO: «TROVATE UNA SOLUZIONE UNANIME TRA DI VOI»

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Qualora i Vescovi della Germania, in modo unanime dovessero mettersi d’accordo nel dare la Santa Comunione ai protestanti, che cosa accadrà domani, se un’altra conferenza episcopale, in modo unanime, deciderà di unire in matrimonio le coppie omosessuali? Cosa accadrà se un’altra, all’unanimità, deciderà che è lecito abortire il feto di un bimbo riscontrato affetto da malformazione, non reputando giusto mettere al mondo una creatura affetta da imperfezioni? Cosa accadrà se un’altra, all’unanimità, deciderà che è un atto di carità porre fine alla vita di un ammalato terminale che soffre e che non ha alcuna speranza di vita? Da quando, l’unanimità, è garanzia di sana dottrina e di profondo ossequio alla verità rivelata?

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PDF  articolo formato stampa

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

Contrariamente a quelli che da anni fanno man bassa sulle disamine contenute negli articoli dei Padri de L’Isola di Patmos guardandosi dal citare gli Autori, facendo poi passare certe analisi come proprie, noi abbiamo la comprovata onestà cristiana e intellettuale di citare sempre quando ci richiamiamo a qualsiasi Autore del passato o del presente, pure fosse un minimo sospiro. Questo il motivo per il quale i nostri scritti pubblicati sulla pagina Attualità abbondano di numerose citazioni tra parentesi, quelli sulla pagina Theologica di note a fondo di pagina o tra le righe del testo.

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Questo preambolo introduttivo giusto per cantare due antifone: la prima, ai vignaioli che dopo la vendemmia si guardano dal dire dove hanno raccolto i grappoli d’uva. La seconda, per scusarmi se cito appresso l’espressione di un Autore di cui al momento non riesco proprio a ricordare il nome, cosa questa che m’impedisce di dare la legittima paternità ad una frase non mia, che è la seguente: «I Sommi pontefici hanno deposta la tiara, i laici ed i teologi l’hanno indossata».

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Quando si avverte disagio, o un umano fastidio soggettivo, bisogna tenerselo, al limite parlarne in privato con chi può eventualmente aiutarci. Ciò non solo perché l’emotività non va pubblicizzata, ma perché non è opportuno né prudente farlo, meno ancora lo è di scaricare i propri eventuali disagi sugli altri, in modo del tutto particolare quando ― come per esempio chi scrive queste righe ―, si è chiamati per sacramento di grazia e per missione a essere guide e maestri, non seminatori di confusione. Quando invece il fastidio è oggettivo, poiché basato su pubblici dati di fatto, spesso dolorosi o anche pericolosi, in quel caso, manifestare fastidio, può essere un imperativo di coscienza seguito dall’obbligo di spiegare che cos’è giusto e che cos’è sbagliato, semmai anche ammaestrando quella fetta di Popolo di Dio resa accidiosa dai cattivi pastori a provare fastidio e disagio dinanzi a certi gravi problemi che investono la società civile ed ecclesiale. Il tutto con buona pace di quanti tentano di eliminare certi problemi alla radice dicendo: «Nessuno ha la verità in tasca». Frase che detta e poi letta in un certo modo porta di conseguenza a dire che in fondo, la verità, è opinabile, ma soprattutto relativa. Semmai è vero che nessuno possiede la verità, della quale siamo chiamati ad essere fedeli servitori e annunciatori, o come dice San Tommaso d’Aquino: «Non sei tu che possiedi la verità, ma è la verità che possiede te» [cf. De veritate]. Per questo motivo, svicolare da certe discussioni o risposte con la frase ambigua «Nessuno ha la verità in tasca», è affermazione di per sé falsa e pericolosa, posto che la Chiesa, che è una, santa, cattolica e apostolica, della verità è depositaria e custode, sicché, lungi dall’averla in tasca, ce l’ha comunque in custodia per volontà e per mandato divino. E noi, che certo non siamo i suoi padroni, siamo però suoi fedeli servitori, custodi e annunciatori. Quindi, chi questa verità la annuncia e la difende dall’errore, non è che agisca in tal modo perché con stile pelagiano o legalistico crede di averla in tasca, ma perché deve appunto servirla, difenderla e annunciarla. Nessuno che sia vero custode e annunciatore della verità può omettere di indicare e di condannare l’errore, perché nel mondo, assieme alla verità, sussiste anche quella anti-verità che sulla verità vuole imporsi, spesso anche in modo violento e distruttivo, ma soprattutto falso.

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QUEI LAICI INCOSCIENTI E LITIGIOSI CHE TUTTO RIDUCONO A UNO SCONTRO TRA PARTITO DEI CONSERVATORI E PARTITO DEI PROGRESSISTI

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La polemica in corso scatenata in questi giorni dall’Episcopato tedesco sulla concessione della Santa Comunione ai protestanti, è di una delicatezza fuori da ogni ordinario, perché ancora una volta, questi indomabili e irriducibili barbari, vanno a toccare al di là di Roma e al di sopra di Roma il cuore motore che anima l’intero Corpo Mistico che è la Chiesa: la Santissima Eucaristia. E dinanzi a questo problema, tutto quanto teologico ed ecclesiologico, oltre che canonico e disciplinare, i laiconi che si dimenano tra una rivista telematica e tra un blog e l’altro, stanno riducendo com’è nel loro stile tutta la questione ad un conflitto politico.

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Consapevole di parlare in tal senso ai sordi, ribadisco che certi grandi temi sono di natura teologica e dottrinale, affrontarli quindi con lo spirito tipico delle bagarre politiche, riducendo alla fine tutto ad una lotta tra il cosiddetto partito dei conservatori e quello dei progressisti, può solo favorire la de-sacralizzazione dei segni sacramentali e ridurre la Chiesa di Cristo ad un campo di battaglia sul quale si scontrano umori soggettivi animati alla base da pura ideologia, non rare volte anche dai disagi personali di certe persone che avrebbero bisogno di un bravo direttore spirituale, di un bravo confessore, ma talune volte anche di un bravo psichiatra.

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Questo porta inevitabilmente certi laici che si sono messi in testa la tiara deposta dai Sommi Pontefici, a recare danni ulteriori alla Chiesa e al Popolo di Dio, mai come oggi smarrito e confuso.

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QUEL GRANDE INGANNO TUTTO GIOCATO DAL PARA-CONCILIO E DAL POST-CONCILIO SU UN LINGUAGGIO NON PROPRIO FELICE ADOTTATO DAL CONCILIO VATICANO II

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Riassumiamo in breve la vexata quaestio tedesca per poi procedere con l’analisi del fatto stesso: la Conferenza episcopale tedesca ha discusso sulla possibilità di dare la Santa Comunione ai protestanti coniugati con cattolici, adottando in tal senso la tecnica del cosiddetto “salame a fette”. Infatti, ogni volta che nella Chiesa si sono concessi limitati indulti speciali ed altrettanti limitati permessi ad experimentum, queste concessioni sono poi divenute prassi, quasi sempre anche estese oltre tutti i limiti di quanto era stato concesso. Un esempio concreto tra i tanti che funga da paradigma? Presto detto: la riforma liturgica impressa nella Sacrosanctum Concilium [cf. testo QUI]. Si legga con cura questo testo e poi si faccia una valutazione: dove sono scritte, indicate e concesse tutte le aberrazioni liturgiche, molte delle quali rasenti il sacrilegio della Santissima Eucaristia, che da quattro decenni vediamo realizzate in molte delle nostre chiese per la nefasta opera di un esercito di esotici preti creativi? In quel testo non c’è traccia, men che meno legittimazione dei peggiori abusi liturgici ormai istituzionalizzati nel silenzio pavido dei vescovi che non vigilano, non proibiscono e non sanzionano i fautori di certe aberrazioni; semmai prendono in forte antipatia e rendono la vita amara a quei pochi preti che osano lamentare quanto ciò non vada bene e quanto sia dovere dei vescovi vigilare e stroncare certe pratiche diffuse nel clero. Se pertanto il testo di quella riforma non permette né concede ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti dentro molte delle nostre chiese, da dove nasce il problema, o meglio l’inghippo? Nasce dal fatto che i documenti del Concilio Vaticano II ― come più volte ho spiegato [cf. per es. QUI] ― usano un linguaggio nuovo, il quale risente, per il forte influsso esercitato dai teologi teutonici, dello stile tipico del romanticismo tedesco decadente. A questo si aggiunga poi l’ottimismo del Sommo Pontefice Giovanni XXIII, convinto che non si deve sempre giudicare e condannare, ma piuttosto dialogare. Attraverso questo insieme di cose possiamo infine giungere a dei documenti che esprimono concetti profondi, validi ed utili, assieme a riforme urgenti e necessarie come ad esempio la Sacrosanctum Concilium, ma omettendo però di chiarire attraverso dei canoni precisi che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, cosa è permesso e cosa è proibito, aggiungendo semmai anche sanzioni e pene per i trasgressori, il cosiddetto «Anathema sit», spesso usato nei documenti dei precedenti concilî, che non sono stati affatto meno concilî del meta-concilio Vaticano II, anche se a parere del tutto sconsiderato di molti teologi, con quest’ultima assise conciliare pare nascere finalmente d’improvviso, dopo duemila anni di storia, la Chiesa Cattolica.

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La certezza e la chiarezza della dottrina e delle leggi canoniche, non è solo tutela del deposito della fede, della verità e quindi della dottrina stessa, ma anche preziosa tutela per i ministri in sacris ed i Christi fideles, al fine di scongiurare quei generi di ingiustizie e di abusi che prendono quasi sempre vita dalla scarsa mancanza di chiarezza. Quando infatti risuona il “rivoluzionario” grido «basta con questo legalismo, con questa durezza dottrinale, con questo “culto” delle leggi canoniche!», finisce sempre col venir meno sia la certezza della legge eretta anche a tutela dei membri del Corpo della Chiesa, sia la chiara definizione dottrinale di che cosa è lecito e illecito, giusto e sbagliato, di che cosa è la verità e per contro che cosa invece è falso ed erroneo. A quel punto, quando la mancanza di chiarezza lascia spazio all’ambiguità, ecco che i ministri in sacris per un verso ed i Christi fideles per altro verso, finiranno col divenire sofferenti vittime del libero arbitrio di chi riesce a fare la voce più grossa e imporsi in modo dispotico.

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SIN DOVE POSSONO GIUNGERE GLI ASSASSINI DELLA FIDES CATHOLICA? SINO A BEATIFICARE E CANONIZZARE I PONTEFICI DI CUI LORO STESSI HANNO DISTRUTTO IL MAGISTERO

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I capocomici di questo terribile teatro hanno avuto tra l’altro bisogno di beatificare e poi canonizzare tutti i Sommi Pontefici del post-concilio. Ma si presti bene attenzione: non perché ad essi interessi nulla la elevazione di questi Pontefici alle glorie degli altari, ma perché attraverso di essi hanno voluto dogmatizzare e infine canonizzare il para-concilio e poi il post-concilio. E tutto questo lo hanno fatto con uno spirito delinquenziale diabolico, perché gli stessi che hanno voluto a tutti i costi Beati e Santi questi Sommi Pontefici, sono poi gli stessi che stanno mettendo in discussione la Humanae Vitae dell’imminente Santo Paolo VI; sono gli stessi che hanno distrutto nel corso degli ultimi cinque anni il magistero di San Giovanni Paolo II, non esitando a definire la Familiaris Consortio come un documento datato, superato, ma soprattutto frutto della sessuofobia insita nel rigore morale di questo Sommo Pontefice. Eppure, proprio quanti di ciò sono convinti, insegnando e agendo di conseguenza, ma soprattutto minando e distruggendo il magistero di questi Beati e Santi Pontefici, hanno voluto a tutti i costi canonizzare in tempi record Giovanni Paolo II, anziché attendere per lui come per gli altri suoi Predecessori, come la prudenza della Chiesa imponeva una volta, trent’anni dalla morte, prima di aprire un lungo processo, giungendo infine, non prima di mezzo secolo dopo la loro morte, alla prima tappa della loro beatificazione.

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È con ciò chiarito a qual genere di pericolosi e distruttivi delinquenti siamo finiti in mano? È quindi chiaro in che modo, questi pericolosi e distruttivi delinquenti, stiano seminando danni gravissimi nella Chiesa, favorendone la peggiore decadenza ed auto-distruzione interna, dopo avere sostituito il linguaggio chiaro e certo con la “speranza poetica”, sostituendo infine la tanto disprezzata “dura e rigorosa legge”, con il loro personale e libero arbitrio tirannico?

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È nel complesso contesto ormai vecchio di cinquant’anni di questo linguaggio debole, incerto, all’apparenza permissivo e aperto a tutte le più disparate ipotesi, che bisogna leggere il recente caso dei Vescovi della Germania, altro che inscenare scontri politici tra il partito dei conservatori ed il partito dei progressisti, come fanno i laici cosiddetti impegnati che si sono messi in testa la tiara deposta dei Sommi Pontefici.

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Da tutto questo nasce la cosiddetta “tecnica del salame”, di cui è concessa una fetta, ma che successivamente, una fetta dietro l’altra, è affettato e preso tutto. Lo stesso vale per la reiterata proposta peregrina sulla quale preme uno dei massimi distruttori della Chiesa del Brasile e come tale tra i principali responsabili della incontenibile emorragia dei suoi fedeli, il Cardinale Clàudio Hummes, che preme per avere ― ovviamente ad experimentum ― i viri probati sposati ordinati sacerdoti per la regione del Rio delle Amazzoni dove c’è grandissima penuria di clero. Dico allora per ipotesi: concediamo pure l’experimentum, per vedere poi in breve come le Amazzoni diventeranno anche il Belgio, l’Olanda, la Germania, la Francia e via dicendo a seguire.

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I VESCOVI DELLA GERMANIA HANNO DISCUSSO SU CIÒ SUL QUALE NON C’È PROPRIO MOTIVO DI DISCUTERE, MENTRE IL CARDINALE REINHARD MARX GIOCA ALLA VERGINE VESTALE

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Dei ventisette membri che compongono la Conferenza Episcopale della Germania, più l’Ordinario dell’Esarcato di Germania e Scandinavia e l’Ordinariato Militare, per un totale di ventinove vescovi diocesani, ai quali si uniscono un totale di quarantuno vescovi ausiliari assegnati ai titolari delle cattedre episcopali di queste ventisette diocesi, sette vescovi diocesani in totale hanno inviato una lettera al Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, S.E. Mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, ed al Presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, Sua Em.za il Cardinale Kurt Koch. I firmatari del quesito inviato a Roma sono Sua Em.za il Cardinale Rainer Maria Woelki, Arcivescovo metropolita di Colonia [cf. QUI], seguito dalle Loro Eccellenze Rev.me Ludwig Schick, Arcivescovo metropolita di Bamberga [cf. QUI]; Konrad Zdarsa, Vescovo di Augsburgo [cf. QUI]; Gregor Maria Hanke, Vescovo di Eichstätt [cf. QUI]; Stefan Oster, Vescovo di Passau [cf. QUI]; Rudolf Voderholzer, Vescovo di Ratisbona [cf. QUI]; Wolfgang Ipolt, Vescovo di Görlitz [cf. QUI].

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La richiesta di chiarimenti indirizzata a Roma dai sette vescovi verte su un quesito ineccepibile: «Una decisione simile, può essere discussa da una singola conferenza episcopale?». La risposta, che non è né giornalistica né confinabile tra le laiche dispute di partito, è più semplice di quanto s’immagini. Infatti, i sette vescovi che il quesito l’hanno posto, la risposta al quesito stesso la conoscono molto bene: una singola conferenza episcopale, un argomento del genere non può neppure osare affrontarlo. Cosa questa sfuggita a tutti i giornalisti ed a tutti i laici con la tiara in testa che si sono tuffati a pesce a commentare questa vicenda da loro ridotta a succulenta “lotta di partito”.

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A quel punto, Sua Em.za il Cardinale Reinhard Marx, Arcivescovo metropolita di Monaco di Baviera e Presidente della Conferenza Episcopale della Germania, calandosi nel ruolo della vergine vestale ― ruolo che peraltro ben poco si addice alla sua figura fisica, che richiama più un birraio obeso della Baviera anziché un Principe della Chiesa ―, osa persino ribattere il 4 aprile in questi termini: «Sono sorpreso dall’iniziativa [Nrd. dei sette vescovi tedeschi], perché il sussidio pastorale discusso a febbraio dall’assemblea dei Vescovi della Germania era soltanto una bozza e non un testo definitivo».

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La risposta, per i molti che purtroppo non l’hanno intesa né capita, altri presa invece forse persino per buona, va letta in tre delicate ottiche legate ai fondamenti della ecclesiologia, ai fondamenti della dogmatica sacramentaria, ai fondamenti del diritto canonico. E sulla base di questi tre fondamenti, la incauta Vergine Vestale Bavarese dovrebbe sapere che loro non dovevano neppure osare, di discutere una cosa simile, tanto più se intendevano poi mutarla in una eventuale proposta indecente rivolta alla Santa Sede, se non peggio, in una vera e propria ratifica dell’Episcopato della Germania, al quale prima a causa di Martin Lutero, poi secoli dopo a causa del para-concilio e del post-concilio, non sempre è chiaro che loro sono cattolici solo nella misura in cui sono con Roma e soprattutto sotto Roma. E di questi tempi, a parlare a certe vergini vestali teutoniche del concetto «con Roma» e soprattutto «sotto Roma», si corre il rischio di far saltare via la polvere dalla loro superficie per far emergere immediatamente il luterano romanofobo che si nasconde sotto.

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La Vergine Vestale Bavarese, dovrebbe anzitutto sapere che per dei Vescovi riuniti in assemblea non è lecito discutere ― per fare un esempio concreto ― sulla legittimità del sacerdozio femminile, perché un simile tema non può essere oggetto di discussione, trattandosi di un argomento che è stato chiuso una volta e per sempre attraverso un preciso documento [cf. Ordinatio Sacerdotalis, testo QUI] che si esprime in modo definitivo, cosa questa che implica il ricorso al secondo grado della infallibilità del Romano Pontefice, la quale si esprime mediante tre diversi gradi, in modo sia definitorio sia definitivo [cf. Ad tuendam fidem, § 2, testo QUI]. Così come non si può discutere sulla eventuale legittimità dell’aborto in certi particolari e ristretti casi, altrettanto vale per l’eutanasia, per la liceità dell’adulterio e via dicendo a seguire. Sempre per fare degli esempi concreti: i vescovi di nessuna conferenza nazionale possono riunirsi per discutere se è il caso o no di unire in matrimonio coppie dello stesso sesso, perché la discussione non ha proprio motivo di esistere, perché nulla c’è da discutere. Come non è lecito discutere se sarebbe il caso di riformulare meglio il dogma della immacolata concezione della Beata Vergine Maria o della sua assunzione al cielo in anima e corpo, perché chi ha formulato quei dogmi, li ha formulati bene; e dogmatizzando questi due misteri della fede, ha chiuso ogni possibile discussione futura, persino per l’irrequieto episcopato tedesco e per i grandi periti tedeschi insidiatisi come un cancro nel Concilio Vaticano II, all’interno del quale, non avendo potuto giocare sulla sostanza delle dottrine, hanno giocato sullo stile del linguaggio. E sul momento nessuno se ne accorse, nessuno capì che il linguaggio ambivalente e non deciso, dove da una parte si esorta e dall’altra non si minaccia di pena chi trasgredisce, sarebbe stata la gran porta di accesso per la grande de-costruzione futura generata da un caos senza precedenti, basato sulla distruzione della legittima autorità apostolica e sull’imposizione al suo posto dell’autoritarismo dei teologi di bandiera e dei laici con la tiara in testa.

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E sia detto per inciso che certi laici ai quali non è proprio chiaro il loro ruolo all’interno della Chiesa, sono nati da quei movimenti che proprio sotto gli occhi del Beato Paolo VI e di San Giovanni Paolo II hanno finito col dar vita a delle vere e proprie chiese dentro la Chiesa, con tanto di proprie liturgie e di propri catechismi, diffondendo un’idea errata e sovente ereticale basata sulla non lieve confusione che costoro fanno sul sacerdozio comune dei fedeli acquisito col Battesimo, ed il sacerdozio ministeriale acquisito con l’Ordine Sacro; e qui mi riferisco ai neocatecumenali. Per non parlare poi della pneumatologia di certi laici auto-elettisi delegati personali dello Spirito Santo, ai quali non è facile chiarire che i carismi elargiti dalla grazia divina, sono tali solo se riconosciuti e soprattutto regolamentati dalla Chiesa, quindi esercitati nella Chiesa, per la Chiesa e sotto il vigile controllo della Chiesa; e qui mi riferisco a certe frange dei carismatici e del Rinnovamento nello Spirito Santo. Tutto questo ha prodotto nella Chiesa ciò che molto bene spiegò a suo tempo il Venerabile Pontefice Benedetto XVI lamentando la «clericalizzazione dei laici e la laicizzazione del clero». Ebbene, erano forse questi i frutti sperati e auspicati dal Concilio Vaticano II che ha affrontato il discorso sulla missione dei laici nella Chiesa? Se infatti leggiamo il decreto sull’apostolato dei laici nella Chiesa, tra le sue righe non vi troveremo nulla che possa legittimare solo lontanamente certe follie messe in piedi da Kiko Arguello e Carmen Hernandez o da certe frange carismatiche [cf. Apostolicam actuositatem, testo QUI]. Da dove nascono, dunque, certi “mostri”? Presto detto: dal para-concilio e dal post-concilio dei grandi “interpreti” e “attuatori”. Inutile dire che se agli inizi del suo pontificato, San Giovanni Paolo II, verso questi fenomeni in stato degenerativo già da un decennio, avesse usata la stessa chiarezza e severità usata verso chi favoriva la distribuzione dei contraccettivi nei Paesi del continente africano, non saremmo mai giunti cinquant’anni dopo alla attuale situazione odierna al di fuori di ogni controllo, con numeri sempre più elevati di parroci che chiedono ai vescovi di essere rimossi da parrocchie nelle quali gruppi di laici hanno completamente occupata da alcuni decenni la scena, imponendo ai sacerdoti le direttive liturgiche, catechistiche e pastorali, salvo rendergli la vita un inferno se osano sollevare obiezioni; e le più agguerrite e terribili sono le donne, dette anche le pretesse. Il tutto con un’aggravante non certo lieve: sotto il pontificato di San Giovanni Paolo II, a questi movimenti è stato persino permesso di aprire seminari e di formare futuri sacerdoti, che in genere non sono poi i sacerdoti del vescovo, ma i sacerdoti del movimento, formati secondo i criteri del movimento, non di rado formati persino da dei laici, ed obbedienti di fatto non al vescovo, ma al movimento. 

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Eh, ci si fosse occupati un po’ meno dei preservativi e un po’ di più di quanto veniva innescato a livello degenerativo all’interno della Chiesa!

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GIOCARE SULLE SFUMATURE SEMANTICHE È UNA VECCHIA TECNICA DEI TEDESCHI CHE HA RECATO GRANDI E GRAVI DANNI ALLA CHIESA UNIVERSALE

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Se non fosse stato per alcuni attenti teologi, tra i quali il Cardinale Alfredo Ottaviani, sarebbe stata fatta passare con delicate sfumature semantiche la cosiddetta “collegialità selvaggia” nella costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, in aperta rottura con tutto il precedente magistero e con la tradizione stessa della Chiesa, mutando così Pietro, detentore per divino mandato di un primato assoluto, in un primus inter pares [il primo tra i propri stessi pari]. Scoperto l’inghippo per tempo, nel testo di Lumen Gentium furono così inseriti i numeri 22-24. In seguito, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 883 fu impresso: «Il Collegio o Corpo dei Vescovi non ha autorità, se non lo si concepisce insieme con il Romano Pontefice […] quale suo capo» Come tale, questo Collegio «è pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata se non con il consenso del Romano Pontefice».

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Tutto ciò che fu architettato durante il para-concilio, seppure mai assimilato e ratificato dal Concilio Vaticano II, è stato però realizzato nel post-concilio dei grandi “interpreti” e “attuatori”, compresa la pretesa di esercitare una “collegialità selvaggia” in aperto sprezzo a tutto il precedente magistero, alla tradizione della Chiesa, ed al magistero dello stesso Concilio Vaticano II.

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Il Cardinale Reinhard Marx, ha quindi chiaro in sé il mistero eucaristico e l’Eucaristia come «Nucleo del mistero della Chiesa»? [cf. Ecclesia de Eucharistia, testo QUI]. Gli atti del magistero sono infatti chiari nell’affermare: «l’Eucaristia stabilisce obiettivamente un forte legame di unità tra la Chiesa Cattolica e le Chiese ortodosse, che hanno conservato la genuina e integra natura del mistero dell’Eucaristia. Al tempo stesso, il rilievo dato al carattere ecclesiale dell’Eucaristia può diventare elemento privilegiato nel dialogo anche con le Comunità nate dalla Riforma» [cf. Sacramentum caritatis, testo QUI]. Ebbene, leggendo queste parole, che cosa intende il Cardinale Reinhard Marx? Riesce a cogliere che mentre quelle Ortodosse sono indicate come «Chiese» separate, le aggregazioni nate dallo scisma luterano sono invece indicate come «Comunità»? È chiara al Cardinale Reinhard Marx la differenza abissale che corre per noi cattolici tra ortodossi e protestanti? Gli ortodossi, separatisi da Roma per la “sfumatura” del filioque inserita nel Simbolo di fede Niceno-Costantinopolitano, hanno la successione apostolica e professano nella sostanza la nostra stessa fede, al di là di riti diversi nella loro forma accidentale esterna ed al di là di varie “sfumature”. I protestanti, che conservano al proprio interno un indubbio patrimonio cristiano, non sono separati da noi per delle accidentalità esterne o per delle “sfumature”, ma lo sono nella profonda sostanza dei Sacramenti e del modo stesso di concepire la Chiesa, di leggere e di annunciare il Santo Vangelo. Inoltre, i protestanti, non riconoscono il primato di Pietro sulla Chiesa universale e la sua potestà piena e assoluta, non riconoscono il Sacerdozio ministeriale, non riconoscono la transustanziazione e la presenza reale di Cristo nella Santissima Eucaristia. O pensa forse, il Cardinale Reinhard Marx, che tutte queste siano solo sfumature semantiche? Se però il Presidente dei Vescovi della Germania ha qualche lacuna, in tal caso, invece di perdere tempo e forse anche la fede cattolica in certe facoltà teologiche della Germania, potrebbe sempre rivolgersi ad una delle nostre brave suore missionarie che con poche, brevi e semplici parole preparano i fanciulli alla Prima Comunione nei più sperduti villaggi del continente africano; e che trasmettono la purezza della fede ai Christi fideles sicuramente molto meglio di certi tronfi dottoroni delle disastrate facoltà teologiche tedesche.

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Nella Santissima Eucaristia si è chiamati a essere perfetti nell’unità [cf. Gv 17, 20-26], non nella frammentaria diversità delle molteplici pseudo-chiese, perché il Verbo di Dio ha fondato una sola e vera Chiesa affidata a Pietro coadiuvato dal Collegio degli Apostoli [cf. Mt 13, 16-20]. Peraltro mi risulta che anche in Germania si reciti nella Professione di Fede: « … die eine, heilige, katholische und apostolische Kirche». E in lingua tedesca, se non erro «die eine» seguita a significare “una”, “la sola”, “la unica”. Questo per ricordare che un Martin Lutero distruttore dell’unità e della comunione, non era in programma ieri e non può divenire emblema del “buon riformatore” neppure oggi. Pertanto, se alcuni suoi seguaci sposati con un coniuge cattolico anelano ricevere la Santissima Eucaristia, prima devono avere chiaro che cosa è sostanzialmente e realmente l’Eucaristia, poi devono intraprendere un ciclo di adeguata catechesi, infine abbandonare gli errori dell’eresiarca Lutero e dei suoi seguaci ed entrare con un sincero atto di fede nella comunione cattolica. Solo allora, potranno ricevere la Santissima Eucaristia, che ricordiamo è un dono gratuito come tutte le azioni di grazia, non è un “diritto politico”.

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Occorreva forse un prete e teologo italiano per ricordare ai membri dell’episcopato tedesco ricolmi di dottorati, ed al contempo clinicamente affetti a livello antropologico dal complesso del genio e dal complesso della razza culturalmente superiore, quelli che sono i basilari rudimenti del Catechismo della Chiesa Cattolica che di fatto essi hanno mostrato di non conoscere con la concretezza del loro discutere e agire?

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COME TESTIMONE OCULARE IO VI DICO: I VESCOVI TEDESCHI HANNO TENTATO DI UFFICIALIZZARE CIÒ CHE DA MOLTO TEMPO FANNO IN TOTALE SPREZZO AL MAGISTERO DELLA CHIESA ED ALLE LEGGI CANONICHE

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In passato ho soggiornato per molti mesi in Germania e per diverso tempo nella Arcidiocesi di Monaco di Baviera, già retta all’epoca dall’Arcivescovo Reinhard Marx, creato poi Cardinale alcuni anni dopo dal Sommo Pontefice Benedetto XVI. Sono quindi testimone oculare di tutti i loro aberranti abusi, ai quali ho assistito ed ai quali più volte mi rifiutai di partecipare. Vi offrirò allora alcuni esempi, peraltro già riportati in un mio libro del 2011 in fase di ristampa. Partiamo proprio dall’Eucaristia: in totale sprezzo a quanto dispone in modo chiaro la Istruzione Redmptionis Sacramentum [cf. testo QUI], presso l’Abbazia di Sankt Bonifaz dove ero ospite, nel cuore della Capitale bavarese, rimasi sconcertato nel vedere le persone che prendevano l’Eucaristia con le proprie stesse mani e la intingevano nel calice del Prezioso Sangue di Cristo, noncuranti del fatto che nel qui citato documento, al n. 104 si impone: «Non si permetta al comunicando di intingere da sé l’ostia nel calice». Sempre nella chiesa di questa abbazia, ho visto una donna, dopo la Santa Comunione dei fedeli, purificare all’altare i vasi sacri ed un laico deporre il Santissimo Sacramento nel tabernacolo, mentre i sacerdoti concelebranti stavano seduti sul presbiterio. E ancora: ho visto, nelle chiese dell’Arcidiocesi del Cardinale Reinhard Marx, donne che di fatto svolgevano le funzioni del diacono, ho visto laici proclamare il Santo Vangelo durante le Sante Messe, ed una volta, durante una concelebrazione, dopo che un laico aveva proclamato il Vangelo, ho visto salire sul presbiterio una donna vestita con una strana toga nera che comincia a fare l’omelia. Quando al confratello seduto accanto a me, mormorai: «Ma questa chi è … che cosa fa?». Lui mi rispose: «È una vescovessa luterana, ogni tanto noi facciamo questi scambi ecumenici». A quel punto mi alzai in piedi, mi tolsi la stola dal collo, la deposi sulla sedia e me ne andai via dinanzi a tutta l’assemblea». Quando poi, dopo la Santa Messa, agli altri sacerdoti fu chiesto perché quel prete straniero se ne fosse andato via, loro risposero: «Ah, non fateci caso, è un prete romano, gente chiusa!».

Non potendo sottostare a certi abusi, visto che dov’ero ospite non mi permettevano di celebrare la Santa Messa in privato dentro qualche cappella, poiché dovevo stare all’obbligo delle concelebrazioni coatte e sorbirmi tutti i loro peggiori abusi, grazie ai buoni uffici di due anziani gesuiti di Roma mi recai presso la facoltà di filosofia dei Gesuiti di Monaco di Baviera dove mi misero a disposizione una delle loro diverse cappelle per poter celebrare la Santa Messa.

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Uno dei miei problemi principali era anche e soprattutto legato alla Santissima Eucaristia, perché era uso diffuso nelle parrocchie bavaresi che i protestanti, coniugi o compagni divorziati uniti in seconde nozze a dei cattolici, andassero tranquillamente a ricevere la Comunione. Tutto questo per chiarire, a quella Roma specializzata nel far finta di non sapere e di non conoscere, che il Cardinale Reinhard Marx e l’assemblea dei Vescovi della Germania, ad eccezione di sette che hanno sollevato un quesito alla Santa Sede, hanno semplicemente tentato di “ratificare” e quindi di “legalizzare” e “ufficializzare” quello che di fatto già fanno da molti anni. Tutto questo mentre Roma prosegue a far finta di non sapere e di non conoscere, impegnata com’è oggi a parlare solo di due fondamentali misteri della fede: i profughi ed i migranti.

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PIETRO SI LAVA LE MANI COME PONZIO PILATO DICENDO: «CERCATE DI METTERVI D’ACCORDO TRA DI VOI»

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E così, i primi di maggio, una delegazione di Vescovi della Germania si è incontrata con S.E. Mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. La delegazione era composta dalle Loro Eminenze il Cardinale Reinhard Marx, Arcivescovo metropolita di Monaco di Baviera e presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, il Cardinale Rainer Maria Woelki, Arcivescovo metropolita di Colonia, Le Loro Eccellenze Rev.me Felix Genn, Vescovo di Münster, Karl-Heinz Wiesemann, Vescovo di Speyer, Rudolf Voderholzer, Vescovo di Regensburg, Gerhard Feige, Vescovo di Magdeburg, Padre Hans Langendoerfer S.J. nella sua qualità di Segretario della Conferenza Episcopale della Germania.

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Questo incontro si è concluso in un nulla di fatto olezzante indecenza, attraverso il quale si capisce in che misura sotto questo pontificato Roma non sia più cuore della Chiesa mater et magistra, ma solo un’annoiata e impotente spettatrice. Infatti, il Sommo Pontefice Francesco I, lungi dal dare o far dare una risposta su una questione che tocca il cuore della Chiesa e il centro della sua unità, ha fatto rispondere di apprezzare «l’impegno ecumenico dei vescovi tedeschi e chiede loro di trovare, in spirito di comunione ecclesiale, un risultato possibilmente unanime» [cf. QUI, QUI]. Insomma, li ha rispediti a casa dopo avergli detto nella chiara sostanza: «Cercate di mettervi d’accordo tra di voi in modo unanime» (!?).

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Inutile porsi una domanda, anche se purtroppo debbo porla: se i Vescovi della Germania si fossero trovati in disaccordo sulle questioni chiave che ossessionano questo pontificato, vale a dire profughi e migranti, il Sommo Pontefice, avrebbe tardato a dare una chiara e precisa risposta, semmai pure condita con una delle sue acidule battute contro quanti sono a suo dire variamente “duri di cuore”?

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Credo che a distanza di due millenni, noi non possiamo permetterci “il lusso” di rispondere a Gesù Cristo con lo stesso quesito di Ponzio Pilato:

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«[…]”sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chi appartiene alla verità ascolta la mia voce”. Ma Pilato risponde a Gesù: “E che cos’è la verita?”» [Gv 18, 37-38]. 

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Mentre la casa brucia e tutto quanto crolla, mentre i laici che hanno indossata sulle loro teste la tiara deposta dai Sommi Pontefici e mentre diversi giornalisti improvvisatisi ecclesiologi, teologi e canonisti, riducono tutto a uno scontro tra il partito dei conservatori ed il partito dei progressisti, noi prendiamo atto che il Successore di Pietro, proprio come Ponzio Pilato, dopo essersi chiesto «ma che cos’è la verità?», ha risposto ai Vescovi della Germania dicendo loro: «E adesso, cercate di mettervi d’accordo tra di voi in modo unanime» (!?).

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Qualora i Vescovi della Germania, in modo unanime dovessero mettersi d’accordo nel dare la Santa Comunione ai protestanti, che cosa accadrà domani, se un’altra conferenza episcopale, in modo altrettanto unanime, deciderà di unire in matrimonio le coppie omosessuali? Cosa accadrà se un’altra, all’unanimità, deciderà che è lecito abortire il feto di un bimbo riscontrato affetto da malformazione, non reputando giusto mettere al mondo una creatura affetta da imperfezioni? Cosa accadrà se un’altra, all’unanimità, deciderà che è un autentico atto di carità porre fine alla vita di un ammalato terminale che soffre e che non ha alcuna speranza di vita? Da quando, l’unanimità, è garanzia di sana dottrina e di profondo ossequio alla verità rivelata? Questi sono i quesiti ai quali, S.E. Mons. Luis Francisco Ladaria Ferrer, che ha parlato a nome del Sommo Pontefice alla delegazione di Vescovi tedeschi, dovrebbe rispondere a tutti noi; e dovrebbe farlo proprio nella sua qualità di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ben sapendo che nel IV secolo, la maggioranza dei vescovi, avevano accolta l’eresia ariana. Come mai, in quel caso, la maggioranza assoluta non costituì affatto garanzia di verità in ossequio al mistero della Rivelazione? Ecco, questo ce lo deve spiegare il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

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Questi sono i fatti, non si tratta di opinioni umorali dettate da chissà quali istinti di simpatia, antipatia o peggio di chiusura al ragionamento. E dinanzi al dato di fatto oggettivo, costituito da Pietro che si lava le mani come Pilato, ritengo di non avere proprio più altro da aggiungere, perché mi guardo bene dal dire di meno, ma soprattutto, ed in specie quando si tratta di Pietro, evito soprattutto di dire di più del dovuto.

Dall’Isola di Patmos, 5 maggio 2018

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

Un francobollo vaticano burlone per spedire una missiva sulla questione della Messa ecumenica

— Theologica —

UN FRANCOBOLLO VATICANO BURLONE PER SPEDIRE UNA MISSIVA SULLA QUESTIONE DELLA MESSA ECUMENICA

Occorre pertanto che la Chiesa respinga quel falso ecumenismo, del quale abbiamo qui tracciato i contorni, e che invece di condurre i fratelli separati all’unità cattolica, rischia di trasformare e frantumare l’unità cattolica attorno a Cristo in un guazzabuglio disordinato e caotico di fratelli separati sotto il «principe di questo mondo»

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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PDF  articolo formato stampa
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Giovanni Cavalcoli, O.P. usa questo francobollo ameno per spedire la missiva che segue … [vedere in Poste VaticaneQUI]

La cosiddetta Messa ecumenica, di cui da tempo si sente parlare, è espressione non chiara, perché non è sempre chiaro se ci si riferisce a una Messa compatibile con l’ecumenismo o a un rito facilone, sincretistico, confusionario ed equivoco, con ciò stesso invalido, illecito ed empio, che col pretesto dell’ecumenismo, auspichi un’ibrida concelebrazione fra cattolici e luterani.

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La questione è molto delicata, perché la celebrazione eucaristica rappresenta e realizza il vertice della comunione ecclesiale, è la fons et culmen totius vitae christianae, per esprimerci col Concilio Vaticano II.  E per questo è necessario che i celebranti, i concelebranti ed i fedeli che partecipano siano in piena comunione con la Chiesa, accogliendo integralmente la dottrina e la disciplina morale e giuridica della Chiesa cattolica, cosa che tanti fratelli cristiani non-cattolici, in particolare i luterani, dei quali qui adesso ci occupiamo, sono ancora ben lungi dall’accettare. Infatti, il Concilio Vaticano II, nel riformare il rito della Santa Messa, dà ad essa un taglio ecumenico: senza naturalmente sopprimere l’aspetto sacrificale. Quindi la Messa novus ordo presenta taluni aspetti, assenti nella vetus ordo, che sottolineano e riprendono gli aspetti propri della Cena del Signore di Lutero, come l’aspetto conviviale: si parla oggi correntemente del «banchetto eucaristico»  o della «sinassi eucaristica», come memoriale dell’Ultima Cena.

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Ad ogni modo, l’intendere la Messa ecumenica nel primo dei sensi accennato sopra, è cosa del tutto legittima e può esprimere bene proprio quello che il Concilio ha inteso fare con la riforma liturgica: avvicinare il più possibile il nuovo rito a quanto di valido c’è nella Cena del Signore luterana. Infatti, il Concilio, nel riformare il rito della Messa, dà ad essa un taglio ecumenico: senza naturalmente sopprimere l’aspetto sacrificale. Ma più di così il Concilio non poteva concedere ai luterani, senza tradire il significato essenziale della Santa Messa. Adesso tocca ai luterani avvicinarsi alla Messa cattolica, assumendo quegli elementi voluti da Cristo, che Lutero a suo tempo abbandonò, credendo di riformare, mentre in realtà ha solo deformato.

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La seconda concezione della Messa ecumenica, invece, è quella auspicata dai modernisti filo-luterani, come per esempio Andrea Grillo, il quale di recente, negando nella rivista Munera che la transustanziazione sia un dogma [1], sostiene che l’interpretazione cattolica e quella luterana sono due diverse interpretazioni possibili e legittime dell’Eucaristia, ma nessuna delle due può pretendere di essere l’unica vera condannando l’altra [vedere articolo, QUI], cui ne ha fatto seguito in secondo di precisazione, QUI]. È il metodo classico dei modernisti, intriso di opportunismo e di doppiezza, che, in nome del pluralismo o dell’aggiornamento, in riferimento a un dato passo o sentenza della Scrittura, affianca l’interpretazione cattolica a un’altra eretica, dando peraltro la preferenza a questa, mentre l’altra è detta “superata”.

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Il Comunicato cattolico-luterano

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Questo importantissimo argomento emerge dal Comunicato congiunto della Federazione Luterana Mondiale e del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani a conclusione dell’anno della Commemorazione comune della Riforma, del 31 ottobre 2017. In esso viene velatamente formulato l’auspicio che cattolici e luterani possano celebrare assieme l’Eucaristia, superando le divisioni attualmente esistenti. In esso si dice: «Con uno sguardo rivolto al futuro, ci impegniamo a proseguire il nostro cammino comune, guidati dallo Spirito di Dio, verso la crescente unità voluta dal nostro Signore Gesù Cristo. Con l’aiuto di Dio e in uno spirito di preghiera, intendiamo discernere la nostra interpretazione di Chiesa, Eucaristia e Ministero, sforzandoci di giungere ad un consenso sostanziale al fine di superare le differenze che sono tuttora fonte di divisione tra di noi».

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E come fare per «superare le differenze tuttora fonti di divisione»? Il Decreto conciliare Unitatis redintegratio lo dice chiaramente: occorre che noi cattolici, sotto la guida del Papa, padre comune dei cristiani, con l’assistenza dello Spirito Santo, aiutiamo i fratelli luterani a togliere quegli «impedimenti» e «carenze», che sono ancora di ostacolo alla piena comunione con la Chiesa Cattolica, affinchè essi «siano pienamente incorporati» in essa [n.3].

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Quanto al programma di «discernere la nostra interpretazione di Chiesa, Eucaristia e Ministero, sforzandoci di giungere ad un consenso sostanziale», in esso sono toccati tre punti della massima importanza, che riguardano il fine ultimo dell’ecumenismo, come risulta dall’Unitatis redintegratio: che la Chiesa, nella sua premura materna, per mezzo dei suoi ministri, chiamando tutti a sottomettersi al soave giogo di Cristo, possa ottenere, con una paziente, indefessa e saggia opera educativa, stimolante  e correttiva, assistita dallo Spirito Santo e guidata dal Papa, che chiama tutti alla pienezza della vita cristiana, che quei fratelli che non sono ancora in piena comunione con lei o si fossero allontanati, giungano o tornino alla pienezza della comunione, nella comune e fraterna celebrazione dell’Eucaristia, liberandosi gradualmente da tutti gli ostacoli ed impedimenti che si frappongono al conseguimento della nobile meta.

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La Chiesa deve sapersi presentare ai luterani con un volto attraente, così che essi si sentano invogliati ad entrare in essa in quella piena comunione che tuttora ad essi manca, perché essa realizza meglio di loro quegli ideali evangelici, che pur essi perseguono, ed è libera da quelle difficoltà dalle quali sono afflitti. Se noi cattolici ci mostriamo cedevoli nei confronti dei loro difetti e quasi verso essi ammirati, i luterani si sentiranno dei campioni del cristianesimo, penseranno di essere dalla parte della ragione e si asterranno dall’accostarsi a Roma.

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Indubbiamente Lutero mantiene il concetto di Chiesa, benchè a quel termine (Kirche) preferisca quello di “comunità” (Gemeinschaft). Egli, agli inizi, quand’era ancora cattolico, non intese affatto rompere con la Chiesa, ma riformarla; e qualche sua idea era anche buona. È al tempo della rottura col Romano Pontefice, capo della Chiesa, che egli cadde in un’idea errata di Chiesa, credendo di riformarla, per cui pensò sempre di aver ritrovato la vera essenza della Chiesa, deformata, a suo dire, dal papato, mentre il vero de-formatore era lui.

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Egli tuttavia mantenne della Chiesa alcuni elementi genuini. Così Chiesa era per lui la comunità dei battezzati, nella quale si predica il Vangelo e si amministrano i sacramenti. È il popolo di Dio guidato da Cristo e dallo Spirito Santo. Tuttavia i ministri non sono sacerdoti, ma pastori, addetti al culto ed alla guida della comunità, e teologi-esegeti, maestri di Sacra Scrittura.

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Nessuna successione apostolica e nessuna gerarchia ecclesiastica, quindi niente papato. Questione da affrontare, allora, come accenna il Comunicato, è quella dell’essenza del ministero, che coinvolge il concetto di Chiesa, perché la differenza essenziale tra il concetto cattolico di Chiesa e quello luterano, è appunto il fatto che nell’ecclesiologia luterana manca il ministero sacerdotale, sostituito da un ufficio meramente funzionale di insegnante, di sorvegliante o presidente d’assemblea, senza carattere soprannaturale; ma questa è una lacuna gravissima, perché manca il concetto di sacramento, manca il Magistero e manca il governo universale della Chiesa, ossia il papato.

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L’errato concetto luterano di sacramento, che ne rifiuta la natura di canale della grazia ― ex opere operato ―, ma lo vede solo come segno sensibile della grazia presente, porta con sé la difettosità e la miseria per non dire lo squallore del culto e l’assenza della santificazione e del progresso spirituale; l’assenza del magistero porta con sé l’incertezza e il relativismo dottrinali, il disordine etico e dottrinale, nonché la mancanza dell’apologetica e dello slancio missionario; la mancanza del papato, principio di moderazione, unità, concordia e pluralità e vero sviluppo ecclesiale, produce una sistematica conflittualità intra-ecclesiale, la violenza delle polemiche, i contrapposti estremismi, la mania del cambiamento e l’insofferenza per la tradizione, il moltiplicarsi delle sètte e la dipendenza dal potere politico.

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Ma il contrasto più profondo tra l’ecclesiologia cattolica e quella luterana ha la sua scaturigine prima proprio nel contrasto sul concetto dell’Eucaristia, e quindi nella negazione luterana del mistero della transustanziazione. A causa di questa negazione la Comunità luterana si riduce ad essere niente più che una semplice società di discepoli di Cristo. Invece la vera Chiesa è comunione soprannaturale di persone, che trae origine, culmine, fondamento e ragion d’essere dalla comunione eucaristica e dalla celebrazione eucaristica. ln tal senso la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo. Significativo è il fatto che in Lutero sia totalmente assente l’ecclesiologia del Corpo mistico.

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La Messa cattolica e la Cena luterana

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Per noi cattolici la Messa non è solo un memoriale, ma anche sacrificio. Questo aspetto manca nella Cena luterana, perchè Lutero si rifiutò di collegare la Cena col Sacrificio della Croce, in quanto pensava che questo fosse sufficiente per la remissione dei peccati, senza bisogno di aggiungere opere umane, quale riteneva fosse la Messa.

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Noi cattolici abbiamo sempre risposto ai luterani che la Messa che Cristo stesso ci ha comandato di celebrare ― «fate questo in memoria di Me» ―, non pretende assolutamente di aggiungere nulla al valore infinito e più che sufficiente del Sacrificio del Signore, perché sarebbe veramente, come crede Lutero, assurdità ed empietà, ma è solo una partecipazione sacramentale, voluta da Cristo stesso, al suo unico divin Sacrificio, che ne prolunga ed applica la forza e l’efficacia nello spazio e nel tempo, fino alla fine dei secoli. Ma purtroppo da quell’orecchio i luterani non ci sentono.

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È comunque confortante la comune fede di noi cattolici con i luterani che in questo memoriale della Cena del Signore si verifica misticamente, ma realmente la presenza operante e confortante di Cristo crocifisso e risorto e del suo Spirito nella comunità costituita dal popolo sacerdotale, nel quale il ministro che presiede alla celebrazione, dopo la lettura e il commento della Parola, che conferma le promesse divine ed alimenta la speranza, ripetendo le parole del Signore, riconosce insieme con la comunità e nella comunità  la presenza operante dello Spirito, della grazia, del perdono e della misericordia di Dio sul suo popolo in preghiera ed in cammino verso la risurrezione.

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Tuttavia, la negazione luterana che il memoriale della Cena sia anche sacrificio sacerdotale, riattualizzante in modo incruento il Sacrificio della Croce per la remissione dei peccati e l’acquisto della vita eterna, è una grave disobbedienza e deroga alla volontà di Cristo, perché proprio nella Cena Cristo ha istituito il sacerdozio appunto come potere di dir Messa, ossia di transustanziare il pane in corpo e il vino in sangue, per offrirli appunto in sacrificio al Padre, al fine di compensare alla offesa del peccato e ottenere misericordia.

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È chiaro allora che sacerdozio, transustanziazione e Messa come sacrificio espiatorio e di riconciliazione, costituiscono un plesso di valori inscindibili e logicamente collegati, per cui il rifiuto o quanto meno l’insufficiente fedeltà che Lutero ha opposto ad essi hanno fatto sì che su questi punti importantissimi non abbia riformato, ma distrutto.

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L’interpretazione delle parole del Signore

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Quanto infatti alla presenza reale, è vero che Lutero la ammette, anche con forza contro il simbolismo di Zwingli e Calvino, ma non la intende pienamente nel senso che Cristo ha voluto. Tale presenza infatti non è solo spirituale, ma anche sostanziale e materiale, perchè un corpo umano è composto di materia. Ora nell’Eucaristia c’è il vero corpo del Signore, a modo di sostanza. E la sostanza corporea è materiale, anche se certo non è la stessa identica materia del corpo di Gesù in cielo, ma si tratta di un essere a modo di materia.

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Questa presenza tra noi, misteriosa ma reale, della materia del corpo di Cristo eucaristico, è salvata nel dogma della transustanziazione, perché, con le parole della consacrazione, la sostanza del pane si converte nella sostanza del corpo del Signore. Per cui, quando facciamo la Comunione, noi veramente ”mangiamo la sua carne”, materia del suo vero corpo, unita alla divinità del Signore. Qui è proprio il caso di parlare, come diceva Pierre Teilhard de Chardin, della «santa materia», materia salvifica, escatologica e immortale, quale sarà quella del nostro corpo risorto. Ecco allora il detto di Sant’Agostino: «Caro te obcaecaverat? Caro te sanat». E Santa Caterina: «“Le mie labbra sono rosse dello stesso sangue di Cristo».

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Invece, nella «impanazione» luterana, ossia «Cristo nel pane», o come pure la si suol chiamare, «consustanziazione», ossia la sostanza del pane insieme con la sostanza del corpo di Cristo, non si vede come possa salvarsi il senso del termine neutro “questo” [hoc, tutò] in «questo è il mio corpo», che evidentemente indica una sola sostanza, ovvero la transustanziazione in fieri, il momento nel quale essa sta avvenendo, ossia il passaggio dalla sostanza del pane alla sostanza del corpo. Al termine del processo transustanziatorio, sull’altare non c’è più il pane, ma c’è il solo corpo di Gesù. Se fosse invece vera la tesi di Lutero, Gesù avrebbe dovuto dire: “Io sto venendo in questo pane”.

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Dire che Cristo è nel pane, sia pur con la sua grazia nella comunità celebrante, non dice nulla di speciale, ma enuncia semplicemente il principio di teologia naturale che Dio è in tutte le cose ed è in tutte le anime in grazia, anche se non partecipano alla Cena o alla Messa. Dire che si tratta di una presenza speciale nel  pane  nel vino non è ancora sufficiente, come abbiamo visto, a spiegare le parole del Signore.

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Certamente, dopo la consacrazione noi continuiamo a vedere o a sentire fisicamente gli aspetti sensibili del pane e del vino, quelli che in filosofia si chiamano accidenti e in liturgia si chiamano specie. Ma sappiamo per fede nelle parole di Cristo che, dopo la consacrazione, quello che sembra pane, non è pane. Non è che, propriamente, i sensi siano ingannati: essi vedono oggettivamente dei veri accidenti.

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È la nostra ragione che, abituata a sapere che sotto gli accidenti del pane c’è il pane, da sola, se non fosse informata dalla fede, non immaginerebbe mai che possa accadere che degli accidenti sussistano senza la loro sostanza, benchè metafisicamente la cosa non sia impossibile, perché tra di loro c’è una distinzione reale e quindi una separabilità, per cui in tal caso, di per sé, anche se sostanza e accidenti compongono una sola cosa, gli uni possono esistere senza l’altra, anche se comunque essi hanno bisogno di un supporto ontologico, che sostituisca la loro sostanza naturale, e nel caso dell’Eucaristia, è Dio stesso, Che sostiene miracolosamente nell’essere le specie eucaristiche, fino alla loro corruzione, allorché la presenza di Cristo viene meno e ritorna la sostanza, ma questa volta corrotta, del pane.

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Un’altra interpretazione delle parole di Cristo, alla quale forse potrebbe essere ricondotta quella luterana, però questa volta assurda, è la seguente: «Io sono questo pane». In realtà, non si può predicare una sostanza di un’altra sostanza. Io non posso dire: «Paolo è Pietro», no. Paolo è Paolo e Pietro è Pietro. La sostanza o la persona non può essere predicato, ma è solo soggetto.

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Le tesi di Manuel Belli e di Padre Timothy Radcliffe

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Discutiamo adesso una recente interpretazione dell’eucaristia proposta da Manuel Belli, ospite il 17 gennaio scorso di Andrea Grillo sulla rivista Munera. Il Belli sintetizza le sue considerazioni in tre temi: la connessione dell’eucaristia con la corporeità, quella col pasto e quella con la sessualità [vedere articolo, QUI].

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Nella prima considerazione il Belli sostiene che il ritenere che dopo la consacrazione il pane non è più pane ma corpo del Signore, sarebbe un pensiero «semi-magico». Invece, secondo lui, come per Calvino, il pane resta pane, e diventa solo un «simbolo» del corpo del Signore.  Viceversa, bisogna dire con fermezza che per il credente il ritenere che dopo la consacrazione il pane non è più pane, ma corpo del Signore, non è «pensiero magico», ma è la sostanza della fede eucaristica.

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Le considerazioni semi-magiche sarebbero supposte da ciò che Belli fa dire al credente. Afferma il Belli:

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«La tradizione cattolica usa la nozione “transustanziazione” per esprimere che quel pane e quel vino non sono più tali, ma sono diventati il corpo e il sangue del Signore. Vorremmo però attenerci a un livello di costatazione: non è difficile naufragare in considerazioni semi-magiche: “Il prete dice questo è il mio corpo; io non vedo e non tocco nessun corpo ma solo del pane e del vino; prendiamola per buona!».

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Faccio notare che qui il Belli confonde innanzitutto il credente col non credente. Qui egli probabilmente ritiene di esprimere la considerazione del credente. In realtà si tratta di ciò che vede il non-credente. Infatti il credente dice: io vedo gli accidenti del pane e del vino, ma non ne vedo la sostanza, perché so che sotto quegli accidenti c’è la sostanza del corpo e del sangue del Signore.

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In secondo luogo il Belli, oltre a negare qui il mistero della transustanziazione, confonde empiamente e sacrilegamente l’operazione miracolosa prodotta dalle parole della consacrazione con un’operazione magica, dimostrando un’orribile confusione tra l’azione divina della transustanziazione e l’operazione magica, che è un prodigio ― questa seconda ― che avviene invece col concorso del Demonio. Infatti, in che consiste il miracolo della transustanziazione? Nel fatto che Dio, al fine di nutrire le anime del cibo della grazia, fa sussistere gli accidenti del pane e del vino senza la loro sostanza, cosa del tutto superiore alla legge naturale, che vuole che gli accidenti siano sempre soggettati nella loro sostanza. Viceversa, l’operazione magica, che di per sé è peccato mortale di superstizione, consiste nel fatto che il mago, mediante un patto implicito od esplicito col Demonio, opera effetti prodigiosi, ma in fin dei conti naturali, utilizzando leggi segrete della natura, al fine di danneggiare il prossimo. Se fosse vero della consacrazione eucaristica ciò che dice Belli, la Messa non sarebbe vera Messa, ma rito satanico.

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Non è vero, come dice Belli che, prima o dopo la consacrazione, «i sensi vedono solo pane e vino»”. Non è così. Non i sensi, ma l’intelletto vede e concepisce la sostanza delle cose; i sensi sentono solo gli accidenti del pane e del vino. È vero che se i sensi mi avvertono degli accidenti del pane e del vino, normalmente mi aspetto che il mio intelletto ne colga la sostanza. Ma nel caso dell’Eucaristia, io credente so per fede che quegli accidenti non nascondono la loro sostanza, ma la sostanza del corpo e del sangue del Signore. Diverso è il caso del non-credente. Egli dispone solo del potere naturale del conoscere (sensi ed intelletto), ma gli manca la luce della fede. Per questo, egli, guardando l’ostia consacrata, non è in grado di saper di vedere solo gli accidenti del pane, ma crede di vedere anche la sostanza del pane, ossia il pane stesso, perché gli manca la fede, che gli farebbe sapere che invece sotto quegli accidenti c’è il corpo del Signore. Il credere dunque che dopo la consacrazione il pane resti pane, denota una sostanziale mancanza di fede nell’eucaristia. Per il Belli, invece, il pane consacrato non è altro che pane, però è ricordo, traccia, reliquia e simbolo del corpo del Signore. Secondo lui il segreto dell’Eucaristia non sta nel credere che sotto le specie del pane c’è il corpo del Signore, pensiero, questo, che sarebbe magia, ma nel vedere in quel pane che resta pane, il simbolo del corpo del Signore. Dice infatti:

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«In questa prospettiva la celebrazione della messa non è solo una sorta di inspiegabile magia in cui si rende presente il corpo della divinità. Dipende tutto da come guardi quel pane. È tutto ciò che abbiamo del corpo di Gesù, e non è poco. Solo un vuoto intellettualismo potrebbe pensare che un simbolo è soltanto una realtà di serie B. Noi viviamo di simboli. E il corpo di Gesù non è altro rispetto a un buon pane spezzato. E il corpo di Gesù non è altro rispetto a un buon pane spezzato».

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In secondo luogo Belli propone l’Eucaristia come «pasto». Purtroppo Belli parte col piede sbagliato, cioè con una definizione falsa o quanto meno insufficiente della Messa: «La messa è un pasto ritualizzato. A messa prima di tutto si mangia». Assolutamente no. A Messa prima di tutto il celebrante, in unione col popolo, offre a Dio Padre, nello Spirito Santo, il divino sacrificio del corpo e del sangue del Signore per la remissione dei peccati.

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La Messa certamente si conclude, se ne siamo degni e se siamo pronti, con la Santa Comunione eucaristica con Cristo e con la Chiesa, che ci è concessa grazie al sacrificio di Cristo riattualizzato dal celebrante sull’altare. La Messa non è dunque solo «mangiare», ma è anzitutto offrire, ascoltare, impetrare, supplicare, chiedere e dare perdono, lodare, glorificare, adorare, contemplare, tacere, ringraziare. Il mangiare e gli schiamazzi lasciamoli alle osterie e ad Hermes Ronchi [vedere nostri precedenti articoli, QUI, QUI].

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La Santa Messa, per quanto possa paragonarsi a un banchetto, essendo certamente memoria rituale dell’Ultima Cena,  non va assolutamente omologata in tutto e per tutto, sic et simpliciter, a questa Memoria. È questa, l’eresia di Lutero, che ricordiamo non è una «preziosa diversità», come abbiamo sentito più volte definirla di recente, ma è proprio una grave eresia. Per questo è del tutto incongruo, per quanto seducente, il predicozzo fatto da liturgisti disonesti, i quali osservano che non avrebbe senso sedersi a tavola in un banchetto senza mangiare, quasi a voler insinuare che non avrebbe senso andare a Messa senza fare la Comunione. L’ossessiva insistenza con la quale alcuni pretendono ad ogni costo che la Comunione sia concessa ai divorziati risposati, dipende da questo concetto feticistico della Comunione. Ma il punto è proprio questo: che la Messa non è in primo luogo un banchetto, ma un sacrificio religioso e cultuale. L’essenziale della Messa è chiaramente indicato dalle seguenti raccomandazioni di San Pietro nella sua Prima Lettera. Indirizzandosi ai fedeli, egli infatti dice:

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«Rivolgendovi a Lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive, per la costruzione di un edificio spirituale, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (I Pt 2, 4-5].

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È vero tuttavia quanto aggiunge Belli:

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«Quando prendiamo cibo o quando non lo prendiamo, stiamo in un modo o nell’altro dicendo di noi, della nostra vita, del significato che vi intravediamo o che facciamo fatica a vedere. A messa non si mangia tanto, ma ciò che si mangia dovrebbe avere un potere nutriente. A cosa diamo il potere di saziare la nostra esistenza? Sedersi alla tavola dell’eucaristia richiede di rispondere con onestà alla domanda circa cosa stiamo davvero cercando nel nostro esistere».

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La collocazione, forma e disposizione dell’altare della Messa novus ordo rispecchia un saggio criterio biblico, per il quale il richiamo al sacrificio si sintetizza felicemente con l’immagine del banchetto. Non è più solo l’altare soltanto altare del vetus ordo, ma non è neanche la tavola di osteria di certi liturgisti sbracati, smaniosi di essere ammessi alla famosa Cena luterana. Ma pur tuttavia Belli perde di nuovo quota con i raggiri dialettici che seguono:

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«Nel Medioevo sono stati codificati i precetti fondamentali della Chiesa, tra cui l’andare a messa almeno la domenica. Il rischio è che nella storia sono divenuti ‘quello che bisogna fare’ per dire di avere la fede, addirittura un qualcosa da offrire a Dio. L’inversione sarebbe consumata: dall’invito a sedere alla mensa dove Dio si offre, l’eucaristia diverrebbe ciò che dobbiamo a Dio».

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Innanzitutto è falso che la Santa Messa festiva domenicale, memoria della Risurrezione del Signore, sia stata istituita nel Medioevo, mentre se ne ha notizia sin dagli Atti degli Apostoli [At 2,42; 20,7], dalla Lettera di Barnaba e da Sant’Ignazio di Antiochia del II secolo. In secondo luogo, la Santa Messa è esattamente, con buona pace di Lutero, un «qualcosa offrire a Dio», e nientedimeno che Cristo stesso al Padre, immolato sulla Croce per le mani del sacerdote, mentre Paolo invita i fedeli ad unirsi all’offerta del sacerdote:

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«Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» [Rm 12,1].

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Inoltre il culto divino dev’essere sì volontario e possibilmente attraente, piacevole e gioioso; in ciò la bella liturgia e l’arte sacra svolgono una funzione importante; ma ricordiamoci che ― e siamo sempre lì ― non si tratta tanto di partecipare a una bella mangiata tra amiconi, quanto piuttosto di adempiere a un severo dovere di giustizia – costato il sangue di Cristo – nei confronti del Padre, per riparare alle nostre colpe e per compensarLo in Cristo per l’offesa del peccato, per sdebitarci dei nostri peccati e quindi di unirci, a tal fine, al sacrificio espiatorio della croce.

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La gioia certo si addice alla celebrazione eucaristica. Dio non vuole dei musoni, ma apprezza chi dona con gioia [cf. II Cor 9,7]. Tuttavia, ricordiamoci che se la Santa Messa è memoria della Resurrezione di Cristo e pegno della nostra, più in radice è memoria e partecipazione di quella Croce, che conduce alla Resurrezione. Per crucem ad lucem. Invece, un pensiero di Belli utile ed interessante è il seguente:

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«Il corpo di Cristo cosa c’entra con il mio desiderare? Cosa voglio che succeda quando mi siedo alla tavola dell’Eucaristia? Se desideriamo l’incontro con Dio, allora questa mensa avrà un potere saziante. Se desideriamo meno di lui, e ci accontentiamo di una buona predica divertente, piuttosto che di un canto emotivamente coinvolgente o un gesto particolarmente stravagante, prima o poi parteciperemo all’Eucaristia affamati, e sarà una pratica che non ci dirà molto. Occorre essere un po’ mistici per vivere in pienezza l’Eucaristia».

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Infine, l’eucaristia come “eros”, e qui sorgono ulteriori perplessità. Il termine eros per designare la mistica eucaristica è del tutto infelice, fuorviante e inadatto, perché corrisponde a un concetto pagano dell’amore inteso come brama sessuale sfrenata, un termine che non esiste neppure nella Scrittura, tanto l’eros ripugnava all’Autore sacro, ma al quale eros corrisponde nell’AT yadàd, hafesh, e nel Nuovo Testamento ”concupiscenza” [epithymìa: Gc 1,14; II Pt 1,4; I Gv 2,16; Rm 7,7]. Il concetto dell’amore sano invece, di benevolenza, è espresso, nell’Antico Testamento con ahàb, ahabàh, raham e nel Nuovo Testamento dal termine agàpe o filìa. Naturalmente la Bibbia non ha nulla contro l’amore sessuale in se stesso, ché anzi esso è benedetto nel matrimonio. Tuttavia essa è realisticamente consapevole del fatto che nella natura decaduta l’istinto sessuale stimola al peccato.

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L’amore sessuale, nel Cantico dei Cantici assurge a vari significati mistici: l’unione di Israele col suo Dio, l’unione della Chiesa o della vergine o dell’anima con Cristo. Belli, invece, citando delle parole del Padre Timothy Radcliffe, vorrebbe trovare nell’unione sessuale una funzione simbolica anche per significare il valore mistico dell’Eucaristia. Belli premette allora alla citazione di Radcliffe le parole della consacrazione: «Prendi, questo è il mio corpo», e commenta:

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«è una  frase, che senza  nessuna  difficoltà potrebbe essere contestualizzata in quello che un uomo dice alla sua donna o viceversa. Scrive T. Radcliffe: “Vorrei parlare dell’ultima cena e della sessualità. Può sembrare un po’ strano, ma pensateci un momento. Le parole centrali dell’Ultima Cena sono state: “Questo è il mio corpo, offerto per voi”. L’eucarestia, come il sesso, è centrata sul dono del corpo. Avete mai notato che la prima lettera di san Paolo ai Corinzi si muove fra due temi, la sessualità e l’eucarestia? Ed è così perché Paolo sa che abbiamo bisogno di capire l’una alla luce dell’altra. Comprendiamo l’eucarestia alla luce della sessualità e la sessualità alla luce dell’eucarestia”».

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Continua Belli commentando Radcliffe:

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«C’è dunque una componente erotica dell’eucaristia che non deve essere trascurata. Tra due amanti c’è un codice del corpo che eccede l’ordine delle parole. Donare il corpo significa confidare all’altra persona che potrà contare su una fedeltà che le parole non sono sempre in grado di esprimere. Ci sono tempi e momenti dove addirittura le parole potrebbero essere fonte di fraintendimento: il reciproco dono del corpo esprime che l’altro è per me al di là della comprensione che io adesso potrei avere dal punto di vista verbale o intellettuale».

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Bisogna notare con tutta chiarezza alcune cose. Prima: non è affatto vero, come vorrebbe farci credere Radcliffe, che San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi connette l’Eucaristia con l’amore sessuale. In questa Lettera l’Apostolo parla bensì del matrimonio [cf. c.7] e dell’Eucaristia [cf. 11, 23-29], ma separatamente e insieme con molti altri argomenti, quali ad esempio la sapienza cristiana, [cf. cc.1-2]; la funzione del predicatore [cf. cc.3-4]; un caso di incesto [cf. c.5]; l’appello ai tribunali pagani [cf. c.6]; la verginità [cf. c.7], il problema degli idolotiti [cf. cc.8-9]; insegnamenti dalla storia di Israele [cf. c.10]; l’abbigliamento delle donne, [cf. c.11]; i doni dello Spirito [cf. cc.12-14]; la resurrezione [cf. c.15].

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Il Radcliffe costruisce la sua mistica dell’Eucaristia su di un fondamento falso. Secondariamente, c’è da dire che l’accostamento che egli fa tra Eucaristia e unione sessuale è totalmente estraneo alla Scrittura e al Magistero della Chiesa. In terzo luogo, è un accostamento forzato, sconveniente e sacrilego, perché il dono che Cristo fa del suo corpo nella Messa non ha assolutamente niente a che vedere col dono di sé reciproco che avviene nell’unione coniugale ― come invece vorrebbe sostenere Radcliffe ―, perché Cristo nell’Eucaristia non si dona in questo modo, ma solo come cibo.

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I discorsi aberranti di Andrea Grillo.

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Su questa delicatissima questione, nel corso di questi ultimi due mesi, Andrea Grillo è intervenuto tre volte nella Rivista Europea di Cultura, con discorsi ingannevoli, che nascondono il tentativo di relativizzare il dogma della presenza reale di Cristo sull’altare, dopo la consacrazione del pane e del vino. Questa operazione sleale e subdola lascia chiaramente trasparire l’empio progetto, portato avanti da alcuni infausti sostenitori della cosiddetta Messa ecumenica, di creare un pasticcio sacrilego di cattolicesimo e luteranesimo, che Roma non accetterà mai. Infatti, Grillo vorrebbe darci da bere che ciò che avviene sull’altare dopo la consacrazione del pane e del vino, è semplicemente un’indeterminata o non meglio definita presenza reale, senza ulteriori precisazioni o chiarimenti. Sicché non si sa in che consista questa presenza reale e di chi o di che cosa essa sia presenza reale. E Grillo sta nel vago di proposito ― misero espediente ―, perché sa benissimo che, se chiarisse, scoprirebbe le carte ed apparirebbe in piena luce il trabocchetto nel quale egli vorrebbe farci cadere.

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Spieghiamo dunque il suo procedimento. Innanzitutto, egli, con incredibile sfrontatezza, contro l’esplicito insegnamento del Concilio di Trento [cf. Denz. 1642], nega che la dottrina della transustanziazione sia un dogma. Egli afferma ciò nel suo articolo Presenza reale e transustanziazione: congetture e precisazioni, pubblicato il 17 dicembre scorso nel suo blog di Rivista Europea di Cultura. [cf. QUI]. Dice infatti: «Transubstantiatio non è un dogma e come spiegazione ha i suoi limiti. Ad esempio contraddice la metafisica». Questa mia affermazione, nella sua brevità, non intende in alcun modo negare che la Eucaristia realizzi la presenza del Signore nella sua Chiesa, ma vuole soltanto distinguere il dogma fidei – ossia la affermazione della presenza reale – dalla sua spiegazione in termini di transubstantiatio.

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A questa distinzione conduce un lungo dibattito che soprattutto nella teologia tedesca ― in particolare in J. Auer ― ha permesso di distinguere accuratamente tra “oggetto della fede” e “giustificazione teorica di tale oggetto”. A questa medesima conclusione giungeva, tra gli altri, anche Giuseppe Colombo [cf. Teologia sacramentaria, Milano, Glossa, 1997], quando affermava che la transustanziazione «è considerata […] non una verità distinta dalla presenza reale, nel senso di proporsi come oggetto proprio e a sé stante della fede cattolica; ma più semplicemente come una spiegazione possibile, ma in ogni caso non necessaria, della presenza reale».

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L’errore di Grillo in tutto questo sofistico argomentare sta nel considerare il dogma della transustanziazione come fosse una semplice, relativa, possibile e non obbligatoria “spiegazione della presenza reale” senza precisare di che cosa, mentre invece in realtà, secondo il dogma del Concilio di Trento, la transustanziazione è un fatto miracoloso, in forza del quale avviene la presenza reale, che non è una vaga e non meglio precisata ”presenza reale”, come fosse un assoluto chiuso in se stesso, e non è neanche la presenza di Cristo come tale, ma è presenza reale e sostanziale del suo del corpo e del suo sangue sotto le specie del pane e del vino, anche se indubbiamente, per concomitanza, abbiamo anche la presenza della sua anima e della sua divinità.

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Per ottenere una certa presenza di Cristo tra di noi, non c’è bisogno della Santa Messa, basta invocare il suo nome. Ma non è ancora la sua presenza reale, propria della Santa Messa, per la quale Cristo non è semplicemente presente con la sua grazia, in modo spirituale ed invisibile, ma è realmente qui ed ora sull’altare sotto le specie visibili del pane e del vino, benchè il suo corpo glorioso trascenda lo spazio e il tempo e noi vediamo il  Signore non con gli occhi del corpo, ma con quelli della fede.

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La presenza reale, pertanto, è certamente oggetto della fede. Ma non è primariamente o esclusivamente il contenuto dogma da credere, come se la transustanziazione ne restasse fuori, quasi facoltativa e relativa spiegazione o interpretazione teologica della presenza reale, come se si potesse scegliere anche un’altra ― evidente accenno alla ”impanazione” di Lutero ―, mentre la presenza reale sarebbe l’unica cosa oggetto del dogma. Niente affatto. Il dogma da credere invece è che al momento della consacrazione avviene la transustanziazione, che è la causa divina della presenza reale e niente affatto una semplice e relativa, umana o metafisica spiegazione della presenza reale.

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Al riguardo, bisogna fare a Grillo un altro appunto gravissimo: negare, come fa lui, che il dogma della transustanziazione metta in gioco la metafisica, è semplicemente insensato e denota in Grillo ― che pure è persona d’indubbia cultura e intelligenza ―, una spaventosa ignoranza della metafisica [2], giacché è noto dai tempi di Aristotele che i concetti analogici di sostanza e accidente sono precisamente nozioni fondamentali della metafisica, noti del resto alla semplice ragione naturale, sulla quale la Chiesa fa leva per la definizione del dogma della transustanziazione.

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Stonatissime, inoltre, e del tutto insipienti sono le parole con le quali Andrea Grillo, in un suo precedente articolo, sotto pretesto di «allargare» il significato della transustanziazione ai suoi effetti e al suo contesto rituale, orante, liturgico ed ecclesiale, finisce invece per sostenere che per valorizzare quegli aspetti, occorre accantonare la considerazione della transustanziazione, troppo «intellettualistica», quando invece è vero tutto l’opposto, essendo tale devota ed affettuosa considerazione proprio la sorgente intellettuale ed esistenziale inesauribile di fede della comunione personale ed ecclesiale con Cristo, pane di vita eterna e pegno della vita futura.

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Il Grillo infatti formula le seguenti tesi, una più sconcia dell’altra:

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  1. La concentrazione sulla «presenza sostanziale sotto le specie» ha distratto profondamente dalle altre forme di presenza del Signore, nella Parola, nella preghiera, nella assemblea [cfr. SC 7];
  2. La «presenza sostanziale sotto le specie» ha ridotto il peso della «presenza ecclesiale» del corpo di Cristo, che rimane sempre l’effetto primario della celebrazione eucaristica;
  3. L’attenzione alla «sostanza» ha condotto ad una pratica degli accidenti che oscilla tra indifferenza e ritualismo, rischiando di smarrire la logica simbolica delle sequenze rituali;

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Aggiungiamo queste altre sconcezze, con relativa confutazione, tratte dall’articolo Il campanello alla consacrazione e la transustanziazione del 6 novembre scorso, sempre in Rivista Europea di Cultura.[vedere articolo, QUI].

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  1. Una consistente parte della dottrina teologica dell’ultimo secolo si è resa conto che la «teologia della transustanziazione», pur salvaguardando con grande precisione il «contenuto» della fede in un contesto polemico, non riesce a salvaguardarne la «forma» e determina un progressivo divorzio tra forma e contenuto, causando ricadute negative anche sul piano strettamente contenutistico.

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Rispondo. La «forma» del rito della Santa Messa, per Grillo, sarebbe l’insieme delle parti del rito come assemblea liturgica in preghiera, mentre la consacrazione sarebbe la «materia» o «contenuto» della Santa Messa. Ora, è vero il contrario: è la consacrazione ad essere la forma e il centro originario e creatore della Santa Messa, il punto culminante e il vertice della celebrazione del rito, anche se è vero che la celebrazione è a sua volta finalizzata ad offrire il santo sacrificio al Padre in Cristo e nello Spirito Santo e ad edificare la comunità e la comunione ecclesiale. La materia umana del rito, che è formata, vivificata, edificata, santificata e spiritualmente ed eucaristicamente plasmata dalla consacrazione, è la stessa comunità composta dal celebrante dai fedeli.

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  1. La trasformazione del rito eucaristico ha sostituito con la «formula sulla materia» ― ossia le parole della consacrazione su pane e vino ― la sequenza «prex / ritus» che è costituita da «anafora eucaristica/rito di comunione». In tal modo alla centralità della dinamica ampia tra preghiera/ sacrificio/ comunione si è sostituita la relazione stretta tra parole di consacrazione e materia eucaristica.

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Rispondo. Il primato tradizionalmente dato del momento della consacrazione sull’intero insieme del rito, non ha affatto «trasformato» un’inesistente originario primato ― al dire di Grillo ― dell’insieme del rito [“forma”] sul momento della consacrazione [“materia”], ma rappresenta precisamente la centralità propulsiva del momento della transustanziazione, dalla quale irraggiano e profluiscono abbondantissime  acque salutari, che sgorgano dall’altare e fertilizzano, con la loro grazia, tutta la terra circostante [cf. Ez 47, 1-12], ossia la comunità del celebrante e del partecipante.

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  1. Questa trasformazione è risultata accentuata dalle polemiche sulla messa come «sacrificio/comunione»: avendo nettamente separato la dimensione di sacrificio da quella di comunione – in risposta alla netta separazione luterana della comunione dal sacrificio – abbiamo creato le premesse teoriche per questo isolamento della «consacrazione» non solo dalla «preghiera eucaristica», ma anche dal «rito di comunione».

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Rispondo. La Chiesa, col Concilio di Trento e col Vaticano II non ha affatto «nettamente separato», ma strettamente congiunto «la dimensione di sacrificio» con quella di «comunione», giacché la transustanziazione, operata dl celebrante in persona Christi con le parole della consacrazione eucaristica, ha precisamente come effetto proprio e immediato, quello di preparare il dono celeste ― Gesù sacramentato ― da offrire al Padre per la remissione dei peccati e il cibo di vita eterna per il celebrante e per i fedeli.

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È proprio vero il contrario. È dalla concentrazione credente, devota ed adorante della mente e del cuore del singolo e della collettività in questo augustissimo mistero, che sgorgano «le altre forme di presenza del Signore, nella Parola, nella preghiera, nella assemblea» ed è dalla sua fruizione vuoi nella Santa Comunione, vuoi nell’azione eucaristica, che nasce la presenza ecclesiale del corpo di Cristo, sbocciano i più elevati sentimenti ed  affetti cristiani, e la mente riceve luce ed energie celesti, per compiere le grandi imprese della carità, mentre gli accidenti eucaristici, elementi toccanti dell’evento mistico, suscitano la logica simbolica delle sequenze rituali.

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Bisogna dire però, ad onor del vero, che la conclusione di Grillo, dopo gli spropositi sulla transustanziazione, è sorprendentemente benevola; il che, se da una parte ci fa piacere, dall’altra ci lascia fortemente perplessi circa la sua capacità di ragionare con coerenza, dato che avrebbe dovuto mettere in esclusione reciproca, e non congiungere due tesi che fanno a pugni a vicenda; il tutto sempre ribadendo quanto Grillo sia comunque dotato di brillante intelligenza. Egli dice infatti:

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«Per concludere: transustanziazione è un termine che storicamente ha avuto la funzione di “salvaguardare un contenuto” in contesto polemico. Tale funzione deve oggi essere coniugata con una istanza diversa, ossia quella di recuperare le “forme più adeguate e più ricche” di quel contenuto. Per questo recupero la nozione di transustanziazione appare non solo come una antica ricchezza, ma anche come una nuova povertà».

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Un’ultima considerazione di carattere pastorale. Indubbiamente, ci si potrebbe chiedere che senso possa avere la Santa Comunione ai bambini, introdotta da San Pio X, considerando la necessità di usare, per spiegare il mistero, di una parola così inusuale come transustanziazione e di categorie così astratte e filosofiche, come quella di sostanza e accidente e cose del genere, che cosa essi possano capire della transustanziazione, se qui è caduto persino Lutero, che pure non mancava di fede, di intelligenza e di cultura biblica. Ebbene non mi dilungo qui in indicazioni pedagogiche, note a tutti i catechisti dei fanciulli. Dico solo che ― e questo dovrebbe essere evidente ― non è assolutamente necessario usare o insegnare in ogni caso e con tutti quel termine tecnico con la relativa spiegazione metafisica. Per capire questo, basterebbe ricordare che il termine è stato coniato solo nel medioevo e non c’è stato bisogno di quel termine, perché già gli Apostoli nel Cenacolo e la Chiesa di molti secoli seguenti avessero capito benissimo che cosa, in quella solennissima circostanza, Gesù aveva fatto e che cosa per comando del Signore, gli Apostoli avevano il potere di fare. Esistono pertanto parole e concetti adatti alle menti indotte e semplici, per far loro capire, secondo la loro capacità intellettuale, ciò stesso che è significato dal termine tecnico. Basterebbe per esempio dire che dopo la consacrazione, quelli che erano pane e vino, non sono più pane e vino: sembrano tali, ma in realtà sono Gesù. L’essenziale è far capire e credere al bambino che si nutre del corpo del Signore.

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Da tutte queste considerazioni emerge chiaramente la conclusione che recitare assieme con i fratelli luterani nella celebrazione eucaristica, come pare voglia un ecumenismo scriteriato e blasfemo, delle formule canoniche identiche, ma dando ad esse significati diversi, falsi od opposti o senza che alla parola o al concetto corrisponda la realtà o senza il potere spirituale necessario in tutti i concelebranti a dare efficacia salvifica alle formule, o senza che tutti credano ortodossamente a ciò che  dicono, non sarebbe accordo ecumenico, non sarebbe comunione eucaristica, non sarebbe esperienza salvifica, non sarebbe liturgia o culto divino, ma attentato all’Eucaristia, contravvenzione alla volontà di Cristo, offesa alla Tradizione della Chiesa, parole senza senso, vuota recita, finzione, menzogna, fraintendimento, equivoco, empietà, sacrilegio, profanazione, buffonata, reciproca presa in giro, orribile reciproco inganno nel momento più sacro e sublime della comunione fraterna e  con Dio, magari con la sfacciataggine di invocare lo Spirito Santo. Ma c’è allora piuttosto il rischio che intervenga un altro spirito, contrario, malvagio e mortifero. Non c’è bisogno che ne faccia il nome.

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Il mistero della transustanziazione, sorgente della pietà cattolica

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Messe da parte queste stoltezze sacrileghe, facciamo adesso un discorso serio sullo sguardo devoto ed amoroso di fede, che dobbiamo avere, sul mistero della transustanziazione, al quale vogliamo invitare anche i fratelli luterani, è sorgente e garanzia di copiosissimi frutti in ordine all’apprezzamento del mistero della comunione ecclesiale, come vertice e fonte di tutta la vita cristiana personale e comunitaria, principale sorgente della pietà cristiana,  che forma la mente e il cuore dei Santi [3], come dolce ristoro della loro anima, spingendoli a un continuo progresso spirituale e alle più belle imprese della carità.

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La transustanziazione è anche il motivo per il quale la Chiesa conserva nel tabernacolo le sacre specie per l’adorazione eucaristica. Infatti, esse, finchè non si corrompono, contengono sotto di sé il corpo del Signore. Viceversa, l’insufficienza della concezione luterana della presenza reale è testimoniata dal rifiuto luterano dell’adorazione eucaristica, perché secondo Lutero, il rito della Cena è un semplice banchetto, nel quale è logico consumare tutto il pasto.  È evidente, allora, che per Lutero, dato che la presenza reale è l’impanazione, ossia la presenza di Cristo nel pane da essere consumato, cessata la Cena, non avrebbe senso conservare il pane, dal quale del resto Cristo si è allontanato, essendo stato presente solo nella Cena.

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Per questo, nella concezione cattolica dell’Eucaristia, la transustanziazione, comportante la permanenza della presenza del Signore sotto le specie eucaristiche  nelle ostie eventualmente avanzate dopo la Messa, sorge un’ulteriore questione che Lutero, in forza delle suddette premesse, non si è posto, ed è la questione del luogo, ossia del tabernacolo, nel quale si conserva Gesù sacramentato.

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Anche in tal caso si può esprimere questo fatto o con una formulazione dotta o in forma popolare. Nel linguaggio popolare si può senz’altro dire che Gesù è nel tabernacolo, ed è lo stesso Gesù che ora è in cielo. Invece, se vogliamo esprimerci in modo tale da rispondere a chi eventualmente si domandasse come è possibile che Gesù sia nel tabernacolo, se è vero che il corpo di Cristo, oltre ad essere in se stesso in cielo, si trova in tutti i tabernacoli del mondo. Allora, occorre precisare che propriamente, nel tabernacolo, ci sono solo le sacre specie del corpo. Ma il corpo eucaristico di Cristo non è contenuto in un luogo, perchè allora non potrebbe essere in tutti i luoghi della terra. Tuttavia, siccome sotto le specie c’è il corpo, per cui le specie e la presenza del corpo a modo di sostanza concorrono a formare l’ostia consacrata contenuta nella pisside del tabernacolo, in forma dotta si deve dire che nella pisside ci sono solo le specie in quanto collocate, mentre il corpo non è collocato.  Invece, in forma popolare si può dire semplicemente che nel tabernacolo c’è Gesù [4].

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Un ecumenismo vagante nella nebbia

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Una cosa che desta grande meraviglia è la conduzione delle attività ecumeniche del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani dalla sua fondazione nell’immediato post-concilio ad oggi. Essa infatti persegue una linea opportunista ed inconcludente, che contrasta in modo evidente con quella saggia e precisa indicata dall’Unitatis redintegratio. La responsabilità di questa cattiva conduzione va certamente al Cardinale Walter Kasper, teologo influenzato dallo storicismo hegeliano, che per lunghi anni è stato a capo di quell’organismo pontificio. Ma anche adesso che la direzione è stata affidata da alcuni anni al Cardinale Kurt Koch, le cose non cambiano. Ma di che si tratta? Si tratta dell’ostinato e inconcludente, anzi dannoso persistere in una serie di sbagli e contravvenzioni alle direttive dell’Unitatis redintegratio. Facciamone l’elenco:

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  1. sostituzione del paradigma «separazione dalla Chiesa» col paradigma «separazione reciproca». La nascita del luteranesimo non è stata una separazione reciproca tra la Chiesa e Lutero: Lutero si è separato dalla Chiesa, ma la Chiesa non si è separata da Lutero, e detto questo va ricordato che la vera Chiesa di Cristo è una, non sono molteplici 
  2. Attenzione esclusiva alla carità ed accantonamento del problema della verità. Invece il problema ecumenico è sostanzialmente un problema di verità. Lutero stesso si è opposto al Romano Pontefice non tanto per motivi di riforma dei costumi, quanto piuttosto perchè egli riteneva di aver riscoperto contro Roma la verità del Vangelo;
  3. Mancata distinzione fra comunione imperfetta e piena comunione. I luterani devono passare da una comunione imperfetta alla comunione piena;
  4. Silenzio sulla necessità che i protestanti rimuovano gli ostacoli alla piena comunione con la Chiesa. Invece questo è uno dei compiti essenziali dell’ecumenismo;
  5. Sostituzione della categoria della «riunificazione», come se la Chiesa una fosse divisa ― l’immagine del vaso spezzato ― alla categoria del cammino dei protestanti verso l’unità cattolica secondo il paradigma della parabola del figliol prodigo;
  6. Emarginazione della seguente dichiarazione della Unitatis redintegratio: «solo per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è lo strumento generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In realtà al solo collegio apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti i beni della Nuova Alleanza, per costituire l’unico corpo di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo appartengono al popolo di Dio» [cf. n. 3].
  7. Dato che si tace circa la superiorità del cattolicesimo sul luteranesimo e sugli errori di Lutero, fede cattolica e fede luterana sono considerate da molti come due diversi modi, reciprocamente complementari ed allo stesso livello, parimenti legittimi, di concepire la fede cristiana;
  8. il parlare genericamente di «divisioni» non basta. Occorre precisare di quali divisioni si tratta, se si vuole realmente rimediarvi. Il restare sempre sul vago e il non metter mai le carte in tavola, non serve a niente. Non bisogna stancarsi di ricordare ai fratelli luterani, sia pure in modo più motivato, caritatevole ed evangelico, come la Chiesa sta facendo da cinquecento anni, quali sono gli errori che essi devono abbandonare, senza disperare di convincerli. Come diceva San Tommaso d’Aquino, «la verità è invincibile». Prima o poi trionfa. Secondo San Paolo, gli Ebrei accoglieranno Gesù come Messia solo alla fine del mondo.

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Per questo relativismo o navigare sul vago o pescare nel torbido, oggi da molte parti non si parla più di fede,  ma di ”fedi”. Non c’è una sola fides, ma più fedi, come se si trattasse di diverse opinioni, nessuna delle quali può pretendere alla verità ed alla certezza, escludendo il falso. Ognuno coltiva il suo orticello. Quello che al cattolico appare ”falso” nel luterano, è semplicemente un ”diverso” e viceversa. In tal modo il cattolico, sentendosi autorizzato a scegliere tra cattolicesimo e luteranesimo, può essere spinto ad optare per questo, avendo un’etica più facile e permissiva, con la salvezza assicurata e il peccato sempre perdonato, mentre il luterano, non sentendosi correggere dal cattolico, è portato a restare nei propri errori.

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C’è poi il cattolico che difende apertamente le eresie di Lutero, continuando a considerarsi e ad essere considerato cattolico ed anzi avanzato, progressista e conciliare. Le conversioni di luterani al cattolicesimo si sono fatte rarissime e certi preti o vescovi insipienti arrivano addirittura al punto di sconsigliarle. Altri cattolici avanzati o se preferiamo adulti, ci assicurano che gli ultimi studi hanno appurato  che le condanne di Lutero pronunciate dal Concilio di Trento non sono più attuali o sono frutto di malintesi o, come dice S.E. Mons. Nunzio Galantino, di «pregiudizi».

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Qualche altro esempio della contravvenzione alle direttive dell’Unitatis redintegratio. Troviamo sul sito Settimana news del 30 ottobre scorso nell’articolo non firmato: «Riforma. Ma le differenze rimangono», le seguenti considerazioni:  

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«Dal punto di vista cattolico, lo scopo di tutti i dialoghi deve essere in ultima analisi “la piena unità visibile”. Ciò non significa che i protestanti debbano semplicemente rinunciare a tutte le loro tradizioni e riti ed entrare nella Chiesa cattolica. Ma vuol dire che cattolici e protestanti formano, anche dal punto di vista istituzionale, una Chiesa. Resta tuttavia aperto il discorso, anche da parte cattolica, su come in pratica un’unità del genere debba essere declinata. È sempre valido ciò che disse il vescovo ecumenico tedesco Gehrard Feige nel 2014: oggi nell’ecumenismo non abbiamo ancora un’dea chiara di come la piena unità visibile in concreto possa manifestarsi. È ovvio tuttavia che unità non significa semplicemente uniformità. Da parte dei protestanti negli anni scorsi si è preferito parlare ripetutamente di “differenza riconciliata”, per descrivere lo scopo del dialogo ecumenico. Una tale unità sarebbe pensabile anche senza un’unità visibile» [cf. articolo, QUI].

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Alcune osservazioni.

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  1. Precisiamo: occorre la piena unità visibile nella piena comunione con la Chiesa cattolica. I protestanti non devono rinunciare affatto a quei valori che già li legano alla Chiesa cattolica, ma solo ― ed è ben comprensibile ― a quelle carenze ed impedimenti, ossia errori ed eresie, che sono di ostacolo alla piena comunione.
  2. Dice l’articolo: «Cattolici e protestanti formano, anche dal punto di vista istituzionale, una Chiesa». Non è esattamente così: i protestanti sono sì nella Chiesa, ma non in piena comunione con essa, come lo sono i cattolici, perché la Chiesa in senso pieno e perfetto è solo la Chiesa cattolica. Ai protestanti, per essere in piena comunione con la Chiesa, manca la cattolicità.
  3. «Resta tuttavia aperto il discorso, anche da parte cattolica, su come in pratica un’unità del genere debba essere declinata». La risposta sarebbe facile, se si consultasse l’Unitatis redintegratio nell’esposizione che ho fatto.
  4. «È sempre valido ciò che disse il vescovo ecumenico tedesco Gehrard Feige nel 2014: oggi nell’ecumenismo non abbiamo ancora un’idea chiara di come la piena unità visibile in concreto possa manifestarsi». Per nulla. È Feige che non ha un’idea chiara. La cosa è molto semplice: che i fratelli luterani, abbracciando la professione cattolica della fede, entrino nella piena comunione con Roma.
  5. «È ovvio tuttavia che unità non significa semplicemente uniformità». Se per «uniformità» si intende la comune accettazione della verità della fede cattolica, è ovvio che occorre l’uniformità: una fides. Se invece questa uniformità la si vuole estendere al di là di questo confine, dove invece vige la libertà di opinione e il pluralismo teologico, si cadrebbe nell’uniformismo, che non è l’ambiente della Chiesa cattolica, ma delle dittature politiche o religiose.
  6. «Da parte dei protestanti negli anni scorsi si è preferito parlare ripetutamente di “differenza riconciliata”, per descrivere lo scopo del dialogo ecumenico. Una tale unità sarebbe pensabile anche senza un’unità visibile».

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Rispondo che il problema di fondo dell’ecumenismo non è quello di riconciliare le differenze e le diversità: qui non c’è da riconciliare nulla, perché esse per loro essenza sono in armonia le une con le altre. Quindi qui si tratta semplicemente di valori arricchenti da riconoscere e rispettare. Quanto all’unità visibile, essa è l’espressione normale e obbligatoria della fede, la quale nasce certo nel cuore, ma dev’essere proclamata con le labbra.

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Il problema dell’ecumenismo è invece quello della persistenza di fratelli, che errano circa le verità di fede e per questo sono portati ad avere un atteggiamento ostile verso la Chiesa Cattolica, «colonna e sostegno della verità» [I Tm 3,15], con la quale non sono in piena comunione. La riconciliazione suppone l’accettazione comune della verità. Tra vero e falso non ci può essere conciliazione. Il falso è principio di divisione e di ostilità; il vero è principio di unione e di conciliazione.

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L’ecumenismo è in se stesso certamente una benedizione donata alla Chiesa e ai fratelli separati col Concilio Vaticano II. Ma esso, per portare i frutti che promette, dev’essere inteso e messo in pratica nel senso preciso indicato dal Concilio, ossia sostanzialmente come appello della Chiesa ai suoi figli dispersi nelle disavventure e nelle tragedie di questo mondo a tornare da quella Madre accogliente, premurosa e generosa, dalla quale si sono allontanati, credendo di cercare una libertà e una felicità che non hanno trovato.

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Occorre pertanto che la Chiesa respinga quel falso ecumenismo, del quale abbiamo qui tracciato i contorni, e che invece di condurre i fratelli separati all’unità cattolica, rischia di trasformare e frantumare l’unità cattolica attorno a Cristo in un guazzabuglio disordinato e caotico di fratelli separati sotto il «principe di questo mondo».

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«Come pensaste di allontanarvi da Dio, così ritornando decuplicate lo zelo per ricercarlo, poiché, chi vi ha afflitti con tante calamità, vi darà anche, con la salvezza, una gioia perenne» [Bar 4 28-29].

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Varazze, 12 febbraio 2018

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NOTE

[1] Cosa del tutto falsa, come risulta chiaramente dalla definizione del Concilio di Trento contro Lutero: Denz.1642, insegnamento ribadito dall’enciclica Mysterium Fidei del Beato Paolo VI del 1965, nn.24-25 e dal Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1376.

[2] Povera cultura europea!

[3] Un esempio tra i tanti che si potrebbero addurre, lo troviamo nelle infuocate parole che il Venerabile Padre Giocondo Pio Lorgna, domenicano (1870-1928), usa per esprimere la sua intensissima devozione a Gesù sacramentato. Cf il mio articolo P.Lorgna: sacerdozio, eucarestia e vita, in Sacra Doctrina, 6,nov.1988, soprattutto le pp. 710-714.

[4] Una buona analisi e spiegazione teologica di come nell’Eucaristia si possa e si debba parlare della presenza di Cristo sacramentato nel luogo, cf le Lezioni sull’Eucaristia tenute dal Servo di Dio Padre Tomas nel sito arpato.org.

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Ci siamo trascinati in casa un nemico che ci impiccherà con le corde che la Chiesa e gli Stati europei gli hanno fornito: una riflessione storica, sociale e teologica sulla fede islamica

Theologica 

CI SIAMO TRASCINATI IN CASA UN NEMICO CHE CI IMPICCHERÀ CON LE CORDE CHE LA CHIESA E GLI STATI EUROPEI GLI HANNO FORNITO: UNA RIFLESSIONE STORICA, SOCIALE E TEOLOGICA SULLA FEDE ISLAMICA

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Purtroppo, ci duole ammetterlo, con certi gesti decisamente imprudenti il Santo Padre ha consegnato, ai nuovi invasori di un’Europa ormai in fase irreversibile di scristianizzazione, le chiavi di casa. Nel mentre, a noi, in questa situazione irreversibile e senza umana possibilità di ritorno, non ci resta che attendere l’apertura del Settimo Sigillo secondo il racconto contenuto nella Apocalisse del Beato Apostolo Giovanni.

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Autori
Giovanni Cavalcoli, O.P. – Ariel S. Levi di Gualdo

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

Il valore del dogma nella vita cristiana: la crisi del dogma genera la crisi della fede

— theologica —

IL VALORE DEL DOGMA NELLA VITA CRISTIANA: LA CRISI DEL DOGMA GENERA LA CRISI DELLA FEDE

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Senza l’immutabile verità, nessun dinamismo o divenire dello spirito. Senza la fedeltà al dogma, nessun progresso nella vita cristiana. Senza la conservazione della verità dogmatica, nessun fervore o rinnovamento nello spirito. Senza il mantenimento fedele degli impegni assunti davanti a Dio, nessuna perseveranza e nessun frutto nel cammino della salvezza. Senza l’univocità inflessibile del dogma, c’è l’equivoco, la truffa, la frode, la confusione, il caos.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

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la donna di spettacolo Alba Parietti, che più volte, durante vari programmi televisivi, si è improvvisata persino esperta in teologia e in morale cattolica [vedere questo vecchio articolo di Ariel S. Levi di Gualdo, QUI]

Dobbiamo tornare a parlare del valore dei dogmi, dei quali raramente si sente parlare nella predicazione e nell’omiletica. Si parla molto di “fede”, di “Vangelo” e di “Parola di Dio”; ma vien da chiedersi che fede è quella che non si cura di sapere e precisare che cosa dobbiamo credere, e quali sono le verità di fede e chi le stabilisce. Che Vangelo è quello che non chiarisce la dottrina di Cristo? Che Parola di Dio è quella che viene isolata dall’interpretazione che ne dà la Chiesa?

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Si diffondono con sicumera e saccenteria da molte parti nei mass-media e nelle istituzioni ecclesiastiche e civili, e si accolgono con fanatismo e credulità certe idee, slogan, proposizioni attinenti al Vangelo o alla Bibbia, diffuse da scrittori, giornalisti, filosofi, psicologi, sociologi, storici, teologi, esegeti, vescovi, cardinali, profeti o veggenti di successo. E così accade che  ognuno, sia la massaia, la fruttivendola, il barbiere o il barista ha da dire la sua, sull’esistenza di Dio, sulla salvezza, sulla morale o sul senso della vita, spesso in polemica col buon senso, con la sana filosofia o col dogma o con fratelli di fede o col Papa o con la Tradizione o con la Scrittura o col Magistero della Chiesa [per leggere tutto l’articolo cliccare sotto]

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Giovanni Cavalcoli, O.P.  —  IL VALORE DEL DOGMA NELLA VITA CRISTIANA: LA CRISI DEL DOGMA GENERA LA CRISI DELLA FEDE

 

 

 




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