Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

Il Mistero della Pentecoste: «La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori»

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

—  omiletica —

IL MISTERO DELLA PENTECOSTE: «LA BELLEZZA NON È CHE IL DISVELAMENTO DI UNA TENEBRA CADUTA E DELLA LUCE CHE NE È VENUTA FUORI»

«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» [At 2,1].

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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PDF  articolo formato stampa
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AUDIO LETTURA DELL’ARTICOLO

I Padri de L’Isola di Patmos hanno inserita in tutti gli articoli la audio-lettura a uso dei Lettori colpiti da quelle disabilità che impediscono la lettura, fornendo al tempo stesso un servizio utile anche a coloro che trovandosi in viaggio e non potendo leggere possono usufruire agevolmente della audio-lettura

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Cari fratelli e sorelle,

vetrata istoriata del XVIII secolo: Lo Spirito Santo

chiudiamo il lungo periodo di Pasqua e il mese mariano con la festività di Pentecoste. È la discesa dello Spirito Santo, come sappiamo, sugli Apostoli e Discepoli, quindi su tutti noi come Chiesa. Di questo bellissimo legame fra lo Spirito e la Chiesa, madre di tutti i santi, scriveva Alessandro Manzoni nel suo inno La Pentecoste:

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«Madre de’ Santi, immagine della città superna/ del sangue incorruttibile conservatrice eterna/ Tu che, da tanti secoli/ Soffri, combatti e preghi/ che le tue tende spieghi/ dall’uno all’altro mar»

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Questi versi eterni del Manzoni ci introducono ad una meditazione sulle letture di oggi, della Pentecoste quale Mistero vivificante di preghiera, comunione e missione. A partire dalla prima lettura dove leggiamo:

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«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» [At 2,1].

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Questo essere chiusi dentro ricorda la nostra esperienza di quarantena vissuta proprio nel periodo marzo-aprile scorso. Se immaginiamo la scena, vediamo che gli apostoli stanno pregando ― durante la pentecoste ebraica ― chiusi dentro e lo Spirito irrompe in forma di lingue di fuoco. Entra nei cuori degli apostoli che iniziano a parlare tutte le lingue allora conosciute. Lo Spirito Santo/Amore entra nei loro cuori mediante la preghiera e questo gli permette di parlare il linguaggio universale, mondiale proprio dell’amore che non conosce distinzioni etniche e culturali. Ecco allora anche per noi l’importanza della preghiera come apertura ad uno sguardo diverso in grado di rileggere gli eventi quotidiani che ci accadono in un’ottica alta e contemplativa.

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Dalla preghiera di Pentecoste, viene allora la comunione con Dio e con il prossimo.  San Paolo scrive infatti:

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«Nessuno può dire «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore» [1 Cor 12, 3-4].

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Lo Spirito Santo viene a Pentecoste e ci dona la comunione, come unità nella distinzione. Tutti abbiamo infatti una chiamata alla santità, in cui lo Spirito aiuta a renderci santi. Questo essere uniti, non toglie la distinzione nella propria identità, alla propria vocazione e doni carismatici; anzi indica anche che il Signore ci ha creati unici e irripetibili, con i nostri talenti, virtuosismi e specialità e che se le poniamo al servizio del prossimo, divengono momento di crescita umana e spirituale. Al tempo stesso, nell’essere in comunione l’uno con l’altro riconosciamo che Gesù è Dio nella professione della fede nell’esercizio delle opere di misericordia, dove vediamo Gesù nel povero bisognoso. Da questo allora indica che la Pentecoste è preghiera e comunione in vista di una missione. Gesù dice:

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«”Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» [Gv 20,21].

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Quel soffiò nell’originale greco sarebbe “generò lo Spirito in loro”. Dunque come l’Eterno Padre manda il Figlio e oggi lo Spirito Santo, manda anche noi innestati in loro a proseguire questa missione di propagazione della Verità e del Perdono dei peccati. Da un lato, questo perdono dei peccati richiama il Sacramento della Penitenza, affidato ai vescovi e sacerdoti. Dall’altro, è importante notare che Dio manda tutto il popolo di Dio ad annunciare che il perdono dei peccati è la rigenerazione da una tenebra profonda, una uscita da uno stato di isolamento e lontananza da Dio.

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Scriveva la poetessa Alda Merini: «La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori».

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Chiediamo al Signore di essere inviati a Pentecoste a mostrare quanto grande è l’abbraccio del Dio Trinitario, di essere noi stessi quel dono di bellezza che propaghi la luce di Gesù Risorto.

Così Sia.

Roma, 31 maggio 2020

Solennità di Pentecoste

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Il blog personale di

Padre Gabriele

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Vedere nel coronavirus un castigo divino? Riflessioni sulla fine dei tempi: paura o speranza? Quanto a quel giorno e a quell’ora …

— la Chiesa e la grave emergenza coronavirus —

VEDERE NEL CORONAVIRUS UN CASTIGO DIVINO? RIFLESSIONI SULLA FINE DEI TEMPI: PAURA O SPERANZA? QUANTO A QUEL GIORNO E A QUELL’ORA …

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Non è opportuno e rispettoso verso Dio Padre vedere nelle sciagure temporali i castighi divini, consumando intimamente un velato senso di vendetta e di soddisfazione verso tutti coloro che non si sono ancora convertiti e che fanno opposizione a Dio. Quei giorni sono misteriosi e tali devono rimanere.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Masaccio, Cappella Brancacci (Firenze), Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre

In un passo del Vangelo di San Matteo leggiamo una frase in apparenza enigmatica pronunciata da Cristo Signore: Quanto a quel giorno e a quell’ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre [cf. Mt 24, 36].

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Nel clima di paura e di incertezza come quello che abbiamo vissuto durante la quarantena a causa del Covid-19, qualcuno particolarmente sensibile ha cominciato ad accarezzare l’idea che questo contagio virale sia stato in realtà un segno dei tempi. Questa idea prende forma sui profili social di numerose persone, alcune delle quali credenti, ed è per questo che è necessario fare un poco di chiarezza. Invece di intrattenerci con i vari messaggi di veggenti, mistici e profeti di turno è giusto dare la priorità al messaggio del Vangelo come rivelazione autentica e definitiva.

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L’espressione «segno dei tempi» non dovrebbe suscitare alcuna paura e angoscia nell’animo del credente, né tanto meno essere utilizzata come un sinonimo di fine del mondo, proprio perché è riconducibile all’insegnamento di Gesù e alla sua opera evangelizzatrice. Nel Vangelo di Matteo al cap. 16 versetto 3 troviamo queste parole: «Non sapete distinguere — chiede Gesù ai farisei e ai sadducei — i segni dei tempi?». 

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Davanti ai suoi ascoltatori che pretendevano un segno che avvalorasse la sua autorità e identità divina ― cosa del resto che aveva già preteso il demonio nel deserto ― Il Signore rivolge un interrogativo che orienta la loro attenzione all’opera di salvezza del Padre attraverso la mediazione del Figlio.

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Il messaggio è chiaro. Non serve produrre segni esteriori per sapere che Dio abita il tempo, Gesù è il segno definitivo del Padre con cui è possibile leggere i tempi. È curioso ― ma se andiamo ad analizzare bene l’episodio evangelico ― ci rendiamo conto come i farisei e i sadducei sono più preoccupati di tirare Gesù per la giacchetta e di associarlo al club degli affidabili, invece di prendere atto che il Regno di Dio ha già iniziato a rivelarsi in mezzo a loro nella potenza e nella libertà dello Spirito Santo.

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L’ora messianica è giunta ma i maestri di Israele sono incapaci di riconoscerla e ― cosa ancor più imbarazzante ― l’ora della salvezza è giunta proprio in tempi dove la libertà di un popolo è messa in discussione dall’occupante Impero Romano. Un’autentica bestemmia per ogni pio israelita!

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Oggi non abbiamo perso la libertà a causa di un popolo invasore, ci siamo ritrovati a perderla per un virus. Parlare di segni dei tempi significa fare riferimento all’opera di Gesù in mezzo al suo popolo, significa dire che Gesù mi sta salvando adesso, in questo tempo di epidemia, mentre eravamo a casa tristi e sconsolati, mentre ci preoccupavamo per il futuro dei nostri cari.

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Dio, in questi tempi di Coronavirus, ci parla attraverso il segno eloquente di suo Figlio risorto, non attraverso altri linguaggi o tramite castighi vendicativi. Dico questo proprio per rassicurare tutti coloro che mi stanno ascoltando e che rischiano di scambiare questa epidemia come una punizione divina.

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Prendo in prestito le parole di Papa Giovanni XXIII per suscitare la speranza all’interno della nostra vita cristiana durante questi giorni di esilio forzato dal mondo:

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«A noi piace collocare una fermissima fiducia del divino Salvatore […] che ci esorta a riconoscere i segni dei tempi», così che «vediamo fra tenebre oscure numerosi indizi, i quali sembrano annunciare tempi migliori per la Chiesa e per il genere umano» [cf. A.A.S. 1962, p. 6].  

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Gesù non spinge gli uomini a nutrire curiosità morbose sulla data del suo ritorno in terra o sulla scadenza del tempo a nostra disposizione. Non è opportuno e rispettoso verso Dio Padre vedere nelle sciagure temporali i castighi divini, consumando intimamente un velato senso di vendetta e di soddisfazione verso tutti coloro che non si sono ancora convertiti e che fanno opposizione a Dio. Quei giorni sono misteriosi e tali devono rimanere. «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta…» [cf. At 1,7]. Commentano questo passo degli Atti degli Apostoli San Girolamo spiega: «Con ciò mostra che egli [Gesù] lo sa, ma non conviene che lo sappiano gli Apostoli, così che, sempre incerti sulla venuta del giudice, vivano ogni giorno come se in quel giorno dovessero essere giudicati».

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Scorgiamo il segno che è Cristo, in questo tempo in cui sembra che un virus abbia la meglio sulla nostra vita, sulla nostra fede, sulle nostre tradizioni religiose, scorgiamo Cristo, oggi che sembrano passati i giorni della prima grande emergenza, da noi tutti vissuti tristemente nella paura e nello smarrimento; gettiamo via l’acqua vecchia, ma cercando però l’acqua nuova, cioè l’acqua viva del Vangelo, dell’incontro con Cristo che ci assicura: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» [cf Mt 24, 35].

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Quanto a quel giorno e a quell’ora … non lasciamoci turbare, scorgiamo Gesù, solo nell’incontro giudicante con il suo amore tutto potrà acquistare un senso, tutto potrà finalmente andare bene.

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Laconi, 27 maggio 2020

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Gabriele Giordano M. Scardocci
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Padre Gabriele

Teolock down: «Chiusi dentro con Dio». Cosa ci hanno insegnato le settimane di quarantena?

—  attualità ecclesiale —

TEOLOCK DOWN: «CHIUSI DENTRO CON DIO». COSA CI HANNO INSEGNATO LE SETTIMANE DI QUARANTENA?

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Il digiuno eucaristico al quale siamo stati sottoposti in questi due mesi, non è così insolito per la storia della Chiesa. Infatti, i monaci, durante Quaresima erano soliti fare il digiuno dall’Eucarestia, per poi viverla al massimo il giorno di Pasqua. La comunione frequente e quotidiana e quella dei bambini è entrata oggi nella nostra vita di fede, alla quale tutti siamo ormai abituati: ma in origine e nel passato non era così, fu infatti il Santo Pontefice Pio X a introdurre questa frequenza in tempi recenti, per l’esattezza nel 1905 [San Pio X, Sacra Tridentina Synodus].

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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La pornocrazia clericale e le ordinazioni dei preti omosessuali, che da tempo hanno fatto un golpe all’interno della Chiesa, generando una decadenza irreversibile

— I video delle lectiones magistrales —

LA PORNOCRAZIA CLERICALE E LE ORDINAZIONI DEI PRETI OMOSESSUALI, CHE DA TEMPO HANNO FATTO UN GOLPE ALL’INTERNO DELLA CHIESA, GENERANDO UNA DECADENZA IRREVERSIBILE 

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Oggi il governo della Chiesa è in mano a ecclesiastici omosessuali: «Non è una mia esagerazione, bensì solo puro realismo, affermare che la Chiesa è una struttura ormai omosessualizzata e che oggi, il primo tra gli Stati del mondo con la percentuale in assoluto più alta di omosessuali, è lo Stato della Città del Vaticano».

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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In questa video-lezione torno a documentare che non esiste al mondo aggregazione nella quale, come nella  Chiesa Cattolica, la presenza di omosessuali è così alta; né esiste aggregazione dove, come nella Chiesa Cattolica, gli omosessuali hanno fatto un vero e proprio “golpe”, inserendosi in tutte le “stanze di comando”.

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Oggi il governo della Chiesa è in mano a queste persone: «Non è una mia esagerazione, bensì solo puro realismo, affermare che la Chiesa è una struttura ormai omosessualizzata e che oggi, il primo tra gli Stati del mondo con la percentuale in assoluto più alta di omosessuali, è lo Stato della Città del Vaticano».

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Questo problema, che per la Chiesa è decisamente devastante, cominciai a studiarlo nel 2008 e, agli inizi del 2011, detti alle stampe il mio libro «E Satana si fece trino» [Edizioni L’Isola di Patmos, II ed. 2019], nel quale scrissi e spiegai con dieci anni di anticipo la situazione attuale. Vi suggerisco di leggerlo, perché molti troveranno risposta ai tanti quesiti che si pongono.

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INDICE TEMATICO DI QUESTA VIDEO-LEZIONE

I – LA LEZIONE DI ORIGENE. LA VIRILITÀ DEL VIR PROBATO È ELEMENTO IMPRESCINDIBILE PER IL SACERDOZIO CATTOLICO  minuto 04:30

II – NON C’È DIFFERENZA TRA LE ORDINAZIONI SIMONIACHE E QUELLE AVVENUTE PER SCAMBI DI FAVORI SESSUALI PERVERSI E PER CONSEGUENTI RICATTI  minuto 17:30

 III – IL DRAMMA DEL PECCATO DI ACCIDIA E OMISSIONE, IN UNA CHIESA DOVE TUTTI ASPIRANO A DIVENTARE CARDINALI, MA DOVE NESSUNO È DISPOSTO AD ASSUMERSI UNA RESPONSABILITÀ ANCHE MINIMA  minuto 26:58

IV – MOLTI OMOSESSUALI MANCANO DEI REQUISITI MINIMI RICHIESTI PER LA VALIDITÀ DEL SACRAMENTO DELL’ORDINE  minuto 31:52

V – LA “BANDA DELLA MAGLIANA” CLERICAL GAY  COLPISCE ALLA CONGREGAZIONE PER LE CAUSE DEI SANTI  minuto 37:30

VI – IL MISTERO DELLA GRAZIA DI DIO, IL SUPPLET GRATIA ED IL SUPPLET ECCLESIA, NON SONO NÉ UNA SCAPPATOIA NÉ UNA PANACEA  minuto 52:08

VII – APPELLO AI LAICI: NON SIATE VIGLIACCHI COME CERTI VESCOVI E PRETI  minuto 01:00:25

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CORREZIONE E PRECISAZIONE: al minuto 21:30 Padre Ariel cita S.E. Mons. Mauro Parmeggiani come Vescovo di Albano Laziale. Si tratta di un lapsus calami, questo prelato è infatti Vescovo della Diocesi di Tivoli.

 

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Dall’Isola di Patmos, 18 maggio 2020

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CANALE YOUTUBE DE L’ISOLA DI PATMOS

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CANALE DE L’ISOLA DI PATMOS SU

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Dalla Santa Messa al bidet del maresciallo: quel sottile confine spesso valicato in cui i figli insegnano al padre l’arte del generare

— la Chiesa e la grave emergenza coronavirus —

DALLA SANTA MESSA AL BIDET  DEL MARESCIALLO: QUEL SOTTILE CONFINE SPESSO VALICATO IN CUI I FIGLI INSEGNANO AL PADRE L’ARTE DEL GENERARE. 

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Onestamente, c’è da sorridere amaramente nell’apprendere della cura maniacale con cui gli Ordinari hanno caldeggiato ai loro sacerdoti la scrupolosa osservanza del protocollo ministeriale, quando in un passato non tanto lontano si faceva fatica anche solo ad osservare l’Ordinamento Generale del Messale Romano con le corrispondenti rubriche, tanto da dover reputare necessario produrre l’istruzione Redemptionis Sacramentum per correggere i numerosi sacerdoti, religiosi e laici da frequenti errori e fantasticherie che attenevano all’ossequio dovuto alla Santissima Eucaristia e alla sacra liturgia. Sicuramente, il curatore – o i curatori del protocollo – hanno fatto come il maresciallo dei carabinieri della nota barzelletta, il quale dopo aver notato il parroco del paese con il braccio ingessato e appreso da quest’ultimo che l’incidente era occorso per l’urto sul bidet, alla domanda dell’appuntato rispondeva con candore di non conoscere il bidet in quanto la sua latitanza dalla chiesa era vecchia di trent’anni.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Quella superficiale mediocrità e indolente tiepidezza che ci impedisce di giungere alla via, alla verità e alla vita

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

QUELLA SUPERFICIALE MEDIOCRITÀ E INDOLENTE TIEPIDEZZA CHE CI IMPEDISCE DI GIUNGERE ALLA VIA, VERITÀ E VITA

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Abbiamo tanto bisogno di vede uomini che si ergano sulla breccia come difensori di un popolo oramai incapace di trovare Dio, sperduto come un fanciullo rimasto orfano. L’emergenza sanitaria attuale ha portato alla luce le miserie umane più nascoste, anche quelle miserie del popolo cristiano e dei suoi ministri entrambi dimentichi dell’unica relazione vivificante con Cristo a favore di rapporti virtuali e di soluzioni alternative non prive di nobili propositi. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Vangelo di San Giovanni: 14, 6

Domenica scorsa Gesù si presenta a noi come la porta delle pecore e il pastore buono, come colui che è la guida sicura verso il raggiungimento della vera vita [vedere precedente omelia, QUI]. In questo tempo pasquale, segnato dalla fastidiosa pandemia di Covid-19, la vita non può che anelare alla verità, senza capitolare davanti al fatalismo menzognero del mondo, affinché acquisti sempre più sensatezza e valore anche nell’infermità [Liturgia della Parola di questa V domenica pasquale, QUI]. Tale alta aspettativa di esistenza terrena non può che realizzarsi nella collaborazione con la grazia, ribadendo la scelta radicale del Signore Risorto: in Lui pietra angolare ogni vita cresce in modo ordinato e ben compaginato e connesso per edificarsi come luogo santo abitato dallo Spirito di Dio [cf. Ef 2,21; 4,16].

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E dentro la Chiesa, sposa del Risorto, lo Spirito Santo non cessa mai di far risuonare con fermezza quell’interrogativo del Salmo 34 che costituisce uno dei capisaldi di ogni rinnovamento interiore e di ogni sicura azione vocazionale:

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«C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene?» [cf. Sal 34, 13].

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Chiediamocelo veramente, c’è ancora oggi qualcuno che desidera vivere in pienezza oppure ci si vuole accomodare solo sulla superficiale mediocrità e sulla indolente tiepidezza? Le nostre comunità cristiane sono ancora capaci di rispondere all’invito di Dio rivolto al profeta:

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«Io ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me, per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato» [cf. Ez 22,30].

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Abbiamo tanto bisogno di vede uomini che si ergano sulla breccia come difensori di un popolo oramai incapace di trovare Dio, sperduto come un fanciullo rimasto orfano. L’emergenza sanitaria attuale ha portato alla luce le miserie umane più nascoste, anche quelle miserie del popolo cristiano e dei suoi ministri entrambi dimentichi dell’unica relazione vivificante con Cristo a favore di rapporti virtuali e di soluzioni alternative non prive di nobili propositi.

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Nella nostra ipocrisia, che si colora a volte di incredulità e a volte di bigottismo, abbiamo scordato che siamo stati creati esclusivamente per conoscere, amare e godere di Dio. La vita dell’uomo sulla terra, anche di quello più peccatore e distante, non serve a null’altro se non ad esprimere questa consapevolezza: Dio mi ama e io amo Lui. E la misura di questo amore è la Croce gloriosa del Risorto che mai come in questo tempo di tribolazione rifulge al mondo come spes unica.

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Dio è alla ricerca di innamorati, di uomini che desiderano vivere senza sconti, senza alibi, senza compromessi, senza interferenze con il mondo. Dio si rende – attraverso l’umanità del Figlio suo – mendicante d’amore, affinché l’uomo trovi la ricchezza della vita in Lui. In questa ricerca d’amore e di nuova vita è urgente rimuovere l’io personale e innestare l’Io di Cristo:

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«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» [cf. Gv 14,6].

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I tre predicati che troviamo in questo versetto evangelico vengono introdotti dalla solenne formula divina dell’Ego eimi, dell’Io Sono, formula che non lascia alcuna possibilità di appello e di fraintendimento ma sigilla l’essenzialità della sequela vocazionale del discepolo. Cristo è realmente il volto del Dio visibile e conoscibile che è Via, Verità e Vita. E chi sceglie Cristo sa di dover percorrere una via differente, fare propria una verità scomoda, assumere una vita che domanda perfezione oltre misura.

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La Via che orienta l’esistenza è la Parola di Cristo, è la nuova Torah che ha portato alla perfezione e alla pienezza l’antica Legge mosaica [cf. Mt 5,17], il suo Vangelo è ora regola e orientamento sine glossa.

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La Verità che libera non è più data da quella sottile e maliziosa sapienza umana, finalmente sussiste una sapienza incarnata, graziosa che nel Verbo di Dio divenuto figlio di Giuseppe e di Maria si rivela e si comunica, svelando l’uomo a sé stesso nel suo vero volto [cf. Gv 19,5].  La Vita ci ricorda il legame profondo con Dio perché è Lui il datore di ogni vita attraverso il suo Spirito, accettare la vita significa accettare indiscutibilmente la firma di Dio sul mondo creato. Nel Vangelo di Giovanni, Cristo è il depositario della vita del Padre, è lui che la dona a chi egli vuole [cf. Gv 5,21; 11,25-26].

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La fede nel Risorto Via, Verità e Vita ci permette di raggiungere Dio, questo è l’obiettivo di ogni professione di fede tanto è vero che l’evangelista Giovanni tende a sottolinearlo molto bene nel finale del suo Vangelo:

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«Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» [cf. Gv 20,30-31].

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La fede in Lui ci conduce sulla breccia, ci dispone all’Eccomi, ci rende possibile l’abbraccio col Padre in un tempo in cui gli abbracci ci sono negati. Non perdiamo tempo, desideriamo la vita, desideriamola sempre, desideriamola ora!

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Laconi, 10 maggio 2020

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Per stare quanto più possibile vicini ai fedeli in questo momento di grave crisi ed emergenza, la redazione de L’Isola di Patmos informa i Lettori che il nostro autore Padre IVANO LIGUORI, dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, cura su Facebook la rubrica «LA PAROLA IN RETE», offrendo delle meditazioni tre volte a settimana. Potete accedere alla pagina curata dal nostro Padre cliccando sul logo sotto:

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Arte e morte dinanzi a un virus invisibile e insidioso che nel corso di questa pandemia ha riportato l’uomo a riflette sulla vita e sulla morte

— gli specialisti ospiti de L’Isola di Patmos —

ARTE E MORTE DINANZI A UN VIRUS INVISIBILE E INSIDIOSO CHE NEL CORSO DI QUESTA PANDEMIA HA RIPORTATO L’UOMO A RIFLETTERE SULLA VITA E SULLA MORTE

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Di cultura in cultura la sepoltura e il rito funebre hanno contraddistinto il passaggio della morte dell’uomo, il tutto fino alla sopravvenuta diffusione del Cristianesimo nel quale, la deposizione dalla croce del Cristo morto diventa stereotipo fondamentale alla cura del corpo e dell’anima. Attraverso le iconografie cristiane artistiche di tutti i secoli abbiamo contezza di quanto l’uomo ne sia legato quasi endemicamente alla sua stessa esistenza.

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Autore
Licia Oddo *

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Raffaello Sanzio, Deposizione del Cristo, olio su tavola, Galleria Borghese, Roma

Tra gli effetti collaterali della pandemia da covid19, il momento della meditazione riacquista la sua fisionomia, in una società assuefatta per la mancanza di tempo alla frenesia del quotidiano. Così oggi il tempo torniamo a recuperarlo nei vari aspetti vitali, incluso quello artistico di un’arte intesa come nobile espressione dell’attività umana. Infatti, l’arte è di per sé un grande atto di resistenza alla morte [G. Vangi cfr. C. Casadei in Spettacoli, cultura e società].

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Se l’uomo è stato costretto a limitare e arrestare la sua esistenza, la morte, non si ferma davanti a niente e nessuno, anzi è la più tragica delle conseguenze, ma si tinge di toni più cupi a causa di questa forma pandemica, negando all’uomo la dignità del suo stesso culto. Così, se la natura rumoreggia nel silenzio dell’emergenza e si riprende il suo posto, la pandemia spodesta gli uomini nel culto dei morti, sino a impedire di poter procedere al loro estremo saluto, alla veglia del cadavere prima della sepoltura e alla sua pietosa tumulazione.

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In tutte le civiltà e da illo tempore, l’attenzione per il defunto è prioritaria nella tradizione di conferire la giusta sepoltura del corpo funzionale al benessere dell’anima. La tradizione letteraria e l’arte ci danno testimonianza per tutte le civiltà della storia del culto funebre a partire dal mondo greco, dai poemi omerici nella celebre rivendicazione di Priamo del corpo del figlio da parte degli achei, alle tragedie, in cui la disperazione di Antigone per la morte del fratello Polinice, infrange il divieto di sepoltura. Se quello del γέρας θανόντων era un obbligo dei superstiti verso il guerriero, allo stesso tempo era dovere proteggere il suo corpo dall’attacco della natura e dall’oltraggio del nemico provvedendone alla sua tumulazione. Sulla stregua della cultura greca l’occidente si fa erede e portatore di un sistema di valori, ideali in grado di resistere all’azione corrosiva del tempo, e di garantire l’immortalità all’uomo grazie al ricordo dei suoi congiunti.

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Catacombe di Santa Lucia, Siracusa: affresco funerario

Di cultura in cultura, sepoltura e rito funebre hanno contraddistinto il passaggio della morte dell’uomo, fino alla diffusione del Cristianesimo nel quale la deposizione dalla croce del Cristo morto diventa fondamentale simbolo della cura del corpo e dell’anima. Attraverso le iconografie cristiane artistiche di tutti i secoli abbiamo contezza di quanto l’uomo ne sia legato quasi endemicamente alla sua stessa esistenza.

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Da due mesi circa a questa parte, decine di migliaia di uomini, a causa del morbo covid19, sono stati costretti a rinunciare ai riti funebri, ma ancor prima all’ultimo saluto ai propri congiunti. Gli scenari che si aprono innanzi ai nostri occhi sono degni di un’ecatombe: cadaveri ammassati l’uno sull’altro nei corridoi dei nosocomi, privati della più semplice dignità sociale. Con stupore abbiamo assistito a una fila di camion militari carichi di bare portate da Bergamo verso vari crematori della Lombardia e dell’Emilia Romagna, perché i crematori della Città non potevano procedere a tutte quelle cremazioni. Immagini che hanno riportato alla mente le ben note pestilenze che hanno afflitto l’umanità attraverso i secoli. Corpi bruciati o gettati in fosse comuni ricoperte di calce viva a causa della mancanza di posti cimiteriali, tristemente obbligati a procedere con rapidità a sbarazzarsene per sanificare l’ambiente evitando l’ulteriore contagio.

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Statua genuflessa nel cuore di Times Square con le mani rivolte al cielo e titolata Covid Hero monument, opera dell’artista Sergio Furnari, divenuta simbolo della lotta alla pandemia.

Stessa procedura oggi riguarda alcuni dei Paesi della terra per non incorrere in altrettante pericolose infezioni che hanno sbalordito e inorridito le coscienze più comuni. Si assiste così all’umiliazione e mortificazione più dolorosa nella società post contemporanea che nulla ha potuto contro un evento di portata catastrofica, superiore a qualsiasi previsione. E se la storia sembra ripetersi anche a distanza di un secolo, quando negli anni Venti del Novecento si ebbe la grande epidemia nota come “febbre spagnola”, scandendo la nostra vita per fasi in attesa della normale ripresa quotidiana, a predominare su tutto è l’istinto di conservazione. Istinto primordiale che ne contraddistingue la natura umana, la cui reazione è oggi visibile nel lavoro dei medici e nelle rappresentazioni artistiche, che raccolgono le testimonianze materiali dell’operato umano a garanzia di una sopravvivenza totale sia fisica che identitaria della nostra specie, formata da uomini che spesso si sentono invincibili; uomini che forse, mai, avrebbero immaginato in che modo un virus invisibile e insidioso, li avrebbe portati di nuovo a dover riflettere sulla vita e sulla morte.

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Siracusa, 9 maggio 2020

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* Storico e critico d’arte. Già segnalatrice critica del Catalogo dell’arte moderna (C.A.M.) Editoriale Giorgio Mondadori – Cairo

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Sia abolito il Motu Proprio di Benedetto XVI sulla Messa Tridentina, rivelatosi alla prova dei fatti: infelice, inopportuno e dannoso

— I video delle lectiones magistrales —

SIA ABOLITO IL MOTU PROPRIO DI BENEDETTO XVI SULLA MESSA TRIDENTINA, RIVELATOSI ALLA PROVA DEI FATTI: INFELICE, INOPPORTUNO E DANNOSO

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Un prete trentenne che si mette a fare il tradizionalista tridentino, da dove tira fuori la formazione e la cultura indispensabile per celebrare col Messale di San Pio V? È presto detto: un sacerdote che volesse celebrare degnamente col Messale di San Pio V dovrebbe studiare per anni e anni la struttura del rito, il suo senso teologico e la sua evoluzione nei secoli; perché quel rito si colloca in una dimensione ecclesiale e pastorale che oggi non esiste più. In caso contrario cadrà in un grottesco peggiore di quello di certi preti che fanno buffonerie celebrando col Messale di San Paolo VI.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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In questa lectio spiego perché mi auspico che si proceda ad abolire l’uso del Messale di San Pio V concesso nel 2007 col Motu Proprio Summorum Pontificum sulla Liturgia Romana dal Sommo Pontefice Benedetto XVI.

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Muovendomi su rigorosi criteri storico-teologici, spiego anzitutto quali sono stati i limiti della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Una riforma di cui la Chiesa aveva bisogno, ma sui risultati della quale, oggi, c’è molto da discutere.

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In modo imparziale e senza pregiudizi, analizzo e spiego quanto al presente non sia proponibile ipotizzare un ritorno a un passato che secondo taluni non deve passare. Al tempo stesso, però, spiego quanto sia urgente mettere mano a dei correttivi, procedendo a una riforma della riforma di una sacra liturgia divenuta da decenni teatro dei personalismi soggettivi e stravaganti dei celebranti, sino a renderla instabile e piegata al capriccio particolare, anziché essere espressione orante della dimensione universale della Chiesa mediante il Sacrificio di Cristo Signore che si rinnova nella Santa Messa. 

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Dall’Isola di Patmos, 7 maggio 2020

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CANALE YOUTUBE DE L’ISOLA DI PATMOS

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Il Bel Pastore non è una iconografia devozionale, ma il modello possibile e realizzabile da perseguire che Cristo Divino Maestro ci offre

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

IL BEL PASTORE NON È UNA ICONOGRAFIA DEVOZIONALE, MA IL MODELLO POSSIBILE E REALIZZABILE DA PERSEGUIRE CHE CRISTO DIVINO MAESTRO CI OFFRE 

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Sia che siamo pastori o pecore è necessario passare attraverso Cristo Risorto perché è la sola regola per trovare la vita. Ripudiamo tutte le altre porte inutili, tutti gli altri pastori ingannevoli, non lasciamoci confondere per poi finire i nostri giorni delusi, ammalati e affamati. Chi non passa attraverso Gesù o è un ladro che vuole usare la fede per arricchirsi illecitamente oppure è un brigante che vuole usare la fede con violenza e aggressività. 

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa
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Foto di repertorio: il Sommo Pontefice Francesco

In questa IV domenica di Pasqua la nostra riflessione sul Vangelo di Giovanni si incentra sulla figura di Cristo risorto presentato come il buon Pastore, titolo che nell’originale greco è reso come il bel pastore cioè il modello esemplare per tutti coloro che sono chiamati ad essere pastori. Questa constatazione ci conduce oggi a portare nel cuore tutti i nostri pastori: dal Vescovo di Roma all’ultimo sacerdote ordinato. Tutti costoro sono pastori vicari nella misura in cui la loro vita ricalca quella dell’unico e autentico Pastore che è Cristo Risorto.

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Sarò sincero, non mi è mai piaciuto che il giudizio su un sacerdote venga confezionato a partire da quello che sa fare o da quello che può dare. Peggio ancora quando il sacerdote – o vescovo – viene individuato attraverso i propri titolo accademici, quali novelli blasoni da esporre nella pletora degli arrampicatori clericali verso la scalata carrieristica. L’unico titolo essenziale per un sacerdote è dato dal suo essere di Cristo, dentro quel mistero immeritato e gravoso di cui mai capiremo abbastanza il valore è racchiuso tutto il necessario per spalancare le porte del paradiso. Per questo – dicevo – soffro parecchio quando un sacerdote viene reputato meritevole o meno in base alle sue doti fisiche, intellettuali, accademiche, sociali, organizzative, ecclesiastiche. A me basta che sia sacerdote: convinto di esserlo, felice di esserlo, responsabile di esserlo.

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Lo sappiamo bene noi parroci quando ci sentiamo portare a metro di paragone dai fedeli: «Quel prete organizza molte gite e pellegrinaggi per i parrocchiani, ha messo numerose attività di aggregazione nella parrocchia, ha attrezzato l’oratorio in maniera magnifica, sa parlare ai giovani, ha dotato la Chiesa di tutti confort etc..».  Scusate, ma non posso che pensare come davanti a tutte queste meraviglie – sicuramente utili e giuste – molte comunità super accessoriate restano ancora vuote, i ragazzi abbandonano la fede dopo la cresima, la fame dell’Eucaristia e della Parola non viene colmata, la difficoltà a permanere nella fedeltà al Vangelo rappresenta la norma a cui abituarsi per non farsi etichettare come rigidi.

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Ecco allora perché il Vangelo di questa domenica è estremamente importante non solo per i fedeli laici ma soprattutto per noi ministri, costituiti pastori del gregge di Dio a noi affidato. Cristo nella sua incarnazione si carica della nostra natura umana e negli eventi della Pasqua la sopraeleva alla gloria di Dio. La nostra condizione finale, da un punto di vista teologico, è decisamente più superiore e sublime di quella che sperimentarono i nostri progenitori nel Paradiso Terrestre.

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Cari amici cristiani, questa è l’opera compiuta dal Risorto, da colui che è il Signore, e quest’opera di sopraelevazione dei fedeli alla gloria del Padre attraverso la loro quotidiana santificazione è compito eminente dei sacerdoti, questo è, e dovrebbe essere l’unico assillo che ci ha fatto lasciare tutto per seguire Cristo.

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Non mi posso accontentare di un gregge di fedeli soddisfatto se questo non è anche santo, la soddisfazione attiene all’immanenza, la santità abbraccia l’oggi eterno di Dio in un continuo movimento di conversione:

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«Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (cf. Lc 9,23-24).

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Per questo motivo l’evangelista Giovanni ci dice oggi che Gesù è l’unica porta attraverso la quale le pecore possono passare per essere sante e piene di Dio. Parole che vogliono indicare la mediazione di Colui che ci permette l’accesso al Padre, dentro una vita totalmente ripiena di Dio e che parli di Lui in tutte le sfaccettature più minute.

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Non deve meravigliarci questa prospettiva di perfezione, perché in questo mese di maggio abbiamo davanti l’esempio realizzato di Maria Santissima, colei che è chiamata santa e piena di grazia, proprio perché – attraverso il Figlio e in vista di Lui – ha ottenuto da Dio quella compiutezza di vita che è mèta di ogni battezzato. Maria è la prima cristiana che ha goduto in pienezza dei frutti della risurrezione del Figlio.

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Pertanto, sia che siamo pastori o pecore è necessario passare attraverso Cristo Risorto perché è la sola regola per trovare la vita. Ripudiamo tutte le altre porte inutili, tutti gli altri pastori ingannevoli, non lasciamoci confondere per poi finire i nostri giorni delusi, ammalati e affamati. Chi non passa attraverso Gesù o è un ladro che vuole usare la fede per arricchirsi illecitamente oppure è un brigante che vuole usare la fede con violenza e aggressività.

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Preghiamo ogni giorno affinché i nostri pastori non si tramutino in ladri o briganti, questo è compito di tutta la Chiesa, comunità che intercede affinché coloro che sono chiamati a santificare siano i primi santi di cui dover rendere grazie a Dio.

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Gesù è la porta della nostra vita, una vita risorta che – se accettata liberamente e con gioia – è capace di salvare dagli abissi della morte e costituire testimoni autentici di vita. Questo è il solo messaggio che desidero oggi incontrare negli occhi dei sacerdoti, questo solo è sufficiente, questo solo basta.

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Laconi, 3 maggio 2020

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Per stare quanto più possibile vicini ai fedeli in questo momento di grave crisi ed emergenza, la redazione de L’Isola di Patmos informa i Lettori che il nostro autore Padre IVANO LIGUORI, dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, cura su Facebook la rubrica «LA PAROLA IN RETE», offrendo delle meditazioni tre volte a settimana. Potete accedere alla pagina curata dal nostro Padre cliccando sul logo sotto:

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Visitate la pagina del nostro negozio librario QUI. In seguito all’emergenza da coronavirus l’Azienda Amazon che stampa e distribuisce i nostri libri ha dovuto dare priorità alla distribuzione dei generi di prima necessità. Stampa e distribuzione dei libri riprenderanno quindi dopo il 4 maggio.   

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Dinanzi al mistero del Cristo Risorto non possiamo rinunciare a vivere e ridurci a sopravvivere

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DINANZI AL MISTERO DEL CRISTO RISORTO NON POSSIAMO RINUNCIARE A VIVERE E RIDURCI A SOPRAVVIVERE 

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La mia coscienza di uomo, di cattolico, di sacerdote e di cittadino italiano mi impone quindi di prendere la seguente decisione: questa è l’ultima volta che celebro la Santa Messa in diretta televisiva, perché non voglio diventare complice di un modo di fare assurdo e mortificante. Altri decideranno in modo diverso, ma io non posso, non debbo e non voglio fare altrimenti, perché io voglio vivere e non ridurmi a sopravvivere, voglio essere testimone responsabile di Cristo risorto, l’unico che ci libera dal terrore del male e della morte. 

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Giovanni Zanchi

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PDF  articolo formato stampa

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Fratelli,

la effige di Santa Maria del Conforto, venerata nella Diocesi di Arezzo

celebriamo questa Santa Messa a gloria di Dio e in onore di Santa Maria nella resurrezione del Signore (cf Raccolta delle Messe della beata Vergine Maria 15). Il giorno di sabato è particolarmente consacrato alla devozione mariana, perché nel giorno del Sabato Santo la Madonna rimase sola sulla faccia della terra a credere e a sperare nella resurrezione di Gesù dai morti; nel giorno del Sabato Santo tutta la fede della Chiesa si “racchiuse” in Maria Santissima, sempre unita nella fede obbediente al suo Divin Figlio. Per questo, appena resuscitato, Gesù apparve innanzitutto alla sua Santa Madre; a questo proposito, rileggo parte di quanto insegnò san Giovanni Paolo II nel corso dell’Udienza generale del 21 maggio 1997:

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«I Vangeli riferiscono un piccolo numero di apparizioni di Gesù risorto e non certo il resoconto completo di quanto accadde nei quaranta giorni dopo la Pasqua. La Vergine, presente nella prima comunità dei discepoli (cf At 1, 14), come potrebbe essere stata esclusa dal numero di coloro che hanno incontrato il suo divin Figlio risuscitato dai morti? È anzi legittimo pensare che verosimilmente la Madre sia stata la prima persona a cui Gesù risorto è apparso. L’assenza di Maria dal gruppo delle donne che all’alba si reca al sepolcro (cf Mc 16, 1; Mt 28, 1), non potrebbe forse costituire un indizio del fatto che Ella aveva già incontrato Gesù? Questa deduzione troverebbe conferma anche nel dato che le prime testimoni della resurrezione, per volere di Gesù, sono state le donne, le quali erano rimaste fedeli ai piedi della Croce e quindi più salde nella fede. Il carattere unico e speciale della presenza della Vergine sul Calvario e la sua perfetta unione con il Figlio nella sofferenza della Croce, sembrano postulare una sua particolarissima partecipazione al mistero della risurrezione. Presente sul Calvario durante il Venerdì Santo (cf Gv 19, 25) e nel Cenacolo a Pentecoste (cf At 1, 14), la Vergine Santissima è probabilmente stata testimone privilegiata anche della risurrezione di Cristo, completando in tal modo la sua partecipazione a tutti i momenti essenziali del Mistero pasquale».

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San Giovanni Paolo II dunque insegna che, tra i singolari privilegi soprannaturali che la Madonna ebbe da Dio, vi fu anche l’apparizione del Figlio appena risorto dai morti. Per noi ora l’incontro con Gesù risorto avviene innanzitutto nel sacramento dell’Eucaristia, celebrato nella Santa Messa e ricevuto nella Santa Comunione; sotto le apparenze del pane e del vino consacrati è infatti presente veramente, realmente e sostanzialmente Gesù risorto, in corpo, sangue, anima e divinità; quello stesso e medesimo Cristo risorto che i beati godono già in Paradiso, quello stesso e medesimo Cristo risorto che la Madonna e i primi discepoli contemplarono qui in terra nei 40 giorni della prima Pasqua, quello stesso e medesimo Cristo risorto ora si comunica a noi nel Santissimo Sacramento dell’altare; l’unica differenza fra i beati in cielo, la Madonna e i primi discepoli e noi è che essi lo contemplano e lo contemplarono in visione, noi per ora solo nella fede sotto il velo del Sacramento.

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Nella Santa Messa e nella Comunione sacramentale noi godiamo quindi della presenza di Gesù risorto che ci assimila a sé e ci comunica la sua vita gloriosa. Ma a causa della pandemia in corso, la stragrande maggioranza dei fedeli è da ormai troppo tempo privata della grazia della partecipazione alla Santa Messa e della ricezione della Santa Comunione. In principio i nostri vescovi hanno giustificato tale gravissima privazione come un doloroso sacrificio e un atto di responsabilità da parte della Chiesa, per favorire la comune lotta contro il diffondersi della malattia e, nel sorgere dell’emergenza, questo poteva anche essere del tutto condivisibile, in attesa di potersi organizzare in sicurezza. Ma ora, continuare a negare per un tempo indefinito la partecipazione alla Santa Messa e la ricezione dei Sacramenti, espone il nostro popolo a gravissimi rischi spirituali, più pericolosi di quelli fisici; ne elenco alcuni: innanzitutto il pericolo di credere che la fede possa essere ridotta ad una semplice opinione soggettiva da vivere solo nel privato, senza forma pubblica e sociale e che anzi una pratica religiosa senza riti e manifestazioni pubbliche e ridotta al compimento di preghiere solitarie e atti filantropici sarebbe più pura e matura; poi il pericolo che la Chiesa sia totalmente asservita allo Stato, senza più alcuna libertà di predicazione e di azione, né al proprio interno né a livello sociale, come avviene per esempio nella Cina comunista, origine di questa pandemia che ci affligge; quindi il pericolo che le nostre chiese siano falsamente considerate i luoghi più pericolosi per la salute pubblica e le nostre Liturgie fonte principale di diffusione del contagio virale  ― mentre le chiese sono i luoghi dove con  più facilità si possono osservare le norme della profilassi e la celebrazione dei Sacramenti sono gli atti meno pericolosi per la salute ―; infine il pericolo che la gente si convinca erroneamente della inutilità della fede cristiana e della esistenza stessa della Chiesa.

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Ormai è chiaro che molti politici e i loro sedicenti esperti, molti giornalisti, molta ― troppa ― gente comune vuole sfruttare la pandemia per annientare la presenza e l’opera della Chiesa in Italia, costringendo i cattolici a praticare la fede nemmeno nelle chiese, ma i preti nel chiuso delle sacrestie e i fedeli nel chiuso di casa propria, isolati gli uni dagli altri.

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Finora ci siamo adattati con grande sofferenza a tante rinunce spirituali anche in cose importantissime, ma ora la situazione è cambiata ― grazie a Dio e al sacrificio di tanti ― e non è più possibile continuare a vivere così, cioè: per paura della morte fisica ridursi a sopravvivere e rinunciare a vivere; morire di disoccupazione per non morire di contagio virale; morire come Chiesa per continuare a sopravvivere come singoli credenti appena tollerati dal mondo incredulo. Chi non crede in Cristo risorto dai morti finisce sempre e inevitabilmente a sopravvivere invece che a vivere: «Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» (1Cor 15, 32), così pensano e vivono gli atei; ma noi cristiani siamo i testimoni di Cristo risorto dai morti e non ci è possibile rinunciare a vivere per ridurci a sopravvivere, né come uomini né come cristiani.

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Questo significa anche che le Messe solo teletrasmesse hanno fatto il loro tempo e non è più né necessario né opportuno continuare a celebrare in chiese deserte con tutto il nostro popolo ridotto ad una massa informe di telespettatori più o meno coinvolti; in tanti altri Paesi afflitti dalla pandemia hanno continuato a celebrare la Santa Messa col popolo, certamente con i dovuti accorgimenti; ora è possibile ricominciare a farlo anche in Italia, senza bisogno di permessi da parte di chicchessia ― tanto meno le autorità civili, che non hanno il potere di proibirci o di permetterci quello che dobbiamo fare nelle chiese ―; ora è possibile ricominciare a celebrare i Sacramenti col popolo in chiesa, senza mettere in pericolo la salute fisica di nessuno, certamente facendolo con quella responsabilità che noi cristiani abbiamo sempre abbondantemente dimostrato e insegnato agli altri in tempi di calamità. Pertanto la diretta televisiva della Santa Messa deve tornare quanto prima ad essere un fatto eccezionale e sporadico a servizio spirituale unicamente di coloro che per malattia o vecchiaia sono impediti a partecipare personalmente; tutti gli altri fedeli devono quanto prima poter tornare in chiesa a celebrare e ricevere i Sacramenti.

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Gesù dice: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno … Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». (Gv 6, 51. 54). Gesù dice «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19); Gesù non dice: «Statevene rintanati in casa ognuno per conto suo per paura di morire perché tanto fa lo stesso; ognun per sé e Dio per tutti».

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La mia coscienza di uomo, di cattolico, di sacerdote e di cittadino italiano mi impone quindi di prendere la seguente decisione: questa è l’ultima volta che celebro la Santa Messa in diretta televisiva, perché non voglio diventare complice di un modo di fare assurdo e mortificante. Altri decideranno in modo diverso, ma io non posso, non debbo e non voglio fare altrimenti, perché io voglio vivere e non ridurmi a sopravvivere, voglio essere testimone responsabile di Cristo risorto, l’unico che ci libera dal terrore del male e della morte.

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Santa Maria, allietata dal tuo Divin Figlio appena risorto dai morti all’alba della Pasqua, intercedi per noi e ottienici dal Signore glorioso la liberazione dalla pandemia e il coraggio di professare la nostra fede sempre e in ogni luogo e circostanza (sicura o pericolosa) e soprattutto ottienici la libertà dalla tirannia del potere mondano e dal ridurci a sopravvivere, prigionieri e paralizzati dalla paura della morte.

Sia lodato Gesù Cristo! 

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Chiesa Cattedrale di Arezzo, 2 maggio 2020

Missa de Sancta Maria in Sabbato

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Le video-meditazioni del Presbitero Mons. Giovanni Zanchi sono disponibili nella nostra pagina

VIDEO

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