In un mondo che fugge la realtà della malattia, della disabilità, della vecchiaia e della morte, urge l’impegno dei cattolici nel mondo della salute per un nuovo umanesimo

– pastorale sanitaria –

IN UN MONDO CHE FUGGE LA REALTÀ DELLA MALATTIA, DELLA DISABILITÀ, DELLA VECCHIAIA E DELLA MORTE, URGE L’IMPEGNO DEI CATTOLICI NEL MONDO DELLA SALUTE PER UN NUOVO UMANESIMO

Praticando l’assistenza al malato, io vengo reso partecipe delle sofferenze di Cristo nella carne dell’infermo, del disabile o del malato terminale, questo mi conduce a operare salvezza solo quando saprò farmi strumento di cura consegnandomi nelle mani di Dio. La Chiesa, che si diversifica in base a ruoli, ministeri e carismi, ha la possibilità di essere strumento di cura e sollievo in tanti settori della vita che richiedono un risanamento. Nel mondo della sanità in particolare […]

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Uno dei fiori all’occhiello della Chiesa nei secoli passati è rappresentato dall’assistenza dei malati, degli indigenti e dei disabili. Fiore che costituisce in sé una vera e propria pro-vocazione. All’epoca, l’unica speranza reale per avere un pasto caldo, un letto pulito o cure dignitose veniva dalla comunità cristiana. E si noti: non solo ieri. Sebbene oggi facciano più notizia i preti affetti da gravi disordini morali legati soprattutto alla sfera sessuale.

È stato il Medioevo cristiano a dare un fondamento etico alla hospitalitas. Nome conosciuto sì dagli antichi, però solo come attitudine od opzione individuale e obbligo giuridico nei confronti dell’ospite, si affermava nella bassa latinità come comandamento condiviso, come servizio reso al bisognoso e al sofferente nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava religione dei poveri» [cf. G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza Bari, 2009, pp. 11-118].

L’epoca della cosiddetta Contro-riforma e l’onda lunga del Concilio di Trento rispondono generosamente all’azione dello Spirito Santo non solo con la confutazione delle tesi luterane, ma anche generando un nuovo vigore all’interno della Chiesa davanti alle innumerevoli emergenze che vedevano nei poveri e nei malati i soggetti privilegiati di una risposta ecclesiale capace di annunciare la salute e la salvezza. Assistiamo così alla nascita di nuove congregazioni religiose e associazioni che hanno impiegato il loro carisma per l’affrancamento dell’uomo da diverse forme di povertà e di infermità. Inoltre è storicamente dimostrato l’impegno profuso dalla Chiesa Cattolica «nell’età moderna, nei secoli delle grandi carestie e delle nuove malattie infettive come vaiolo e colera. Istituzioni cattoliche furono attivamente presenti nella cura e nel sollievo delle sofferenze dei malati ma anche nella ricerca, nell’innovazione, nella formazione di una vera e propria scienza medica e nella tecnica chirurgica» [cf. Ospedali, in G. Barra, M.A. Iannaccone, M. Respinti (a cura di) Dizionario Elementare di Apologetic ed. IdA, Milano, 2015 p. 379].

La comune vocazione della Chiesa a prendersi cura del malato, del disabile e del povero ― sulla scorta del Buon Samaritano ― ha generato nei secoli autentici eroi che sono stati una sfida continua e una provocazione quotidiana all’indifferentismo del mondo sempre più secolarizzato e distante da Dio. Purtroppo però, da diverso tempo, stiamo assistendo a una progressiva stringente autonomia del mondo della salute che vuole emanciparsi dalla tutela della Chiesa, col conseguente scivolamento di quei valori etici, antropologici e religiosi che hanno contraddistinto il servizio sanitario – medico ed infermieristico – per tanti secoli. Questo fenomeno avviene nel pregiudizio e nella nullificazione di quei valori fondamentali dell’uomo che manifestano la loro dignità ontologica solo se visti in riferimento alla persona del Creatore. Tale scenario ― ben documentato dai casi di cronaca su suicidio, eutanasia, aborto e fine vita ― conduce a ben precise scelte nichilistiche che mortificano la vita e alimentano la cultura dello scarto all’interno del tessuto sociale. Davanti a queste storture, gli stessi fedeli cristiani rischiano di abituarsi e dimostrare una certa indulgenza a realtà moralmente inaccettabili che si verificano anche nel territorio diocesano e parrocchiale.

Già Giovanni Paolo II esprimeva questa preoccupazione il 30 dicembre 1988, in occasione della festa liturgica della Sacra Famiglia:

«Pensiamo, inoltre, alle molteplici violazioni alle quali viene oggi sottoposta la persona umana. Quando non è riconosciuto e amato nella sua dignità di immagine vivente di Dio [cf. Gen 1, 26], l’essere umano è esposto alle più umilianti e aberranti forme di «strumentalizzazione», che lo rendono miseramente schiavo del più forte. E «il più forte» può assumere i nomi più diversi: ideologia, potere economico, sistemi politici disumani, tecnocrazia scientifica, invadenza dei mass-media. Di nuovo ci troviamo di fronte a moltitudini di persone, nostri fratelli e sorelle, i cui diritti fondamentali sono violati, anche in seguito all’eccessiva tolleranza e persino alla palese ingiustizia di certe leggi civili: il diritto alla vita e all’integrità, il diritto alla casa e al lavoro, il diritto alla famiglia e alla procreazione responsabile, il diritto alla partecipazione alla vita pubblica e politica, il diritto alla libertà di coscienza e di professione di fede religiosa» [cf. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Christefideles laici, n°5].       

Giocoforza è necessaria una risposta vigorosa e ben chiara da parte della Chiesa che attraverso i suoi membri si attivi con appassionato impegno nei campi della politica, della società e della comunità ecclesiale affinché all’uomo venga restituita l’immagine primitiva che Dio aveva in mente nel crearlo. Quella stessa immagine che Cristo ha elevato e trasfigurato con la sua risurrezione.

Davanti alle molteplici emergenze che toccano la salute totale di ogni individuo non è possibile optare per un comportamento simile ai tanti organismi socio-umanitari che vedono nella lotta e nella rivendicazione politica il miraggio per una sconfitta di povertà, ingiustizia e malattia. Certe ideologie utopistiche del ‘900 si sono dimostrate ampiamente fallimentari e hanno lasciato dietro a sé una maggiore crisi che ha aumentato il tasso di povertà e infermità nel mondo. Solo sotto l’azione dello Spirito Santo e nella docilità del cuore alla grazia che può condurre finanche al martirio, si può costruire una strada per ricondurre l’uomo alla sua originaria bellezza, additando un nuovo concetto di uomo che ha nel Cristo – il Ecce homo – la sua realizzazione più completa e riuscita: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò Dio ti ha benedetto per sempre» [cf. Sal 45,3].

Il primo passo per un nuovo umanesimo, inizia dall’accoglienza senza riserve di Cristo nella sua umanità e divinità. È ciò che possiamo vedere realizzato nella vita della Vergine Maria nel momento in cui essa stessa si rende premurosa nel servizio offerto per la gravidanza della cugina Elisabetta in conseguenza dell’annuncio ricevuto dall’angelo. Proprio dalla contemplazione e dall’accettazione del piano di Dio sulla propria persona, Maria diviene la nuova Gerusalemme in cui lo sposo divino prende stabile dimora. Questa stabilità del Verbo di Dio nel grembo della Vergine, si trasforma in azione premurosa verso i bisogni di Elisabetta. Perciò, l’accoglienza del Verbo fatto uomo mi conduce alla contemplazione e conseguentemente all’azione efficacie.

L’umanesimo che ha come centro e fondamento Gesù uomo Dio, non ha paura di fare verità sulle proprie origini e tradizioni e riconoscere con oggettiva schiettezza le fondamenta cristiane di un mondo che ha avuto nel grembo del cristianesimo il suo sviluppo più florido. La stessa assistenza in campo sanitario realizza una sollecitudine missionaria ad agire solo per il bene degli uomini e non per mantenere strutture che, il più delle volte, inseguono il profitto e interessi personali, o di singoli gruppi di potere. Solo se abbiamo uno sguardo sul mondo e sulle cose del mondo alla maniera di Dio, le strutture di peccato si possono convertire in strutture di redenzione.

Proviamo a chiarire il concetto «affinché Cristo nasca in voi». Qualcuno forse ora storcerà il naso, ma è mia convinzione profonda che per praticare l’assistenza al malato è indispensabile uno sguardo sul mistero di Dio, non posso prescindere da questo, in quanto Dio è amore [cf. 1Gv 4,9], e amo seriamente solo nello stile di Dio. Per questo Cristo può solo nascere in coloro che desiderano essere compagni di viaggio nella sofferenza, poiché è l’esempio più concreto e stabile di amore portato fino alla fine [cf. Gv 13,1]. Inoltre, la componente stessa di mistero che la malattia contiene in sé, e che l’uomo non è capace di spiegare con le sue sole forze [cf. Gb 38,2-4; 42,3], può essere illuminata esclusivamente dal mistero di Dio.     

Praticando l’assistenza al malato vengo reso partecipe delle sofferenze di Cristo nella carne dell’infermo, del disabile o del malato terminale, questo mi conduce a operare salvezza solo quando saprò farmi strumento di cura consegnandomi nelle mani di Dio. La Chiesa, che si diversifica in base a ruoli, ministeri e carismi, ha la possibilità di essere strumento di cura e sollievo in tanti settori della vita che richiedono un risanamento. Nel mondo della sanità in particolare, c’è tanto bisogno di avere laici che attraverso il loro sacerdozio battesimale offrano a Dio – nell’altare della quotidianità – il loro lavoro e il loro servizio specializzato per la salvezza di tanti fratelli in vista di una guarigione globale.

Sempre Giovanni Paolo II ci ricorda che:

«anche negli stessi ospedali e case di cura cattolici si fa sempre più numerosa, e talvolta anche totale ed esclusiva, la presenza dei fedeli laici, uomini e donne: proprio loro, medici, infermieri, altri operatori della salute, volontari, sono chiamati ad essere l’immagine viva di Cristo e della sua Chiesa nell’amore verso i malati e i sofferenti» [cf. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Christefideles laici, n°53].     

Ma è necessario, anzi urgente che, in tutte le strutture sanitarie di questo mondo, i fedeli laici cristiani diventino profeti e testimoni della potenza risanatrice di Cristo risorto.

Paolo VI il 23 marzo 1965 incontrando un gruppo di professionisti della salute ebbe modo di dire:

«Assistere, curare, guarire il dolore umano, assicurare e restituire all’uomo vita sana ed efficiente, quale altra attività può essere per dignità, per utilità, per idealità – dopo, ma a fianco di quella sacerdotale – superiore alla vostra».

Il medico cattolico, l’infermiere cattolico, l’operatore socio sanitario cattolico e via dicendo, non possono che orientare la loro coscienza di professionisti anzitutto al Signore e sapere che a lui dovranno rendere conto di ogni fratello. Così, l’agire in scienza e coscienza, significa proprio che il mio intelletto illuminato dalla grazia divina, guida le mie opere affinché nel paziente che accudisco sia visibilmente espressa la mia responsabilità di uomo e di cristiano. In tal caso la testimonianza di un santo medico, Giuseppe Moscati, ai suoi allievi medici è quanto mai illuminante:

«Ricordatevi che, seguendo la medicina, si assume la responsabilità di una sublime missione. Perseverate, con Dio nel cuore, con gli insegnamenti di vostro padre e di vostra mamma sempre nella memoria, con amore e pietà per i derelitti, con fede e con entusiasmo, sordo alle lodi e alle critiche, tetragono all’invidia, disposto solo al bene».

Il laicato cattolico, che opera nel mondo della sanità, deve chiedere costantemente luce e forza allo Spirito Santo affinché si spezzino le catene della convenienza, dell’utilitarismo, della paura, dei compromessi, dei ricatti, delle discriminazioni, della cultura di morte e dello scarto così spesso presenti dentro i nostri ospedali e luoghi di cura. Giacché a volte, la soggezione timorosa verso il proprio primario o caposala – oggi direttore di struttura e coordinatore – inibiscono la testimonianza di fede e rendono diversi professionisti cattolici della sanità pavidi davanti al potere del mondo. Ricordiamoci sempre di Cristo e delle sue parole: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» [cf. Gv 16,33]. E le tribolazioni ci donano la pazienza [cf. Rm 5,3] e la lungimiranza per sapere che alla fine, il Signore sarà il vincitore e noi con lui.

Voglio citare nuovamente San Giuseppe Moscati che ci sprona sulla via del bene:

«In tutte le vostre opere, mirate al Cielo, e all’eternità della vita e dell’anima, e vi orienterete allora molto diversamente da come vi suggerirebbero pure considerazioni umane, e la vostra attività sarà ispirata al bene».

Il mondo della sanità è il terreno su cui spargere il buon seme della Parola di Vita e gli operai di questa messe sono i tanti fedeli cristiani che con la loro professionalità sono chiamati a bonificare questo campo dalla cattiva erba che cresce vicino al buon grano. L’attività dei laici cristiani nel mondo della salute è a volte più determinante di quella del clero. Essi rappresentano il lievito del bene [cf. Mt 13,33] e il sale che dona sapore [cf. Mt 5,13] in tutti quei contesti e ambiti lavorativi in cui i ministri ordinati ― per diverse ragioni ― non possono arrivare e questo rappresenta un buon motivo che conduce alla speranza per l’evangelizzazione. Infatti «alle numerose sfide presenti nel mondo della salute, la Chiesa risponde anzitutto con un messaggio di gioiosa speranza, fondata sulla certezza della risurrezione di Gesù Cristo e, quindi, dell’amore e della fedeltà sanante e salvatrice di Dio. Di tale speranza vuole rendere ragione [cf. 1Pt 3,15] attraverso un dialogo rispettoso, un confronto onesto e una fattiva collaborazione» [cf. Nota Pastorale Predicate il Vangelo e curate i malati. La comunità cristiana e la pastorale della salute, n°19].

La voce di tanti laici credenti all’interno del mondo della sanità può rappresentare la differenza ai tanti possibili scenari catastrofici in cui il corpo dell’uomo e la sua salute può naufragare quando perde definitivamente il legame con Dio.

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Sanluri, 28 settembre 2023

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La curiosa distopìa del Vescovo Giacomo Cirulli che ci ricorda molto “un sacco bello” di Verdone che sul quotidiano Avvenire incolpa i preti no-vax, i fedeli tradizionalisti e i nemici politici del Pontefice

—Pastorale sanitaria —

LA CURIOSA DISTOPÌA DEL VESCOVO GIACOMO CIRULLI CHE CI RICORDA MOLTO UN “SACCO BELLO” DI VERDONE CHE SUL QUOTIDIANO AVVENIRE INCOLPA I PRETI NO-VAX, I FEDELI TRADIZIONALISTI E I NEMICI POLITICI DEL PONTEFICE

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I vescovi che attualmente stanno tuonando e minacciando alcuni membri del loro clero di procedere alla loro sospensione dall’esercizio del ministero sacerdotale, in caso di mancata vaccinazione, quando hanno visto qualche loro parroco abbracciato a Marco Cappato dopo avere firmato al banchetto che raccoglieva le firme per il referendum a favore dell’eutanasia, in che modo hanno minacciato queste autentiche vergogne del sacerdozio cattolico di procedere a loro carico con le pene canoniche? Quanti, tra quei preti che hanno apposto la loro firma a una simile proposta di referendum, sono stati sospesi con medicinale provvedimento canonico disciplinare dall’esercizio del sacro ministero?  

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Ieri, 16 gennaio, sul quotidiano dei vescovi Avvenire è apparso un articolo a firma di Gianni Cardinale che raccoglie lo sfogo del vescovo della diocesi di Teano-Calvi, Alife-Caiazzo S.E. Mons. Giacomo Cirulli. Il presule, dolente come il re di Samaria Àcab al quale Nàbot di Izreèl rifiutò la vigna [cfr. 1 Re 21, 1-16], apre le cataratte del suo cuore al giornalista del quotidiano dei vescovi. Veniamo così a parte del suo immenso dolore che in questi giorni i fedeli e i preti no-vax gli hanno procurato reagendo al provvedimento ― dice lui di mero buon senso ― che è consistito nell’interdire alcuni sacerdoti, diaconi e ministri laici dalla distribuzione dell’Eucaristia ai fedeli della sua diocesi in quanto colpevoli di non essersi vaccinati [vedi qui, qui].

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Il vescovo, gemente e piangente, motiva la sua presa di posizione come la logica conseguenza del grave peggioramento della situazione pandemica italiana ma soprattutto come l’uniformarsi alla linea di pensiero della Conferenza Episcopale Italiana e alle parole del Pontefice regnante che considera la vaccinazione come un atto d’amore. Insomma, sembra quasi di assistere al rifacimento del film di Carlo Verdone Un sacco bello in cui il personaggio di Ruggero non può che esprimere il suo trionfale: «Love, love, love!».

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Ma siamo davvero sicuri che le resistenze lamentate dal vescovo siano da ascriversi alla sola opposizione dei preti e dei fedeli insensibili a un atto d’amore così bello e gratuito? Non credo. Al di là di tutto quello che si può dire e pensare sulla vicenda dei vaccini e della gestione pandemica italiana sia da parte dello Stato così come della parte della Chiesa, quello che ancora sembra sfuggire al vescovo Cirulli ― come ho avuto modo di chiarire in un mio precedente articolo ― consiste essenzialmente nell’improvvido modus operandi di seguire paternamente l’intera questione così come ci si aspetterebbe da un vescovo. Infatti, da un successore degli Apostoli ci si aspetterebbe uno stile differente, sicuramente più lungimirante, oserei dire quasi da statista dello spirito che è capace sì di guardare al presente ma essenzialmente al futuro e alle conseguenze future che si determinano già nell’oggi. Perché tutto questo prima o poi finirà e Mons. Cirulli, un domani, si troverà ancora ad essere vescovo di quella porzione di Chiesa i cui figli sono stati maltrattati con provvedimenti restrittivi. Che atteggiamento si dovrà attendere da questi figli sacerdoti, diaconi, ministri e laici? Con quale coraggio potrà ancora guardarli senza provare rossore o con quale imbarazzo potrà sopportarne il loro sguardo velato da una fiducia ferita? Sguardo di anime destinate al Paradiso e non già di soli corpi da curare, responsabilità questa di cui si dovrà rendere conto a Cristo buon pastore, il quale curò i corpi senza dimenticare le anime.    

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Soprattutto è di rigore una domanda, sempre premettendo, come già fatto nel mio precedente articolo, che la assoluta maggioranza del clero italiano si è sottoposto a vaccinazione, compreso il sottoscritto. Questa la domanda, destinata però come di prassi a rimanere senza risposta: i vescovi che attualmente stanno tuonando e minacciando alcuni membri del loro clero di procedere alla loro sospensione dall’esercizio del ministero sacerdotale, in caso di mancata vaccinazione, quando hanno visto qualche loro parroco abbracciato a Marco Cappato dopo avere firmato al banchetto che raccoglieva le firme per il referendum a favore dell’eutanasia, in che modo hanno minacciato queste autentiche vergogne del sacerdozio cattolico di procedere a loro carico con le pene canoniche? Quanti, tra quei preti che hanno apposto la loro firma a una simile proposta di referendum, sono stati sospesi con medicinale provvedimento canonico disciplinare dall’esercizio del sacro ministero? Ci dicano e rispondano certi vescovi battaglieri: è più grave che un sacerdote impaurito ― forse persino ignorante ― tema a vaccinarsi, o è più grave che un sacerdote, dopo avere appena celebrato la Santa Messa della domenica, esca sul piazzale della chiesa, metta la sua firma a favore del referendum sull’eutanasia, si fotografi con Marco Cappato e pubblichi poi la foto sul suo pubblico profilo social? Ci dicano, certi vescovi zelanti: delle due cose, qual è la più grave? Ma soprattutto: quanti tra i preti che hanno fatto questo ― e ve ne sono stati diversi in giro per l’Italia [cfr. qui, qui, qui] ―, sono stati rimossi dalle parrocchie? Perché a noi risulta l’esatto contrario: i loro rispettivi vescovi hanno fatto finta di niente, non hanno preso alcun provvedimento e questi preti seguitano a fare i parroci. Volendo posso aggiungere di più ancora: uno di questi parroci che ha firmato a favore del referendum sull’eutanasia, poche settimane dopo affiggeva sulla porta della chiesa parrocchiale l’avviso che per partecipare alle sacre funzioni era obbligatorio il GreenPass. Chissà, se per cotanto zelo il suo vescovo lo ha portato persino come esempio a quei pochissimi preti che sono spaventati dal vaccino, ma ai quali mai passerebbe però per la mente di andare a firmare a favore del referendum sull’eutanasia?

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Non è mia intenzione criticare il buon senso e la ragionevolezza del vaccino come metodo attualmente in uso per arginare l’infezione da Covid-19, anzi torno a ripetere, a scanso di equivoci, che noi Padri de L’Isola di Patmos ci siamo tutti sottoposti alla vaccinazione. Non solo: a chi ci ha chiesto lumi abbiamo sempre risposto premettendo che non siamo specialisti nello specifico e delicato settore ma che però, pur non essendolo, il buonsenso ci porta a suggerire l’uso dell’unico sistema che al momento abbiamo a disposizione, che è la vaccinazione, da leggere anche, volendo, come un senso di responsabilità e di rispetto verso noi stessi e verso gli altri. E siccome, su certi temi caldi, i chiarimenti non sono mai troppi, allora chiarisco ulteriormente. Quando questa mattina ho preannunciato a Padre Ariel che avevo appena inviato in redazione questo nuovo articolo, la sua risposta è stata: «In questo momento sto andando al centro di vaccinazione perché dopo avere fatto la III dose il 10 gennaio non mi è arrivato l’SMS con il codice necessario per stampare il GreenPass. Appena rientro provvediamo a montare il tuo articolo». Insomma, non mi ha detto che stava andando a una manifestazione di no-vax, come non lo direbbe Padre Gabriele e come non lo direi io. Detto questo è però bene precisare che i cattolici “buoni” e “cattivi” non li valutiamo sulla base della vaccinazione ― che è opportuna e indubbiamente necessaria ―, ma su altre basi morali e pastorali. Per esempio siamo tenuti a considerare “cattivi”, anzi proprio pessimi cattolici, coloro che si dichiarano pubblicamente favorevoli all’aborto, alla pillola anticoncezionale, alla pillola abortiva, al matrimonio tra coppie dello stesso sesso, o che chiamano “misericordia” la dolce morte attraverso l’eutanasia perché a loro dire è “crudele” far soffrire un morente. E tutto questo, certi pessimi cattolici, lo affermano pubblicamente in nome di una idea distorta e aberrante di “amore cristiano”. Quelli sono per noi i cattivi cattolici, anzi pessimi cattolici. Non coloro che, indubbiamente sbagliando per debolezza, fragilità o ignoranza, ma anche per la valanga di notizie contraddittorie, di proclami e di smentite, di cambi di direttive e di idee [cfr. qui], il tutto sempre e di rigore senza che alcuno abbia mai ammesso “abbiamo sbagliato qualche valutazione”, oggi sono terrorizzati dall’idea di farsi vaccinare.

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Chiarito questo proseguo: quello che nel legittimo esercizio della libertà dei figli di Dio ritengo di poter criticare è lo stile politico di trattare queste resistenze al vaccino che non devono e non possono trovare accoglienza nella Chiesa Cattolica. Se si continua di questo passo a non voler sentire ragioni, incancreniti nella ben nota testardaggine clericale, si avrà come unico risultato quello di incrinare la fiducia filiale dei fedeli verso i loro vescovi facendo sparire quel ben misero rimasuglio di autorevolezza paterna che l’episcopato italiano ancora conserva ma che sembra disposto a svendere con ogni premura quanto prima.

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Con sorpresa apprendiamo dall’articolo che il vescovo Cirulli si duole per essere stato assalito dai leoni da tastiera  e che ha ricevuto critiche, minacce e insulti da molti fronti tanto da spingere la Digos a intervenire in suo soccorso ― senza che lui ne abbia fatta alcuna richiesta ― attenzionando i sovversivi. Allora mi chiedo, prendendo le distanze dai facinorosi e dai disagiati che danno libero sfogo alla violenza essendo privi delle giuste argomentazioni logiche: possibile che nessuno dentro la curia vescovile abbia suggerito al presule di agire diversamente, per esempio in modo meno avventato? Nessuno che si sia sentito in dovere di far desistere il vescovo da una sicura brutta figura e da una gogna mediatica il cui unico responsabile non può che essere lui solo?

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Dico questo perché nel proseguo dell’intervista ad Avvenire vengono riferite come motivazioni della gogna mediatica le più fantasiose argomentazioni degne della migliore dietrologia dispotica orwelliana. Il vescovo si lancia nel descrive l’identikit del cattolico no-vax sulla scorta di quanto fatto dal quotidiano La Repubblica nei giorni scorsi [vedi qui], viene detto: «ho l’impressione che ci sia uno scisma in atto», «ho potuto capire che si tratta di persone tra loro collegate che appartengono a un mondo tradizionalista in contrapposizione col magistero di Papa Francesco». Insomma, il profilo del cattono-vax si delinea come una lobby scismatica ben compaginata, ultra-tradizionalista, anti-bergogliana, tutta trine, pizzi e merletti e ― aggiungerei io ― sicuramente di matrice conservatrice e magari con simpatie di destra. Tutto questo è però tragicamente e tristemente falso, perché le persone spaventate dal vaccino non hanno una connotazione politica precisa, come non appartengono solo al mondo del “cupo tradizionalismo” cattolico. La paura è un fenomeno completamente trasversale. Pertanto, i cosiddetti no-vax o anti-vax, li troviamo in politica nell’estrema destra come nell’estrema sinistra, tra le fila del progressismo cattolico più spinto come in quelle del tradizionalismo cattolico più radicale. E chi non vede questo, può dare solo una visione del tutto falsata della realtà, affermando che la paura, o se vogliamo l’ignoranza nel senso etimologico del termine, appartiene solo a una ben precisa categoria.

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Cari lettori, capite perché la credibilità della Chiesa oggi risulta essere ai minimi storici? Se sono queste le argomentazioni forti, è facile capire come mai le persone non ci prendano più sul serio ma ci deridano. Se tutto viene riassunto in questioni oppositive ideologiche allora stiamo facendo politica, propaganda, fidelizzazione e tesseramento partitico. Così come ha fatto il premier Mario Draghi nel corso dell’ultima conferenza stampa che illustrava l’ultimo decreto anti Covid, anche Mons. Cirulli ha affermato che in buona sostanza la responsabilità è dei non vaccinati ― siano essi consacrati o laici ― agevolando a questo modo divisioni, creando il sospetto, dando spago ai delatori, stimolando tensioni che faticheranno a rimarginarsi nel tempo.

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E se forse due anni fa, in obbedienza alle parole del Papa e della Conferenza Episcopale Italiana, il presule sarebbe stato felice di abbracciare un cinese e di mangiare un inclusivo involtino primavera, oggi si guarderebbe bene dall’abbracciare un prete no-vax come segno di distensione e di ripresa della comunione ecclesiale. Che dire di più, questi sono i tempi in cui tutti desiderano apparire come filosofi socratici, tutti si sentono forti di quell’assunto del figlio di Sofronisco che dice che le norme si rispettano anche quando sono ingiuste e che quindi bisogna fare quello che ci comandano di fare, anche se non ci piacciono «o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra» cantava Nino Ferrer.

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Costoro dimenticano però che Socrate scelse di bere la cicuta non in base a leggi ingiuste ma a un sistema giuridico manipolato, incapace di rispettare lo spirito della legge e del legislatore che deve prevedere eccezioni e deroghe eque per salvare l’integrità dell’uomo e il suo spirito da pericolose derive totalitarie.

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Forse il prossimo sfogo di Mons. Cirulli sarà affidato direttamente al quotidiano La Repubblica e sarà lì che apprenderemo dal portavoce vaticano Eugenio Scalfari che in qualche suo fantasioso dialogo privato col Pontefice, la vaccinazione sarà uno degli elementi essenziale per la validità del sacerdozio ministeriale e dell’amministrazione dei Sacramenti e tutto questo al fine di avere più «Love, love, love!». Certo, a questo punto della narrazione non guasterebbe il senso pratico del vecchio comunista dedito alla casa e alla famiglia interpretato dal mitico Mario Brega nel film Un sacco bello. Mario, vedovo ma ancora capace di sacrificarsi per il suo unico figlio Ruggero, non si capacita dell’eccessivo «Love, love, love!» nell’esperienza di vita del figlio tanto da venire preso per fascista da Fiorenza, al ché alzandosi in piedi esclama: «A me fascio? Io fascio? A zoccolè, io mica so’ comunista così, sa! So’ comunista cosìììì !!!».

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Ecco, cari lettori, a tali livelli di buon senso pratico non siamo ancora abituati e forse non ci arriveremo mai, almeno tra i pastori della Chiesa Cattolica.

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Laconi, 18 gennaio 2021

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Pensieri sul concetto di libertà filiale in tempo di pandemia, riguardo certi vescovi che si sono dimenticati di essere padri dei vaccinati e dei non vaccinati

—Pastorale sanitaria —

PENSIERI SUL CONCETTO DI LIBERTÀ FILIALE IN TEMPO DI PANDEMIA, RIGUARDO CERTI VESCOVI CHE SI SONO DIMENTICATI DI ESSERE PADRI DEI VACCINATI E DEI NON VACCINATI

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Quell’anima bella di Monsignor Cirulli perde di vista il fatto che all’occorrenza è nel suo pieno diritto imporre il divieto ai fedeli cattolici di usare il preservativo o la pillola anticoncezionale o più ancora l’uso della pillola del giorno dopo o peggio ancora della pillola abortiva. Così come può vietare ai suoi preti di andare a donne o a uomini o di chiedere loro l’osservanza scrupolosa della normativa liturgica e canonica, ma non può obbligare il clero e i fedeli alla vaccinazione semplicemente perché questo esula dalle sue funzioni. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Franco Califano (Tripoli 1938 – Roma 2013) «Maledetta noia», per aprire il video cliccare sull’immagine

Nella domenica appena trascorsa, festa del Battesimo del Signore, al momento dell’omelia riflettevo con i miei parrocchiani sul fatto che nel battesimo il cristiano, oltre alle virtù teologali di fede, speranza e carità riceve anzitutto il dono preziosissimo della libertà filiale. Per noi cristiani l’essere liberi è una prerogativa dell’essere figli. Il Beato apostolo Paolo lo sottolinea decisamente bene nella sua lettera ai Galati [cfr. Gal 4, 4-ss].

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Già l’agiografo biblico, nel Libro della Genesi, descrivendo la creazione dell’uomo, dice che ognuno è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio [cfr. Gn 1, 26], intendendo per somiglianza quelle qualità mentali, morali e sociali proprie di Dio, che il Creatore ha impresso nella creatura umana differenziandola da tutte le altre create. Da questa somiglianza divina si sancisce, in modo netto e definitivo, la differenza e la superiorità dell’uomo rispetto a tutte le altre creature, ivi comprese quelle animali.

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Facciamo attenzione e chiariamo subito un concetto fondamentale: il dono della libertà filiale non è un merito personale che l’uomo può vantare ma è una grazia acquisita che otteniamo dal Padre (come dirà la Lettera ai Galati con l’espressione greca dià theōu!) in vista dell’incarnazione del Verbo, di Cristo Figlio unigenito, il quale ha reso possibile l’essere figli nel Figlio in modo pieno e duraturo riscattando l’uomo da quella condizione di peccato e di morte su cui si sosteneva l’antica schiavitù, come ebbe a rimarcare Gesù davanti ai Giudei: «se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero» [Gv 8, 36].

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Se capiamo che la libertà cristiana è prerogativa del Figlio e di coloro che hanno saputo accoglierlo [cfr. Gv 1,12], tanto da diventarne gli eredi legittimi [cfr. Rm 8,17], possiamo anche comprendere la piena possibilità di ciascun battezzato di relazionarsi pienamente con Dio Padre e con lo Spirito Santo così come Cristo ha fatto. Infatti, solo se siamo autenticamente figli nel Figlio possiamo esercitare anche quella libertà piena che implica un riconoscimento di relazione col Padre come l’amante e con lo Spirito Santo come l’amore.

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Al momento del nostro battesimo, perciò, ci viene donato dalla grazia di Dio il dono della libertà filiale così come fu donata a Cristo che fu libero davanti al Padre e si mantenne tale nella sua vita terrena proprio perché figlio beneamato dentro quell’unzione di Spirito Santo che è garanzia di ogni perfetta comunione e comunicazione con Dio [cfr. Rm 8, 14-ss] nella libertà.

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Da questi presupposti teologici, non è difficile comprendere come la libertà cristiana suppone, per essere tale, di una costante comunicazione relazionale. Così come Dio è pienamente liberò in sé stesso proprio perché nel suo intimo mistero le augustissime persone della Santissima Trinità non possono che relazionarsi tra di loro in pienezza ― cosa che si riferisce anche al Verbo dopo la sua incarnazione ― così l’uomo è veramente libero solo quando è capace di entrare in comunione con Dio e di relazionarsi con le creature.

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Purtroppo, alla prova provata dei fatti, parlare di libertà cristiana oggi come riscoperta del proprio battesimo e quindi come impegno evangelico ad essere testimoni nel mondo della libertà del Figlio non è affatto facile. L’attuale crisi sanitaria pandemica ha snaturato il concetto di libertà non solo nel suo riferimento teologico ma anche in quel riferimento filosofico e sociale che sta alla base di ogni civiltà. Si è passati in meno di due anni da una crisi sanitaria a una sociale che ha lasciato pesanti ripercussioni sulla sfera politica ed economica del Paese tanto da mettere in crisi quelle certezze un tempo considerate scontate. Questa crisi globale non ha risparmiato neanche la fede che sta conoscendo una incrinatura molto profonda tanto da portare alla deriva la libertà dei fedeli battezzati a favore di un miraggio di libertà che è fatto di “benevoli concessioni” che giorno dopo giorno ipotecano la libertà filiale sull’altare dell’emergenza, oggi di quella sanitaria e domani di chissà quale altra.

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Stoicamente abbiamo saputo portare il sacrificio della lontananza dai Sacramenti, della sospensione delle Sante Messe, dalla rimodulazione delle tradizioni religiose e il tutto nella speranza di poter nuovamente ripartire, cosa che oggi appare sempre più difficile. Sia ad extra che ad intra del mondo cristiano, così come di quello civile, assistiamo a una continua diminuzione del concetto di libertà che viene decurtata in misura tanto proporzionale e graduale rispetto all’aumentare della distanza comunionale tra l’uomo e l’uomo e tra l’uomo e Dio. Assistiamo inermi, da due anni a questa parte, all’impossibilità di creare delle relazioni stabili, dei dialoghi franchi, dei confronti maturi tra le parti. Tutto cade sotto la luce del sospetto, dell’illegalità, della clandestinità: non si intravede più una comunicazione dialogica socratica che partorisca una verità libera e liberante e che riconosca nell’uomo l’opera più bella fatta dal Creatore. La lontananza tra gli individui è palpabile e nelle nostre chiese sperimentiamo la desolazione dei banchi vuoti in cui i battezzati, un tempo figli amati, cercano un padre che non si fa trovare. E paternamente una parte dei nostri vescovi rimane chiuso nelle proprie curie-fortezze a produrre grida manzoniane di allerta e di vigilanza al virus, invidiando forse le istituzioni civili che con un decreto possono interdire agli untori alcune fette di vita sociale alimentando l’illusione dei paradisi Covid free tenuti in piedi da un etereo GreenPass e da una comunicazione terroristica che è figlia di una libertà che ha smarrito il riferimento alla paternità e di una comunione che è incapace di incontrare il prossimo.

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Noi uomini di Chiesa, così come gli uomini dello Stato, stiamo trovando grandi difficoltà a comunicare con le persone che non sono più viste come figli, fratelli e cittadini da proteggere e tutelare, ma come delle categorie da etichettare, buoni nella parte del capro espiatorio a cui è giusto e doveroso dare addosso. Ecco che allora ci sono anche nelle parrocchie e nei conventi i fedeli pro-vax e no-vax; i conservatori e i progressisti; i tradizionalisti e i riformisti. E, insieme a tutta questa dialettica della contrapposizione, si tira avanti sul controllo e sull’eliminazione della parte avversaria confondendo la verità, con l’accettazione della narrazione unica del proprio schieramento; la libertà, con l’uniformarsi a questa verità di parte e il bene comune con quanto affermato dalla maggioranza.

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Tutto questo lungo ragionamento mi serve come necessaria premessa a una questione pastorale che mi crea una sensazione di interiore tristezza unita a una pietosa commiserazione. Da sacerdote e da battezzato assisto quotidianamente e in modo sistematico e metodico, allo smantellamento della libertà cristiana di tanti fedeli che si ritrovano bistrattati dai loro pastori che hanno ormai più propensione alla sanificazione delle anime che alla loro santificazione. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello che riguarda S.E. Mons. Giacomo Cirulli, vescovo delle Diocesi di Teano-Calvi e di Alife-Caiazzo che ha vietato la distribuzione della comunione a quei sacerdoti non vaccinati (vedi qui, qui), ma anche a quei diaconi e laici etichettati come no-vax che prestano servizio nella sua Chiesa diocesana. Il presule, che a quanto pare è laureato in medicina, da buon ufficiale sanitario dispone la sospensione draconiana del servizio liturgico pastorale del suo clero considerato renitente al siero creando così un precedente pastorale e canonico unico che non ha fino a ora precedenti nella storia della Chiesa.

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E sì, perché quell’anima bella di Monsignor Cirulli perde di vista il fatto che all’occorrenza è nel suo pieno diritto imporre il divieto ai fedeli cattolici di usare il preservativo o la pillola anticoncezionale o più ancora l’uso della pillola del giorno dopo o peggio ancora della pillola abortiva. Così come può vietare ai suoi preti di andare a donne o a uomini o di chiedere loro l’osservanza scrupolosa della normativa liturgica e canonica, ma non può obbligare il clero e i fedeli alla vaccinazione semplicemente perché questo esula dalle sue funzioni anche se si tratta di un laureato in medicina, perché lui da vescovo è stato consacrato essenzialmente per essere un padre che parla al cuore dei figli che Cristo gli ha affidato, i quali vanno esortati e recuperati, anche nello sciagurato caso in cui questi si allontanassero dalla casa paterna facendo un cattivo uso della loro libertà.

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Devotamente desideriamo dare un consiglio a Monsignor Cirulli, che è un consiglio di buon senso e consiste nell’appellarsi alla coscienza e alla libertà dei propri figli ― sacerdoti e laici ― e vedere la vaccinazione non come un obbligo dogmatico ma come uno dei tanti strumenti percorribili che la medicina suggerisce in questo tempo di emergenza sanitaria insieme alle altre cure del caso messe a disposizione dell’arte medica. O per meglio intendersi: in questo momento, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, la scienza e la medicina suggeriscono e raccomandano la vaccinazione per evitare non il contagio ― sappiamo e ci è stato spiegato dagli specialisti che i vaccinati possono contagiarsi ―, ma per evitare gli effetti devastanti del Covid-19 con tutto ciò che può comportare alla salute del singolo, o al personale medico già provato da ormai quasi due anni di emergenza che deve assistere i ricoverati, per seguire con l’intero sistema sanitario nazionale che nel corso della prima ondata rischiò il collasso.

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Sospendere così, in modo coercitivo la potestas ministeriale dei propri sacerdoti, fino a prova contraria non colpiti da alcuna pena canonica, impone di fatto un lockdown alla coscienza del presbìtero che ha il dovere di accorrere premurosamente verso ogni fedele che richiede legittimamente la sua assistenza spirituale. Ravvedo anche un utilizzo furbo e malizioso da parte del vescovo delle parole pronunciate dal Romano Pontefice a vaccinarsi. Infatti, la frase del Papa: «vaccinarsi è un atto d’amore» è ovviamente sensata, ma si tratta di una paterna parenesi e non di un pronunciamento ex cathedra, una doverosa esortazione, non un pronunciamento dogmatico che vincola in fatto di fede e di morale. Perché, a questo punto, anche il vaccinarsi per altre patologie può giustamente ritenersi un atto d’amore, così come il mantenimento del proprio fisico in salute o l’osservanza di una vita salubre e moralmente irreprensibile. Domando, c’è bisogno del Papa o di un vescovo per capire questo o esortare a questo? Noi Padri de L’Isola di Patmos, che siamo stati tutti e tre autori di un libro dedicato al delicato tema La Chiesa e il coronavirus, abbiamo dichiarato pubblicamente in più occasioni di essere vaccinati, quando il vaccino è stato disponibile e quando giunse il nostro turno, perché abbiamo liberamente e coscientemente deciso di prestare fiducia alla scienza e alle indicazioni date da esperti e specialisti. Attenzione però alle parole e al significato delle parole: lo abbiamo fatto esercitando la nostra libertà e decidendo di dare fiducia, quindi abbiamo agito per atto di fiducia, che è una azione da non confondere mai con un atto di fede, che è tutt’altra cosa. Oggi viene seriamente da chiedersi: la scienza alla quale per primi noi abbiamo dato fiducia, ma soprattutto la politica che sembra usare a volte la scienza come un corpo contundente, vuole un nostro atto di fiducia oppure un nostro atto di fede? Perché la fede si regge sui dogmi, ma la scienza no, anzi semmai è specializzata a riderci sopra, sino a giungere a certe correnti della psichiatria che collocano la religiosità nell’ambito delle nevrosi.

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Non mi sembra di ricordare che siano state fatte nel passato esortazioni episcopali per far sì che il clero secolare o religioso mangiasse o bevesse con più moderazione ― a fronte dei tanti casi di alcolismo cronico e di obesità grave ancor oggi presenti tra i consacrati ― men che meno il consiglio di praticare una vita più sportiva, cosa questa che avrebbe senza dubbio evitato di indossare, già dagli anni della formazione seminariale, la taglia 52 del pantalone che aumenta con l’aumentare degli incarichi ricevuti. E non mi voglio soffermare sul pietoso e delicato caso dei sacerdoti che sono caduti nelle diverse dipendenze, cosa che non si può dire per clericale pudore ma che di volta in volta viene alla ribalta sulle colonne di cronaca [vedi qui, qui], ma se qualcuno vuole approfondire questi dolorosi temi legati alla decadenza morale del clero, basta legga il libro E Satana di fece trino di Ariel S. Levi di Gualdo.

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Eccellenza reverendissima cosa facciamo? Vietiamo anche ai ciccioni, agli ubriaconi e ai dipendenti di varia fatta la cura delle anime perché incapaci di atti di amore? Vogliamo proporre alla Congregazione per il Clero un catarismo pastorale in cui solo i duri e puri possono esercitare il ministero sacerdotale mentre gli altri vengono rimandati a casa? Mentre Vostra Eccellenza ci pensa, desidero ribadire il pericolo concreto di utilizzare l’alibi dell’amore svincolato da tutto e da tutti come rafforzativo dei propri ideologici slogan. Abbiamo già visto schiere glitterate e arcobalenate di uomini che ci vogliono convincere al suono di Love is Love, tema questo al quale io e Ariel S. Levi di Gualdo abbiamo dedicato il nostro libro: Dal Prozan al Prozac. A questo punto, se basta un atto d’amore a sistemare le cose, come possiamo ancora dargli torto? Se basta un atto d’amore a giustificare ogni cosa, consideriamo anche l’eutanasia come atto di amore nei confronti dei morenti o l’aborto come atto d’amore verso una donna che desidera realizzarsi.

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La verità, Eccellenza Reverendissima, non consiste nel fatto che i suoi sacerdoti sono restii a offrire il braccio alla patria per farsi vaccinare ― considerando che la quasi totalità di noi presbiteri italiani è vaccinata ―, ma che probabilmente sussiste un’evidente difficoltà a relazionarsi con loro. Questo preclude ogni libertà, favorendo sbrigative limitazioni e irrigidimento tra le parti.

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Se Dio facesse così con noi ogni volta che pecchiamo o che deliberatamente disobbediamo alla sua volontà, cosa ne sarebbe di noi? Cosa ne sarebbe di Dio? E invece no, Dio continua a intessere con noi una relazione, una comunione proprio e soprattutto quando la nostra libertà di figli è più traballante e viene meno. Dio manda continuamente la sua Parola incarnata a donarci quella misericordia fatta carne che è la sola che può ricostituire in salute la nostra libertà filiale compromessa. Siamo liberi solo se in comunione, come padre vescovo aspetti con premura e tremore i suoi figli sacerdoti e laici sulla soglia di casa, non per circoscriverli con provvedimenti restrittivi ma per avvolgerli con quell’abbraccio al collo [cfr. Lc 15, 20] che scioglie ogni resistenza e fa capire che il padre è sempre tale soprattutto quando sbaglia, ed è il padre dei vaccinati e dei non vaccinati, che come padre cerca, a volte con difficoltà, l’unità, non si presta certo a creare drammatiche fratture e divisioni. Quindi è il padre delle vergini consacrate e al tempo stesso ― forse persino di più ancora ― delle donne che hanno abortito, bisognose della sua accoglienza e del suo perdono molto più di quanto non ne abbiamo bisogno le vergini consacrate.

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Ma questi nostri sono discorsi cattolici, forse desueti e forse persino fastidiosi, mentre tutto il resto è noia, come cantava Franco Califano: ma noia, noia, noia …

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Laconi, 13 gennaio 2021

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Eutanasia come sconfitta antropologica e fallimento moderno della pietas e della cura

— Pastorale sanitaria —

EUTANASIA COME SCONFITTA ANTROPOLOGICA E FALLIMENTO MODERNO DELLA PIETAS E DELLA CURA

Sarebbe interessante far notare, ai laicisti sostenitori dell’eutanasia, che grazie all’opera Dei Delitti e delle Pene dell’illuminista Cesare Beccaria si inizia ad abolire, già nel 1786, la pena di morte dal sistema giudiziario di alcuni stati e regni. Oggi in nome di quello stesso pensiero illuminista la pena di morte viene reintrodotta come conquista della scienza e comminata quale misericordioso rimedio non più a dei delinquenti pubblici ma a dei pubblici innocenti.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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in foto: Marco Cappato. La vita ci appartiene veramente?

Le recenti e indecenti prese di posizione di alcuni esponenti politici “cattolici” [vedi QUI] così come di alcuni religiosi sui generis [vedi QUI] che appoggiano il referendum sull’eutanasia legale aprono diversi e preoccupanti scenari sull’etica della vita che riguardano i diritti e la tutela della salute dei malati. «L’eutanasia e il suicidio assistito sono infatti una palese sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica» [cfr. Lettera Samaritanus bonus, V.1; Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 170] introducendo di fatto il malato all’interno di quel fallimento antropologico moderno che non è più in grado di riconoscere la bellezza e la dignità della vita umana anche quando questa è gravata dall’infermità o dall’handicap.

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Ci si costringe, perciò, a condividere delle derive ideologiche che incentivano sempre più la cultura dello scarto e della morte in cui l’uomo finisce per essere visto e percepito solo in base a quello che può dare, a ciò che può fare e al suo autonomo sostentamento dentro la comunità civile. L’essere umano che nella malattia o nell’handicap ha perso la speranza in una guarigione si vede disconosciuto e limitato, in modo del tutto arbitrario, della propria qualità di vita da parte di coloro che non lo considerano più soddisfacente e degno di stare nel mondo dei sani e dei validi.

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La cosa più evidente in queste derive etiche consiste nella perdita completa della speranza che è chiamata a illuminare il futuro, anche quando si presenta incerto. La Cristianità ha assunto la speranza come virtù teologale che procede direttamente da Dio in quanto la sua Provvidenza opera sia negli ultimi istanti della vita dell’uomo così come nei primi. Nella speranza cristiana tutto è grazia, anche quella di un corpo infermo [Cfr. 2 Cor 12, 9] in cui risplendono i patimenti del Salvatore crocifisso [Cfr. Col 1, 24]. Così, se la speranza nella guarigione è andata perduta è possibile ancora riaccendere la speranza della cura che è la stessa che il Salvatore rivendica per sé stesso nella persona degli affamati, degli assetati, dei forestieri, degli indigenti, dei carcerati e degli infermi e moribondi [cfr. Mt 25, 31-46]. L’inciso matteano del «l’avete fatto a me» ha il merito di farci capire che cosa sia la pietas in cui si sviluppano tutti quei doveri sacri che l’uomo esercita verso gli altri uomini e che nel Vangelo diventa grazia provvidenziale in cui il Dio fatto uomo si rivela come soggetto della cura pietosa. Per questo motivo, da cristiani, è necessario ribadire senza paura di smentita che l’eutanasia non è quello che si vorrebbe far credere oggi, cioè una morte degna ma solo un modo ingannevole di vivere la compassione e l’empatia verso il malato sfuggendo la fatica del prendersi cura di lui.

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L’individualismo reale del mondo moderno, assunto a stile di vita ordinario, impoverisce le relazioni reciproche aumentando la solitudine dell’uomo durante il tempo della malattia, conducendo così il morente alla disperazione più totale che gli fa desiderare una risoluzione rapida e indolore della propria condizione di infermità arrivando a scegliere, quasi come una liberazione, l’eutanasia. Ecco il motivo per il quale oggi, davanti a un offuscamento dei più basilari principi etici e religiosi, i malati terminali rappresentano oggi la categoria più fragile ed esposta. Siamo di fronte a una reale emergenza umanitaria che non può essere più ignorata, visto che la civiltà di un popolo e la sua pietas si misurano ― anche prima dell’avvento del Cristianesimo ― in base all’accudimento portato verso i deboli, i bambini, gli anziani, i malati e i moribondi.

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LA TUTELA DEI MALATI TERMINALI E DIVIETO DI UCCIDERE

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È necessario ad ogni costo tutelare i malati terminali evitando di trasformare gli ultimi giorni della loro vita terrena in una sorta di battaglia politica o, peggio ancora, in una sorta di rivendicazione sociale fatta dai soliti volti noti che, guarda caso, sono più che mai attaccati alla loro esistenza terrena. E sì, perché tra le tante contraddizioni del pensiero laicista moderno, i fautori dell’eutanasia legale si augurano per sé stessi una lunga aspettativa di vita e ragionano da perfetti ipocondriaci nel tentativo di allontanare ed esorcizzare le malattie e gli interventi sanitari. Così è anche per i fautori dell’aborto che sono al mondo grazie a delle madri che non si sono vergognate a scegliere la vita per loro rifiutando la tanto civile e responsabile interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Già questo basterebbe per mettere in luce la sragionevolezza e l’illogicità di certi personaggi la cui linea di pensiero tenta di guadagnarsi un posto di rilievo nella grande arena dell’opinione pubblica nazionale ed estera ma che sarebbe meglio accantonare per il bene di tutti.

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Lasciando da parte queste contraddizioni laiciste, iniziamo a ragionare secondo un pensiero cristiano solido. andando alla fonte che è la Sacra Scrittura che ammonisce:

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 «Figlio, non trascurarti nella malattia, ma prega il Signore ed egli ti guarirà» [Sir 38, 9].

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Questo l’invito del Siracide che non è affatto un cieco fideismo come qualcuno potrebbe pensare. Affermare «non trascurarti nella malattia» significa due cose essenziali: consapevolizzarsi sulla cura del proprio corpo donato in modo gratuito dal Signore; prendere parte a un’azione di cura che si esplicita dentro un cammino di fede nel Dio della vita e della risurrezione, con segni sacramentali che sono anche terapeutici e dentro un’azione caritativa fattiva che si affianca come compagna di viaggio al malato, soprattutto quando questo è orientato verso la fase terminale dell’esistenza.

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Il nostro corpo non ci appartiene, ci è stato donato da Dio per una missione e si realizza con la collaborazione dei genitori nell’opera generativa. Come realtà che è stata concessa in prestito, il corpo ha la necessità di essere custodito e preservato da tutti quegli eventi avversi che attentano alla propria integrità e incolumità fisica e spirituale. E questo non si applica al solo caso della malattia ma soprattutto ai disperati tentativi eutanasici che sono essi stessi eventi patogeni, davanti ai quali è necessario interrogarsi a partire da quel quinto comandamento del Decalogo che dice: «Non ucciderai» [cfr. Es 20, 13].

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Il comandamento che vieta di uccidere fa parte sia del diritto divino che di quello naturale. È immutabile e inderogabile e nessun legislatore umano può abrogarlo senza cadere dentro un illecito di auctoritas e di potestas. Cosa questa che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha spiegato chiaramente quando afferma:

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«Nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente» [Istruzione Donum Vitae, n. 5].

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Perciò, nessun essere umano innocente può essere violato con la morte procurata sia quando esso si trova nel seno materno sia quando si trova in un letto di malattia. L’innocenza e l’incolpevolezza del feto, come quella del moribondo terminale rendono tutti gli atti abortivi, eugenetici ed eutanasici gravidi di quel sangue di Abele che grida dal suolo ancora vendetta davanti al trono del giudice divino [Cfr. Gn 4, 10].

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Sarebbe interessante far notare, ai laicisti sostenitori dell’eutanasia, che grazie all’opera Dei Delitti e delle Pene dell’illuminista Cesare Beccaria si inizia ad abolire, già nel 1786, la pena di morte dal sistema giudiziario di alcuni stati e regni. Oggi in nome di quello stesso pensiero illuminista la pena di morte viene reintrodotta come conquista della scienza e comminata quale misericordioso rimedio non più a dei delinquenti pubblici ma a dei pubblici innocenti.

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DIRITTO ALLA VITA E DIRITTO ALLA MORTE

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Davanti a queste dolorose considerazioni è necessario riflettere e partire per poter formulare una nuova idea di qualità della vita, di salute e di cura. Logica vuole che se il corpo diviene un possesso personale, un oggetto, esso può anche essere (ab)usato in modo egoistico e dispotico, anche da terze parti, fino al suo completo esaurimento, morte compresa.  Così come non può esistere un dispotico e arbitrario “diritto alla vita” a ogni costo e a qualunque prezzo, non può esistere neanche un “diritto alla morte” che includa pratiche eutanasiche anche qualora fossero molto rare e sporadiche. Il diritto alla vita è susseguente alla disposizione provvidenziale che Dio predispone, il quale non intende dare la vita all’uomo come un oggetto di cui si possa disporre arbitrariamente. La vita è orientata a un fine verso cui l’uomo ha la responsabilità di dirigersi: la propria perfezione personale secondo il disegno e la chiamata di Dio [Cfr. Pontificio Consiglio Cor Unum per la promozione umana e cristiana, Documento Dans le Cadre, n. 2.1.1.]. Questo è l’approccio cristiano alla vita che si basa sul fatto che

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«l’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio» [Cfr. Evangelium Vitae n. 2].

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Questa chiamata-vocazione soprannaturale all’oltre di Dio costituisce la grandezza e la preziosità dell’umana esistenza anche nella sua fase terminale che per il credente non può mai essere considerata come una realtà «ultima», ma semmai «penultima» perché in cammino verso quella dimensione escatologica che si apre alla vita piena in cui Dio sarà tutto in tutti [cfr. 1Cor 15,20-28]. Per questo motivo, appare evidente, come la vita di ogni individuo è realtà sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell’amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli: dal riconoscimento della pietas alla cura e dalla cura alla pietas.

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IL BUON SAMARITANO E LA CHIESA OSPEDALE

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Ecco perché la Chiesa nella sua tradizione bimillenaria ha sempre attuato, sulla scorta di Cristo Buon Samaritano [cfr. Lc 10, 29-37], tutte quelle opere di misericordia corporali e spirituali che sono servite a soccorrere l’uomo durante il suo pellegrinaggio terreno. Uomo che, il più delle volte, si trova a doversi confrontare con la propria nativa fragilità che comporta sia i mali fisici che quelli dell’anima. Il Buon Samaritano è l’icona della custodia alla vita e dell’esercizio pietoso della cura fino alla fine. Esso non giudica gli assalitori dell’uomo ma si dà da fare affinché questi non perisca, sebbene già altri abbiano rinunciato ad assisterlo e a donargli una speranza di sopravvivenza. Il Samaritano si prende in carico l’uomo ferito e lo consegna a sua volta, affinché altri in sua vece ne abbiano cura per lui. Egli non è quello che noi oggi definiremmo un caregiver, non opera da solo ma dentro una comunità sanante a cui l’immagine della locanda rimanda. Introduciamo così una chiara immagine ecclesiologica in cui la comunità di fede, la Chiesa, accoglie dalle mani del Samaritano il ferito per condurlo verso un accompagnamento senza tempo: «Abbi cura di lui… fino… al mio ritorno» [Lc 10, 35]. E questo ritorno escatologico non è solo quello del Figlio di Dio nella sua gloria ma anche l’incontro escatologico in cui l’uomo, terminata la sua vita terrena, si ricongiunge con il Creatore.

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È senza dubbio interessante questa visione ecclesiologica che anche il Pontefice regnante nella sua prima intervista alla rivista Civiltà Cattolica [vedi QUI; QUI], richiama, definendo e presentando la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. Similitudine questa che è tristemente decaduta, in otto anni di pontificato, dentro una serie di luoghi comuni. Privando questa bella immagine del suo significato originario, ci si è spinti al parossismo includendo termini marcatamente cristiani ― come ospitalità, accoglienza e cura ― dentro un’ermeneutica svuotata del senso ecclesiologico a favore di quello socio partitico e sociopolitico. Non a caso oggi siamo circondati da slogan che inneggiano all’accoglienza, alla cura e al prendersi carico degli abbandonati, però, nello stesso tempo, vediamo il moltiplicarsi di slogan sull’eutanasia. Davanti a questa illogicità di pensiero diventa impossibile e ipocrita parlare di accoglienza senza riserve, di cura amorevole e disinteressata per finire all’ospitalità del cuore che ha la pretesa di abbattere i muri divisori. Non è difficile capire che tutte queste cose vengono decantate a scopo propagandistico e solo per esclusive e determinate categorie di persone. Impossibile, perciò, la conciliazione degli opposti, di chi da una parte lotta per i più deboli ma a nome di quegli stessi deboli è pronto a proporre la morte quando la debolezza della malattia rende impossibile ogni guarigione.

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VERSO DUE OBIETTIVI: «N’EBBE COMPASSIONE» E «SI PRESE CURA DI LUI» [LC 10,33-34].

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Dopo queste considerazioni e analisi appare necessario e urgente ritornare all’esempio unico e vero del Buon Samaritano, che è Cristo Signore, il quale insegna ai suoi discepoli a prendersi cura della totalità dell’uomo ferito introducendolo in quella locanda ospedale da campo che è la madre Chiesa che, così come genera alla vita dal fonte battesimale, così immerge nella grazia della misericordia il morente. Mi piace dare due spunti di lavoro che hanno il compito di scongiurare nei cristiani la tentazione all’eutanasia, non sono come pratica in sé ma soprattutto come visione etica del fine vita.

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Per sfuggire all’eutanasia dobbiamo avere la compassione del Buon Samaritano che non si può spiegare in altri termini se non come quell’amore materno che si lascia ferire. Il Samaritano si lascia vulnerare da quel malcapitato che gli si para sul cammino, le ferite di quell’uomo colpito dai briganti si imprimono nelle sue viscere in una sorta di pietosa transverberazione del cuore. Egli arriva addirittura a rischiare di perdere i propri affari pur di soccorrere chi gli è di fronte. C’è una necessità impellente che lo porta a con-patire la debolezza e la sofferenza dell’uomo ferito, così come c’è una volontà di stare lì in quel momento di sofferenza e di croce, così come vediamo nell’esempio di Maria Santissima sul Golgota. Siamo di fronte a un imperativo morale che diventa anche imperativo di assistenza che crea una sensibilità profonda verso chi è debole o ferito, con il desiderio fattivo di alleviarne realmente le pene. La vera compassione e il vero compassionevole adottano azioni e soluzioni concrete con cui è possibile intervenire soccorrendo l’infermo [cfr. B. Moriconi (1997), Compassione, In Dizionario di Teologia Pastorale Sanitaria, pp. 227-234, Ed. Camilliane].

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Capiamo bene che come cristiani il nostro sostare davanti al malato terminale non può che essere quello di chi vuole con-patire la conclusione naturale di una esistenza umana in cui Dio si è rivelato. Se la condizione terminale del malato non ferisce le nostre viscere tanto da assumerne il peso non proveremo mai la compassione del Buon Samaritano che apre a una fattiva assistenza umana e spirituale. Consapevoli che

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«arriva un momento nel quale non c’è che da riconoscere l’impossibilità di intervenire con terapie specifiche su una malattia, che si presenta in breve tempo come mortale» [Lettera Samaritanus bonus, I]

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Il cristiano inizia a farsi carico del morente con quell’assistenza materna che è vicinanza, allontanamento della paura e dell’abbandono, incoraggiamento e fiducia nel Signore risorto vincitore di ogni angoscia mortale. Solo in questo modo l’ammalato si sentirà circondato da una presenza amorevole, materna, umana e cristiana e non cede alla depressione e all’angoscia di chi sentendosi abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte chiede di porvi fine [Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 170].

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Dopo aver avuto la giusta compassione verso il morente è necessario darsi da fare con il prendersi cura di lui, sempre infatti è possibile curare anche quando non è più possibile guarire. È bene differenziare quelle che sono le competenze e i campi di assistenza del personale specialistico, della famiglia e della comunità ecclesiale. Da un punto di vista medico le strutture dove sono trattati i malati terminali, gli hospice, Case di Cura, devono poter garantire quelle cure mediche essenziali, palliative che escludano ogni forma di accanimento. Stessa cosa quando il malato terminale si trova ancora nella sua casa, i medici e gli specialisti devono potersi attivare per garantire una necessaria assistenza medico-infermieristica limitando tutte quelle condizioni di dolore e di sofferenza che sono collegate con gli stati terminali di una malattia. A ogni modo, sia nelle strutture sanitarie come nelle case private, le cure palliative rappresentano la risposta migliore di assistenza ai bisogni fisici del malato e di fatto scongiurano la scelta eutanasica che riformula il concetto di cura in una morte anticipata e medicalmente assistita [cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova carta degli Operatori sanitari, n. 147; Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Convegno Internazionale sull’assistenza ai morenti (17 marzo 1992), n. 5].

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Il prendersi cura del malato terminale include non solo i bisogni medici ma psicologici e spirituali, cosa che la comunità cristiana deve poter fare con sollecitudine e premura. Annunciare il Vangelo al morente è fondamentale per aprire a quella speranza che non delude. Amministrare in tempo i sacramenti dell’Unzione degli Infermi, a cui è annessa l’assoluzione dei peccati con l’indulgenza plenaria, e la somministrazione del Santo Viatico è il modo ordinario con cui un cristiano battezzato si congeda da questo mondo per risvegliarsi in Dio.

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L’esercizio della carità verso il malato terminale si realizza vedendo in lui il volto del Cristo sofferente e morente. Cosa che porta la comunità ecclesiale a pregare per il morente e a chiedere per lui, all’Eterno Padre, la misericordia del perdono e la grazia della riconciliazione dell’intera vita. È un momento forte in cui è indispensabile lasciare cadere le colpe del passato, i peccati, i nodi che si sono accumulati è un modo per cercare e donare pace gli uni agli altri. Perdonando i debiti al morente e permettendo che lui perdoni i nostri si crea quella comunione vicendevole di carità di cui tutti abbiamo bisogno per riconoscerci cristiani e figli del Padre che è nei cieli, in cui si rende visibile quella perfezione che non opera in virtù di quella logica non priva di interessi di chi non conosce Dio [Cfr. Mt 5, 43-48].

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La famiglia del malato terminale è senza dubbio la più esposta, ma anche quella su cui ricadono le maggiori aspettative del morente. Morire circondati da coloro che abbiamo amato e che hanno condiviso con noi l’esistenza è una grazia senza fine. Allo stesso modo, stare vicino nella morte a chi abbiamo amato come genitore, figlio, fratello, amico è la forma di comunione di amore più perfetta che possiamo umanamente realizzare nella nostra esperienza terrena. Ecco perché la presenza della famiglia vicino al morente deve essere costante e privilegiata, nessuno può sostituirsi a essa. Nonostante questo, la famiglia ha bisogno di essere intelligentemente supportata per non soccombere alla fatica del distacco dal proprio caro e dall’agonia successiva alla perdita. La comunità cristiana, come comunità sanante ― healing community , si affianchi in modo discreto a queste famiglie provate, supportandole in tutto e per tutto così da imitare la sollecitudine del Cireneo che aiuta a portare per un tratto il peso della croce di Cristo quando questo si accascia al suolo. La comunità cristiana è Serva e Guaritrice, è presente premurosamente nella sofferenza ma agisce nella cura che è diaconia della carità per favorire la salute integrale (salvezza) delle persone. 

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Noi Padri de L’Isola di Patmos, a livello umano e sacerdotale condividiamo fraternamente e serbiamo nei nostri cuori il tenero ricordo di numerosi malati terminali, o di anziani che si stavano a poco a poco spegnendo come candele giunte alla fine. Questo perché condividiamo anche un altro elemento: chiunque voglia fare veramente teologia o approfondire certi particolari rami di studio e di ricerca, deve sempre farlo partendo dalla preghiera e dal materiale umano. Noi siamo Sacerdoti di Cristo istituiti e consacrati medici per curare le anime degli uomini. Il più giovane tra di noi, Padre Gabriele, si occupa dei temi della vita e delle disabilità sin da quando era novizio nell’Ordine dei Frati Predicatori. Chi scrive queste righe ha trascorso anni della propria vita nelle corsie di un grande ospedale. Padre Ariel, che non ha mai svolto il ministero di parroco e che si è sempre dedicato ad altre mansioni, ha amministrato più unzioni degli infermi ed è stato seduto al capezzale degli ammalati più di quanto spesso non facciano parroci di parrocchie di 10.000 battezzati, semmai perché … impegnati in riunioni del consiglio parrocchiale. E quando noi entriamo dentro un confessionale, spesso ne usciamo fuori dopo ore, supplendo alla “mancanza di tempo” di svariati parroci che, impegnati in non meglio precisate “attività pastorali”, non hanno tempo per confessare, immemori che noi siamo stati consacrati presbiteri per celebrare il Sacrificio Eucaristico, predicare il Santo Vangelo, rimettere i peccati e assistere gli ammalati e i morenti, tutto il resto viene in secondo piano, dalle riunioni del consiglio parrocchiale sino alle più alte speculazioni teologiche. È partendo da queste basi che si può spiegare a tutti coloro che pensano di fuggire il dolore della morte con l’eutanasia, che spesso nel dolore e nella sofferenza è racchiusa quella grande sapienza che ci rende uomini migliori. Risolvere tutto fuggendo la malattia e il dolore con una “dolce morte”, vuol dire non avere compreso perché si è nati, per cosa valga la pena vivere e come mai, un giorno, bisogna morire, semmai anche soffrendo.

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Non è facile parlare dell’elemento salvifico del dolore e della sofferenza a questa società ormai degenere, se però non lo facciamo, anche a costo di non essere compresi, o più facilmente a rischio d’essere presi a male parole, tradiremo nel peggiore dei modi la missione a noi affidata da Cristo che ha sconfitto la morte e che ci ha resi partecipi della sua risurrezione.

Laconi, 25 settembre 2021

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Due settimane di silenzio e un occhio salvato da Grazia Pertile al Sacro Cuore di Negrar, mentre come teologo meditavo: cosa può causare la mancanza di umiltà negli uomini di scienza?

—  pastorale sanitaria —

DUE SETTIMANE DI SILENZIO E UN OCCHIO SALVATO DA GRAZIA PERTILE AL SACRO CUORE DI NEGRAR, MENTRE COME TEOLOGO MEDITAVO: COSA PUÒ CAUSARE LA MANCANZA DI UMILTÀ NEGLI UOMINI DI SCIENZA?

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Di questo rendo grazie a Dio come uomo di fede, sacerdote e teologo: avermi fatto sperimentare direttamente sulla mia pelle quanto sia veramente alta la virtù dell’umiltà cristiana. L’ho capito mentre imparavo a memoria il Messale Romano in italiano e in latino, spaventato dal fatto che, se anche nell’occhio sano fosse sopraggiunta analoga patologia, i due amatissimi gatti di Jorge Facio Lince e miei, Ipazia e Bruno, che vivono in casa con noi, avrebbero dovuto imparare a convivere con un pastore tedesco, che avrebbe indossato una fascia con la croce rossa, portandomi in giro per la strada con un bastone bianco.

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Padre Ariel S. Levi di Gualdo all’ingresso dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar dinanzi al mosaico raffigurante San Giovanni Calabria, fondatore dell’opera

Questo articolo avrei potuto titolarlo: Riflessioni sulla mia pelle. In fondo le migliori, perché un conto è contemplare con surreale fideismo un bel crocifisso d’avorio che fa così arte e inutile tenerezza emotiva, un conto finire partecipi, anche in piccola parte, alla crocifissione del Cristo, unica via per vivere la vera fede, che non è sentimentalismo emotivo, basterebbe intendere le parole del Divino Maestro che insegna: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23).

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Negli ultimi due anni sono stato attivo su tutti i fronti: ho scritto molti articoli su L’Isola di Patmos, pubblicato dei nuovi libri (cfr. QUI), prodotto video-conferenze, lectiones magistrales (cfr. QUI), partecipato a programmi televisivi sulle Reti Mediaset. Ultimo in ordine di serie Zona Bianca del 19 maggio condotto da Giuseppe Brindisi (vedere QUI dal minuto 01:35 a seguire), dove sarò di nuovo ospite il 9 giugno. Eppure, dietro a tutta questa iper attività, c’era qualche cosa di grave, al punto da indurmi a pensare che dovevo produrre più possibile, perché forse un giorno non avrei potuto più fare certi lavori. Ho persino memorizzato l’intero Messale Romano in duplice lingua, italiana e latina, casomai un giorno non fossi stato più in grado di leggere …

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Cosa è accaduto? Questo: nel mese di luglio del 2019 appare una lesione alla retina del mio occhio destro. Si sarebbe dovuti intervenire con un immediato “cerchiaggio”, ma credendo di farmi del bene mi praticarono una ricucitura col laser. Trascorso un mese si verifica un distacco totale della retina e l’occhio rimane completamente cieco. Si procede così chirurgicamente d’urgenza a riattaccare la retina, dopo che il chirurgo consigliato e scelto m’informò: «In una scala di rischio da zero a dieci, lei è a rischio undici».

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la chirurgo e ricercatrice sulla retina Grazia Pertile, direttore del reparto di oculistica dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar, Fondazione San Giovanni Calabria

L’intervento riesce bene, pure se eseguito ― cosa che scoprirò un anno dopo ― con una tecnica ormai superata, ma non per questo inefficace. Tutt’oggi sono grato al chirurgo che mi rincollò la retina. Certo, pur avendolo effettuato in regime privato avvalendomi della mia polizza assicurativa sulla salute, fui operato su una specie di “poltrona” con anestesia locale praticata attraverso una puntura nell’occhio che non auguro neppure a uno scafista che trasporta esseri umani dall’Africa alle coste italiane con grave rischio per la vita di donne e bambini. Così credevo però funzionasse, al punto che non mi curai di domandare: … ma in questa splendida clinica privata stile hotel a cinque stelle, non avete neppure uno straccio di anestesista? I soldi, li spendete tutti negli arredi interni per gettare fumo negli occhi alle Signore e ai Signori della bella società che vengono a farsi i ritocchi di chirurgia estetica?

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Illustrato a grosse linee il fatto, a nulla serve dettagliare l’iter clinico, perché di ben altro intendo parlare. Preciso soltanto che il tutto fu aggravato da una emorragia nell’occhio sopraggiunta per cause naturali durante la seduta operatoria, che causò il danno dei fotorecettori, ossia le cellule della retina che permettono la messa a fuoco. Con l’occhio destro, col quale vedevo solo ombre storte, non potevo leggere e scrivere. Il tutto peggiorato ulteriormente da una «estesa membrana» che si formò pochi mesi dopo sulla retina.

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Il chirurgo che mi aveva operato e riattaccata la retina, salvandomi indubbiamente l’occhio dalla totale cecità, si guardò dall’espormi il mio stato, che per quasi due anni ignorai, dopo essere stato liquidato con un verdetto sul quale mi ero fatto una serena ragione: «Più di così l’occhio non potrà recuperare».

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la chirurgo e ricercatrice sulla retina Grazia Pertile, direttore del reparto di oculistica dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar, Fondazione San Giovanni Calabria

Un amico carissimo, uno tra i diversi clinici romani con i quali sono in stretti rapporti di amicizia, uomo di grande scienza ed esperienza, mi accompagnò egli stesso da una autentica autorità internazionale nel campo della chirurgia della retina. Dopo una serie di esami approfonditi l’eminente clinico esaminò il mio occhio con la lente manuale per circa mezz’ora e in modo pacato e impietoso mi fece tutta la cronistoria: dalla ricucitura laser da evitare sino all’intervento effettuato bene, la sopraggiunta emorragia che mi era stata taciuta e via dicendo. Concluse il grande esperto in chirurgia della retina: «Personalmente in quest’occhio già molto trattato non ci metterei mano, perché meno si tocca e meglio è, però …».

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Inutile a dirsi: un eminente studioso della retina e grande caposcuola, poteva dirmi davanti a un paio di chirurghi suoi allievi che qualche altro poteva essere in grado di fare ciò che per comprensibile prudenza loro non avrebbero osato fare? Quel semplice «però …» fu sufficiente a lasciarmi capire indirettamente quel che non sempre si può dire direttamente. D’altronde, sono pur sempre allievo anche di un diplomatico di lungo corso nel servizio alla Santa Sede, che nel campo della diplomazia mi ha istruito a dovere in lunghi anni di filiale rapporto.

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Da tempo il marito della mia odontoiatra mi aveva parlato in toni di meraviglia del Dottore Grazia Pertile, direttore del reparto di oculistica dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar, Fondazione San Giovanni Calabria, in provincia di Verona (cfr. QUI). Questa insigne specialista e nota ricercatrice di fama europea, gli aveva salvato l’occhio dopo 7 interventi chirurgici effettuati in modo disastroso da chirurghi di fama, o perlomeno di fama sulle carte … politiche. E i danni che gli furono recati risultarono tali che dalla sera alla mattina lo operò d’urgenza, mentre l’occhio stava ormai per andare in necrosi. Mi decido, salto in macchina e nel mese di giugno del 2020 mi reco a Negrar dove effettuo una visita col Dottore Mauro Sartore, che mi si palesa dinanzi come un angelo di Dio e che dopo tutti gli esami necessari mi dice che il danno ai fotorecettori è al momento irreversibile, ma rimuovendo la estesa membrana retinica e correggendo l’intervento precedente la vista può notevolmente migliorare. Nel mese di ottobre vengo visitato dal Dottore Grazia Pertile che ribadisce la diagnosi del suo collaboratore e mi prospetta l’intervento, anche perché in caso contrario, l’occhio, sarebbe stato destinato alla totale cecità in un lasso di tempo di pochi o più anni.

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Mauro Sartore, chirurgo retinico dello staff di Grazia Pertile, reparto di oculistica dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar, Fondazione San Giovanni Calabria

Il 24 maggio ho effettuato il pre-ricovero, il 25 sono stato operato e il 26 dimesso. Mi sono poi recato sul Lago Maggiore dagli amici de L’Isola di Patmos Enrico e Liliana, che mi hanno regalato dei giorni di splendida convalescenza nella loro villa. Scrivo questo articolo oggi, nella mia camera d’albergo nella Valpolicella, dopo avere effettuato il controllo post-operatorio questa mattina col Dottore Mauro Sartore.

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Quando sono entrato in sala operatoria a Negrar, dinanzi ai miei occhi si è presentata una equipe al completo composta da svariate persone, con buona pace del fumo senza arrosto di una clinica privata che nella cornice esteriore pareva un hotel a cinque stelle, dove però mi spararono una puntura in un occhio per farmi una anestesia locale. Tutt’altra storia al Sacro Cuore di Negrar, dove sdraiato sul lettino, non su una specie di poltrona, non mi si è avvicinato un punturatore selvaggio, ma l’anestesista che mi ha fatta l’anestesia totale, durante la quale sono stato anche intubato. Ricordo di essermi addormentato recitando: Confiteor Deo omnipotenti et vobis, fratres, quia peccavi nimis cogitatione, verbo, opere, et omissione  (Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni …) e di essermi risvegliato dicendo «Laudetur Jesus Christus» (Sia lodato Gesù Cristo). E pochi giorni dopo ho compreso fino in fondo quanto dovevo lodare Gesù Cristo.

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A pochi giorni dall’intervento, con l’occhio ancora appannato, già vedo tutte le linee e i contorni perfettamente diritti. Distinguo e leggo i caratteri delle lettere grandi, quelle dei cartelloni, delle insegne e delle copertine dei libri, che prima non vedevo né leggevo.

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Il Dottore Grazia Pertile è una donna molto riservata, pronuncia poche parole. Il suo è un lavoro che non si fa con le parole, utili e indispensabili per altri generi di pratiche scientifiche. È un lavoro, il suo, di pura azione, un autentico mostro da sala operatoria con una manualità più unica che rara. E proprio io che da sempre sono a stretto contatto con le sfere più delicate dell’essere umano, ho subito compreso il genere di angelo dagli occhi azzurri che avevo davanti. Così mi sono limitato a giocare sul suo nome, tirando fuori dall’Ave Maria due sole ma incisive parole: «Gratia Plena» (piena di grazia). Sì, ti saluto Donna piena di grazia, capace a mettere veramente a frutto la grazia straordinaria che Dio ha posto nelle tue mani.

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Ingresso dell’Ospedale Sacro Cuore di Negrar con la statua di San Giovanni Calabria

La nostra Isola di Patmos non ha pubblicato articoli nelle ultime settimane perché in concomitanza con me, anche il nostro redattore cappuccino Padre Ivano Liguori ha avuto problemi di salute che hanno comportato quindici giorni di ricovero. Un mese e mezzo fa fu colpito da una algia emicraniale destra con parestesie formicolari omolaterali e ptosi all’occhio destro, che ha richiesto ricovero in neurologia per accurati accertamenti, essendo paziente affetto da due malattie autoimmuni da circa quattro anni, una ai reni (una nefrite interstiziale) e una al fegato (una colangite biliare primitiva). Così, Padre Ivano e io, da un capo all’altro d’Italia siamo stati assorbiti da vicende sanitarie. Intanto che Padre Ivano continuava per giorni gli accertamenti neurologici per tenere sotto controllo la ptosi all’occhio destro, migliorata ma non ancora risolta del tutto, io mi accingevo a effettuare l’intervento alla retina dell’occhio destro, avvenuto attraverso un ricovero di soli due giorni e mezzo, che hanno però comportato una preparazione e una convalescenza. Questa è stata la nostra situazione nelle ultime settimane, ve la rendiamo pubblica oggi per chiarire il nostro silenzio, aggiungendo al tutto un dato molto positivo: nel mese di maggio dedicato alla Beata Vergine Maria sono stati superati gli ottanta milioni di visite alla nostra rivista nel corso degli ultimi quattro anni di attività pubblicistica ed editoriale. A maggior ragione, non pensate che il Diavolo ci doveva mettere in qualche modo lo zampino?

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Raccontare questa mia vicenda ha comportato quasi una violenza esercitata su me stesso. Ognuno di noi ha diritto alla propria riservatezza. Questa mia storia è però paradigma di un dramma umano molto antico col quale tutti dobbiamo fare i conti sin da quando Adamo ed Eva commisero il peccato originale, che ricordo fu un peccato di superbia, a tal punto grave da alterare l’equilibrio perfetto del mondo creato da Dio, ma soprattutto dell’uomo stesso, fatto a immagine e somiglianza del Divino Creatore, che in precedenza non conosceva il decadimento fisico, la malattia, il dolore, la vecchiaia e la morte, tutte conseguenze di quel grande peccato di ribellione, di quella superbia di cui la mancanza di umiltà è da sempre la figlia prediletta.

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le ricerche sulla retina artificiale condotte da Grazia Pertile

Dal muratore al progettista, dall’idraulico al falegname, dal manager allo chef e suvvia a seguire, quando l’uomo si trova dinanzi a qualche cosa che non è in grado di fare, spesso esordisce dicendo: «Non è possibile, non si può fare». Non dico quasi sempre o di prassi, ma spesso chi risponde a questo modo sa benissimo che certe cose sono possibili da farsi. Ma per nessuna ragione ammetterebbe che altri sono capaci a fare ciò che lui non è in grado di fare. Certo, per quanto gravi possano essere, i danni o le incapacità di certi artigiani e tecnici sono quasi sempre circoscritti. Quando però atteggiamenti di simile superbia generanti cieca mancanza di umiltà sono posti in essere da un oncologo o da un chirurgo, che cosa può accadere? Il nostro redattore cappuccino Padre Ivano Liguori, specialista in pastorale sanitaria, che per anni ha svolto il ministero di cappellano in un grande ospedale, il nostro giovane redattore domenicano Padre Gabriele Giordano M. Scardocci, grande studioso sul piano teologico ed ecclesiologico del problema delle disabilità, quanti casi sfociati nel disastro hanno conosciuto? Mi ci metto anch’io, che come sacerdote sono da sempre vicino e dedito all’assistenza di malati terminali e disabili, ribadendo a ogni piè sospinto che proprio noi presbiteri cimentati negli studi di ricerca e nelle alte speculazioni teologiche dobbiamo avere a che fare più che mai col materiale umano, salvo generare in caso contrario mostri di disumanità che vivono nell’iperuranio delle università ecclesiastiche, annegati nel mondo dell’irreale e nella spasmodica ricerca dei successi di carriera e di auto-affermazione.

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Quando parliamo della virtù dell’umiltà cristiana, noi presbiteri e teologi non intendiamo certo la beghina o il cattolico onirico a collo torto che finge di non sentirsi degno o all’altezza. Ben altra è l’umiltà: è la virtù dei grandi. Solo i grandi possono confrontarsi ogni giorno con i propri limiti umani, fuggendo in tal modo le forme più nocive di disumanità, quelle che portano il proprio egocentrismo o il proprio narcisismo ipertrofico al di sopra del valore stesso della vita umana. Ecco allora il cardiochirurgo che pur conoscendo perfettamente l’esistenza di un collega particolarmente bravo e da anni specializzato in quella specifica malformazione al cuore, preferisce dire «non si può fare altro … non si può fare più di questo … fatevene una ragione …», pur di non dire che da altre mani il paziente potrebbe essere salvato. Altrettanto vale per certi oncologi, o per certi specialisti nella chirurgia della retina e via dicendo a seguire.

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lo staff di oculistica di Grazia Pertile, Ospedale Sacro Cuore di Negrar

E vogliamo parlare dei baroni clinici che di prassi si circondano di mezze tacche, dovendo brillare di luce propria? O dimenticare altrettante mezze tacche piazzate come assistenti di insigni clinici su suggerimento di aziende e banche che finanziano fondazioni e istituti di ricerca? Cosa accade poi, ai malati attratti dal miraggio del gran luminare, quando si recano nel suo reparto dove finiscono operati da qualcuno dei suoi mediocri assistenti? Tutt’altro il mondo della clinica, della chirurgia e della ricerca del Dottore Grazia Pertile, che non teme ombre sulla stella che lei è ma che ha formato uno staff di chirurghi che sono tutti quanti molto bravi. Altro mondo, in mezzo a tante cose cliniche dell’altro mondo che spesso ti tolgono con decenni di anticipo alla vita di questo mondo terreno.

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Di questo rendo grazie a Dio come uomo di fede, sacerdote e teologo: avermi fatto sperimentare direttamente sulla mia pelle quanto sia veramente alta la virtù dell’umiltà cristiana. L’ho capito mentre imparavo a memoria il Messale Romano in italiano e in latino, spaventato dal fatto che, se anche nell’occhio sano fosse sopraggiunta analoga patologia, i due amatissimi gatti di Jorge Facio Lince e miei, Ipazia e Bruno, che vivono in casa con noi, avrebbero dovuto imparare a convivere con un pastore tedesco, che avrebbe indossato una fascia con la croce rossa, portandomi in giro per la strada con un bastone bianco.

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Sul mio cammino, tra tanta scientifica e omissiva arroganza e superbia, ho però conosciuto la mia Ave Maria, la Donna piena di grazia, il Dottore e ricercatore sulla chirurgia della retina Grazia Pertile. E ho capito fino in fondo il valore teologico e salvifico dell’umiltà cristiana, quella che ti rende grande e che ti salva l’anima dalla dannazione eterna.

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da Negrar in Valpolicella, 3 giugno 2021

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GRAZIA PERTILE SPIEGA I TRATTAMENTI DI AVANGUARDIA PER LE PATOLOGIE DELLA RETINA

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

La teoria dei quanti e il miracolo dell’Eucaristia, camminando tra scienza e fede in compagnia di Niel Bohr e San Tommaso d’Aquino

—  Attualità ecclesiale —

LA TEORIA DEI QUANTI E IL MIRACOLO DELL’EUCARISTIA, CAMMINANDO TRA SCIENZA E FEDE IN COMPAGNIA DI NIEL BOHR E SAN TOMMASO D’AQUINO

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Dio è il Dio che entra in relazione con noi e che ci ascolta, ci vede, ci scruta, ci gusta e ci tocca. Cosa questa che accade per noi mediante il miracolo dell’altare, anche detto miracolo dei miracoli: la Santissima Eucarestia, nella quale Gesù Cristo è presente in corpo, sangue, anima e divinità. E se è presente realmente, sostanzialmente e veramente, nel suo momento eucaristico entra in relazione con noi.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Qualche giorno fa, mentre preparavo degli articoli un’amica ha introdotto una discussione nuova su un tema antico, ma sempre denso di riflessioni: scienza e fede. Ne ho già parlato in diversi momenti con riferimento alla tematica dei vaccini. L’amica mi ha girato un bell’articolo scritto dal gesuita Paolo Beltrame il 4 marzo e intitolato: Se i quanti gettano luce sulla teologia. Presentato su La Civiltà Cattolica col titolo Forse Dio gioca a dadi?

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Mi ha fatto molto piacere leggere questo articolo, che mi ha ricordato anche gli anni universitari quando anch’io ho approfondito per circa un anno la materia della filosofia della scienza, studiando il bellissimo testo di Werner Heisenberg, Fisica e Filosofia, per studiare poi approfonditamente la teoria dei quanti, sebbene non sia entrato in terminologia matematica [N.d.R. Padre Gabriele prima di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori ha svolto i corsi di laurea in filosofia all’Università La Sapienza di Roma]. Il gesuita Paolo Beltrame offre una riflessione-ponte fra la teoria dei quanti e la teologia trinitaria. Lascio a voi la lettura integrale dell’articolo che non richiede eccessive competenze né di fisica né di filosofia.

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Nell’articolo mi ha colpito questa citazione attribuita al fisico danese Niehls Bohr premio Nobel nel 1922 per gli studi sull’atomo, che diceva:

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«[…] i fenomeni esistono in quanto osservati e in quanto entrano in relazione con l’apparato di misurazione».

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Forse sembrerà lontano dalla nostra prospettiva. Forse sembrerà un concetto filosofico. Ma in effetti questo è un dato anche dell’esperienza ordinaria. Ogni volta che conosciamo qualcosa, dal conoscere il quantitativo di denaro da pagare al supermercato per prendere la spesa, agli orari delle Sante Messe, venendo poi alle grandi scelte di vita, come conoscere se possiamo fidarci di quella persona o meno, c’è sempre una relazione fra noi e l’oggetto conosciuto. L’oggetto conosciuto si chiude a noi perché è osservato ai nostri sensi che lo misurano. Diventa evidente per noi e per tutti coloro che lo osservano e lo misurano. Certo, non tutta la realtà è un fenomeno misurabile e calcolabile. L’uomo non è un mero misuratore. Ma tutta la realtà è comunque studiata, appresa, compresa perché è in relazione con noi. San Tommaso D’Aquino diceva che allora la verità di un certo dato è adeguazione fra la mente che conosce quel dato e il dato stesso, vale a dire adeguazione fra l’intelletto e la realtà.

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Perché dunque mi sento di condividere il pensiero di Padre Paolo Beltrame circa i legami di questa teoria con la teologia e con la fede? Il gesuita scrive infatti che tutta la Trinità è relazione. Una dottrina classica per la teologia scolastica:

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«La Trinità è relazione in sé stessa, relazione con l’universo, e relazione con tutti gli esseri viventi, senzienti o meno».

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Questo spalanca anche la nostra via di fede e preghiera. Dio è il Dio che entra in relazione con noi e che ci ascolta, ci vede, ci scruta, ci gusta e ci tocca. Cosa questa che accade per noi mediante il miracolo dell’altare, anche detto miracolo dei miracoli: la Santissima Eucarestia, nella quale Gesù Cristo è presente in corpo, sangue, anima e divinità. E se è presente realmente, sostanzialmente e veramente, nel suo momento eucaristico entra in relazione con noi.

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Pensate anche al Santo Sacrificio della Messa, quando Gesù è presente in Persona Christi nel sacerdote e dice in quel momento «Prendete e mangiate […] prendete e bevete». E quando assumiamo la specie eucaristica, a toccarci per primo, relazionalmente, è Cristo Dio. Mentre a poco a poco noi siamo trasformati in Lui.

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Pensiamo ai momenti di dubbio e di buio per i quali alcuni grandi miracoli hanno riportato sacerdoti e fedeli alla fede eucaristica, come il Miracolo Eucaristico di Bolsena, che non è affatto «presunto» e «riproducibile in laboratorio», come ieri ha smentito con dolore e imbarazzo il nostro Padre Ariel S. Levi di Gualdo in una sua nota ― da noi Padri de L’Isola di Patmos pienamente condivisa ― ribattendo a un post infelice pubblicato da un sacerdote palermitano su Facebook. E ancora: pensate all’adorazione eucaristica, a quanto silenzioso, maestoso e tremendo è il Dio Cristo che è lì ad ascoltarci. Siamo noi che entriamo nel suo “campo visivo” sacramentale. Possiamo porgergli tutte le nostre paure, tutte le nostre speranze, tutti i nostri sogni. Li possiamo poggiare sul suo cuore eucaristico, il suo Sacro Cuore e Lui ci ascolta nel Suo Silenzio.

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Forse non avevamo mai pensato a tutto questo. Ma in fondo la Quaresima è anche approfondimento e ritorno a queste certezze della fede. Approfittiamone per riscoprire questi tesori della fede, ringraziando sia Bohr che l’Aquinate per averci aiutati a riscoprire la bellezza dell’unicità relazionale fra Dio e il miracolo dei miracoli: la Santissima Eucaristia, che è miracolo della «cristica realtà», non «presunto miracolo».

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Roma, 8 marzo 2021

Giovanni di Dio, Santo della Carità

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Quella luce che pervade e che disintegra ogni limite in questa società in cui la cultura della morte cerca di prevalere sulla vita: Paolo Palumbo e la sua storia di S.L.A. mutata in «Solo Luce Attorno». E in coda la straordinaria band dei «Ladri di carrozzelle»

—  Attualità ecclesiale —

QUELLA LUCE CHE PERVADE E CHE DISINTEGRA OGNI LIMITE IN QUESTA SOCIETÀ IN CUI LA CULTURA DELLA MORTE CERCA DI PREVALERE SULLA VITA: PAOLO PALUMBO E LA SUA STORIA DI S.L.A. MUTATA IN «SOLO LUCE ATTORNO». E IN CODA LA STRAORDINARIA BAND DEI «LADRI DI CARROZZELLE»

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Le lungaggini burocratiche per ottenere ciò che è un diritto dei disabili, come la sedia a rotelle o il montascale, le pensioni di invalidità e di accompagnamento così esigue da non coprire minimamente le spese sanitarie che devono sostenere, sono tutte realtà con cui i disabili e le loro famiglie devono convivere ogni giorno, come ci cantano il rock music i mitici Ladri di carrozzelle.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

 

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Paolo Palumbo, ammalato di S.L.A. (Sclerosi Laterale Amiotrofica) ospite al Festival di Sanremo nella stagione 2017

Incredibile come l’incipit del Vangelo di Giovanni sia a un tempo denso di significati teologici e spirituali e al tempo stesso in che modo questi significati continuino ad illuminare le nostre vite di fede intessute di un quotidiano di incertezza. In fondo era quello che l’Apostolo Giovanni voleva, quando ha composto il suo Vangelo: mostrare che l’Incarnazione fosse un fatto vero, concreto, reale, affinché questa realtà potesse irrompere nelle nostre vite per cambiarle una volta e per sempre:

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Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto (Gv 1, 9-10).

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Questo è il vero Incontro di fede, con coloro che trasmettono il dato della fede dell’Incarnazione, quella che festeggiamo ogni Natale, anche se troppo spesso ce ne dimentichiamo. Perché l’Incarnazione è il mistero rivelato di una Luce che pervade l’umanità nella notte più oscura. Nella tenebra dell’anima, la fiaccola della Luce di Gesù Cristo, il Verbo Incarnato, viene ad ardere e donare chiarezza e calore nel freddo glaciale giunto fino al punto di divisione dell’anima.

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C’è ovviamente chi questa Luce non l’ha voluta. Si è voltato dall’altra parte. C’è chi quindi ha rifiutato Gesù e lo ha fatto condannare a morte. È accaduto nella storia di eri e continua ad accadere. Ancora oggi che l’azione di Cristo prosegue nella Sua Chiesa, c’è chi preferisce tramare nell’ombra del peccato, dell’egoismo, della violenza e dell’omicidio, come ho già parlato attraverso il caso di Willy Monteiro in un mio precedente articolo [vedere QUI]. Eppure, al contrario di molti che non l’hanno riconosciuto, c’è però qualcuno che la Luce del Verbo Incarnato l’ha voluta prendere. Anche se per la mentalità perfezionista e materialista del mondo Gesù Cristo, oggi, sarebbe considerato un perdente.

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Paolo Palumbo, credente e malato di SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), la sua storia ha voluto raccontarla in un libro meraviglioso intitolato: Per volare mi bastano gli occhi.

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Dinanzi a Paolo che convive con questa brutta malattia da quando aveva 18 anni, già immagino le supercazzole di qualche cattolico adulto che si sta domandando come mai non ha chiesto subito l’eutanasia, perché in fondo «che vita sarebbe mai quella?», «Perché tutte quelle sofferenze?», «Perché negargli un atto di libertà?». Eppure tutta la vita di Paolo è una risposta a questo immenso e disumano mare di sciocchezze dettate dalla cultura della morte.  Chi legge i suoi post, non solo esce dagli schemi hitleriani eutanasici, ma si trova catapultato in una realtà positiva, piena di gioia e di tanta fede che fa riflettere e interrogare più volte, una realtà tutta quanta ripiena della Luce del Risorto.

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Ma andiamo con ordine e incominciamo dal principio: il 10 Settembre 2016, quando Paolo ha diciotto anni gli viene diagnosticata la Sclerosi Laterale Amiotrofica, una malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni, ovvero le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale in grado di regolare l’attività di contrazione dei muscoli volontari. Quando ricevono la notizia i familiari cadono in uno stato di shock. Paolo risulta infatti essere il più giovane individuo colpito da questa malattia, i genitori e il fratello non sanno come affrontare questa durissima prova a cui sono chiamati. Ma nel frattempo lui li stupisce tutti fin da subito mostrando una forza e una positività incredibile. La sua forza risiede soprattutto in un ottimismo generato dalla grazia di Dio e dalla luce del Cristo che Risplende nelle tenebre, che non l’hanno vinta (cfr. Gv 1,5). E così Paolo, la sua malattia abbreviata con la sigla SLA, giunge al punto di ribattezzarla:  Solo Luce Attorno!

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Difficile non innamorarsi di Paolo dopo avere letto le sue parole, perché è una vera forza della natura elevata dalla grazia, un concentrato di vitalità e caparbietà. In ogni parola del libro si coglie quanto forte sia la sua personalità. Mai, si è lasciato sopraffare dalla malattia, anzi con la sua vita la sconfigge ogni giorno. Nulla gli è impossibile, perché ha cominciato a vivere nell’ottica della memoria resurrectionis, in quella dimensione della vita che vince e sconfigge ogni morte. E così, riempito di Luce trinitaria, Paolo ci offre una lezione magistrale su come affrontare le nostre debolezze. Lui stesso scrive infatti che i limiti siamo solo noi a imporceli, perché sono solo nella nostra testa. Basti pensare che Paolo è salito sul palco di Sanremo, che ha incontrato il Sommo Pontefice Francesco, il Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama e il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella per parlargli della dura realtà con cui convivono i disabili. Paolo ha guidato un drone attraverso gli occhi e inventato un modo per far sentire i sapori dei cibi anche a chi come lui, a causa della disfagia, non può più avere il piacere di farlo. E sono solo alcune delle molte cose che ha fatto da quel fatidico 10 settembre, quando come una sentenza inappellabile fu formulata la sua diagnosi.  

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Paolo Palumbo è una persona straordinaria, un vero dono di Dio all’umanità, forse l’unico a non esserne ancora del tutto consapevole è lui, animato da una fede così grande che ogni giorno gli dona il coraggio per affrontare le tante difficoltà che la sua grave malattia, ma soprattutto la società, gli pongono davanti, andando avanti senza paura, mossa dalla cultura della vita, non dalla cultura della morte.

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Poi, se nella storia di questa vita radiosa vogliamo ricercare una stonatura oscura, che prescinde però del tutto dalla malattia di Paolo, è al solito l’impatto sociale, perché è lì che ci sono molte cose da aggiustare. La realtà che dovrebbe portare un aiuto ai disabili, da trent’anni a questa parte non è purtroppo cambiata.

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Le lungaggini burocratiche per ottenere ciò che è un diritto dei disabili, come la sedia a rotelle o il montascale, le pensioni di invalidità e di accompagnamento così esigue da non coprire minimamente le spese sanitarie che devono sostenere, sono tutte realtà con cui i disabili e le loro famiglie devono convivere ogni giorno. E anche in questo frangente Paolo non si è mai tirato indietro, insieme al suo inseparabile fratello Rosario ha affrontato a “muso duro” tantissime battaglie per far valere i suoi diritti e quelli di tutti i disabili. Peccato che, come al solito, in molti gli hanno fatto promesse per poi abbandonarlo. O come dice Paolo: «I limiti sono solo e soltanto quelli che noi stessi ci imponiamo». Perciò, cari amici de L’isola di Patmos, attingiamo dalla storia di Paolo Palumbo il coraggio di chiedere a Dio la sua Luce Trinitaria, che pervada e disintegri ogni nostro limite e ogni nostro orgoglio. E anche per noi inizierà l’era della Sola Luce Attorno, l’era in cui diventeremo uomini vivi e forti nella fede, con la Vita e la Gioia del Risorto.

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Roma, 3 marzo 2021

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(Con la collaborazione di Alessandra Fusco, autrice del Club Theologicum)

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I MITICI LADRI DI CARROZZELLE IN «DISTROFICHETTO»

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

L’indovino Tiresia e il Cristianesimo: la realtà della disabilità, tra gioia e speranza

—  Theologica —

L’INDOVINO TIRESIA E IL CRISTIANESIMO: LA REALTÀ DELLA DISABILITÀ, TRA SPERANZA E GIOIA

La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

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Ulisse e l’indovino Tiresia

Uno dei temi forti che coinvolgono molto a livello emotivo e intellettuale ogni fedele, dal singolo credente, al sacerdote, dall’uomo di cultura al teologo, è certamente il tema della disabilità. A essere precisi non esiste la disabilità in astratto, ma esistono persone con disabilità fisiche o mentali, che possono essere congenite, innate o acquisite.

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Vorrei abbozzare delle riflessioni biblico-teologiche sul tema della disabilità. Sono consapevole, insieme a tutta la tradizione cristiana, che il mistero del male e della sofferenza umana rimane mistero e non può mai essere dischiuso completamente. Però può essere contemplato, scrutato con occhio di fede, speranza e di carità e essere inserito nel piano più alto e più grande del Piano di Dio.

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In questo articolo faremo innanzitutto alcune considerazioni storiche su uno dei più noti e antichi disabili della storia, l’indovino Tiresia. Successivamente, ci sposteremo sul tema della sofferenza nell’ambito cristiano.

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UN DISABILE NOTO ALL’ANTICHITA’. TIRESIA, INDOVINO CIECO.

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La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema. Tanto che recentemente si è lasciata interrogare dalla disabilità, provando a costruirne una riflessione. Anzitutto vorrei segnalare il testo di Gian Antonio Stella: DiversiLa lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, recentemente edito dal noto giornalista del Corriere della Sera. Con un taglio giornalistico, Stella cerca di fare un excursus a partire da diverse figure storiche di persone con disabilità che hanno davvero proposto la loro esperienza innovativa per il tempo della storia in cui hanno vissuto. Non vorrei soffermarmi su questo testo però [1].

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Da qualche tempo la cultura siciliana ha perso uno dei suoi scrittori più fecondi, Andrea Camilleri. Quasi come un testamento, insieme ad alcuni libri ora in uscita, l’autore di Porto Empedocle, noto per aver creato il personaggio del commissario Montalbano, ha pubblicato un testo intitolato Conversazioni su Tiresia. Si tratta di un piccolo libriccino che riporta fedelmente il testo dello spettacolo omonimo andato in scena lo scorso giugno 2018 e interpretato dallo stesso Camilleri.

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Il tema centrale del testo, come dice il titolo, è la figura dell’indovino Tiresia. Figura leggendaria, di cui si sanno poche cose. Certamente, di lui, si sa che è originario di Tebe, ha una figlia di nome Manto, anche lei indovina, ma soprattutto che è cieco, o come si direbbe oggi: non vedente. Il testo teatrale è un piccolo excursus fra ironia, scherno e qualche frecciatina al mondo attuale, di come questa figura sia stata descritta, schernita e al tempo stesso amata e rispettata nel corso dei secoli. Notoriamente, l’antichità greca ha prodotto una serie di fonti su Tiresia. La cosa più interessante da notare è che in una antichità precristiana, che ha avuto un rapporto difficilissimo con i disabili, una figura di disabile fisico come Tiresia è invece rimasta viva nella scrittura di questi autori. Certamente, la figura dell’indovino tebano, è interessante innanzitutto per una riflessione culturale sulla disabilità.

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Lo Pseudo Apollodoro provò a spiegare da dove si originava la cecità di Tiresia. Dunque riportò tre narrazioni, nella sua Biblioteca; sono particolarmente interessanti la seconda e la terza narrazione[2], raccontate teatralmente anche nel testo di Camilleri. Nella seconda narrazione, quella secondo Apollodoro, Tiresia è figlio di Evereo e della Ninfa Cariclo: la cecità viene dalla punizione di Atena che Tiresia vide nuda farsi il bagno; allora intervenne Cariclo che chiese pietà per il figlio. Atena non tolse la cecità allo sciagurato voyer, ma vi unì la capacità di essere indovino. La terza narrazione Apollodoro la riprende dal poeta greco Esiodo, ed è la più complessa, perché inserisce altri elementi. Tiresia meditava mentre camminava sul monte Citerone: qui vide due serpenti nell’atto della unione sessuale e allora schifato decise di calpestare e uccidere la femmina. Non appena l’aspide lascivo fu schiacciato, magicamente Tiresia si trasformò da uomo a donna. Questa immagine, induce Camilleri a mettere sulla bocca di Tiresia una considerazione teologica legata ai serpenti:

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«A me adolescente piaceva molto fare lunghe passeggiate solitarie sul Citerone e un giorno, all’improvviso, mentre stavo seduto su una pietra, vidi avventarsi verso di me due grandi serpi avviticchiate nell’atto della riproduzione. Ero sovrappensiero, per questo reagii come mai avrei dovuto. Perché coi serpenti, sul Citerone, bisognava andarci cauti. Zeus per possedere Persefone si mutava in serpe e anche Cadmo “s’asserpentava” per le sue scappatelle. Quindi in quei rettili poteva celarsi un dio»[3].

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Torneremo su questo particolare fra poco. Osserviamo come Tiresia è davvero saggio: è cioè in grado di andare oltre l’aspetto materiale e cogliere la natura divina anche di un atto così animalesco come l’unione sessuale. Comunque, procedendo con la narrazione, sappiamo che in seguito l’indovino tebano tornò uomo, ma la sua malasorte non era terminata. Infatti, in un tempo indeterminato, Zeus ed Era litigavano e spesso si trovarono divisi da una controversia: se nell’atto dell’amplesso provasse più piacere l’uomo o la donna. Non riuscivano a giungere a nessuna conclusione perché infatti le due posizioni principali si fronteggiavano fortemente: Zeus, sosteneva infatti che fosse la donna, mentre Era che fosse l’uomo. Per dirimere la disputa decisero di rivolgersi Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolverla poiché aveva saggiato sia la natura maschile sia femminile. Forse sarebbe stato meglio se Tiresia avesse seguito il vecchio adagio di non mettere il dito fra moglie e marito[4]. Ma, per quella volta, non fu prudente su questo. Dunque, una volta chiamato in causa dai due dèi litigiosi per risolvere la vexata quaestio, rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. Tiresia pensò di rispondere così facendo un piacere ad Era, ritenendo che la dea avesse risposto secondo il suo stesso ragionamento. La dea, invece, rimase infuriata perché Tiresia aveva svelato quel segreto: e così lo accecò. Invece Zeus, contrario alla reazione della moglie, decise di riparare al danno subìto, e diede facoltà a Tiresia di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni. E Questo, nell’ottica greca, implicava avere una vita praticamente eterna.

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Ecco allora i tre elementi sottolineati nella disabilità di Tiresia: la cecità segue la punizione di aver saputo un segreto profondo dell’uomo. Tiresia, un po’ come Prometeo, ha la colpa di essersi azzardato a intuire e ragionare, arrivare oltre l’arrivabile: dunque di essere entrato nelle sfere più alte della intimità dell’uomo e della donna. Di aver saputo sciogliere il segreto stesso della donazione totale dell’uomo alla donna e viceversa, dunque della loro identità profonda. Al tempo stesso, Tiresia è entrato nel segreto profondo del piacere corporeo e della origine della vita.  Era davvero non può reggere questo affronto. Così, pensa di fare un dispiacere a Tiresia, accecandolo: ma così facendo in realtà lo toglie dalla visione delle cose materiali e lasciandolo per sempre alla visione di informazioni, nozioni e concetti più alti. Oserei dire che Tiresia può essere quello schiavo nella caverna platonica che liberato dai lacci delle visioni materiali vede finalmente la luce delle Idee, nella eternità della verità senza tempo. Non voglio però entrare in una analisi platonica.

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Tornando invece alla disabilità di Tiresia si aggiunge, con l’azione di Zeus, il dono della preveggenza e della vita eterna. Il capolavoro antropologico di Tiresia il tebano è definitivamente compiuto. La disabilità, tanto condannata, tanto stigmatizzata nel mondo greco, è invece, in Tiresia, carica di un insieme di doni straordinari donati dagli dei[5]. E poco importa dunque la mancanza di luce sulle cose quotidiane.

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Tiresia conosce il dato presente nei suoi segreti più intimi. Lo stesso dicasi per gli eventi futuri: conosce ciò che è più profondo, ciò che è più ricercato da ogni uomo greco, filosofo, matematico, astronomo o storico che sia. Scrive a questo proposito lo studioso Paolo Scarpi:

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«[…] La cecità di Tiresia è in realtà la condizione perché egli possa assolvere al suo ruolo di indovino […] Le tre ragioni presentate nella Biblioteca, […], appaiono in realtà connesse da un denominatore comune rappresentato dal codice ottico su cui è costruita la vicenda. […] la vista entra direttamente in causa configurandosi come una trasgressione di un codice di comportamento enunciato da Callimaco […] (le leggi di Crono stabiliscono così chi vede un immortale contro la sua volontà, pagherà un grande prezzo per questa vista)»[6]

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A conferma di questo ci sembra interessante notare cosa pensa la Odissea dell’indovino tebano. Omero offre un compito importante a Tiresia, nel canto decimo infatti leggiamo:

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«per chiedere all’anima del tebano Tiresia,

il cieco indovino, di cui sono saldi i precordi:

a lui solo Persefone diede anche da morto,

la facoltà d’esser savio; gli altri sono ombre vaganti»[7]

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Ulisse, nell’Ade, è costretto a cercare Tiresia, per venire a conoscenza della strada per il ritorno ad Itaca. Nei versi del poema omerico, leggiamo fra le righe che solo a Tiresia sono concessi i doni straordinari che lo rendono così saggio. Aggiungo ancora un paio di elementi: nella Tebaide, il poeta Stazio descrive che Tiresia, sordomuto e cieco allo stesso tempo, conserva i suoi poteri straordinari. Qui, la disabilità fisica, è ancora più accentuata, non di meno però la saggezza e la profezia rimangono. E avranno un ruolo drammatico in Sofocle.

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Nell’Edipo Re, Tiresia è chiamato profetizzare anche il celeberrimo incesto fra Edipo e Giocasta e l’uccisione di Laio: in questa tragedia la profezia del cieco è addirittura un elemento di aiuto alla scoperta circa una azione morale condannata dal tempo. L’apporto di Tiresia diventa fondamentale nello scioglimento del dramma di Edipo.

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Tornando e concludendo la lettura del testo di Camilleri, trovo una splendida poesia dedicata a Tiresia a opera del poeta Thomas Sterne Elliott

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«Io Tiresia, benché cieco, pulsante fra due vite,

vecchio con avvizzite mammelle femminili, posso vedere

all’ora viola, l’ora della sera che volge

al ritorno, e porta a casa dal mare il marinaio,

posso vedere la dattilografa a casa all’ora del tè, sparecchia la colazione,

accende il fornello e tira fuori cibo in scatola.

Fuori dalla finestra pericolosamente stese ad asciugare

Le sue combinazioni toccate dagli ultimi raggi del sole,

sul divano (di notte il suo letto) sono ammucchiate

calze, pantofole, camiciole e corsetti.

Io Tiresia, vecchio con poppe avvizzite,

percepii la scena, e predissi il resto –

anch’io attesi l’ospite aspettato.

Lui, il giovane pustoloso, arriva,

impiegato di una piccola agenzia di locazione, con un solo sguardo

baldanzoso,

uno del popolo a cui la sicumera sta

come un cilindro a un cafone arricchito.

Il momento è ora propizio, come lui congettura,

il pranzo è finito, lei è annoiata e stanca,

cerca di impegnarla in carezze

che non sono respinte, anche se indesiderate.

Eccitato e deciso, lui assale d’un colpo;

mani esploranti non incontrano difesa;

la sua vanità non richiede risposta

e prende come un benvenuto l’indifferenza.

(E io Tiresia ho presofferto tutto

Quello che è stato fatto su questo stesso divano o letto;

io che sedetti sotto le mura di Tebe

e camminai fra i più umili morti).

[…]

A Cartagine poi venni

Ardendo ardendo ardendo ardendo

O Signore Tu mi cogli

O Signore Tu cogli

Ardendo[8]

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L’analisi della disabilità di Tiresia mostra dunque come la disabilità abbia una valenza contraddittoria nel mondo pre-cristiano: nel quale si evidenzia un rapporto di dannazione, stigma, allontanamento e, dall’altro, quasi invece uno stato di elevazione a conoscenza superiore. Il tema della disabilità, per i greci richiamava dunque una conoscenza sapienziale del presente, una conoscenza profetica del futuro, un richiamo a una vita eterna (certo non delle stesse caratteristiche del Regno di Dio cristiano). Ovviamente, l’aspetto totalmente assente nella disabilità di Tiresia, come del resto a tutta la riflessione greca prima della venuta di Cristo, è ovviamente il legame fra attività divina e umana: quel rapporto fra grazia e natura che verrà solo successivamente scandagliato dalla teologia cattolica.

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Tiresia subisce infatti la disabilità nella sua natura umana come castigo: non è spiegato dai miti greci in quale modo, dopo aver ottenuto la disabilità, la sua persona sia portata, tramite la disabilità, a un cammino di perfezionamento e di elevazione morale con l’aiuto degli Dei. La disabilità, in Tiresia, è insomma una speciale metodologia epistemologica ma non di santificazione. Uno speciale modo di conoscere ma non di elevarsi ad un rapporto con il sacro. Di segno completamente diverso è invece, il senso della sofferenza fisica, e dunque anche una disabilità visiva, dall’avvento di Gesù Cristo: tutte le disabilità rientrano nell’afflizione e nell’amore sofferente di Cristo. Si possono dunque riunire sotto la grande categoria della sofferenza.

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AFFLITTI MA INTIMAMENTE UNITI NELL’AMORE SOFFERENTE DI GESU

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È certa una cosa. Riguardo il cristianesimo, esso è fondato da Gesù ed è una religione della gioia; infatti, il cristianesimo, è iniziato con un imperativo gioioso. «Kaire/Rallegrati Maria!» [9] così l’arcangelo Gabriele salutò l’adolescente Maria. Certamente riconosciamo con Joseph Ratzinger che «Il cristianesimo è dunque la fede della gioia»[10]. Eppure, all’interno del cammino di una fede cattolica che sia gioiosa, essa non fugge da alcune tematiche particolarmente delicate come la sofferenza, la penitenza e il dolore. Pensiamo per un momento che nel cammino della Chiesa Cattolica esiste un grande periodo di penitenza e ascesi: la Quaresima. Questo perché la Quaresima è innanzitutto tempo di conversione, ma anche tempo di deserto e riflessione. In quel periodo c’è un invito a soffermarsi, nella nostra preghiera o meditazione personale, su quelle tematiche che risultato ordinariamente di difficile assimilazione e trattazione, come il peccato, la morte, la malattia, il dolore. La sofferenza è un tema molto delicato. Soprattutto è delicato perché è vissuto da uomini e donne. Tema che tutti quanti in prima persona abbiamo toccato. Questi uomini sono sofferenti. Dunque sono afflitti. In effetti uno dei temi di cui anche l’Antico Testamento ci parla è proprio la sofferenza. Pensiamo ad esempio alla storia presente nel libro di Giobbe. Uomo giusto, oggi diremo un pio, una persona perbene e molto devota. Il Signore, allora, permette al diavolo che Giobbe sia provato nella sofferenza morale, ricordiamo infatti che furono uccisi tutti i suoi figli; quindi, materiale, ricordiamo che perse tutti i suoi averi; infine fisica, ricordiamo che si ammala gravemente di lebbra e viene isolato da tutti, tranne che da quattro amici.

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In Giobbe, secondo gli esegeti, troviamo quatto reazioni tipicamente umane. La prima è  l’accettazione (cfr. Gb 1,22). Egli accetta pacificamente che tutto questa gli venga da Dio. Allo stesso tempo pretende da Lui anche una specie di contraccambio in futuro. La seconda reazione, è la ribellione (cfr. Gb 3, 1). Egli desidererà addirittura morire. È reazione tipica anche dei malati di oggi: è desiderio di tranquillità e di pace. La terza reazione è l’affidamento (cfr. Gb 40). Giobbe si affida a Dio riconoscendo la sua piccolezza, il proprio essere creatura creata, rispetto a Dio creatore increato. Quindi si affida veramente al Creatore perché riconosce di essere stato orgoglioso e pretestuoso nei suoi confronti. Quarta reazione, la ricompensa ultraterrena (Gb 42,7). A Giobbe viene restituito tutto ciò che aveva perso in modo raddoppiato [11].

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Giobbe è un afflitto. Dio dopo un cammino di conversione, di purificazione e crescita viene consolato da Dio. Rimasi molto colpito quando anche io ascoltalo la voce di un afflitto. Un afflitto di qualche anno fa: ma che nel suo oggi, come oggi è stato abbandonato da tutti. Per questo vorrei adesso farvi ascoltare la voce di quel genere di afflitto che, al contrario di Giobbe, non ce l’ha fatta.

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«Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.  […]  Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. […] Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.  […] Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene»[12].

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È terribile leggere righe del genere. È quasi impossibile empatizzare il dolore di un giovane che vuole togliersi la vita. È assolutamente impossibile comprendere il dolore di quei genitori che hanno perso un figlio in questo modo.  Eppure, questo giovane era un afflitto. Un afflitto lasciato solo da tutti: abbandonato alla mentalità e alla moda del mondo, che crede e inculca a tutti che il suicidio sia l’unica via per vivere la propria libertà. Questa è la libertà che il mondo di oggi vuole convincere anche noi cattolici che sia quella da vivere: una libertà che non è liberta vera. Quella libertà che si esprimerebbe nelle tecniche di suicidio assistito e di eutanasia, come avvenuto per il caso, salito alla ribalta dei telegiornali, di Dj Fabio. Anche Dj Fabio era un sofferente, uno che biblicamente chiameremo afflitto[13]. Il mondo, invece che donargli la vera libertà, lo ha abbandonato definitivamente. Lo stato di diritto gli offre addirittura ragione e giurisprudenza per fondare il convincimento che dalla sofferenza si esce solo suicidandosi. Come se il suicidio fosse espressione massima di una “libertà”[14]. Quella libertà che elimina la sofferenza e l’afflizione. Perché una vita sofferente e afflitta non ha valore, allora si elimina. Si prende e si butta via. E si maschera tutto con la parolina magica: li–ber–tà. Tre sillabe con cui oggi si cavalca l’onda e si permette tutto.

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«Noi viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita»[15]

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C’è un’unica risposta a questa terribile convinzione della cultura odierna. La vera risposta che ognuno di noi può dare è questa: la gioia di Gesù Cristo. Si risponde ad una logica di morte, di cultura dello scarto, di necrocultura semplicemente mostrando la gioia e l’amore che Gesù ebbe nei confronti degli afflitti. Perché Gesù Cristo stesso si è spesso incontrato con la sofferenza. Gesù ha cioè incontrato persone sofferenti e afflitti: chi nel corpo e chi nello spirito. E si è messo al servizio loro e dei loro parenti e amici. Per questo ha potuto relegare un posto speciale nelle beatitudini proprio ai sofferenti: «Beati gli afflitti… perché saranno consolati»[16].

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Se diamo un’occhiata al Vangelo della resurrezione di Lazzaro, vediamo subito come Gesù si relaziona di fronte alla morte del suo caro amico Lazzaro. Gesù stesso piange. È afflitto, e vive questo momento insieme ad altri afflitti. Proviamo a seguire il testo del Vangelo da vicino:

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«Gesù voleva molto bene (agapan = amava con misericordia) a Marta, a sua sorella [Maria] e a Lazzaro. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (= pepisteuka, il verbo greco esprime un forte atto di fede) Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente (embrimastai = prendere in collera), si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Vedi come lo amava!”. Dopo aver riposto la pietra in cui Lazzaro era stato posto, Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. E, detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”»[17].

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Proviamo a leggere il testo in modo analitico. Al versetto 5 vediamo innanzitutto che Gesù compie l’azione dell’agapan cioè amava profondamente Marta, Maria e Lazzaro. Agapao è il verbo greco da cui viene agapè, che noi appunto traduciamo con Misericordia. Quindi li amava con misericordia. Inoltre ai versetti 20 – 27 Gesù viene rimproverato da Marta, in seguito anche da Maria, di non essere stato presente al momento della morte di Lazzaro. Ottiene da loro un atto di fede nella vita eterna che avviene tramite la Sua Presenza: la presenza di Gesù, Figlio di Dio nel mondo. Successivamente (cfr. V.33) quando poi viene a sapere della morte di Lazzaro, Gesù si commuove: ha un moto di passione collerico (così il verbo greco embrimastai), di avversione nei confronti della morte che è uno degli effetti provocati dal peccato originale a sua volta generato dal diavolo. Gesù stesso, dunque, esprime avversione e ostilità nei confronti della morte. Commentando i versetti 41 – 42, l’esegeta Brown scrive:

«Attraverso l’esercizio del potere di Gesù, che è il potere del Padre, essi conosceranno il Padre e così riceveranno la vita essi stessi. Gesù non otterrà niente per sé, egli vuole solo che i suoi ascoltatori conoscano il Padre che lo ha mandato. […] La cosa cruciale è che Gesù ha dato la vita fisica come segno del suo potere di dare la vita eterna su questa terra e come promessa che nell’ultimo giorno resusciterà i morti»[18].

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Marta, Maria e Lazzaro sono afflitti. Gesù gli fa scoprire, proprio nell’afflizione, un rapporto vero e reale con Dio. La sofferenza allora diventa uno dei possibili “luoghi” dove incontrare veramente l’Amore del Signore e riceverne consolazione. Come Dio fece con Giobbe e come adesso fa Gesù con Lazzaro. In effetti, l’afflizione, può generare un senso di isolamento: come abbiamo visto finora, la sofferenza, se per un verso è un’esperienza, per altro verso è al tempo stesso una esperienza solitaria, permessa da Dio al singolo e solo al singolo. In maniera indiretta va a colpire anche i parenti, gli amici e i vicini dell’afflitto, ma serve innanzitutto alla singola persona. Questi afflitti non sono così lontani nel tempo e nello spazio dalle nostre vite.

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Anche noi possiamo essere misericordiosi e mostrare l’amore di Dio agli afflitti. La gioia e vitalità di Gesù possiamo esprimere e comunicarla attraverso questi nostri fratelli sofferenti? Tramite l’esercizio delle opere di misericordia materiali e corporali è possibile esprimere il senso biblico della consolazione. Ecco il nesso fra consolazione e senso di fratellanza: saper entrare nel dramma di qualcuno e supportarlo. Essere davvero con– fratelli tramite la Misericordia/Agape di Dio per l’altro. Vivere aiutando chi è afflitto significa essergli di supporto. Nell’essere supporto allora ci sono tre derive che vanno assolutamente evitate:

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α) il compiangere l’afflitto. Si rischia cioè di creare una vittimizzazione. Tramite questa dinamica, la persona rimane incastrata nel proprio dolore e chiudendosi in un narcisismo che le impedisce di stare meglio [19].

β) L’effetto narcotico. Cioè il cercare di togliere di mezzo il dolore addormentando la coscienza su esso. La persona quindi è spinta dalla società a vivere come se non esistesse il dolore. Questo spinge a una superficialità, che è pericolosa perché rimanda il problema del dolore e lo aggrava[20]. In effetti fuggire da un problema significa aggravarlo.

γ) Invitare l’afflitto a guardare chi sta peggio di lui: non c’è di peggio che fare dell’esistenza come una classifica della serie A e dire chi sta meglio e chi sta peggio. Non ha senso consolare una persona dicendogli “siccome c’è chi sta peggio di te, devi stare bene” [21].

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Vediamo un po’, allora, l’opera di misericordia di consolare gli afflitti in cosa consiste per davvero. Ci saranno di aiuto le parole del presbitero Fabio Rosini che scrive:

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«Il dolore fisico può essere duro, ma se c’è una motivazione si sostiene, il cuore è sereno; se però, il dolore è senza spiegazione diventa allora insostenibile. L’afflizione ha bisogno di una parola che la riempia, che la indirizzi, di un’indicazione che ne orienti la comprensione» [22]

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La stessa parola consolazione (in ebraico nacham), biblicamente si rende coi verbi di riposare, fermarsi, trovare tranquillità o anche dare rifugio[23]. È quello che poco fa abbiamo visto fare Gesù con gli afflitti parenti di Lazzaro.  Pacificare una persona significa donargli quella parola di pienezza, di comprensione, di senso che il dolore sembra avergli sottratto.

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«Chi compie l’atto del consolare è capace di mettersi accanto al sofferente mostrandogli ciò che non riesce a vedere e consentendogli di aprire il cuore, lo sguardo, lo spirito a un’altra prospettiva, una profondità integra che dà completezza»[24].

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In un certo senso tutti i cristiani sono chiamati a consolare, ricordare che sono proprio loro i chiamati a dare questa completezza. Dunque questa è la chiamata a essere coloro che ricordano che Dio è innanzitutto speranza nella sofferenza. Ricordare al mondo e alla cultura attuale che sperare è un atto tipicamente umano, ma allo stesso tempo elevante: perché permette anche al peggiore degli afflitti di elevarsi oltre il proprio dolore. Come scrive sempre Fabio Rosini, consolare, dare speranza significa in fondo, fare un atto di misericordia che “faccia presente l’eternità, che sveli il volto di Dio nel dolore”[25]. Questo permetterà anche a noi di riprendere anzitutto a sperare. E sperare è atto tipicamente cristiano. Di più, sperare è l’atto tipicamente cattolico! Perché il credente è colui che ha riposto ogni fiducia in Gesù. E proprio come Marta e Maria, esprime ad alta voce questa sua speranza proprio nel dolore. Tenete sempre a mente questo, mentre preparate i panini per gli indigenti, mentre preparate la barella spinale, mentre risistemate i presidi di protezione civile. Sperare significa innanzitutto accendere l’attesa di un Dio che è il bene assoluto immensamente buono.

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Ciascuno di noi può essere portatore di speranza, portatori della gioia anche all’afflitto dei quartieri più poveri, all’afflitto per un lutto o per una depressione, o appunto di una disabilità. Ecco allora che rapportando queste riflessioni alla disabilità, diremo che anche la persona con disabilità, nonostante le sue afflizioni e i suoi dolori fisici, è chiamato a un cammino di gioia e di santificazione. C’è sempre un piano superiore a cui Dio Padre orienta, come ha orientato le sofferenze di Gesù della Passione, alla gioia della Resurrezione. Anche noi saremo così trasportati nella gioia della consolazione. Perché quando consoleremo un afflitto, questo ci farà scoprire davvero la gioia della nostra vita. Tutta la nostra vita sarà saper far riscoprire la presenza di un Dio Trinitario, che è con noi anche nel dolore. È amando chi è afflitto, facendo riscoprire a lui questa gioia di vivere, potremo dire insieme al poeta Giacomo Leopardi «Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando» [26].

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Roma, 4 novembre 2020

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NOTE

[1] Il lettore può consultare per approfondimenti: G. A. Stella, Diversi – La lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, Solferino, 2019, Milano.

[2] Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, III, 6, 7.

[3] A. Camilleri, Conversazioni su Tiresia, Sellerio, Palermo, 2019.

[4] A. Camilleri, op.cit.

[5] Su questa stessa linea si pone M. Schianchi, Storia della disabilità – Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma, 2012, 40.

[6] Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, traduz. di M.G. Ciani, Monadori, Milano, 1996, 55.

[7] Odissea X, 492 e sgg., Traduzione di G. Aurelio Privitera

[8] T.S. Elliott, Terra desolata citato in A. Cammileri, Conversazioni su Tiresia, 41 – 42. Ricontrollare pagina.

[9] Luca 1, 26.

[10]J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale, Morcelliana, Brescia, 69.

[11] S. Pinto, I segreti della Sapienza, Introduzione ai libri sapienziali e poetici , San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, 21 – 23.

[12] Lettera di M., un suicida trentenne, tratto da http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2017/02/07/news/non-posso-passare-il-tempo-a-cercare-di-sopravvivere-1.14839837 ultimo accesso 10/01/20 ore 18.07.

[13] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2017/02/28/fidanzata-dj-fabo-vorrei-notte-non-finisse_n_15055120.html ultimo accesso 23 marzo 2017 ore 16.43).

[14] https://www.repubblica.it/cronaca/2019/09/25/news/consulta_cappato_dj_fabo_sentenza-236870232/ ultimo accesso 10/01/10 ore 18.16.

[15]A. D’AVENIA, L’arte di essere fragili, 2016, 147.

[16] Mt 5,4

[17] Vangelo secondo Giovanni, capitolo 11.

[18] R. E. Brown, Giovanni, 2014, pp 567 – 568

[19] Fabio ROSINI, Solo l’amore crea, 2016, p. 121.

[20] Ibidem.

[21] Fabio ROSINI, op,cit, p. 122.

[22] Fabio ROSINI, p. 120.

[23] Fabio ROSINI, p. 127.

[24] Fabio ROSINI p. 129.

[25] Fabio ROSINI, p. 129.

[26] (Zibaldone 1819 – 1820.)

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«Chiesa Aperta» (V puntata) — La pastorale sanitaria nell’attuale stato di emergenza: il lavoro dei cappellani degli ospedali durante questa pandemia da coronavirus

— i Padri de L’Isola di Patmos vicini ai fedeli in questa quarantena —

«CHIESA APERTA» (V puntata) — LA PASTORALE SANITARIA NELL’ATTUALE STATO DI EMERGENZA: IL LAVORO DEI CAPPELLANI DEGLI OSPEDALI DURANTE QUESTA PANDEMIA DA CORONAVIRUS

Offriamo ai nostri Lettori questo terzo prezioso video del nostro stimato confratello Giovanni Zanchi, presbitero della Diocesi di Arezzo, affinché possa fungere anche da efficace e sapiente antidoto a tutti coloro che purtroppo, in questo momento di straordinaria crisi ed emergenza, non hanno trovato di meglio da fare che polemizzare, spesso anche in toni duri e aggressivi, contro le decisioni prese dai nostri vescovi per motivi di sicurezza a tutela della salute pubblica: sospendere le sacre celebrazioni e in molti casi chiudere le chiese. Ricordiamo che la Chiesa, nei momenti di crisi ed emergenza, non è mai stata salvata dalle polemiche di coloro che si ergono in tutti i tempi ai più fedeli tra i fedeli o ai più puri tra i puri, ma dall’unità. Qualcuno ha scritto in questi giorni che «i vescovi stanno suicidando la Chiesa italiana». Purtroppo non ha capito niente dell’essenza della fede cattolica: la Chiesa “si suicida” attaccando i vescovi, anziché seguirli e sostenerli in un momento di così grave prova. 

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RIPRESE VIDEO E MONTAGGIO A CURA DELLA EMITTENTE TELESANDOMENICO (AREZZO)

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TESTO DEL VIDEO

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I testi del Padre Giovanni Zanchi, direttore del Centro Pastorale Culto Divino della Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, non sono stati pensati come articoli ma come testi audio-narrativi. Abbiamo provveduto a trascrivere il testo audio per i nostri Lettori.

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Giovanni Zanchi

Benvenuti alla V puntata di Chiesa Aperta!

In questi difficili giorni nella nostra Italia le chiese fatte di pietre e di mattoni rimangono aperte, come segno della Chiesa che resta presente e operante in mezzo al nostro popolo (cf Conferenza Episcopale Toscana, 14 marzo 2020); le chiese rimangono aperte, anche se non si svolgono celebrazioni pubbliche. Fra le chiese aperte vi sono pure quelle interne agli Ospedali, officiate dai Cappellani ospedalieri. Questi sacerdoti, assieme ai loro collaboratori — spesso volontari — assicurano da sempre un ministero indispensabile nei luoghi ove si cura la malattia e si combatte la morte; sono il volto materno della Chiesa che consiglia, insegna, ammonisce, consola, perdona, prega.

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I verbi appena pronunciati riecheggiano le opere della misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, pregare Dio per i vivi e per i morti. Verso i malati, l’impegno del personale ospedaliero è per certi aspetti assimilabile alle opere della misericordia corporale.

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In Ospedale, accanto e assieme a chi si prodiga per la cura del corpo e della psiche, vi sono i Cappellani e i loro collaboratori, i quali si prodigano per la cura dell’anima immortale. La loro missione, sempre preziosa, è particolarmente importante in questo tempo di epidemia, nel quale è ancora più urgente adempiere al comando di Gesù, sintetizzato dalla Chiesa nella VI opera della misericordia corporale: “Ero malato e mi avete visitato … ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 35. 40).

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L’opera dei Cappellani ospedalieri ricorda a tutti che gli Ospedali sono una invenzione dei cristiani! La presenza e l’opera dei Cappellani ospedalieri sono impegnative e difficili anche in situazioni di normalità: non sempre i sofferenti sono disponibili a cercare l’aiuto di Dio; il pregiudizio materialista e scientista che ammorba la nostra società svaluta la vita spirituale e la sua necessità; il laicismo pretende di negare il valore sociale della fede e della sua espressione pubblica.

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La presenza e l’opera dei Cappellani ospedalieri sono ancor più impegnative e difficili in questo drammatico momento, in special modo nei reparti affollati di contagiati dal coronavirus: non solo per i ritmi massacranti ai quali sono assoggettati tutti coloro che lavorano negli Ospedali; non solo per la gestione delle urgenze cliniche e i protocolli di difesa dal contagio limitanti le possibilità di soffermarsi al capezzale degli ammalati; la presenza e l’opera dei Cappellani ospedalieri sono ancor più impegnative e difficili perché di fatto essi non possono avvicinare gli ammalati più gravi, anche quelli in pericolo di morte. Molti di loro muoiono purtroppo soli, senza il conforto dei Sacramenti e della vicinanza dei propri cari.

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Per la coscienza di un sacerdote questo è un fatto molto duro da sopportare! Un medico dell’Ospedale di Cremona in questi giorni ha dichiarato: «Lentamente tutti questi morti uccidono pure noi. Più passano i giorni più mi chiedo se sono ancora in grado di curare la gente, se la mia presenza qui ha ancora un senso».

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Sul piano spirituale queste parole lasciano intuire la fatica interiore alla quale possono essere esposti anche i sacerdoti che adempiono il loro ministero negli Ospedali nei quali si affronta direttamente l’emergenza sanitaria.

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Cosa fanno i Cappellani in quegli Ospedali, quali sono le loro armi spirituali nella guerra contro il Covid-19? Innanzitutto celebrano la Santa Messa nelle chiese annesse ai luoghi di cura, intercedendo per i malati, i medici, il personale, i volontari, i moribondi, i defunti e i familiari di tutti costoro; a volte per gli ammalati dei reparti è possibile assistere tramite un collegamento televisivo. Poi i Cappellani e i loro collaboratori assistono i malati meno gravi con il conforto della preghiera, dei Sacramenti, della direzione spirituale. Quindi i Cappellani sostengono spiritualmente il personale ospedaliero, sottoposto ad uno sforzo sovrumano.

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Ascoltiamo la testimonianza di un sacerdote missionario in un grande Ospedale di Milano: «Il mio lavoro quotidiano in questo momento è soprattutto quello di sostenere i medici … facciamo sempre due ore di adorazione eucaristica in chiesa. Così le persone possono entrare alla spicciolata e pregare un po’. Anche i malati che non possono venire sanno che in cappella c’è sempre qualcuno che prega per loro e che si ricorda di loro. Anche se non possiamo raggiungere i pazienti, loro sanno che non li abbiamo abbandonati» (padre Giovanni Musazzi, Ospedale “Luigi Sacco”, Milano).

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Assieme al personale medico, anche i Cappellani ospedalieri e i loro collaboratori sono i nostri eroi, impegnati senza risparmio di sé sul fronte della battaglia per sconfiggere il gran male dell’epidemia. Al personale medico giustamente molte persone fanno giungere attestati di solidarietà e di incoraggiamento; anche ai Cappellani ospedalieri e ai loro collaboratori deve andare il pubblico sostegno e la pubblica riconoscenza, perché la nostra società ha urgente bisogno di riscoprire il valore spirituale della malattia: se l’uomo non sa trovare un senso al proprio soffrire e al proprio morire, allora non può scoprire un senso nemmeno al proprio vivere in salute.

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I Cappellani ospedalieri e i loro collaboratori sono il volto della Chiesa che rimane aperta, anzi spalancata, anche in questi tempi calamitosi. Sia nelle chiese aperte fatte di pietra e di mattoni, sia nelle chiese domestiche che sono le nostre famiglie, in questi giorni si elevi fervida la preghiera di supplica e di intercessione anche per i ministri di Dio operanti negli ospedali e per i loro collaboratori, affinchè il Signore li protegga dal contagio e li aiuti a svolgere il loro indispensabile ministero spirituale.

A risentirci domani per una nuova puntata di Chiesa Aperta.

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Sansepolcro (Arezzo), 18 marzo 2020

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

I malati terminali, i disabili e il sacerdote-medico dinanzi a una “sorella” tanto temuta: quella morte alla quale si grida «O morte dov’è la tua vittoria?»

—  pastorale sanitaria —

I MALATI TERMINALI, I DISABILI E IL SACERDOTE-MEDICO DINANZI A UNA “SORELLA” TANTO TEMUTA: QUELLA MORTE ALLA QUALE SI GRIDA «O MORTE DOV’È LA TUA VITTORIA?»

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È cosa grave e profondamente sbagliata, quando i familiari dei malati gravi o dei morenti evitano di chiamare il sacerdote, sostenendo che … «altrimenti, vedendo il prete si spaventa!». Ma come può spaventare, colui che al malato grave o al morente porta la grande medicina della grazia di Dio? La verità è che a essere spaventato non è il malato grave o il morente, ma i suoi familiari che scaricano su di lui le loro paure. Forse perché non hanno mai visto morire le persone in pace con Dio, né hanno visto il bene che imprime sul malato grave o sul morente questa grazia, questa ultima medicina che solo dei ciechi e degli scellerati possono negare a coloro ai quali, tra l’altro, dicono di volere anche bene.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa
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raffigurazione di San Francesco d’Assisi e Sorella Morte

In un Paese come l’Italia, dove da quattro decenni le nascite sono inferiori rispetto alle morti, noi Padri de L’Isola di Patmos non possiamo, come teologi e pastori in cura d’anime, omettere di dar risalto al fenomeno della vecchiaia e della disabilità fisica, quindi al delicato àmbito dei malati in fase terminale. Partiamo dunque dal Vangelo di San Giovanni Apostolo dove leggiamo:

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«In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» [Gv 5, 24].

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Tutti conosciamo il bel Cantico delle Creature di San Francesco D’Assisi. La semplice bellezza di questa dichiarazione d’amore per la creazione risuona ancora dopo più di otto secoli. Eppure, c’è un passaggio che sembra poco splendente, anzi alcuni cattolici lo trovano inquietante. Proviamo allora a ricordare quei versi, dove a un certo punto il Santo di Assisi scrive:

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«Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare».

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San Francesco ringrazia Dio per la morte del corpo. Cosa che in sé può sembrare paradossale, assurda e quasi senza senso. Di tutta la creazione, perché ringraziare pure della morte del corpo? Per comprendere questo “sonetto” bisogna ricordare che per fede noi crediamo che la morte è conseguenza del peccato originale. Come scrive il teologo medievale San Giuliano di Toledo, riprendendo a sua volta San Gregorio Magno:

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«l’uomo stabilito nel Paradiso ricevette un precetto, per cui ebbe nella sua natura il potere di non morire e il potere di morire: se fosse stato trovato obbediente per l’adempimento del precetto vitale, sarebbe diventato immortale; se fosse stato trovato disobbediente per la sua prevaricazione avrebbe cominciato ad essere mortale […]» [Prognosticum futuri saeculi, libro I, III]. 

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Dunque questo è uno dei temi principali della nostra fede. E adesso, immersi nel tempo di Quaresima, viaggeremo insieme per quaranta giorni fino al momento della morte corporale di Gesù come passaggio alla resurrezione e alla vita eterna. Gesù ha affrontato, nella sua natura umana, l’evento della morte e l’ha sconfitto, essendo il primo dei risorti: in tal modo, permette a noi, un giorno, di risorgere in lui.

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Quando noi sacerdoti ci avviciniamo agli ammalati gravi, o ai morenti, compito nostro non è di dar loro «l’ultima illusione», come pensano a volte certi medici, ma dar loro quella medicina in grado di salvare le loro anime per sempre, per l’eternità. Il sacerdozio, sotto certi aspetti, può essere considerato come l’ultimo estremo grado della medicina: l’unica e sola medicina che può salvare le anime. In questi casi il sacerdote-medico, lungi dal confortare in modo illusorio, darà al malato grave e al morente la certezza di fede che la morte è un momento di passaggio. Per questo, insieme a San Francesco possiamo dire che questa «temibile Signora», come la chiamavano i sapienti medievali, è nostra sorella.

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La morte è un evento di passaggio che prima o poi tutti dobbiamo percorrere, perché è una realtà alla quale nessun umano può scampare. Al tempo stesso, però, proprio perché la morte non era un evento voluto da Dio né contemplato nell’ordine naturale perfetto da Lui creato, il solo pensiero di essa ci dà una certa tristezza, perché la morte è qualche cosa di “innaturale”, se letto alla luce della creazione. E tale è proprio perché la morte non è opera di Dio, ma conseguenza del peccato dell’uomo, che è il vero creatore della morte. Allo stesso tempo, la morte, incute in noi un certo timore. Perché dopo non sappiamo quale sarà la nostra destinazione, o perché temiamo la nostra destinazione. Nel malato grave e nel morente, questo comprensibile timore si affievolisce, o scompare del tutto, quando con certezza di fede riceve dal sacerdote-medico la grande medicina della grazia di Dio.

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Molti medici e specialisti impegnati nelle terapie del dolore e nel trattamento dei malati terminali, hanno visto pazienti sino a prima prostrati e impauriti riacquistare serenità, dopo essere stati curati dal sacerdote-medico e, non pochi medici e paramedici, compresi tra di loro persino non credenti, spesso sono i primi a dire ai familiari che forse il loro caro avrebbe bisogno del conforto del sacerdote.

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Con tanta sensibilità e spirito contemplativo, dopo aver provato ad intuire il grande mistero della morte, proviamo allora semplicemente a pregarlo, a entrare in sintonia con questa grande sorella, al tempo stesso temuta e quasi volutamente dimenticata, pensando che con essa sarà la nostra Pasqua, il nostro passaggio alla vita eterna. In fondo al tunnel dell’esistenza non c’è il vuoto più assoluto, ma il trampolino del “salto finale” nell’eterno infinito di Dio. Dopo il salto, c’è il tempo definitivo. Potremo allora, con Gesù, fare nostre i versi del letterato e poeta inglese John Donne

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«La morte non sarà più morte. E tu, morte morrai».

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È cosa grave e profondamente sbagliata, quando i familiari dei malati gravi o dei morenti evitano di chiamare il sacerdote, sostenendo che … «altrimenti, vedendo il prete si spaventa!». Ma come può spaventare, colui che al malato grave o al morente porta la grande medicina della grazia di Dio? La verità è che a essere spaventato non è il malato grave o il morente, ma i suoi familiari che scaricano su di lui le loro paure. Forse perché non hanno mai visto morire le persone in pace con Dio, né hanno visto il bene che imprime sul malato grave o sul morente questa grazia, questa ultima medicina che solo dei ciechi e degli scellerati possono negare a coloro ai quali, tra l’altro, dicono di volere anche bene.  A tal punto bene da pensare che, l’estremo conforto della grazia di Dio che sana le ferite dell’anima, possa persino spaventarli.

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Roma, 4 marzo 2020

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