Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Gabriele

I vitelli d’oro della nostra società moderna, da tempo regredita al neopaganesimo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

I VITELLI D’ORO DELLA NOSTRA SOCIETÀ MODERNA, DA TEMPO REGREDITA AL NEOPAGANESIMO 

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I mezzi di comunicazione e le mode tendono a costruire l’immagine delle persone prive di difetti, impeccabili. L’errore? Avviene semplicemente per una svista, un incidente avvenuto nella persona “perfetta”. Basta però ascoltare un telegiornale per tornare alla realtà, per esempio ascoltando le notizie della cronaca nera, dinanzi alla quale, questa immagine di purezza e di perfezione, finisce ribaltata.

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Autore:
Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle,

Marc Chagall, acquaforte: Il vitello d’oro

tutti commettiamo errori e peccati. L’ideale astratto della perfezione assoluta raggiunta su questa terra è irreale e possiamo togliercelo dalla testa, basterebbe ricordare a noi stessi che abbiamo ereditata una natura corrotta dal peccato originale.

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I mezzi di comunicazione e le mode tendono a creare immagini di persone senza difetti, impeccabili. L’errore? È solo una svista, un incidente nella persona “perfetta”. Però basta ascoltare un telegiornale per tornare alla realtà, per esempio le notizie di cronaca nera; e questa immagine di purezza e di perfezione, finisce ribaltata.

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Nelle letture di oggi [vedere Liturgia della parola, di questa XXIV domenica del tempo ordinario, QUI] possiamo avere una prospettiva cattolica sul nostro stato di peccatori, pentiti e perdonati da Dio, nell’Eterno Padre tramite Gesù nell’unità dello Spirito Santo. A partire dalla lettura vetero testamentaria che racchiude il monito:

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«Va’, scendi, perché il tuo popolo, […] Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici» [Es, 32,7-11.13-14].

Prostrarsi di fronte a una statua di metallo fuso è molto significativo, perché per il Popolo d’Israele equivale a dare un’importanza enorme alle cose materiali. Al tempo stesso questo implica anche il nascondersi sotto una protezione di metallo: cioè cercare protezione nei propri convincimenti, nelle certezze umane. È un errore tipico anche dei giorni nostri, un peccato attraverso il quale impediamo che Dio sia più importante, incapaci a percepire e accogliere il Dio Eterno e trascendente mentre ci offre protezione.

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Di esperienza totalmente contraria è invece San Paolo, quando scrive al suo diletto discepolo Timoteo:

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«Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» [1 Tm 1,12-17] 

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San Paolo riconosce di aver bisogno di Gesù: si riconosce peccatore fragile, senza altre difese se non Dio stesso. Simbolicamente, potremmo dire che si prostra dinanzi all’oro: si pone sotto la protezione massima che è Dio. Inoltre, avendo ricevuto misericordia per i suoi peccati, è in grado di trasmettere questa misericordia.

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Proviamo a riflettere anche su questo: quando otteniamo misericordia diveniamo poi strumenti di misericordia veritieri, perché abbiamo sperimentato per primi un amore grande.

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Nella versione lunga del Vangelo Lucano, questo grande amore ci è descritto dalla Parabola del figliol prodigo. Il passaggio finale, quello del ritorno a casa del giovane scapestrato, mostra questa scena:

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«Suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» [Lc 15,1-32].

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Una parabola che descrive con immagini quello che accade ogni volta che ci presentiamo al confessionale per chiedere perdono dei nostri peccati. L’Eterno Padre ha infatti compassione, tenerezza [dal greco σπλάγχνα] della condizione umana dei figli smarriti, ma desiderosi di tanto amore. Per ciò la corsa incontro e il gettarsi al collo sono immagini che richiamano l’idea della cancellazione dei nostri peccati nell’assoluzione: quando infatti veniamo assolti, Gesù Sacerdote ci corre incontro e ci libera dal peso dei peccati, una specie di giogo sul collo. Così siamo pronti per ricominciare la vita di santità: lo Spirito Santo ci pone come un bacio sul cuore, quando ottemperiamo la penitenza che ci viene chiesto di fare, come piccola soddisfazione dei peccati commessi e che ci dona la guarigione spirituale.

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Per noi, la salvezza personale e dell’altro, che avviene ogni volta che ci confessiamo e lasciamo a Dio tutti i nostri peccati, è un cammino che facciamo con tutta la Chiesa. Un cammino comunitario, che ha come espressione più bella la comunione con Dio e con l’altro. Il sentimento umano che ci accompagna ai nostri momenti di redenzione, è la gioia. Un incontro vero con Gesù raramente non porta alla gioia. Ha scritto Jerome David Salinger:

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«La più spiccata differenza tra la felicità e la gioia è che la felicità è un solido e la gioia è un liquido» (I Nove racconti, 1953).

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Chiediamo al Signore di donarci la felicità nella solidità del suo Pane di Vita Eterna e la gioia nel liquido del Vino di Salvezza.

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Così sia.

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Roma, 14 settembre 2019

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Quale è la vera visibilità dell’autentico cristiano? Le imitazioni di Cristo

Omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

QUALE È LA VERA VISIBILITÀ DELL’AUTENTICO CRISTIANO? LE IMITAZIONI DI CRISTO

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Una certa umiltà ecclesiastica dal sapore di naftalina ci ha purtroppo abituati a ostentare una finta umiltà che – nel momento in cui cerca strategicamente l’ultimo posto – si aspetta la glorificazione e il prestigio tanto agognato. Con questa falsa umiltà, che purtroppo oggi nella Chiesa risparmia veramente pochi, c’è il serio rischio che si snaturi anche la virtù della carità. Infatti, quando la carità viene fatta per ostentare potenza e prestigio, ottenere favori, recepire guadagni fino ad arrivare alla speculazione si può star pur certi che non esiste più carità.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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portare la croce di Cristo

Questa XXII Domenica del tempo ordinario, ci riporta alla mente uno dei classici della spiritualità cristiana, L’imitazione di Cristo, in particolare nella parte in cui si ammonisce: «Ama nesciri et pro nihilo reputari» [ama essere non conosciuto e ritenuto niente (cfr. lib. I, cap. 2, v. 15)].

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Se pensiamo allo stile di vita che conduciamo oggi, anche come credenti, questo monito risuona del tutto irrazionale e anche un po’ offensivo. Nessuno ama infatti essere dimenticato, viviamo all’interno di un’epoca che pretende la visibilità insieme alla sottolineatura del proprio egocentrismo e della propria persona. Ormai, abbiamo valicato i limiti del narcisismo, ci siamo spinti oltre, forse verso un punto di non ritorno. 

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La liturgia di questa domenica ci soccorre in questa deriva dell’ego, attraverso l’insegnamento che Cristo impartisce ai farisei durante un pranzo [vedere Liturgia della Parola, QUI]. Il brano lucano interroga il credente proprio sulla tematica dell’umiltà fino a introdurre una bella riflessione sul modo di operare attivamente la carità senza nascondere secondi fini.

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L’umiltà è la virtù cristiana che più ci rende simili a Cristo, il quale «umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Purtroppo, questa virtù non è di facile conquista se non diventiamo capaci di chiederla con forza allo Spirito Santo e se non adeguiamo i nostri i sentimenti, ai sentimenti che furono di Cristo Gesù durante la sua vita terrena.

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L’umiltà è una grazia che è necessario richiedere tutti i giorni poiché nessuno di noi può reputarsi immune dalla superbia, in virtù del fatto che il peccato originale è esplicitamente un peccato di superbia. Benché redenti da Cristo con il battesimo nella sua morte e risurrezione, la ferita del peccato originale ancora ci disturba proprio attraverso il nefasto vizio della superbia. E dalla superbia derivano a cascata tutti gli altri vizi e peccati.

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Lo stesso Demonio – personaggio ormai negato da una certa schiera di cristiani emancipati, nonché teologi adulti [vedere precedente articolo, QUI] – è il padre della superbia e la sua ribellione è originata dalla volontà di superare Dio e di prenderne il posto. Gesù nel Vangelo ci raccomanda di desiderare l’ultimo posto in quanto il nostro valore consiste non nella manifestazione di una potenza o di un prestigio mondano ma nel rapporto esclusivo con il Padre.

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Ricorda il Beato Padre Francesco nelle sue Ammonizioni:

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«Beato il servo, che non si ritiene migliore, quando viene lodato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più» [cfr. Ammonizioni XIX, FF 169]

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Per questo l’uomo è chiamato a farsi piccolo e ad amare sommamente questa piccolezza perché è lì che si nasconde il suo tesoro.

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Una certa umiltà ecclesiastica dal sapore di naftalina ci ha purtroppo abituati a ostentare una finta umiltà che – nel momento in cui cerca strategicamente l’ultimo posto – si aspetta la glorificazione e il prestigio tanto agognato. Con questa falsa umiltà, che purtroppo oggi nella Chiesa risparmia veramente pochi, c’è il serio rischio che si snaturi anche la virtù della carità. Infatti, quando la carità viene fatta per ostentare potenza e prestigio, ottenere favori, recepire guadagni fino ad arrivare alla speculazione si può star pur certi che non esiste più carità.

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Il contraccambio, secondo l’insegnamento del Regno, non è la moneta di scambio del discepolo e questo vale sia nelle realtà profane che in quelle sacre: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» [cfr. Mt 10,8].

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La carità che si concretizza nella cura del disagiato, del malato, del carcerato, del lontano, dello smarrito di fede, del confuso, del peccatore, dell’eretico, dell’apostata e via dicendo a seguire, sia gratuita e sollecita, priva di tanti ragionamenti che la tramutano in disciplina socio-psicologica. La carità cristiana parla solo di Dio, e Dio attraverso suo Figlio si è annientato sulla croce per insegnarci ad amare fino al dono totale di noi stessi. La teologia dell’umiltà e dell’ultimo posto coincide con il Calvario, una lezione difficile da mandare giù.

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L’ultimo posto è certamente un posto scomodo ma è il più sicuro avamposto del paradiso che l’uomo possa desiderare su questa terra.

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Cagliari, 31 agosto 2019

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