Cambia il “Padre Nostro” per volere del Sommo Pontefice, mentre c’è chi prega che il Padre Nostro cambi lo stile di governo del Sommo Pontefice

— attualità ecclesiale —

CAMBIA IL PADRE NOSTRO PER VOLERE DEL SOMMO PONTEFICE, MENTRE C’È CHI PREGA CHE IL PADRE NOSTRO CAMBI LO STILE DI GOVERNO DEL SOMMO PONTEFICE

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Dinanzi ad una decadenza morale e dottrinale senza precedenti come quella che stiamo vivendo, pare che qualcuno non abbia trovato di meglio da fare che usare una parola del Pater Noster e l’apertura del Gloria come delle armi di dissuasione di massa …

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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…merita sempre avere un buon dizionario

La Conferenza Episcopale Italiana ha stabilito — ovviamente nella piena, totale, collegiale e sinodale libertà dei figli di Dio —, la modifica della Preghiera del Padre Nostro nella nuova edizione del Messale Romano [cfr. QUI], dove la frase «non indurci in tentazione» diventa «non abbandonarci alla tentazione». Volendo, avrebbero potuto usare l’espressione «e non esporci alla tentazione», però, alla “esposizione” in uso presso le Comunità Evangeliche Valdesi, hanno preferito una espressione di “abbandono”, forse valutando che mai, come in questa nostra epoca, ci siamo abbandonati a noi stessi. La sostanza resta però la stessa: i Cattolici, come i Protestanti, hanno mutata un’espressione che affonda le proprie radici nei testi più antichi, come tra poco vedremo. E i primi, come i secondi, hanno entrambi rivendicato: il ritorno alle autentiche origini dei testi.

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Il Padre della Chiesa Tertulliano [Cartagine 155 – Cartagine 227], spiega che il Padre Nostro, la Preghiera che il Verbo di Dio stesso ci ha insegnato [cfr. Mt 11, 1] «è la sintesi di tutto il Vangelo». Questa affermazione dovrebbe indurre quanto meno all’uso della totale cautela nel toccare anche un solo sospiro di questo testo.

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Per quanto riguarda la frase “incriminata” che recita: «et ne nos inducas in tentationem» [e non ci indurre in tentazione], nel discorso n. 57 dedicato al Passo del Beato Evangelista Matteo [cfr. Mt 6, 9-13], il Santo Dottore della Chiesa Agostino Vescovo d’Ippona è molto chiaro ed esaustivo nello spiegare che Dio non può compiere il male, però permette che esso operi attraverso Satana e con lui gli Angeli caduti che lo realizzano. Certo, Dio non tenta nessuno verso il peccato, però permette che le forze del male inducano i cristiani a cadere in esso. Tutto questo, è racchiuso nel principio stesso della creazione, presupposto fondante della quale sono la libertà e il libero arbitrio dell’uomo. Altrettanto illuminante commento al Pater Noster e alla frase “incriminata” ci è donato dal Santo Dottore della Chiesa Tommaso d’Aquino, che ricalcando in buona parte l’Ipponate afferma: 

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«Dio induce forse al male, quando ci fa dire “non ci indurre in tentazione”? Rispondi che si dice che Dio induce al male nel senso che Egli lo permette, giacché a causa dei suoi numerosi peccati precedenti sottrae l’uomo alla grazia, venuta meno la quale cade nel peccato» [cfr. San Tommaso d’Aquino, Commento al Padre nostro, 6].

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…merita sempre avere un buon dizionario

Prima dell’Ipponate e dell’Aquinate, un altro Padre della Chiesa, il Santo Vescovo Cipriano di Cartagine [Cartagine 210 – Cartagine 258], spiega che Dio può dare il potere al Demonio in due modi: per il nostro castigo, se abbiamo peccato, oppure per la nostra glorificazione, se invece accettiamo la prova. E questo, spiega il Santo Vescovo e Dottore [cfr. Patrologia latina del Migne – Vol. IV Cyprianus carthaginensis De oratione dominica], fu ad esempio il caso di Giobbe: «Ecco, tutto quanto gli appartiene io te lo consegno; solo non portare la mano su di lui» [Gb 12, 1]. Il Signore stesso, nel momento della sua passione, dice: «Non avresti su di me nessun potere se non ti fosse stato dato dall’alto» [cfr. Gv 19, 11]. Quando dunque preghiamo per non entrare in tentazione, ci ricordiamo della nostra debolezza, affinché nessuno si consideri con compiacenza, nessuno si inorgoglisca con insolenza, nessuno si attribuisca la gloria della sua fedeltà o della sua passione, allorché il Signore stesso ci insegna l’umiltà quando dice:

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«Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è ardente, ma la carne è debole» [Mc 14, 38].

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Un altro grande Padre della Chiesa, Origene [Alessandria 185 – Tiro 254], per commentare il «et ne nos inducas in tentationem» parte dal Beato Apostolo Paolo che scrivendo agli abitanti di Corinto afferma:

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«Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» [I Cor 10, 13].

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Chiarisce così Origene:

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«Che significa dunque il comando del Salvatore di pregare a non indurci in tentazione, dal momento che Dio stesso quasi ci tenta? Dice infatti Giuditta, rivolgendosi non soltanto agli anziani del suo popolo, ma a tutti quelli che avrebbero letto queste parole: “Ricordatevi di quanto operò con Abramo e quanto tentò Isacco e tutto quello che accadde a Giacobbe che pasceva in Mesopotamia di Siria il gregge di Laban, fratello di sua madre; poiché non come purificò costoro per provare il loro cuore, Colui — il Signore — che flagella per emendarli quelli che gli si avvicinano, castigherà anche noi”. Anche Davide, quando dice: “Molte sono le afflizioni dei giusti”, conferma che questo è vero per tutti i giusti. L’Apostolo, a sua volta, negli Atti dice “perché attraverso molte tribolazioni dobbiamo entrare nel regno di Dio” [cfr. At 14, 22]» [Origene, Commento al Padre Nostro].

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Non è comunque da escludere che in un vicino futuro, una squadra di esegeti provveda quanto prima a cambiare anche la pagina del Vangelo del Beato Evangelista Matteo che narra del Demonio che tenta l’uomo Gesù nel deserto [cfr. Mt 4, 1-11], dove il Divino Figlio non si è rivolto al Divino Padre domandando: «E non abbandonarmi alla tentazione», posto che il Creatore permise che Satana lo inducesse in tentazione.

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Dovranno poi intervenire i biblisti per riscrivere e attualizzare anche vari passi biblici secondo le direttiva della nuova gestione e secondo la «rivoluzione epocale» in corso, visto che Dio ci mette alla prova e ci rafforza permettendo che noi fossimo tentati. Non possiamo infatti dimenticare che l’uomo è immerso nelle tentazioni sin dalla sua caduta con la conseguente entrata nella scena del mondo e dell’umanità del peccato originale. Leggiamo infatti nei testi vetero testamentari: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione» [Sir 2,1]. Ma soprattutto è bene ricordare che la Chiesa, in documenti non certo sospetti, giacché si tratta di una delle costituzioni del Concilio Vaticano II, da molti ritenuto il concilio dei concili, ricorda che la tentazione è legata al valore di quella libertà che nell’uomo è il «segno altissimo dell’immagine divina» [Gaudium et spes, 8].

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Un altro testo da correggere è sicuramente quello della Lettera agli Ebrei laddove l’Autore, riprendendo la letteratura dei Salmi, spiega in che modo gli stessi uomini osarono di tentare Dio:

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non indurite i vostri cuori
come nel giorno della ribellione,
il giorno della tentazione nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri mettendomi alla prova,
pur avendo visto per quarant’anni le mie opere [Eb 3, 8-9].

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Proviamo allora ad andare alla fonti più antiche, perché da mezzo secolo a questa parte siamo spettatori e vittime delle gesta e delle varie «rivoluzioni» di coloro che vogliono “tornare alle origini”. Più volte ho spiegato nei miei scritti che certi teologi, col pretesto di origini che in verità non sono mai esistite nella storia antica, vogliono invece imporre il proprio pensiero moderno. Ma se di origini vogliamo parlare, allora basterà dire che la Preghiera del Padre Nostro, nell’antico ed originario testo aramaico, recita:

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La frase “incriminata” proclama alla lettera testuali parole: «e non portarci in tentazione».

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Quando dall’originale testo il Pater Noster fu tradotto dall’aramaico al greco, per evitare di caricare la frase con una lunga perifrasi è usato soltanto un verbo che significa “indurre” o “far entrare”:

 

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E se il greco non è un’opinione, la frase “incriminata” tradotta alla lettera recita proprio: «Non ci indurre in tentazione». Da questi due testi nasce la terza traduzione, quella latina, del tutto aderente e fedele al testo originale greco:

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Pater Noster qui es in cælis: 

sanctificetur nomen tuum;

adveniat regnum tuum;

fiat voluntas tua, 

sicut in cælo, et in terra.

Panem nostrum cotidianum da nobis hodie;

et dimítte nobis debita nostra, 

sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;

et ne nos inducas in tentationem,

sed libera nos a malo.

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Agli amanti dei “ritorni alle origini” va ricordato che la frase “incriminata” «Non ci indurre in tentazione», deriva dal greco εἰσενέγκῃς, da cui la fedele traduzione latina inducas, che nella lingua italiana è altrettanto fedelmente tradotta con indurre. Detto questo è d’obbligo e di rigore chiedersi: si rendono conto gli amanti del ritorno alle autentiche origini, che, stando così le cose, questo “errore” oggi finalmente corretto, risale ai tempi delle prima epoca apostolica?

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Se i testi patristici conosciuti da secoli sono quelli tutt’oggi noti, se le lingue antiche e le loro traduzioni fedeli sono quelle che sono, ecco allora che ciascuno, senza essere indotto ad alcuna tentazione, può trarre da se stesso le proprie conclusioni, dato che in nome di un non meglio precisato ritorno alle origini si è alterato quell’originale che è tale sin dalle aramaiche e greche origini più remote, ed è tale prima del latino e molto prima delle attuali lingue moderne.

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…merita sempre avere un buon dizionario

Il problema che forse si cela dietro a questa ennesima querelle, temo che abbia poco di teologico e molto di socio-politico, il tutto con delle strategie più o meno limpide. O per meglio spiegare il problema: la Chiesa Cattolica sta vivendo il periodo forse più tragico della propria intera storia. Siamo in un clima di grande decadenza dottrinale dal quale ha preso vita una profonda crisi morale, perché la crisi morale, nella Chiesa nasce sempre da una crisi dottrinale. Non occorre ricordare che ormai non passa giorno, senza che qualche vescovo o prete non salti agli onori delle cronache per scandali quasi sempre molto gravi. La decadenza e la crisi morale, dal Collegio Sacerdotale ha finito per infettare il Collegio Episcopale, ed appresso il Collegio Cardinalizio. La nostra crisi di credibilità spazia ormai tra il tragico e il comico-grottesco. È quindi singolare che in un momento senza precedenti storici come quello che stiamo vivendo, non si trovi di meglio da fare che ritoccare le parole del Pater Noster e del Gloria.

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Questa vicenda ricorda la storia del dittatore Saddam Hussein accusato di nascondere arsenali d’armi di distruzione di massa. Quelle armi non furono mai trovate, però, con tutte le implicazioni politico-economiche che ne seguirono, si sono avute due guerre nel Golfo che hanno destabilizzato gli assetti politici ed economici. Così, poco dopo, si cominciò a parlare di … armi di dissuasione di massa.

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Dinanzi a una decadenza morale e dottrinale senza precedenti come quella che stiamo vivendo, pare che taluni non abbiano trovato di meglio da fare che usare una parola del Pater Noster e l’apertura del Gloria come delle armi di dissuasione di massa, convinti e sicuri che nessuno avrebbe mai capito e scoperto il loro gioco …

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καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν

et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo.

E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.

Amen !

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dall’Isola di Patmos, 16 novembre 2018

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Articolo pubblicato il 16 novembre 2018 e proposto nuovamente il 24 novembre 2020 in occasione della pubblicazione della nuova edizione tipica del Messale Romano

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Una spiegazione al «non ci indurre in tentazione» del teologo domenicano Giuseppe Barzaghi [per aprire il video cliccare sopra l’immagine]

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Fare “esperienza di Cristo” nell’Eucaristia non è egocentrismo clericale, come il Cardinale Mario Grech e il gesuita Antonio Spadaro vorrebbero farci intendere, ma è nutrirsi di quella speranza cristiana che si è fatta carne

— attualità ecclesiale —

FARE “ESPERIENZA DI CRISTO” NELL’EUCARISTIA NON È EGOCENTRISMO CLERICALE, COME IL CARDINALE MARIO GRECH E IL GESUITA ANTONIO SPADARO VORREBBERO FARCI INTENDERE,  MA È NUTRIRSI DI QUELLA SPERANZA CRISTIANA CHE SI È FATTA CARNE.

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[…] Seguendo la trama del film Dogma, scopriamo come la figura del Cristo Compagnone è stata ideata da un uomo di Chiesa, da un rinnovatore diremmo oggi, un certo Cardinale Glick ― interpretato da George Carlin ― nell’ambito di una campagna denominata “Catholicism Wow!” che mira a rinnovare l’immagine della Chiesa Cattolica rendendola più “in uscita”, proprio a partire dalla riforma dell’immagine di Cristo.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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non è più il futuro, ormai è il presente …

Dalle nostre colonne de L’Isola di Patmos ho ribadito più e più volte che, l’attuale tempo di pandemia, dovrebbe portare la Chiesa a riprendere in mano una riflessione teologica seria sulla virtù della speranza cristiana. Tale riflessione appare quanto mai necessaria perché la speranza è quella virtù che ci insegna a vivere nel mondo come credenti, conducendoci ― secondo l’insegnamento del beato Duns Scoto ― a desiderare Dio in ogni situazione della vita, sia essa favorevole o avversa, Lui che è il nostro bene supremo, dal quale riceviamo tutti i bene necessari alla nostra santificazione [cfr. A. Tanquerey, Compendio di Teologia Ascetica e Mistica, S. Paolo 2018, p 581].

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Quando nella vita siamo toccati da eventi che provocano la nostra fragilità è particolarmente triste vivere senza la virtù della speranza ma è ancora più triste vivere con una speranza privata del suo fondamento teologico, specie se questa speranza svuotata mette radici nel cuore di chi dovrebbe essere credente.

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Dice Benedetto XVI: «quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos ― il senso e la ragione ― della loro speranza (cfr 3,15), “speranza” è l’equivalente di “fede”» [cfr. Benedetto XVI, Lettera Enciclica, Spe Salvi, n.2]. Perciò il discorso è chiaro: la ragione per cui speriamo sta nel fatto che nella pienezza dei tempi [Gal 4,4], il Logos del Padre si incarna e, nell’assumere un corpo umano, risana tutti coloro che si trovano afflitti dal dolore della disperazione [cfr. 1Ts 4,13] o a causa di una falsa speranza.

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Tale speranza incarnata ― che è Cristo ― suscita la fede nel nostro cuore che ha nell’esclamazione dell’apostolo Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!» [Gv 20,28] la più bella sintesi della speranza ritrovata informata dalla fede.

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Partendo da questa constatazione dobbiamo segnalare come nella conseguente emergenza sanitaria, stiamo attraversando una ben precisa crisi di speranza che è il naturale corso di una crisi di fede verso la persona di Cristo visto non come il Logos di Dio incarnato ma come un palliativo privo di fondamento salvifico.

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Eccoci giunti alla conclusione del nostro ragionamento, se facciamo fatica a vivere la virtù della speranza è solo perché facciamo fatica a stare dentro la fede, adorando un Cristo svuotato dalla sua divinità, che propone una speranza ugualmente svuotata del logos divino. Egli non è più il Risorto portatore di speranza, così come recita l’antica Sequenza della liturgia pasquale: «Cristo, mia speranza, è risorto!», ma assume i tratti del Cristo Compagnone del film Dogma del 1999, in cui Gesù è caratterizzato da un aspetto allegro e cordiale, ampio sorriso e occhio ammiccante, indice della mano destra puntato e pollice della mano sinistra alzato in segno di approvazione. Insomma, una maschera grottesca di quel Salvatore che pur presentandosi al mondo in modo “inclusivo” resta però incapace di salvare gli uomini proprio perché troppo impegnato a dispensare calde pacche sulle spalle verso una modernità relativizzata e relativizzante. Per inciso: il libro che noi Padri de L’Isola di Patmos abbiamo dato da poco alle stampe, “La Chiesa e il coronavirus”, si apre proprio con un capitolo del nostro confratello domenicano Padre Gabriele Giordano M. Scardocci che fa un riferimento pertinente a questa pellicola cinematografica [visitate il nostro negozio librario, QUI].

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Seguendo la trama del film Dogma, scopriamo come la figura del Cristo Compagnone è stata ideata da un uomo di Chiesa, da un rinnovatore diremmo oggi, un certo Cardinale Glick ― interpretato da George Carlin ― nell’ambito di una campagna denominata “Catholicism Wow!” che mira a rinnovare l’immagine della Chiesa Cattolica rendendola più “in uscita”, proprio a partire dalla riforma dell’immagine di Cristo.

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Purtroppo, dalla finzione cinematografica si passa alla tragica realtà in cui ci troviamo a interagire non più con personaggi inventati ― come il cardinale Glick del film Dogma ― ma con altri ben più concreti, come il gesuita Antonio Spadaro e il Cardinale Mario Grech. Persone reali, corifei del pensiero di Yves Congar, che sono da lungo tempo impegnati nella corsa al restyling ecclesiastico che desidera per la Chiesa un nuovo modo di essere, di parlare, di agire e di impegnarsi. Così, attraverso una bella intervista a braccio, di quelle che in questi tempi vanno tanto di moda per preparare gli animi al cambiamento, ci danno da intendere che «durante la pandemia è emerso un certo clericalismo, anche via social» e che l’impossibilità di non poter celebrare l’Eucaristia coram populo abbia messo in evidenza quel «grado di esibizionismo e pietismo che sa più di magia che di espressione di fede matura» [Cfr. La Civiltà Cattolica, QUI]. In altre parole, ci stanno dicendo che dietro lo sforzo di numerosi sacerdoti che hanno celebrato la Santa Messa senza il popolo ― ma sempre pro populo ― attraverso le nuove forme di comunicazione si nasconde un bieco clericalismo e un pastoralismo ego centrato ed esibizionista, che assume le fattezze di un elegante voyeurismo liturgico per quei pochi irriducibili preti messaioli”. Insomma, oltre al danno, pure la beffa.

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Ci rendiamo conto della stravaganza e dell’assurdità di tali affermazioni solo se le confrontiamo alla luce dell’inclusivismo pastorale più radicale che abbiamo sperimentato un anno fa. Inclusivismo che ha messo a dura prova ― nei fatti legati all’apoteosi della Pachamama durante il Sinodo Panamazzonico ― ogni buon senso, con la conseguente mortificazione di diversi contesti liturgico-ecclesiali per niente distanti dalla Sede di Pietro.

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Insomma, in nome dell’aggiornamento, anche una pandemia può fare al caso dei novatori, se questa riesce di fatto a scalzare il dominio dei vecchi ministri sacri ordinati e promuovere la nuova ministerialità laica verso una frontiera in cui il sacerdozio comune e la soteriologia dell’immediato tracciano la nuova immagine della Chiesa. Per questo motivo è utile ricordare come la Spe Salvi metteva in risalto il pericolo di una speranza intesa come fede nel solo progresso umano, fondata sulla ragione e sulla libertà dell’uomo, ma svincolata dalla grazia di Cristo.

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Capiamo molto più chiaramente questo ragionamento se seguiamo il proseguo dell’intervista:

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«nella situazione che impediva la celebrazione dei sacramenti non abbiamo colto che c’erano altri modi attraverso i quali abbiamo potuto fare esperienza di Dio». Tra i servizi citati appare quello sanitario che ha «trasformato i reparti ospedalieri in altre cattedrali».

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Queste parole sembrano sensate ma nella complessità dell’intervista nascondono un sottile trabocchetto, infatti il Cardinale Mario Grech non ha in mente di citare ― e si guarda bene dal farlo ― i numerosi cappellani ospedalieri che hanno assistito i malati di Covid-19 con la grazia dei Sacramenti, impartendo l’assoluzione in articulo mortis e rappresentando in quel frangente una Chiesa presente, madre premurosa, che rimane sotto la croce della malattia e veglia là, dove tutti gli altri fuggono. Per il presule spicca solo il servizio umanitario dei sanitari in cui ragione e libertà assurgono a valori assoluti del nuovo sacerdozio, molto più vicino all’etica massonica che a quella evangelica.

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Sebbene il servizio del corpo sanitario sia altamente meritorio, necessario e determinante in contesti pandemici, resta però sempre un servizio vincolato dalla immanenza, che non riesce ad oltrepassare in alcun modo la trascendenza della morte corporale quando questa si presenta come il naturale esito di una malattia importante, qual è il Covid-19. Né tantomeno questo servizio umanitario può donare quella caparra di vita eterna che solo Cristo concede attraverso il ministero e l’opera dei suoi sacerdoti nella Chiesa.

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L’uomo nella sofferenza ha un estremo bisogno di percepire chiaramente quella speranza certa che gli fa dire:

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«Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» [Rm 8, 38-39].

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Questa speranza certa e ricca di fede si contempla nel Cristo crocifisso che si dona alla misteriosa contemplazione dei fratelli ammalati e sofferenti attraverso il sacrificio giornaliero dell’altare. In ogni Santa Messa offerta e celebrata, il “pro vobis et pro multis” apre gli uomini alla speranza certa di redenzione mediante l’amore, in cui il sacrificio incruento dell’altare fa partecipare a quella «beata speranza» [cfr. Tt 2,13] che attende tutta quanta la Chiesa ogni qual volta obbedisce al comando del suo Signore: «Fate questo in memoria di me».

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Per questo motivo è necessario in ogni tempo di tribolazione ricorrere alla Santa Messa come rimedio divino, perché nella sua celebrazione fedele, “per ritus et preces” [Sacrosanctum Concilium, n. 48], gli uomini siano accompagnati costantemente dalla speranza divina che non abbandona mai l’uomo e dona forze nuove per andare avanti e sperare contro ogni speranza [cfr. Rm 4,18].  

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L’intervistatore di Civiltà Cattolica domanda al neo-cardinale: «Qual è dunque la sfida per l’oggi?». Risponde il Porporato:

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«Quando il tempio di Gerusalemme, dove Gesù pregava, fu distrutto, gli ebrei e i gentili, non avendo il tempio, si sono riuniti attorno alla tavola di famiglia e hanno offerto sacrifici con le loro labbra e la preghiera di lode. Quando non poterono più seguire la tradizione, sia gli ebrei sia i cristiani presero in mano la Legge e i Profeti e la reinterpretarono in modo nuovo [cfr. T. Halik, “Questo è il tempo per prendere il largo”, in Avvenire, 5 aprile 2020, 28] Questa è la sfida anche per oggi».

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Sinceramente non riesco a capire la frase: «[…] sia gli ebrei sia i cristiani presero in mano la Legge e i Profeti e li reinterpretarono in modo nuovo». Forse non comprendo questa frase perché, non solo, non è corretta né vera, ma perché Nostro Signore Gesù Cristo ammonisce:

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«In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli» [Mt 5, 18-19].

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Fa eco a queste parole il Beato apostolo Paolo:

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«[…] vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!» [Gal 1, 7-9].

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Qualcuno, intende veramente … reinventare la Chiesa? Forse come già in passato dichiarò un altro sapiente gesuita, Federico Lombardi, che dalla Sala Stampa della Santa Sede, il 3 maggio 2013, affermò: «Enzo Bianchi ci aiuta a reinventare la Chiesa»? [cfr. QUI]

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Laconi, 8 novembre 2020

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Ricordiamo ai  Lettori che è in vendita il libro dei Padri de L’Isola di Patmos, che potete ordinare sin da ora e riceverlo entro pochi giorni. Basta entrare nel nostro negozio librario: QUI.

 

 

 

 

 

 

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La legge Scalfarotto-Zan sulla transomofobia? I clericali puritani parlano un linguaggio paludato che la società non comprende più, io invece dico parolacce perché sono un prete che evangelizza

— attualità ecclesiale —

LA LEGGE SCALFAROTTO-ZAN SULLA TRANSOMOFOBIA? I CLERICALI PURITANI PARLANO UN LINGUAGGIO PALUDATO CHE LA SOCIETÀ NON COMPRENDE PIÙ, IO DICO INVECE PAROLACCE PERCHÉ SONO UN PRETE CHE EVANGELIZZA

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Miei cari Lettori, se dopo l’approvazione già avvenuta alla Camera, questo disegno di legge passerà anche al Senato della Repubblica, vi comunico che finalmente “saremo” liberi di prenderlo nel culo ai sensi di legge. Come se in passato, la legge italiana, avesse impedito, a chiunque lo voleva e lo desiderava, di prenderlo tranquillamente nel culo.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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le vignette di Alfio Krancic, 2015

Oggi ci troviamo in questa situazione di sfacelo perché un esercito di pretini con la voce in falsetto e di laici catto-puritani nevroticamente attenti alla parolina ― casomai qualcuno avesse dimenticati gli atteggiamenti tipici dei vecchi farisei ―, anziché dire merda dicono cacca, oppure meglio pupù. Quando poi si ritrovano dinanzi all’idiota conclamato, reso pericoloso dal fatto che non ragiona, i pretini con la voce in falsetto e i laici catto-puritani agitano il ditino con l’occhio mistico volto verso il cielo e con voce mielosa gli dicono: “Ti prego, sciocchino, non dire queste cose, altrimenti la Madonnina piange!”. O pensate forse  che il pretino con la voce in falsetto e i vecchi catto-puritani al suo seguito, dicano all’idiota con minacciosa voce baritonale: “Vuoi smetterla di fare lo stronzo?”.

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E tra una “pupù” e uno “sciocchino”, oggi rischiamo di finire fottuti dall’agguerrito esercito delle froce arcobaleno che non vogliono una legge contro la transomofobia, bensì tappare la bocca a chiunque oserà dissentire dai “dogmi” imposti dalla gaystapo, che non mira a tutelare i «piglianculo» per opera dei «quaquaraquà» ― neologismi di Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta ―, perché ciò che bramano è di perseguire il reato di opinione. Insomma: mettere in croce gli altri mentre loro si dichiarano povere vittime perseguitate.

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L’8 ottobre, in diretta dagli studi Mediaset di Milano, interloquendo con l’On. Alessandro Zan collegato da Roma, posi una domanda ben precisa:

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«Faccio un esempio molto concreto: nella lettera ai Corinzi il Beato Apostolo Paolo ammonisce dicendo che né adulteri, né avari, né effeminati, né sodomiti […] entreranno nel regno dei cieli (cfr. I Cor 6, 9-11). Al termine di questa epistola, nelle chiese non diciamo “parola del Padre Ariel” o “parola dei Vescovi” ma “Parola di Dio”. Ebbene voglio sapere: domani, se leggo e spiego questa Epistola, non è che mi arrivano i carabinieri?» [vedere video, QUI dal minuto 02:07:20 a seguire].

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fiabe per bambini ad uso scolastico per l’indottrinamento gender

Come potete vedere dal filmato, il nostro parlamentare non rispose. Frattanto Vlady Guadagno, in arte Luxuria, urlava in sottofondo «nemmeno i pedofili … nemmeno i pedofili …» entreranno nel regno dei cieli. Ciò per sottintendere che la pedofilia è faccenda che riguarderebbe solo la Chiesa e i preti, mica i non pochi ricchi e ricchioni ultra cinquantenni che vanno a caccia di adolescenti che approdano nei circoli gay come piccoli marchettari in fiore per uscirne coi soldi per il nuovo Iphon? No, quella è cosa buona e giusta, in fondo li introducono solo alle meraviglie dell’amore omosex, vi pare? La pedofilia, o meglio quella efebofilia chiamata impropriamente pedofilia, riguarda solo la Chiesa e i preti, mica i ricchi e ricchioni a caccia di adolescenti.

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Se le mie reminiscenze di diritto penale ― materia che ho abbandonata da oltre due decenni ― non sono totalmente arrugginite, mi risulta che il legislatore interviene con le leggi per colmare un vuoto normativo. Domandiamoci: premesso che tutti coloro che hanno aggredito omosessuali o lesbiche, sono stati condannati dai giudici dei tribunali penali italiani, che con meritorio e lodevole zelo hanno sempre e di rigore applicata giustamente l’aggravante; premesso che la Chiesa Cattolica condanna in modo deciso e severo qualsiasi forma di discriminazione delle persone omosessuali, ebbene: mi spiegate quale vuoto normativo andrebbe a colmare questa legge? Ve lo dico io: nessuno.

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fiabe per bambini ad uso scolastico per l’indottrinamento gender

La legge Scalfarotto-Zan mira a due cose essenziali, entrambe pericolose: a dare vita all’interno delle scuole a un vero e proprio indottrinamento sul gender e a perseguire i reati di opinione di chiunque osi opporsi alla “cultura di morte” della gaystapo. Proprio così, perché è esattamente questo che intendono tutelare coloro che rivendicano il diritto al matrimonio omosessuale o all’acquisto di bimbi da uteri in affitto o da madri surrogate: la cultura della morte da instillare in una società civile che già versa, come quella europea, in stato avanzato di decadenza.

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E qui torniamo al mio esempio di poc’anzi: nessuno ci chiederà di censurare l’Epistola paolina indirizzata ai Corinzi o di cancellarla dai Santi Vangeli. Perché non sono scemi, bensì molto intelligenti. Quindi se la prenderanno con noi che la predicheremo e la spiegheremo, quella Epistola. E vi spiego come ciò accadrà: quella domenica ci sarà in chiesa l’immancabile catto-finocchio che si dichiarerà colpito, vilipeso, oltraggiato ed escluso dalle parole del prete che se l’è presa con «effeminati» e «sodomiti». Presto detto: potremo anche leggere quell’Epistola Paolina, ma solo per spiegare quanto il Beato Apostolo fosse poco accogliente e includente, perché era un rigorista appartenente a tempi diversi. Per questo noi, da lui, prenderemo le dovute distanze con il cuore che pulsa arcobaleni.

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Miei cari Lettori, se dopo l’approvazione già avvenuto alla Camera, questo disegno di legge passerà anche al Senato della Repubblica, vi comunico che finalmente “saremo” liberi di prenderlo nel culo ai sensi di legge. Come se in passato, la legge italiana, avesse impedito, a chiunque lo voleva e lo desiderava, di prenderlo tranquillamente nel culo.

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fiabe per bambini ad uso scolastico per l’indottrinamento gender

Ma così stando le cose, allora a che cosa mira in concreto questa legge? Al semplice fatto che domani, chiunque esprimerà qualsiasi forma di dissenso e di umano ribrezzo verso la pratica della sodomia, in un modo o nell’altro recherà offesa a chi da sempre è libero di praticarla, quindi sarà penalmente perseguibile.

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Ho usato un linguaggio da camionista scurrile o da scaricatore di porto senza freni inibitori? Può essere, ma una cosa resta certa: mentre gruppetti di pretini accoglienti e includenti che arrossiscono come fanciulle alle prime mestruazioni se qualcuno osa dire solo “cacca”; mentre i nostri vescovoni, dinanzi al tutto, diranno timidamente solo “sciocchino”, se questa legge passerà anche al Senato noi ci ritroveremo con le mani legate e la museruola alla bocca per opera di coloro che rivendicano il sacrosanto diritto, peraltro mai negato a nessuno, di darlo e di prenderlo come e dove vogliono.

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Signori Vescovi, non stracciatevi le vesti dinanzi al mio turpiloquio che ha una logica ben precisa. Soprattutto: non cadete nella mia trappola, stracciandovi le vesti sulla forma, pur di fuggire dall’orrida sostanza che non avete né le capacità né il coraggio di affrontare. Piuttosto pensate a ciò verso il quale state andando incontro con rara e incosciente pavidità. Pensate a ciò che davvero è volgare per quanto disumano: domani, quando vi imporranno l’insegnamento del gender nelle scuole cattoliche private-parificate, salvo togliervi in caso contrario i finanziamenti statali, quindi facendole chiudere, che cosa farete? Forse agiterete timidamente il ditino con l’occhio mistico al cielo sospirando “sciocchino”?

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fiabe per bambini ad uso scolastico per l’indottrinamento gender

Tra un turpiloquio e l’altro concludo con impeccabile teologia: se Dio Padre non ha impedito ad Adamo ed Eva di commettere il peccato originale, pur con tutte le conseguenze che ne sono derivate all’umanità, poiché mai avrebbe potuto mettersi contro la libertà e il libero arbitrio che lui stesso aveva donato al momento della loro creazione, posso forse io impedire a due maschietti con gli ormoni che funzionano al contrario di giocare al rinculino? Giammai! Se lo prendano e se lo diano pure dove e quanto vogliono, ma non osino strepitare se qualcuno affermasse pubblicamente che potendo scegliere, preferirebbe essere sgozzato da quelli dell’Isis che essere sodomizzato da un altro uomo. Non osino urlare “alla discriminazione” se insegnanti cattolici o non cattolici, in scuole cattoliche o laiche, si rifiuteranno, in coscienza e per coscienza, di infondere negli animi dei bambini i misteri della satanica chiesa gaycentrica della lobby gay arcobaleno.

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Certo, contrariamente alla confusa Chiesa del “nuovo corso” animata da un esercito di ecclesiastici gay friendly, come cattolico, prete e teologo ho ben chiara la sostanziale differenza che corre tra la libertà che l’uomo ha di commettere peccati e ciò che oggi molti rivendicano come sacrosanto diritto al peccato. Tutti possono liberamente peccare, ma nessuno può rivendicare il diritto al peccato, tanto meno trascinarlo e inserirlo all’interno della Chiesa come una “preziosa diversità da accogliere”, perché la Chiesa accoglie e sempre accoglierà il peccatore, è fondamento della sua missione, ma non può né mai potrà accogliere il peccato e chiamare il bene male e il male bene.

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fiabe per bambini ad uso scolastico per l’indottrinamento gender

Ecco, ho donato all’uomo della strada e all’uomo in generale, amici froci inclusi ai quali da sempre voglio tanto bene, quella efficace chiarezza evangelica che tra “pupù” e “sciocchini”, certi nostri preti e molti nostri vescovoni non sono purtroppo più in grado di donarvi. Per questo la Chiesa italiana rischia di finire imbavagliata dalla gaystapo arcobalenista. Ma questo lo capiranno solo domani, quando gli arriveranno i carabinieri nelle chiese o quando dovranno insegnare obbligatoriamente la teoria del gender, se non vorranno chiudere le scuole cattoliche.

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E adesso ditemi: sono volgare io, oppure, dinanzi a Dio, al Santo Vangelo e alla nostra missione salvifica sulla terra a noi affidata da Gesù Cristo, i volgari sono quelli che si limitano ad agitare il ditino, con l’occhio mistico rivolto al cielo, sospirando al massimo … “sciocchino”?

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.dall’Isola di Patmos, 7 novembre 2020

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NOVITÀ ― L’aspirina dell’Islam moderato. Quando l’Europa inventa ciò che non esiste e nega il pericolo reale

— negozio librario delle Edizioni L’Isola di Patmos —

NOVITÀ ― «L’ASPIRINA DELL’ISLAM MODERATO. QUANDO L’EUROPA INVENTA CIÒ CHE NON ESISTE E NEGA IL PERICOLO REALE» 

I nuovi colonizzatori musulmani hanno scoperto un sistema più efficace della spada e della guerra per giungere alla conquista delle popolazioni degli infedeli: servirsi della democrazia e di quei principi intangibili della laicità degli stati che pure rigettano, ma di cui fanno ampio uso per imporsi nei Paesi dell’Occidente.

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Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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il libro è in distribuzione dal 3 novembre

Libro dedicato alla memoria di Oriana Fallaci «ragazza terribile e profeta inascoltato», queste pagine sono un atto anzitutto di coraggio. Per molto meno abbiamo assistito di recente ai tragici eventi delle teste decapitate in una Europa non più in grado di controllare il fenomeno di quella violenza che prende vita dalla cultura islamica. 

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l’Islam è per sua struttura violento e non può dialogare col Cristianesimo, né assimilare i principi della democrazia e della laicità degli Stati, incompatibili con la sua stessa essenza. I nuovi colonizzatori musulmani hanno scoperto un sistema più efficace della spada e della guerra per giungere alla conquista delle popolazioni degli infedeli: servirsi della democrazia e di quei principi intangibili della laicità degli stati che pure rigettano, ma di cui fanno ampio uso per imporsi nei Paesi dell’Occidente. In un’Europa priva d’identità che sprezza le proprie radici cristiane in odio a sé stessa, che ha eretto a valori intangibili il diritto all’aborto e all’eutanasia, il matrimonio tra coppie dello stesso sesso e la possibilità che due uomini possano adottare bambini o acquistarli da un utero in affitto, i musulmani hanno già vinto. Perché sanno chi sono e da quali radici provengono, perché posseggono quella fierezza di appartenenza che noi europei, ubriachi di dogmi laicisti, abbiamo distrutto.

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Dall’Isola di Patmos, 3 novembre 2020

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Il libro è in distribuzione, potete acquistarlo direttamente al nostro negozio e riceverlo a casa vostra entro 72 ore senza alcuna spesa postale cliccando sotto:

oppure richiederlo direttamente alle Edizioni L’Isola di Patmos: isoladipatmos@gmail.com 

e riceverlo in 5 giorni lavorativi senza alcuna spesa postale

 

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Prossime pubblicazioni in uscita:

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narrativa:

LA NUOVA TERRA, Emilio Biagini

NONNA NON RACCONTAVA FAVOLE, Maria Antonietta Novara

saggistica:

ATTI E MISFATTI DEGLI APOSTATI, Ester Maria Ledda

 

 

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«Lo Spirito Santo e noi». Non ci sono più i vescovi e i cattolici di una volta

— attualità ecclesiale —

«LO SPIRITO SANTO E NOI». NON CI SONO PIÙ I VESCOVI E I CATTOLICI DI UNA VOLTA

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[…] anche per i fedeli è arrivato il momento di scegliere il necessario, attraversando i carboni ardenti della modernità e dei diritti assoluti assunti a fanatismo contro la Chiesa. Tali diritti, anche in tempo di pandemia, non costituiscono mai un rimedio al male, si autodistruggono nell’immediato e si secolarizzano e legalizzano diventando diritti positivi che intaccano la carne dei più deboli e indifesi e attentano a quella componente sacramentale e liturgica che ha nell’Eucaristia il suo apice di fede necessaria, quotidianamente celebrata.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa
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Nota del direttore responsabile de L’Isola di Patmos pubblicata alle ore 19.45

l’articolo di Padre Ivano Liguori, Ofm. Capp. che sotto segue è stato pubblicato alle ore 17,45 del 4 novembre. Un paio di ore dopo la redazione di Avvenire.it ha cancellato il pezzo al quale il nostro redattore ha fatto richiamo. Quell’articolo adesso non è più visibile. Ne rimane traccia nel giornale della Diocesi di Senigallia che lo ho riportato quasi integralmente [vedere QUI] Bene, tutto sommato una amenità in meno su quelle colonne. Mi rammarico per la caduta dell’Unione Sovietica, perché se fosse rimasta in piedi, oggi il direttore responsabile di Avvenire potrebbe essere reclamato a gran voce dalla Duma come direttore della Pravda.

Ariel S. Levi di Gualdo

 

 

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dono di un nostro confratello napoletano: «facite ammuina!»

Un giornale che si definisce cattolico, quello che dovrebbe fare è anzitutto supportare e accompagnare la fede dei cristiani nella quotidianità, preservando da inciampi i semplici.

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Senza tanti fronzoli e l’immancabile bigottismo da sacrestia, utilizzare uno stile giornalistico carismatico capace di infondere fiducia, così da leggere il mondo in modo profetico, secondo quel Regno di Dio che è già presente in mezzo a noi (cfr. Lc 17,20) e che un credente dovrebbe riconoscere da lontano.

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Con tutta probabilità mi sbaglio, io che sono come al solito troppo vintage e troppo ingenuo per questo secolo, in cui essere cristiani adulti significa riformare l’irriformabile e proporre un Dio alternativo sapientemente glitterato che si sovrappone al Dio di Gesù Cristo. Tuttavia, a costo di essere ripetitivo e antipatico devo insistere su un fatto: trovo sempre una mancanza evidente di quella bella virtù cardinale che è la prudenza. Virtù che bisogna chiedere alla Spirito Santo quotidianamente e che si esige non solo per un consacrato nell’episcopato e nel sacerdozio ma anche per un semplice fedele battezzato che svolge un ruolo dentro la Chiesa, specie se quel ruolo implica l’informazione e la formazione.

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Perché dico questo? Vengo subito al punto. Apprendo da Avvenire [cfr. articoli QUI] di un’inchiesta condotta dall’Istituto IPSOS secondo la quale due terzi dei credenti avrebbe giudicato necessario la sospensione delle celebrazioni con popolo durante il lockdown nazionale fra marzo e maggio. A quanto pare, l’88% dei cristiani delle nostre comunità ha promosso le misure anti-Covid in chiesa.

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Possibile? Sembrerebbe proprio di sì! Quindi secondo questi dati e secondo la lettura data da Avvenire, il grido: «ridateci la S. Messa» è opera di una certa vulgata di fanatici baciapile. Lo stop delle celebrazioni “a porte aperte” vede la promozione piena del Popolo delle Parrocchie. Non so voi, ma io, a leggere certe cose, sto veramente male. Difatti, se la soluzione è sembrata vincente la prima volta, lo sarà anche nel caso di un secondo lockdown natalizio, così come le indiscrezioni vociferano in questi giorni.

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E dico questo con la più viva preoccupazione perché, dopo quasi un anno di convivenza con il Covid, tale posizione non può più essere giustificata dell’emotività o dalla sorpresa. È chiaro che assume i connotati di una vera e propria scelta di campo ragionata, una decisione precisa tra fede e necessità così come scrissi su queste colonne qualche mese fa, scelta supportata da un diritto “buonisticamente” interpretato che vede nella salus publica la suprema lex.

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A tutti i cattolici appassionati di diritto e di Cicerone, ricordo che per un cristiano cattolico la prima suprema lex è, e resterà sempre, Gesù Cristo, fondamento e via per raggiungere la salus animarum. A questo proposito cito e condivido quello che è il pensiero del cardinal Sarah:

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«L’esistenza terrena è importante, ma molto più importante è la vita eterna: condividere la stessa vita con Dio per l’eternità è la nostra meta, la nostra vocazione» (cfr. Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali sulla celebrazione della liturgia durante e dopo la pandemia del Covid-19, Torniamo con gioia all’Eucaristia!).

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Per questo motivo questo sondaggio apparso sul quotidiano dei vescovi mi addolora nella duplice veste di sacerdote e di cristiano, rivelando una ben precisa falla tra i credenti cattolici italiani che dovrebbe essere curata anziché sponsorizzata.

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Non posso che immedesimarmi come parroco in cura d’anime verso i numerosi confratelli sacerdoti che non hanno ancora terminato di spiegare ai propri Consigli Pastorali la splendida lettera della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che invita a riprendere la vita cristiana ripartendo proprio dall’Eucaristia celebrata comunitariamente nel Dies Domini.

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In che modo i sacerdoti potranno educare i propri fedeli a nutrirsi di Gesù Eucaristia e a trasmettere le verità di fede cattolica nella comunione ecclesiale domenicale, se questi fedeli preferiscono un Credo Smart Working, agevolmente vissuto da casa?

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Come giustificare ai catechisti e alle famiglie dei bambini e dei ragazzi in cammino di fede che un nuovo lockdown liturgico/catechetico non solo è buono e giusto ma è addirittura auspicabile, quando l’Ufficio Catechistico Nazionale ha emanato delle chiare linee guida per la catechesi in Italia al tempo del Covid? Linee guida responsabili, prudenti e sicure ma che non possono ripudiare e scalzare il doveroso annuncio kerigmatico che ha nel Vangelo di San Matteo [cfr. Mt 28,19-20] il sigillo vincolante del Salvatore verso il Collegio Apostolico.

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Capirete bene che ci troviamo di fronte a un bivio e tra le due cose una è vera e l’altra falsa. O i cattolici in Italia hanno conquistato nel 2020 il trofeo Nietzsche e sono giunti alla morte di Dio visto come aggravio insopportabile in tempo di pandemia, e allora è bene che lo comunichino ufficialmente ai loro vescovi, anime belle dell’accoglienza, affinché ne prendano atto. Oppure, se così non fosse, i vescovi dovrebbero impedire che sul loro giornale circolino tali posizioni che non hanno altra conseguenza che aumentare la costernazione e il disagio di quel 12% di cattolici che ancora considera la Santa Messa indispensabile.

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Perché la Santa Messa è di Cristo, mica di un “Franceschiello” qualsiasi che con il suo editto galvanizza i marinai al grido di «Facite Ammuina» (fate confusione).

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E di ammuina – confusione – in questo periodo storico c’è ne fin troppo, dentro e fuori la Chiesa tanto da avere bisogno di pastori prudenti e saggi come il buon Vescovo emerito di Ascoli Piceno, Giovanni D’Ercole [cfr. mio precedente articolo, QUI] che ebbe l’ardire di affermare che «La Chiesa non è il luogo del contagio», dimostrando così un raro equilibrio tra prudenza pastorale e amore per il prossimo, il tutto coniugato con quel primato di obbedienza a Cristo prima che a Cesare.

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Ci dicono di obbedire? Bene lo faremo e con gioia, secondo quanto riportato dal Beato evangelista Luca nel libro degli Atti degli Apostoli. Obbedire riascoltando ai nostri giorni quella voce apostolica che ci dice:

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«Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie…» (At. 15,28)

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È questo che desideriamo sentire, cari padri vescovi. Imponeteci il giogo del necessario, volentieri porgeremo il nostro collo e le nostre spalle al dolce giogo dell’Eucaristia celebrata comunitariamente nel giorno del Signore, l’unico Signore necessario in una Chiesa di finti indispensabili.

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Allo stesso modo, anche per i fedeli è arrivato il momento di scegliere il necessario, attraversando i carboni ardenti della modernità e dei diritti assoluti, assunti a fanatismo contro la Chiesa. Tali diritti, anche in tempo di pandemia, non costituiscono mai un rimedio al male, si autodistruggono nell’immediato e si secolarizzano e legalizzano diventando diritti positivi che intaccano la carne dei più deboli e indifesi e attentano a quella componente sacramentale e liturgica che ha nell’Eucaristia il suo apice di fede necessaria, quotidianamente celebrata.

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Laconi, 4 novembre 2020

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Ricordiamo ai  Lettori che è in prevendita il libro dei Padri de L’Isola di Patmos, che potete ordinare sin da ora e riceverlo entro pochi giorni. Basta entrare nel nostro negozio librario: QUI.

 

 

 

 

 

 

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

L’indovino Tiresia e il Cristianesimo: la realtà della disabilità, tra gioia e speranza

—  Theologica —

L’INDOVINO TIRESIA E IL CRISTIANESIMO: LA REALTÀ DELLA DISABILITÀ, TRA SPERANZA E GIOIA

La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

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Ulisse e l’indovino Tiresia

Uno dei temi forti che coinvolgono molto a livello emotivo e intellettuale ogni fedele, dal singolo credente, al sacerdote, dall’uomo di cultura al teologo, è certamente il tema della disabilità. A essere precisi non esiste la disabilità in astratto, ma esistono persone con disabilità fisiche o mentali, che possono essere congenite, innate o acquisite.

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Vorrei abbozzare delle riflessioni biblico-teologiche sul tema della disabilità. Sono consapevole, insieme a tutta la tradizione cristiana, che il mistero del male e della sofferenza umana rimane mistero e non può mai essere dischiuso completamente. Però può essere contemplato, scrutato con occhio di fede, speranza e di carità e essere inserito nel piano più alto e più grande del Piano di Dio.

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In questo articolo faremo innanzitutto alcune considerazioni storiche su uno dei più noti e antichi disabili della storia, l’indovino Tiresia. Successivamente, ci sposteremo sul tema della sofferenza nell’ambito cristiano.

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UN DISABILE NOTO ALL’ANTICHITA’. TIRESIA, INDOVINO CIECO.

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La disabilità, rientra sicuramente nel tema della sofferenza, di coloro che sono afflitti e che saranno consolati, secondo la beatitudine evangelica. Le persone colpite da disabilità rientrano a pieno in coloro che sono accolti nel seno dell’amore trinitario. Il mondo della cultura, della riflessione filosofica e antropologica è sempre rimasta affascinata e al tempo stesso scossa da questo tema. Tanto che recentemente si è lasciata interrogare dalla disabilità, provando a costruirne una riflessione. Anzitutto vorrei segnalare il testo di Gian Antonio Stella: DiversiLa lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, recentemente edito dal noto giornalista del Corriere della Sera. Con un taglio giornalistico, Stella cerca di fare un excursus a partire da diverse figure storiche di persone con disabilità che hanno davvero proposto la loro esperienza innovativa per il tempo della storia in cui hanno vissuto. Non vorrei soffermarmi su questo testo però [1].

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Da qualche tempo la cultura siciliana ha perso uno dei suoi scrittori più fecondi, Andrea Camilleri. Quasi come un testamento, insieme ad alcuni libri ora in uscita, l’autore di Porto Empedocle, noto per aver creato il personaggio del commissario Montalbano, ha pubblicato un testo intitolato Conversazioni su Tiresia. Si tratta di un piccolo libriccino che riporta fedelmente il testo dello spettacolo omonimo andato in scena lo scorso giugno 2018 e interpretato dallo stesso Camilleri.

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Il tema centrale del testo, come dice il titolo, è la figura dell’indovino Tiresia. Figura leggendaria, di cui si sanno poche cose. Certamente, di lui, si sa che è originario di Tebe, ha una figlia di nome Manto, anche lei indovina, ma soprattutto che è cieco, o come si direbbe oggi: non vedente. Il testo teatrale è un piccolo excursus fra ironia, scherno e qualche frecciatina al mondo attuale, di come questa figura sia stata descritta, schernita e al tempo stesso amata e rispettata nel corso dei secoli. Notoriamente, l’antichità greca ha prodotto una serie di fonti su Tiresia. La cosa più interessante da notare è che in una antichità precristiana, che ha avuto un rapporto difficilissimo con i disabili, una figura di disabile fisico come Tiresia è invece rimasta viva nella scrittura di questi autori. Certamente, la figura dell’indovino tebano, è interessante innanzitutto per una riflessione culturale sulla disabilità.

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Lo Pseudo Apollodoro provò a spiegare da dove si originava la cecità di Tiresia. Dunque riportò tre narrazioni, nella sua Biblioteca; sono particolarmente interessanti la seconda e la terza narrazione[2], raccontate teatralmente anche nel testo di Camilleri. Nella seconda narrazione, quella secondo Apollodoro, Tiresia è figlio di Evereo e della Ninfa Cariclo: la cecità viene dalla punizione di Atena che Tiresia vide nuda farsi il bagno; allora intervenne Cariclo che chiese pietà per il figlio. Atena non tolse la cecità allo sciagurato voyer, ma vi unì la capacità di essere indovino. La terza narrazione Apollodoro la riprende dal poeta greco Esiodo, ed è la più complessa, perché inserisce altri elementi. Tiresia meditava mentre camminava sul monte Citerone: qui vide due serpenti nell’atto della unione sessuale e allora schifato decise di calpestare e uccidere la femmina. Non appena l’aspide lascivo fu schiacciato, magicamente Tiresia si trasformò da uomo a donna. Questa immagine, induce Camilleri a mettere sulla bocca di Tiresia una considerazione teologica legata ai serpenti:

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«A me adolescente piaceva molto fare lunghe passeggiate solitarie sul Citerone e un giorno, all’improvviso, mentre stavo seduto su una pietra, vidi avventarsi verso di me due grandi serpi avviticchiate nell’atto della riproduzione. Ero sovrappensiero, per questo reagii come mai avrei dovuto. Perché coi serpenti, sul Citerone, bisognava andarci cauti. Zeus per possedere Persefone si mutava in serpe e anche Cadmo “s’asserpentava” per le sue scappatelle. Quindi in quei rettili poteva celarsi un dio»[3].

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Torneremo su questo particolare fra poco. Osserviamo come Tiresia è davvero saggio: è cioè in grado di andare oltre l’aspetto materiale e cogliere la natura divina anche di un atto così animalesco come l’unione sessuale. Comunque, procedendo con la narrazione, sappiamo che in seguito l’indovino tebano tornò uomo, ma la sua malasorte non era terminata. Infatti, in un tempo indeterminato, Zeus ed Era litigavano e spesso si trovarono divisi da una controversia: se nell’atto dell’amplesso provasse più piacere l’uomo o la donna. Non riuscivano a giungere a nessuna conclusione perché infatti le due posizioni principali si fronteggiavano fortemente: Zeus, sosteneva infatti che fosse la donna, mentre Era che fosse l’uomo. Per dirimere la disputa decisero di rivolgersi Tiresia, considerato l’unico che avrebbe potuto risolverla poiché aveva saggiato sia la natura maschile sia femminile. Forse sarebbe stato meglio se Tiresia avesse seguito il vecchio adagio di non mettere il dito fra moglie e marito[4]. Ma, per quella volta, non fu prudente su questo. Dunque, una volta chiamato in causa dai due dèi litigiosi per risolvere la vexata quaestio, rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove, quindi una donna prova un piacere nove volte più grande di quello di un uomo. Tiresia pensò di rispondere così facendo un piacere ad Era, ritenendo che la dea avesse risposto secondo il suo stesso ragionamento. La dea, invece, rimase infuriata perché Tiresia aveva svelato quel segreto: e così lo accecò. Invece Zeus, contrario alla reazione della moglie, decise di riparare al danno subìto, e diede facoltà a Tiresia di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni. E Questo, nell’ottica greca, implicava avere una vita praticamente eterna.

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Ecco allora i tre elementi sottolineati nella disabilità di Tiresia: la cecità segue la punizione di aver saputo un segreto profondo dell’uomo. Tiresia, un po’ come Prometeo, ha la colpa di essersi azzardato a intuire e ragionare, arrivare oltre l’arrivabile: dunque di essere entrato nelle sfere più alte della intimità dell’uomo e della donna. Di aver saputo sciogliere il segreto stesso della donazione totale dell’uomo alla donna e viceversa, dunque della loro identità profonda. Al tempo stesso, Tiresia è entrato nel segreto profondo del piacere corporeo e della origine della vita.  Era davvero non può reggere questo affronto. Così, pensa di fare un dispiacere a Tiresia, accecandolo: ma così facendo in realtà lo toglie dalla visione delle cose materiali e lasciandolo per sempre alla visione di informazioni, nozioni e concetti più alti. Oserei dire che Tiresia può essere quello schiavo nella caverna platonica che liberato dai lacci delle visioni materiali vede finalmente la luce delle Idee, nella eternità della verità senza tempo. Non voglio però entrare in una analisi platonica.

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Tornando invece alla disabilità di Tiresia si aggiunge, con l’azione di Zeus, il dono della preveggenza e della vita eterna. Il capolavoro antropologico di Tiresia il tebano è definitivamente compiuto. La disabilità, tanto condannata, tanto stigmatizzata nel mondo greco, è invece, in Tiresia, carica di un insieme di doni straordinari donati dagli dei[5]. E poco importa dunque la mancanza di luce sulle cose quotidiane.

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Tiresia conosce il dato presente nei suoi segreti più intimi. Lo stesso dicasi per gli eventi futuri: conosce ciò che è più profondo, ciò che è più ricercato da ogni uomo greco, filosofo, matematico, astronomo o storico che sia. Scrive a questo proposito lo studioso Paolo Scarpi:

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«[…] La cecità di Tiresia è in realtà la condizione perché egli possa assolvere al suo ruolo di indovino […] Le tre ragioni presentate nella Biblioteca, […], appaiono in realtà connesse da un denominatore comune rappresentato dal codice ottico su cui è costruita la vicenda. […] la vista entra direttamente in causa configurandosi come una trasgressione di un codice di comportamento enunciato da Callimaco […] (le leggi di Crono stabiliscono così chi vede un immortale contro la sua volontà, pagherà un grande prezzo per questa vista)»[6]

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A conferma di questo ci sembra interessante notare cosa pensa la Odissea dell’indovino tebano. Omero offre un compito importante a Tiresia, nel canto decimo infatti leggiamo:

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«per chiedere all’anima del tebano Tiresia,

il cieco indovino, di cui sono saldi i precordi:

a lui solo Persefone diede anche da morto,

la facoltà d’esser savio; gli altri sono ombre vaganti»[7]

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Ulisse, nell’Ade, è costretto a cercare Tiresia, per venire a conoscenza della strada per il ritorno ad Itaca. Nei versi del poema omerico, leggiamo fra le righe che solo a Tiresia sono concessi i doni straordinari che lo rendono così saggio. Aggiungo ancora un paio di elementi: nella Tebaide, il poeta Stazio descrive che Tiresia, sordomuto e cieco allo stesso tempo, conserva i suoi poteri straordinari. Qui, la disabilità fisica, è ancora più accentuata, non di meno però la saggezza e la profezia rimangono. E avranno un ruolo drammatico in Sofocle.

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Nell’Edipo Re, Tiresia è chiamato profetizzare anche il celeberrimo incesto fra Edipo e Giocasta e l’uccisione di Laio: in questa tragedia la profezia del cieco è addirittura un elemento di aiuto alla scoperta circa una azione morale condannata dal tempo. L’apporto di Tiresia diventa fondamentale nello scioglimento del dramma di Edipo.

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Tornando e concludendo la lettura del testo di Camilleri, trovo una splendida poesia dedicata a Tiresia a opera del poeta Thomas Sterne Elliott

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«Io Tiresia, benché cieco, pulsante fra due vite,

vecchio con avvizzite mammelle femminili, posso vedere

all’ora viola, l’ora della sera che volge

al ritorno, e porta a casa dal mare il marinaio,

posso vedere la dattilografa a casa all’ora del tè, sparecchia la colazione,

accende il fornello e tira fuori cibo in scatola.

Fuori dalla finestra pericolosamente stese ad asciugare

Le sue combinazioni toccate dagli ultimi raggi del sole,

sul divano (di notte il suo letto) sono ammucchiate

calze, pantofole, camiciole e corsetti.

Io Tiresia, vecchio con poppe avvizzite,

percepii la scena, e predissi il resto –

anch’io attesi l’ospite aspettato.

Lui, il giovane pustoloso, arriva,

impiegato di una piccola agenzia di locazione, con un solo sguardo

baldanzoso,

uno del popolo a cui la sicumera sta

come un cilindro a un cafone arricchito.

Il momento è ora propizio, come lui congettura,

il pranzo è finito, lei è annoiata e stanca,

cerca di impegnarla in carezze

che non sono respinte, anche se indesiderate.

Eccitato e deciso, lui assale d’un colpo;

mani esploranti non incontrano difesa;

la sua vanità non richiede risposta

e prende come un benvenuto l’indifferenza.

(E io Tiresia ho presofferto tutto

Quello che è stato fatto su questo stesso divano o letto;

io che sedetti sotto le mura di Tebe

e camminai fra i più umili morti).

[…]

A Cartagine poi venni

Ardendo ardendo ardendo ardendo

O Signore Tu mi cogli

O Signore Tu cogli

Ardendo[8]

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L’analisi della disabilità di Tiresia mostra dunque come la disabilità abbia una valenza contraddittoria nel mondo pre-cristiano: nel quale si evidenzia un rapporto di dannazione, stigma, allontanamento e, dall’altro, quasi invece uno stato di elevazione a conoscenza superiore. Il tema della disabilità, per i greci richiamava dunque una conoscenza sapienziale del presente, una conoscenza profetica del futuro, un richiamo a una vita eterna (certo non delle stesse caratteristiche del Regno di Dio cristiano). Ovviamente, l’aspetto totalmente assente nella disabilità di Tiresia, come del resto a tutta la riflessione greca prima della venuta di Cristo, è ovviamente il legame fra attività divina e umana: quel rapporto fra grazia e natura che verrà solo successivamente scandagliato dalla teologia cattolica.

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Tiresia subisce infatti la disabilità nella sua natura umana come castigo: non è spiegato dai miti greci in quale modo, dopo aver ottenuto la disabilità, la sua persona sia portata, tramite la disabilità, a un cammino di perfezionamento e di elevazione morale con l’aiuto degli Dei. La disabilità, in Tiresia, è insomma una speciale metodologia epistemologica ma non di santificazione. Uno speciale modo di conoscere ma non di elevarsi ad un rapporto con il sacro. Di segno completamente diverso è invece, il senso della sofferenza fisica, e dunque anche una disabilità visiva, dall’avvento di Gesù Cristo: tutte le disabilità rientrano nell’afflizione e nell’amore sofferente di Cristo. Si possono dunque riunire sotto la grande categoria della sofferenza.

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AFFLITTI MA INTIMAMENTE UNITI NELL’AMORE SOFFERENTE DI GESU

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È certa una cosa. Riguardo il cristianesimo, esso è fondato da Gesù ed è una religione della gioia; infatti, il cristianesimo, è iniziato con un imperativo gioioso. «Kaire/Rallegrati Maria!» [9] così l’arcangelo Gabriele salutò l’adolescente Maria. Certamente riconosciamo con Joseph Ratzinger che «Il cristianesimo è dunque la fede della gioia»[10]. Eppure, all’interno del cammino di una fede cattolica che sia gioiosa, essa non fugge da alcune tematiche particolarmente delicate come la sofferenza, la penitenza e il dolore. Pensiamo per un momento che nel cammino della Chiesa Cattolica esiste un grande periodo di penitenza e ascesi: la Quaresima. Questo perché la Quaresima è innanzitutto tempo di conversione, ma anche tempo di deserto e riflessione. In quel periodo c’è un invito a soffermarsi, nella nostra preghiera o meditazione personale, su quelle tematiche che risultato ordinariamente di difficile assimilazione e trattazione, come il peccato, la morte, la malattia, il dolore. La sofferenza è un tema molto delicato. Soprattutto è delicato perché è vissuto da uomini e donne. Tema che tutti quanti in prima persona abbiamo toccato. Questi uomini sono sofferenti. Dunque sono afflitti. In effetti uno dei temi di cui anche l’Antico Testamento ci parla è proprio la sofferenza. Pensiamo ad esempio alla storia presente nel libro di Giobbe. Uomo giusto, oggi diremo un pio, una persona perbene e molto devota. Il Signore, allora, permette al diavolo che Giobbe sia provato nella sofferenza morale, ricordiamo infatti che furono uccisi tutti i suoi figli; quindi, materiale, ricordiamo che perse tutti i suoi averi; infine fisica, ricordiamo che si ammala gravemente di lebbra e viene isolato da tutti, tranne che da quattro amici.

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In Giobbe, secondo gli esegeti, troviamo quatto reazioni tipicamente umane. La prima è  l’accettazione (cfr. Gb 1,22). Egli accetta pacificamente che tutto questa gli venga da Dio. Allo stesso tempo pretende da Lui anche una specie di contraccambio in futuro. La seconda reazione, è la ribellione (cfr. Gb 3, 1). Egli desidererà addirittura morire. È reazione tipica anche dei malati di oggi: è desiderio di tranquillità e di pace. La terza reazione è l’affidamento (cfr. Gb 40). Giobbe si affida a Dio riconoscendo la sua piccolezza, il proprio essere creatura creata, rispetto a Dio creatore increato. Quindi si affida veramente al Creatore perché riconosce di essere stato orgoglioso e pretestuoso nei suoi confronti. Quarta reazione, la ricompensa ultraterrena (Gb 42,7). A Giobbe viene restituito tutto ciò che aveva perso in modo raddoppiato [11].

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Giobbe è un afflitto. Dio dopo un cammino di conversione, di purificazione e crescita viene consolato da Dio. Rimasi molto colpito quando anche io ascoltalo la voce di un afflitto. Un afflitto di qualche anno fa: ma che nel suo oggi, come oggi è stato abbandonato da tutti. Per questo vorrei adesso farvi ascoltare la voce di quel genere di afflitto che, al contrario di Giobbe, non ce l’ha fatta.

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«Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi. Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte. Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.  […]  Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie. […] Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.  […] Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene»[12].

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È terribile leggere righe del genere. È quasi impossibile empatizzare il dolore di un giovane che vuole togliersi la vita. È assolutamente impossibile comprendere il dolore di quei genitori che hanno perso un figlio in questo modo.  Eppure, questo giovane era un afflitto. Un afflitto lasciato solo da tutti: abbandonato alla mentalità e alla moda del mondo, che crede e inculca a tutti che il suicidio sia l’unica via per vivere la propria libertà. Questa è la libertà che il mondo di oggi vuole convincere anche noi cattolici che sia quella da vivere: una libertà che non è liberta vera. Quella libertà che si esprimerebbe nelle tecniche di suicidio assistito e di eutanasia, come avvenuto per il caso, salito alla ribalta dei telegiornali, di Dj Fabio. Anche Dj Fabio era un sofferente, uno che biblicamente chiameremo afflitto[13]. Il mondo, invece che donargli la vera libertà, lo ha abbandonato definitivamente. Lo stato di diritto gli offre addirittura ragione e giurisprudenza per fondare il convincimento che dalla sofferenza si esce solo suicidandosi. Come se il suicidio fosse espressione massima di una “libertà”[14]. Quella libertà che elimina la sofferenza e l’afflizione. Perché una vita sofferente e afflitta non ha valore, allora si elimina. Si prende e si butta via. E si maschera tutto con la parolina magica: li–ber–tà. Tre sillabe con cui oggi si cavalca l’onda e si permette tutto.

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«Noi viviamo in un’epoca in cui si è titolati a vivere solo se perfetti. Ogni insufficienza, ogni debolezza, ogni fragilità sembra bandita»[15]

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C’è un’unica risposta a questa terribile convinzione della cultura odierna. La vera risposta che ognuno di noi può dare è questa: la gioia di Gesù Cristo. Si risponde ad una logica di morte, di cultura dello scarto, di necrocultura semplicemente mostrando la gioia e l’amore che Gesù ebbe nei confronti degli afflitti. Perché Gesù Cristo stesso si è spesso incontrato con la sofferenza. Gesù ha cioè incontrato persone sofferenti e afflitti: chi nel corpo e chi nello spirito. E si è messo al servizio loro e dei loro parenti e amici. Per questo ha potuto relegare un posto speciale nelle beatitudini proprio ai sofferenti: «Beati gli afflitti… perché saranno consolati»[16].

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Se diamo un’occhiata al Vangelo della resurrezione di Lazzaro, vediamo subito come Gesù si relaziona di fronte alla morte del suo caro amico Lazzaro. Gesù stesso piange. È afflitto, e vive questo momento insieme ad altri afflitti. Proviamo a seguire il testo del Vangelo da vicino:

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«Gesù voleva molto bene (agapan = amava con misericordia) a Marta, a sua sorella [Maria] e a Lazzaro. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (= pepisteuka, il verbo greco esprime un forte atto di fede) Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente (embrimastai = prendere in collera), si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: “Vedi come lo amava!”. Dopo aver riposto la pietra in cui Lazzaro era stato posto, Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato”. E, detto questo, gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: “Scioglietelo e lasciatelo andare”»[17].

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Proviamo a leggere il testo in modo analitico. Al versetto 5 vediamo innanzitutto che Gesù compie l’azione dell’agapan cioè amava profondamente Marta, Maria e Lazzaro. Agapao è il verbo greco da cui viene agapè, che noi appunto traduciamo con Misericordia. Quindi li amava con misericordia. Inoltre ai versetti 20 – 27 Gesù viene rimproverato da Marta, in seguito anche da Maria, di non essere stato presente al momento della morte di Lazzaro. Ottiene da loro un atto di fede nella vita eterna che avviene tramite la Sua Presenza: la presenza di Gesù, Figlio di Dio nel mondo. Successivamente (cfr. V.33) quando poi viene a sapere della morte di Lazzaro, Gesù si commuove: ha un moto di passione collerico (così il verbo greco embrimastai), di avversione nei confronti della morte che è uno degli effetti provocati dal peccato originale a sua volta generato dal diavolo. Gesù stesso, dunque, esprime avversione e ostilità nei confronti della morte. Commentando i versetti 41 – 42, l’esegeta Brown scrive:

«Attraverso l’esercizio del potere di Gesù, che è il potere del Padre, essi conosceranno il Padre e così riceveranno la vita essi stessi. Gesù non otterrà niente per sé, egli vuole solo che i suoi ascoltatori conoscano il Padre che lo ha mandato. […] La cosa cruciale è che Gesù ha dato la vita fisica come segno del suo potere di dare la vita eterna su questa terra e come promessa che nell’ultimo giorno resusciterà i morti»[18].

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Marta, Maria e Lazzaro sono afflitti. Gesù gli fa scoprire, proprio nell’afflizione, un rapporto vero e reale con Dio. La sofferenza allora diventa uno dei possibili “luoghi” dove incontrare veramente l’Amore del Signore e riceverne consolazione. Come Dio fece con Giobbe e come adesso fa Gesù con Lazzaro. In effetti, l’afflizione, può generare un senso di isolamento: come abbiamo visto finora, la sofferenza, se per un verso è un’esperienza, per altro verso è al tempo stesso una esperienza solitaria, permessa da Dio al singolo e solo al singolo. In maniera indiretta va a colpire anche i parenti, gli amici e i vicini dell’afflitto, ma serve innanzitutto alla singola persona. Questi afflitti non sono così lontani nel tempo e nello spazio dalle nostre vite.

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Anche noi possiamo essere misericordiosi e mostrare l’amore di Dio agli afflitti. La gioia e vitalità di Gesù possiamo esprimere e comunicarla attraverso questi nostri fratelli sofferenti? Tramite l’esercizio delle opere di misericordia materiali e corporali è possibile esprimere il senso biblico della consolazione. Ecco il nesso fra consolazione e senso di fratellanza: saper entrare nel dramma di qualcuno e supportarlo. Essere davvero con– fratelli tramite la Misericordia/Agape di Dio per l’altro. Vivere aiutando chi è afflitto significa essergli di supporto. Nell’essere supporto allora ci sono tre derive che vanno assolutamente evitate:

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α) il compiangere l’afflitto. Si rischia cioè di creare una vittimizzazione. Tramite questa dinamica, la persona rimane incastrata nel proprio dolore e chiudendosi in un narcisismo che le impedisce di stare meglio [19].

β) L’effetto narcotico. Cioè il cercare di togliere di mezzo il dolore addormentando la coscienza su esso. La persona quindi è spinta dalla società a vivere come se non esistesse il dolore. Questo spinge a una superficialità, che è pericolosa perché rimanda il problema del dolore e lo aggrava[20]. In effetti fuggire da un problema significa aggravarlo.

γ) Invitare l’afflitto a guardare chi sta peggio di lui: non c’è di peggio che fare dell’esistenza come una classifica della serie A e dire chi sta meglio e chi sta peggio. Non ha senso consolare una persona dicendogli “siccome c’è chi sta peggio di te, devi stare bene” [21].

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Vediamo un po’, allora, l’opera di misericordia di consolare gli afflitti in cosa consiste per davvero. Ci saranno di aiuto le parole del presbitero Fabio Rosini che scrive:

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«Il dolore fisico può essere duro, ma se c’è una motivazione si sostiene, il cuore è sereno; se però, il dolore è senza spiegazione diventa allora insostenibile. L’afflizione ha bisogno di una parola che la riempia, che la indirizzi, di un’indicazione che ne orienti la comprensione» [22]

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La stessa parola consolazione (in ebraico nacham), biblicamente si rende coi verbi di riposare, fermarsi, trovare tranquillità o anche dare rifugio[23]. È quello che poco fa abbiamo visto fare Gesù con gli afflitti parenti di Lazzaro.  Pacificare una persona significa donargli quella parola di pienezza, di comprensione, di senso che il dolore sembra avergli sottratto.

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«Chi compie l’atto del consolare è capace di mettersi accanto al sofferente mostrandogli ciò che non riesce a vedere e consentendogli di aprire il cuore, lo sguardo, lo spirito a un’altra prospettiva, una profondità integra che dà completezza»[24].

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In un certo senso tutti i cristiani sono chiamati a consolare, ricordare che sono proprio loro i chiamati a dare questa completezza. Dunque questa è la chiamata a essere coloro che ricordano che Dio è innanzitutto speranza nella sofferenza. Ricordare al mondo e alla cultura attuale che sperare è un atto tipicamente umano, ma allo stesso tempo elevante: perché permette anche al peggiore degli afflitti di elevarsi oltre il proprio dolore. Come scrive sempre Fabio Rosini, consolare, dare speranza significa in fondo, fare un atto di misericordia che “faccia presente l’eternità, che sveli il volto di Dio nel dolore”[25]. Questo permetterà anche a noi di riprendere anzitutto a sperare. E sperare è atto tipicamente cristiano. Di più, sperare è l’atto tipicamente cattolico! Perché il credente è colui che ha riposto ogni fiducia in Gesù. E proprio come Marta e Maria, esprime ad alta voce questa sua speranza proprio nel dolore. Tenete sempre a mente questo, mentre preparate i panini per gli indigenti, mentre preparate la barella spinale, mentre risistemate i presidi di protezione civile. Sperare significa innanzitutto accendere l’attesa di un Dio che è il bene assoluto immensamente buono.

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Ciascuno di noi può essere portatore di speranza, portatori della gioia anche all’afflitto dei quartieri più poveri, all’afflitto per un lutto o per una depressione, o appunto di una disabilità. Ecco allora che rapportando queste riflessioni alla disabilità, diremo che anche la persona con disabilità, nonostante le sue afflizioni e i suoi dolori fisici, è chiamato a un cammino di gioia e di santificazione. C’è sempre un piano superiore a cui Dio Padre orienta, come ha orientato le sofferenze di Gesù della Passione, alla gioia della Resurrezione. Anche noi saremo così trasportati nella gioia della consolazione. Perché quando consoleremo un afflitto, questo ci farà scoprire davvero la gioia della nostra vita. Tutta la nostra vita sarà saper far riscoprire la presenza di un Dio Trinitario, che è con noi anche nel dolore. È amando chi è afflitto, facendo riscoprire a lui questa gioia di vivere, potremo dire insieme al poeta Giacomo Leopardi «Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando» [26].

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Roma, 4 novembre 2020

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NOTE

[1] Il lettore può consultare per approfondimenti: G. A. Stella, Diversi – La lunga battaglia dei disabili per cambiare la storia, Solferino, 2019, Milano.

[2] Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, III, 6, 7.

[3] A. Camilleri, Conversazioni su Tiresia, Sellerio, Palermo, 2019.

[4] A. Camilleri, op.cit.

[5] Su questa stessa linea si pone M. Schianchi, Storia della disabilità – Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma, 2012, 40.

[6] Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, traduz. di M.G. Ciani, Monadori, Milano, 1996, 55.

[7] Odissea X, 492 e sgg., Traduzione di G. Aurelio Privitera

[8] T.S. Elliott, Terra desolata citato in A. Cammileri, Conversazioni su Tiresia, 41 – 42. Ricontrollare pagina.

[9] Luca 1, 26.

[10]J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale, Morcelliana, Brescia, 69.

[11] S. Pinto, I segreti della Sapienza, Introduzione ai libri sapienziali e poetici , San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, 21 – 23.

[12] Lettera di M., un suicida trentenne, tratto da http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2017/02/07/news/non-posso-passare-il-tempo-a-cercare-di-sopravvivere-1.14839837 ultimo accesso 10/01/20 ore 18.07.

[13] Cfr. http://www.huffingtonpost.it/2017/02/28/fidanzata-dj-fabo-vorrei-notte-non-finisse_n_15055120.html ultimo accesso 23 marzo 2017 ore 16.43).

[14] https://www.repubblica.it/cronaca/2019/09/25/news/consulta_cappato_dj_fabo_sentenza-236870232/ ultimo accesso 10/01/10 ore 18.16.

[15]A. D’AVENIA, L’arte di essere fragili, 2016, 147.

[16] Mt 5,4

[17] Vangelo secondo Giovanni, capitolo 11.

[18] R. E. Brown, Giovanni, 2014, pp 567 – 568

[19] Fabio ROSINI, Solo l’amore crea, 2016, p. 121.

[20] Ibidem.

[21] Fabio ROSINI, op,cit, p. 122.

[22] Fabio ROSINI, p. 120.

[23] Fabio ROSINI, p. 127.

[24] Fabio ROSINI p. 129.

[25] Fabio ROSINI, p. 129.

[26] (Zibaldone 1819 – 1820.)

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NOVITÀ ― LA CHIESA E IL CORONAVIRUS. Tra supercazzole e prove di fede. L’apostolato dei Padri de L’Isola di Patmos in tempo di pandemia

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NOVITÀ ― LA CHIESA E IL CORONAVIRUS. TRA SUPERCAZZOLE E PROVE DI FEDE. L’APOSTOLATO DEI PADRI DE L’ISOLA DI PATMOS  IN TEMPO DI PANDEMIA 

I social media sono una savana dove i supercazzolari aggrediscono come iene. Chi crede di risolvere il problema ignorandoli, sbaglia. La Rivoluzione Francese insegna che è pericoloso rinchiudersi nella reggia di Versailles mentre a Parigi la piazza si carica d’odio. Quando infatti la piazza esplose, le teste di chi ignorò il problema finirono tagliate dal popolo furente.

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Autore:
Jorge Facio Lince
Presidente delle Edizioni L’Isola di Patmos

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IN DISTRIBUZIONE DA GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE

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in copertina: La ghigliottina dei social media – vignetta della pittrice romana Anna Boschini      Vitarte Studio 

Il periodo del lockdown com’è stato vissuto dai sacerdoti? A simile emergenza chi era preparato? Non lo era il mondo della politica, della sanità, della scienza, della pubblica istruzione, del lavoro, del commercio, della imprenditoria, della finanza, della informazione, dello spettacolo. Quale è stato il difficile rapporto tra sacerdoti e fedeli durante i mesi di sospensione delle sacre liturgie? Soprattutto: cos’è accaduto nella piazza dei social media, a cui riguardo disse Umberto Eco:

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«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza recar danno alla collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». 

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I social media sono una savana dove i supercazzolari aggrediscono come iene. Chi crede di risolvere il problema ignorandoli, sbaglia. La Rivoluzione Francese insegna che è pericoloso rinchiudersi nella reggia di Versailles mentre a Parigi la piazza si carica d’odio. Quando infatti la piazza esplose, le teste di chi ignorò il problema finirono tagliate dal popolo furente. Durante il lockdown per il Covid-19 i Padri de L’Isola di Patmos si sono dovuti scontrare con le supercazzole dei falsi cattolici e dei teologi fai-da-te spuntati su internet come fiori di campo dopo la pioggia. In queste pagine è stata raccolta la loro esperienza di sacerdoti e teologi, assieme all’analisi di un pericolo da non sottovalutare con snobismo, perché sulla piazza dei social media l’emotività irrazionale imperversa, mentre le ghigliottine sono già da tempo in funzione.

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Un libro, quello dei nostri Padri, che vi porterà dentro il cuore di un problema che per mesi ha creato dibattiti, attriti e fiumi di idiozie pubblicate sui social media dai supercazzolari cattolici o presunti tali.

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Dall’Isola di Patmos, 3 novembre 2020

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Prossima pubblicazione in uscita a giorni:

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L’ASPIRINA DELL’ISLAM MODERATO, di Ariel S. Levi di Gualdo

 

 

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