È vero che quando si nasce leoni non si può diventare antilopi, ma dinanzi alla tragedia dell’impotenza e della inutilità, bisogna riflettere che c’è un tempo … c’è un tempo … c’è un tempo …

— attualità ecclesiale —

È VERO CHE QUANDO SI NASCE LEONI NON SI PUÒ DIVENTARE ANTILOPI, MA DINANZI ALLA TRAGEDIA DELL’IMPOTENZA E DELLA INUTILITÀ, BISOGNA RIFLETTERE CHE C’E UN TEMPO … C’E UN TEMPO … C’E UN TEMPO …

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Una frase che spesso sentiamo ripetere all’interno di certe frange di Chiesa è questa: «Indietro non si torna!». Frase che suona: in parte come uno di quei motti trionfalistici scanditi in quelle che furono le vecchie piazze per le parate militari della ex Unione Sovietica, in parte come una minaccia verso chi osa essere perplesso o dubbioso verso «il nuovo corso». Ebbene, a prescindere dalle intenzioni di fondo, una cosa resta certa: è vero che «indietro non si torna», perché l’uomo, dopo avere tentato Dio ed essersi infine sostituito a Dio, si è lanciato dal portello dell’aereo senza paracadute. Ecco perché questa espressione, anche se mossa spesso dalle peggiori ideologie clericali, è del tutto giusta e pertinente: «indietro non si torna».

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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… soglia del non ritorno

Tuona il Profeta Geremia in uno dei suoi passi: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo» [Ger 17,5], per seguitare poco più avanti «Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è sua fiducia» [Ger 17,7]. Se la seconda di queste frasi è di facile comprensione, la prima, può richiedere spiegazioni. Molti, sono coloro che la intendono come se fosse riferita a un uomo che confida in un altro uomo. Più complesso e profondo è invece il senso, perché il Profeta non si riferisce all’uomo fisico inteso come un altro soggetto, ma a ciò che in ebraico è racchiuso nel termine אדם, da cui deriva il nome Adamo, quindi a ciò che in greco è racchiuso nel termine ἀνθρωπος [anthrōpos] tradotto in latino con il termine homo. Questi termini sono usati in ambito filosofico e teologico per indicare l’uomo in generale, l’umanità e la condizione umana.   

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Il termine biblico ebraico אָרוּר [harur], il cui significato è perlopiù “dannato”, è tradotto in latino maledicĕre, composto dalle parole male e dicĕre, che alla lettera significa «dir male». Sempre in linguaggio filosofico e teologico, con l’espressione «maledetto» non si rappresenta il lancio di una maledizione sull’uomo colpevole di misfatti, bensì il rifiuto della grazia; che all’uomo non è stata tolta, ma della quale egli si è liberamente privato. Con il termine “maledetto” si vuole quindi indicare l’uomo disgraziato nel senso etimologico del termine: colui che ha perduta la grazia altrui, in questo specifico caso la grazia di Dio.

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L’uomo che confida nell’uomo è “maledetto”, o se preferiamo disgraziato, nella misura in cui ha rifiutato le azioni della grazia soprannaturale per fare unico affidamento sulle sole forze e risorse umane. Non solo perché sicuro di poter fare a meno di Dio, ma perché incurante della sua sussistenza e presenza. L’uomo che confida solo nell’uomo, è privo di qualsiasi prospettiva soprannaturale, è figlio del finito proiettato in ciò che è destinato a dissolversi, senza tendere a trascendere verso l’eterno infinito.

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Il confidare nell’uomo è un’insidia terribile che assale e consuma anche il cosiddetto “animale religioso”, senza che questi si renda conto di avere trasformato il mistero di Dio in un pretesto per meglio confidare solo in sé stesso e per imporre poi sé stesso. Questa è l’essenza di quello che solitamente indico come la forma di ateismo in assoluto peggiore: l’ateismo religioso.

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Numerosi sono i miei scritti, oltre alle diverse video-lezioni, per seguire con vari dibatti televisivi nel corso dei quali ho espresso e ribadito che oggi, a livello ecclesiale ed ecclesiastico, stiamo vivendo una crisi senza precedenti storici. Ho anche provato a cercare un precedente nell’intera storia della Chiesa, pur senza riuscirvi. Non ho trovato nulla di simile, solo qualche cosa di vagamente equiparabile per processo analogico: la grande crisi generata nel IV secolo dall’eresia ariana e la caduta dell’Impero Romano alla fine del V secolo.

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Nel corso degli ultimi anni ho più volte spiegato che la decadenza diventa irreversibile quando si supera la cosiddetta “soglia di non ritorno”, rendendo con ciò l’idea mediante l’immagine del paracadute. Mi spiego: poniamo che un paracadutista pronto per il lancio sull’aereo a tremila metri di altezza decida, per ragioni inspiegabili, di gettarsi nel vuoto senza paracadute. È presto detto: finché sarà dinanzi al portello aperto sul vuoto, potrà esercitare la propria volontà di decisione e indietreggiare, indossare il paracadute e poi lanciarsi. Se però si lanciasse senza paracadute, in tal caso non potrà mai, attraverso alcun esercizio di volontà, arrestarsi mentre precipita nel vuoto, risalire sull’aereo, indossare il paracadute e lanciarsi di nuovo con l’adeguato equipaggiamento. E con questo è rappresentato il concetto di superamento della soglia di non ritorno.

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Come già più volte spiegato in passato, in questo tragico contesto odierno si collocano gli spiritualisti irrazionali e i mistici strampalati che cercano di velarsi in assurde consolazioni, per esempio affermando: «Tanto la Chiesa è di Cristo ed è governata dallo Spirito Santo, quindi ci penserà Lui». A costoro si aggiungono poi i madonnolatri, ignari di cosa sia la vera devozione alla Beata Vergine Maria, a cui riguardo basterebbe leggere, ma più che altro comprendere, il Trattato sulla vera devozione a Maria di San Luigi Maria Grignion de Montfort. Questi soggetti venefici, nei loro siti e blog, dove stuzzicano i pruriti con annunci di imminenti catastrofi, sono seguiti di prassi da un pubblico numeroso assetato in modo morboso di sensazionale. E così, miscelando assieme apparizioni riconosciute nel tempo dalla Chiesa e numerosi sedicenti veggenti sparsi oggi per il mondo, dopo avere estrapolato mezze frasi da scritti di Beati e Santi mistici tutt’oggi di difficile interpretazione, procedono a stuzzicare i pruriti delle masse sempre più ignoranti in materia di dottrina e di fede, affermando che i tempi sono vicini e che a breve il cuore immacolato di Maria trionferà. Inutile a dirsi: siamo dinanzi a espressioni di falsa fede, costruite su forme magico-misteriche improntate su istinti morbosi stuzzicati con il prurito di segreti tremebondi che incomberebbero sull’umanità, il tutto caratterizzato di prassi dall’elemento del fanatismo. Purtroppo, tentare di correggere e formare alla autentica fede queste persone è tempo perso: il fanatico è per sua natura ignorante nella misura in cui è arrogante. Sicché, tutto ciò che si può ottenere, è che l’ignorante aggredisca con insulti sacerdoti e teologi accusandoli di essere privi di fede, contro la Madonna e assoggettati al Demonio. Per questo ho dedicato una lectio alla sapienza sotto il titolo «La sapienza, antidoto al cancro della emotività di preti e laici» [vedere QUI], ed in precedenza due lectio sulla obbedienza nella fede registrate durante l’ultimo Triduo Pasquale [vedere QUI, QUI]. Il tutto si trova ovviamente nella pagina «I nostri video» de L’Isola di Parmos.

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Attendere che lo Spirito Santo giunga a sistemare siffatta situazione disastrosa e irreversibile, o che per incanto e magia tutto sia sistemato da un non meglio precisato trionfo del cuore immacolato di Maria, sono pensieri e affermazioni che non hanno niente da spartire con la fondamentale virtù teologale della speranza [cfr. I Cor 13, 13]. Tutt’altro: rasentano la bestemmia del tentare Dio. E adesso è necessario ricordare che la terribile azione del tentare Dio consiste nel mettere alla prova, con parole o atti, quell’onnipotenza divina i cui principali attributi sono la bontà e la misericordia. Fu infatti a questo modo, come narra il Vangelo delle tentazioni [cfr. Lc 4,9], che Satana cercò di istigare l’uomo Gesù a gettarsi giù dal pinnacolo del Tempio, nel tentativo di obbligare Dio a intervenire. Al tutto si aggiunga: queste affermazioni “strampalate” denotano anzitutto una percezione errata della volontà divina e delle azioni del Padre e del Figlio per mezzo dell’opera dello Spirito Santo.

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Per comprendere la vera presenza di Dio nella storia dell’uomo, ma al tempo stesso quando e perché Dio non può intervenire, bisogna partire dalla causa prima racchiusa nel mistero della creazione narrato nel Libro della Genesi: la libertà e il libero arbitrio dell’uomo, che è un suffisso del mistero stesso della creazione: « Dio volle, infatti, lasciare l’uomo “in balia del suo proprio volere” (cfr. Sir 15, 14) perché così esso cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, con l’adesione a lui, alla piena e beata perfezione» [Gaudium et spes, 17]. Da questa causa prima conseguono gli effetti generati dall’esercizio di questo dono di Dio, che è appunto la libertà. Pensare quindi che Dio, dopo che l’uomo ha esercitato i doni ricevuti, intervenga per porre rimedio all’esercizio del dono supremo della sua libertà, equivale a pensare che Dio possa contraddire sé stesso, assieme all’intero mistero della creazione, sino a sfidare tutte le leggi della fisica per riportare sull’aereo l’improvvido che sta precipitando verso il suolo, facendo sì che indossi il paracadute e che poi si lanci di nuovo.

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La decadenza irreversibile connessa al superamento della “soglia di non ritorno” è legata al princìpio di libertà e di libero arbitrio, che ripeto: è un elemento strutturale del mistero stesso della creazione, che mai Dio potrà alterare. Infatti, che Dio possa tutto, in quanto onnipotente, non vuol dire che possa essere contraddittorio e incoerente, perché mai potrebbe esserlo. Per questo poc’anzi affermavo che a pensare questo si corre il rischio di confondere Dio con Mago Merlino, lo Spirito Santo con la bacchetta magica dell’Onnipotente Creatore, la Beata Vergine Maria in una via di mezzo tra la dea Athena e la Fata Morgana. Purtroppo, diversi fedeli la cui fede si regge su forme di fragile devozionismo, dinanzi a certi richiami reagisco quasi sempre e di prassi male, per esempio accusando, come è accaduto a me, di … essere contro la Madonna. Se da una parte posso amareggiarmi per loro, dall’altra prendo atto che questi non pochi devoti al di sopra e spesso al di fuori di tutti i ranghi della sana dottrina cattolica, non sanno neppure che cosa sia, nell’ambito delle disputazioni teologiche, il legittimo esercizio del senso critico, in assenza del quale, oggi, non avremmo né le opere dei grandi Padri della Chiesa né le grandi opere teologiche, semmai avremo sempre gli àuguri, gli indovini che nella religio pagana dell’antica Roma se ne stavano sul pons sublicio a studiare il volo degli uccelli e il movimento delle acque per predire il futuro, esattamente come quelli che oggi annunciano che i tempi sono vicini … sono vicini … e a breve si realizzerà il definitivo trionfo del cuore immacolato di Maria. Insomma, penso che dovremmo avere proprio di che temere, perché se da una parte si è reso Cristo Dio troppo umano e spesso solo umano, dimenticando la sua duplice natura ipostatica di vero Dio e vero uomo, dall’altra, dinanzi alla nostra terribile ed evidente crisi della dottrina, il devozionismo più degenerato ha reagito spostando tutta quanta la divina regalità di Cristo sulla figura della Mater Dei, mutandola nella quarta persona della Santissima Trinità, se non addirittura la prima.

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Per inciso: il simbolo di fede niceno-costantinopolitano, ossia il Credo che recitiamo nei momenti liturgici previsti, se non erro annuncia il trionfo di Cristo Dio, o no? Concetto espresso attraverso la frase: «et íterum ventúrus est cum glória, iudicáre vivos et mórtuos, cuius regni non erit finis … [e un giorno tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine]». Detto questo: mi si vuole indicare in quale meandro del deposito della fede si parla del cosiddetto: «decisivo trionfo del cuore immacolato di Maria?». O sarà forse la Beata Vergine a tornare un giorno nella gloria per giudicare i vivi e i morti, affinché dopo il trionfo del suo cuore immacolato il suo regno non abbia fine? Mi si spieghi, per favore, mi si spieghi … perché forse ho male inteso il Santo Padre e dottore della Chiesa Agostino vescovo d’Ippona, quando parla di una unica parusia di Cristo Dio [Epistola 198, n.1-5]. Sicuramente, assieme all’Ipponate, ho inteso male anche altri Santi Padri e dottori della Chiesa, da Ireneo di Lione a Girolamo e vari altri a seguire, che nulla sono, o comunque sono ben poca cosa, dinanzi a certi odierni fomentatori di devozionismi morbosi, sensazionali e intrisi di eventi catastrofici, i quali, esattamente come preannunciava il Beato Apostolo Paolo scrivendo al discepolo Timoteo: sono allergici alla sana dottrina per il prurito di udire cose nuove, creandosi maestri secondo le loro voglie [II Tm 4, 1-5].

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Una frase che spesso sentiamo ripetere all’interno di certe frange di Chiesa è questa: «Indietro non si torna!». Frase che suona: in parte come uno di quei motti trionfalistici scanditi in quelle che furono le vecchie piazze per le parate militari della ex Unione Sovietica, in parte come una minaccia verso chi osa essere perplesso o dubbioso verso «il nuovo corso». Ebbene, a prescindere dalle intenzioni di fondo, una cosa resta certa: è vero che «indietro non si torna», perché l’uomo, dopo avere tentato Dio ed essersi infine sostituito a Dio, si è lanciato dal portello dell’aereo senza paracadute. Ecco perché questa espressione, anche se mossa spesso dalle peggiori ideologie clericali, è del tutto giusta e pertinente: «indietro non si torna».

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Al concetto enunciato e spiegato di superamento della “soglia di non ritorno”, ho sempre aggiunto l’elemento chiave: siamo dinanzi a una grande prova di fede, sulla quale ci è concessa la grazia di poter giocare per intero il nostro essere e divenire di cristiani, ossia la nostra salvezza. Capisco quanto l’immagine che adesso segue sia di per sé brutta e sgradevole, però è ciò che ci attende. Infatti, quando ci saremo sfracellati al suolo, saranno stabilite le sorti eterne delle nostre anime attraverso il giudizio immediato di Dio. Per quanto invece riguarda i nostri corpi esplosi e sparsi in mille pezzi appena toccata terra dopo la caduta dal portello dell’aereo ad alta quota, anch’essi avranno una loro utilità: carne e sangue saranno concime sull’arida terra per coloro che un giorno, con grande fatica e chissà quando, dovranno ricominciare a piantare di nuovo i primi semi del Santo Vangelo.

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Di recente qualcuno ha alluso che millanterei di essere confessore e direttore spirituale di numerosi sacerdoti, inclusi alcuni che, in seguito a profonde e dolorose crisi, hanno chiesto la dispensa dal celibato e la dimissione dallo stato clericale. Vi confesso che mi piacerebbe essere in tal senso un millantatore, perché raccogliere di questi tempi il dolore, l’amarezza, lo sconforto, le crisi spirituali ed esistenziali dei sacerdoti, oltre a non essere piacevole, è qualche cosa che lascia il segno addosso, assieme a tanta amarezza e umano dolore. Dio solo sa quante volte, per smaltire certi colloqui, mi sono occorse anche settimane. Perché noi sacerdoti, a differenza di molti chirurghi, non abbiamo quelle naturali barriere che ci separano dal profondo dolore umano, al contrario: il dolore umano lo facciamo nostro e lo assimiliamo nel modo in cui siamo chiamati ad assimilare il mistero del Santissimo Sangue di Cristo agonizzante sulla croce. Meno che mai auguro ad alcun mio confratello di ritrovarsi dinanzi a un vescovo anziano che si interroga: «Cosa ho fatto della mia vita e come ho sperperato il mio sacro ministero?». Perché in questo caso, più doloroso e difficile dell’ascolto, è dare poi risposta e medicina per l’anima assieme all’assoluzione. Spesso, chi è assolto, rimane con quello strazio interiore tutto quanto tipico della persona consapevole che pur chiedendo e ottenendo il perdono di Dio, al tempo stesso non potrà mai riparare certi gravi danni compiuti su fedeli, sacerdoti o intere diocesi …

… e vi dirò: quando si parla di crisi sacerdotali, la mente del buon popolo corre subito a vicende e pensieri tinti di rosa, come se nella loro umanità, nel loro spirito e nella loro coscienza, i preti fossero scossi solamente per avere perduta la testa per una donna. Ebbene, lasciatemi sfatare ― o miei buoni laici ― questo fantasioso mito. La vera grande crisi che può colpire un prete, è la crisi di fede, ossia la crisi peggiore in assoluto, la più temibile, quella che reca le più profonde sofferenze, soprattutto quando ad essere colpiti sono sacerdoti al di sopra dei cinquant’anni. Cosa generano certe crisi? Molte cose e tutta quante una più brutta dell’altra: non avvertire più la presenza di Dio nella propria vita, essere invasi da dubbi, non riuscire più a pregare, provare dolore ogni volta che si celebra la Santa Messa solo per adempiere a un dovere verso la comunità parrocchiale, ma vivendola come qualche cosa di ormai distante, che causa quasi disagio, perché, a ogni parola, il sacerdote dice a sé stesso: «… che cosa sto facendo, ma soprattutto: perché?». È vero, nel corso del tempo sono stato severo e aggressivo nel parlare in generale di certi vescovi. Peccato però che nessuno di quelli che si sono risentiti per le mie parole, mi abbia affrontato e domandato: perché? Se lo avessero fatto, avrei risposto, per esempio spiegando a certi vescovi del cosiddetto “nuovo corso”, che mentre loro si facevano immortalare dai fotografi nei campi rom o nei porti ad accogliere i migranti, non pochi loro preti stavano soffrendo crisi interiori che devastavano letteralmente le loro anime. E quando qualcuno di costoro, anche su mio suggerimento, tentò di rivolgersi al proprio vescovo, dall’altra parte del telefono si è sentito rispondere dalla voce di una efficiente segretaria che lo ha invitato a richiamare la settimana successiva per fissare un appuntamento da lì a un mese. Cosa comprensibile, a ben pensarci, perché che tra un incontro con i poveri, un campo rom e un’accoglienza di migranti, chissà mai se non si riesce a diventare anche cardinali. Mentre invece, a salvare la vita e l’anima a certi preti, pare non si faccia alcuna particolare carriera. Tutt’oggi ricordo, con profonda tenerezza, un anziano vescovo appartenente a quella specie di uomini di Dio che oggi pare quasi estinta. Terminata la confessione sacramentale mi disse: «Nel corso dei miei venticinque anni di ministero episcopale, la grazia di Dio mi ha concesso il privilegio di poter salvare un prete dalla sicura rovina. Ecco, credo che per avere compiuto questa sola opera, Dio mi concederà in premio un leggero Purgatorio».

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Chi, come me, nel segreto del foro interno e del foro esterno, vive da anni a stretto contatto con queste forme di dolore, non può essere che duro e severo, anche nelle sue forme espressive, con coloro che questo dolore lo hanno generato in certi sacerdoti. Sicché ripeto: Dio volesse che fossi un millantatore che certe cose se le sogna, anziché sperimentarle da anni sulla propria pelle.

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I pochi buoni sacerdoti che ci restano e che sempre nella Santa Chiesa di Cristo sopravvivranno, di questi tempi vivono situazioni di grande dolore e sconforto, vittime spesso di ingiustizie inaudite da parte dei loro superiori, gli stessi che poi sono sempre pronti sulla pubblica piazza con la tenera lacrima all’occhio per i poveri e i migranti, salvo trattare come stracci da scarpe i loro migliori sacerdoti. È questo che sovente mi ha portato a fare il ruggito del leone alzando volutamente i toni, non esitando a inveire verso taluni potenti prepotenti, animato da senso di giustizia dinanzi al loro sprezzo verso i fondamenti stessi delle leggi ecclesiastiche che regolano la vita della Chiesa e i rapporti interni tra ministri in sacris e autorità ecclesiastiche. Quello che non sanno molti di coloro che hanno ascoltato il mio video del 18 maggio dedicato alla pornocrazia clericale [vedere QUI] è che nulla di ciò avrei mai fatto per me stesso, anche se ero io l’oggetto di alcuni fatti documentati riportati come esempio al fine di rendere l’idea. Ho usato me stesso solo per rendere giustizia a molti miei confratelli che hanno dovuto subìre e soffrire cose parecchio peggiori, ma dei quali non potevo narrare le dolorose storie. Mai potrò dimenticare di avere visto invecchiare di colpo un mio confratello nel giro di pochi anni, un autentico santo sacerdote, che pur essendo mio coetaneo d’età, oggi sembra mio padre. Ingiustamente accusato e non protetto dal suo vescovo indifferente e insensibile, dopo quattro anni di processi in sede penale è stato assolto in primo e in secondo grado, mentre il soggetto che aveva montato a suo danno tutta la falsa storia era condannato per falso e diffamazione aggravata in primo e in secondo grado. Fu persino accusato di stregonerie e occultismo, questo santo sacerdote, con successiva piena assoluzione data dalla Congregazione per la dottrina della fede che riconobbe la falsità delle accuse a lui rivolte. Dinanzi a quei tormenti subìti, il suo vescovo fu a tal punto paterno e partecipe alla via crucis di questo suo presbitero, al punto tale di non informarlo che era giunto dalla Congregazione per la dottrina della fede il documento indirizzato al suo ordinario diocesano nel quale era scagionato da tutte le false accuse. Questo povero sacerdote poté apprendere il tutto solo due anni dopo, mentre intanto seguitava ad attendere il responso della Congregazione. Come si giustificò in seguito il suo vescovo? Dicendo … «Credevo fosse una lettera privata a me indirizzata dalla Congregazione, per questo non ho ritenuto di dover informare il mio sacerdote». Sapete che cosa vuol dire attendere per altri anni di vita il responso di questa Congregazione, dopo essere stati falsamente accusati di occultismo e stregoneria, mentre già due anni prima, questo dicastero, aveva dichiarato innocente il sacerdote e infondate e calunniose le accuse a lui rivolte? E questo è solo uno dei numerosi esempi legati ai diversi sacerdoti in difficoltà ai quali sono stato sempre vicino mentre erano abbandonati soli a sé stessi, anzitutto dai loro vescovi che non volevano problemi e guai, impegnati a brillare di luce propria come tutte le persone che ambiscono agli onori ma che non accettano i gravosi oneri delle loro cariche pastorali. Così, attingendo dalla mia vita, in quel video ho rappresentata con la mia faccia e la mia voce la verità dei fatti. E mentre parlavo di me ― cosa che non m’interessava fare e che mai avrei fatto ―, a tutti questi miei confratelli ho detto: mi sono trasformato in paradigma per parlare di tutti voi, urlando in faccia a coloro che hanno un cuore che palpita solo per i migranti musulmani che sbarcano clandestini sulle nostre coste, a che cosa siamo sottoposti noi dentro la Chiesa, nella indifferenza di questo imperante spirito politicamente corretto, aperto e accogliente verso tutto ciò che non è cattolico.

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Ho un vescovo che venero perché se lo merita e perché è un autentico uomo di Dio ― cosa che di questi tempi per un prete è una grazia straordinaria ―, ed ho un santo vescovo che è mio direttore spirituale da quasi dieci anni, anch’esso grande uomo di Dio. Di recente, durante uno dei vari colloqui, mi hanno domandato se a mio parere, nella Chiesa di oggi, lottare in modo duro e affrontare di petto certe persone e situazioni, possa servire a qualche cosa. Per quanto mi riguarda, debbo dire che non ho mai avuto problema a rivedere il mio agire, né a smentirlo all’occorrenza, oppure ad adottare tecniche e stili di comunicazione diverse. Al che ho riflettuto e poi replicato che allo stato attuale dei fatti, in questo nostro tragico momento storico, agire nel modo in cui ho più volte agito non serve a niente, almeno per chi cerca la vera giustizia evangelica. Forse un certo stile poteva sortire qualche effetto sino ad alcuni anni fa, ma oggi non serve più. Anche perché, quando entro il lecito esercizio dell’arte della battaglia, all’occorrenza si aggredisce l’errore, possiamo e dobbiamo farlo al solo scopo di sconfiggere l’errore e possibilmente recuperare l’errante, non certo per sfogare le proprie rabbie personali, cosa che peraltro ma ho fatto.

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Chi volesse intendere bene quest’ultimo passaggio, al suo interno troverà la spiegazione al perché più volte sono stato duro e severo verso certi laici cattolici, che non esiterebbero a ballare con i piedi sulle teste di vescovi e preti mossi dai loro impulsi irrazionali-emotivi. E la spiegazione è semplice: per divenire maestri sapienti, prima bisogna ascoltare i maestri sapienti, per divenire guide solide e sicure, prima bisogna avere seguito delle guide solide e sicure, perché sia nella via della fede sia nella via dello sviluppo delle scienze teologiche, non può esservi spazio per gli autodidatti che si formano da se stessi e che hanno solo se stessi come punto di riferimento, altrimenti nascono mostri come Kiko Arguello, Carmen Hernandez, Enzo Bianchi e via dicendo … Ecco perché più volte mi sono arrabbiato con certi laici cattolici che come misura di ogni cosa usano solamente il … io penso che … io sento che … e siccome io penso e sento che … ciò è vero e giusto fuori da ogni discussione, al di sopra di tutto e di tutti.

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Certe cordate gesuitiche esaltano la coscienza umana, sino a porla al di sopra di tutto: ubbidire anzitutto alla propria coscienza. Sì, però non esitano al tempo stesso ad arrabbiarsi oltre misura, se qualcuno osa agire in coscienza ma nel modo non conforme al concetto ideologico di coscienza come la intendono loro. Le coscienze, si esaltano e si formano per renderle libere nel senso evangelico del termine, non per manipolarle. Sorvolo su questo discorso perché non intendo parlare di certi esponenti della attuale Compagnia delle Indie che fu in passato la rigida, grande e preziosa Compagnia di Gesù. Gestire la propria coscienza non è infatti uno scherzo, per chi vive nel sacro timore di Dio, consapevole della chiarezza del monito evangelico che recita: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» [cfr. Lc 12, 48]. Se dinanzi a questo monito, noi sacerdoti riflettiamo che Cristo Dio ci ha affidata la sua Chiesa, il mistero del suo Corpo e del suo Sangue e il suo Popolo, non possiamo fare altro che tremare, animati non da paura, ma da sacro timore di Dio, che della paura è la negazione stessa: temere Dio, significa preoccuparsi di piacere a lui e vivere nella Sua grazia, che è un vivere esattamente antitetico a chi cerca invece di piacere all’uomo e di compiacerlo per ottenere poi benefici, sempre per tornare al precedente discorso riguardo il concetto dell’ateismo religioso …

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La coscienza del fedele e devoto sacerdote è anche animata da un altro grande interrogativo: quando noi facciamo l’atto penitenziale durante la celebrazione del Sacrificio Eucaristico della Santa Messa, invochiamo e chiediamo il perdono di Dio per avere peccato in pensieri, parole, opere e omissioni. È presto detto: la coscienza retta è portata a temere molto il peccato di omissione, perché in esso è racchiuso non tanto l’ordinario spirito pavido dell’uomo che vuole vita quieta senza tanti inutili problemi, bensì il terribile peccato capitale di accidia. Questo terribile peccato capitale è indicato da San Tommaso d’Aquino come una apatia verso il bene spirituale, vale a dire un senso di profondo sconforto che nasce in chi non vuole mettere in pratica e a frutto il servizio divino [Summa Theologiae, II-II q. 35, a.1: Quaestiones disputatae de malo, q. XI, Accidia]. Il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce l’accidia come una pigrizia spirituale che giunge a rifiutare la gioia che viene da Dio e a provare repulsione per il bene divino [Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2094], di conseguenza a disprezzare la verità e la giustizia, elevando i peggiori capricci del proprio ego al di sopra dell’una e dell’altra, sempre come accusavo in toni indubbiamente di fuoco nel video poc’anzi richiamato [vedere, QUI]. La domanda è semplice: in che misura, una coscienza retta, può fuggire dinanzi alla verità, omettendo di dire e di servire la verità? A prendere posizioni e decisioni coraggiose si può anche sbagliare, persino gravemente, ma una cosa è certa: chi per spirito pavido o per quieto vivere non prende decisioni e posizioni, per esempio dinanzi a ciò che oggettivamente è male, sicuramente sbaglia sempre e nel modo peggiore. Ecco, se proprio devo correre il rischio di sbagliare, preferiscono farlo per oppormi a ciò che è oggettivamente male, non certo omettendo di decidere e di prendere posizioni per il mio sereno e quieto vivere.

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Più volte è accaduto che qualcuno, non potendo in alcun modo negare che in certi miei scritti o video avevo detto solo e null’altro che la verità, si è attaccato alla forma dicendo … «Bisogna vedere però come la verità si dice». Frasi di questo genere suonano come le critiche rivolte dai farisei a Cristo Signore, quando non potendo negare che avesse guarito un cieco nato, pur di contestarlo a tutti i costi si attaccarono a dire che quel miracolo lo aveva compiuto nel giorno di sabato, quando è proibito svolgere ogni genere di lavoro, quindi sentenziarono: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato» [cfr. Gv 9, 1-15]. Poi, se la cosa importante, più che dire la verità, è il modo o la forma in cui la verità si dice, dobbiamo prendere atto che il Beato Giovanni Battista la verità la disse male e in modo inopportuno, perché se l’avesse detta bene, quella grande meretrice di Erodiade non si sarebbe irritata sino a chiedere e ottenere dal teatrarca Erode  la sua testa su di un vassoio [cfr. Mt 14, 1-12]. In fondo che cosa gli sarebbe costato al Battista, soprassedere sul fatto che Erode si era presa come amante la moglie del fratello e che non pago di ciò era anche attratto sessualmente dalla nipotina Salomè? Come potete vedere, la coscienza e l’agire in coscienza è una cosa terribilmente seria, non è uno spot ideologico dei ragazzi della nuova Compagnia delle Indie  

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Il Santo Vangelo non è uno stock di stoffe da sartoria, dove ciascuno può ritagliarsi ciò che più gli rimane comodo in base al colore e al taglio di tessuto, è necessario prenderlo nella sua interezza, non attraverso maldestri taglia e cuci, per far dire a Cristo Dio quel che di fatto non ha detto. E questo perché, Cristo Dio, è il tutto, non un pezzo da usare a proprio bisogno, o peggio a propria giustificazione, tanto meno a giustificazione di quelle omissioni che racchiudono quella accidia che si regge essenzialmente sul disprezzo della verità e della giustizia.

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Il Leone non può diventare antilope e l’antilope leone, posto che nel mistero della creazione e nell’economia della salvezza occorrono entrambi, perché ciascuno ha un preciso ruolo, sino al giorno in cui, quando dopo la parusia l’ordine naturale primigenio sarà ripristinato, a quel punto «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà» [Is 11,6]. Certo, se oggi una antilope va’ a fare la spocchiosa dinanzi a un leone, nessuno dovrebbe poi lamentarsi se la poverina finisce sbranata. Anzi, la logica e il buon senso comune imporrebbero di ammettere che il leone ha svolto solo il suo ruolo, è l’antilope che ha sbagliato. Però, come risaputo, nella Chiesa della mancanza di logica e di buon senso comune, le antilopi imprudenti affette da delirio di onnipotenza e da scarso rapporto con il reale, pensano di poter mettere a cuccia il leone.

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Non voglio tornare sul tema del principio di inversione, ci ho scritto sopra un libro dieci anni fa, intitolato E Satana si fece trino, all’interno del quale, chi lo desidera, su questo e molti altri temi potrà trovare tutto [vedere QUI]. Una cosa è certa: alla prova provata dei fatti, sembra che un decennio fa ci vidi giusto, quando appunto illustrai quel principio di inversione attraverso il quale il bene diventa male e il male bene, il vizio virtù e la virtù vizio, l’eresia sana dottrina e la sana dottrina eresia … e tutto questo ci ha infine portati a superare la “soglia del non ritorno”.

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Ruggire, o sbranare le antilopi spocchiose, oggi, serve a qualche cosa? No, non più, dopo il lancio dal portello dell’aereo senza paracadute. L’unico che pare non averlo capito, malgrado la sua grazia di stato sacramentale, è l’Arcivescovo Carlo Maria Viganò, circondato dalla sua corte di giornalisti ridotti a umorali “anti-bergogliani furenti”, che lo hanno innalzato sulle rovine come il proprio moderno vitello d’oro. Detto questo è bene chiarire perché considero l’Arcivescovo Carlo Maria Viganò molto peggiore di quei vescovi e cardinali che tra omissioni, pavidità e piaggerie, se ne stanno a seminare danni dentro la Santa Sede o nelle diocesi a loro affidate in qualità di vescovi diocesani. Anzitutto, costui dovrebbe sapere che a toccare la pietra posta dal Verbo Incarnato sopra la roccia di Cristo [cfr. Mt 16, 18-19] si farà crollare l’intera costruzione. Poi, se non riesce a comprendere che Pietro è la pietra deposta sopra la roccia di Cristo sulla quale è edificata la Chiesa, allora sarà bene che alle soglie degli ottant’anni torni a studiare le basi della teologia fondamentale. Infatti, il Pontefice regnante, fosse anche uno dei peggiori pontefici della storia della Chiesa, è il legittimo successore del Beato Apostolo Pietro, a noi dato per grazia o per disgrazia. Sarà solo il tempo futuro a dirci se questo Pontefice che ha attraversata la storia in questo particolare momento del tutto unico nel proprio genere, ha evitato alla Chiesa di Cristo dei danni molto maggiori e irreparabili di quelli sui quali oggi si stracciano le vesti tutti gli adoratori del vitello d’oro paralizzati nel presente, nostalgici del passato e privi soprattutto di una prospettiva escatologica futura.

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L’Arcivescovo Carlo Maria Viganò, che attorno a sé ha coagulato tutti i peggiori oppositori di questo pontificato, tutti i giornalisti in pensione inaciditi e i blogghettari che di giorno in giorno lanciano gravi accuse e insulti sul legittimo Successore del Beato Apostolo Pietro … ebbene, temo non abbia proprio inteso l’episodio antiocheno. Infatti, quando il Beato Apostolo Paolo ritenne doveroso richiamare il Beato Apostolo Pietro ad Antiochia, si presentò dinanzi a lui, poi, come narra egli stesso: «[…] mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto» [Gal 2, 11]. Facendo questo «a viso aperto», riconobbe anzitutto l’autorità conferita a Pietro da Cristo Dio in persona, quindi a tutti i suoi Successori. Tutt’altra cosa lanciare invece periodiche pallottole di veleno in un gioco sempre più penoso che si protrae ormai da alcuni anni, usando come braccio armato esecutore dei giornalisti inaciditi e dei blogghettari furenti.

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È quindi presto detto che questo “eroico” vitello d’oro eretto sulle rovine della nostra casa dai nuovi idolatri, è equiparabile a quei cecchini che durante la guerra svoltasi nella ex Jugoslavia, se ne stavano appostati nascosti sopra i tetti dei palazzi e sparavano alle spalle dei civili inermi che a rischio della propria vita dovevano di necessità uscire per cercare di procurare qualche cosa da mangiare alle proprie famiglie. Esattamente come tutti noi che oggi cerchiamo, con sempre maggiore difficoltà, nutrimento per le nostre anime, allo scopo primo e ultimo di superare questa grande e dolorosa prova di fede.

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Nel settembre del 2018 scrissi un articolo nel quale spiegavo l’importanza della creazione di una “banca del seme” [vedere articolo, QUI]. Questo articolo era intitolato: «Dinanzi ad una Chiesa visibile affetta da una decadenza dottrinale e morale irreversibile, è necessario aprire quanto prima la banca del seme». A tal proposito narrai di quell’isola della Norvegia dove si trova l’istituto che conserva 84.000 campioni appartenenti a più di 60 generi e 600 specie di piante coltivate e specie selvatiche minacciate da “erosione genetica” o estinzione.

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Da tempo sono giunto alla conclusione che non è possibile afferrare chi si è lanciato dal portello senza paracadute e portarlo di nuovo sull’aereo per farglielo indossare. Non può farlo Dio, salvo contraddire in tal modo sé stesso, forse possiamo farlo noi? Dinanzi a certe situazioni irreversibili a causa delle quali i fedeli sono sottoposti a una grande prova di fede e molti sacerdoti versano in condizioni di profonda sofferenza, non serve ruggire alle antilopi impazzite, meno che mai sbranarle. Ma soprattutto non serve ― anzi è cosa immorale oltre che vergognosa ― mettersi a fare i cecchini nascosti nell’ombra o sopra i tetti dei palazzi della nostra moderna Sarajevo. Accettare la desolante realtà e ammettere dinanzi all’evidenza dei fatti che non è possibile fare niente, né che si possono invertire certe rotte, non è affatto un agire con coscienza debole o viziata, non è né mancata assunzione di responsabilità né grave peccato di accidia, solo logica e dolorosa presa di atto della realtà: una terribile prova di fede da superare.

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A nessuno piace essere impotente, eppure, Cristo Dio stesso, nella sua umanità perfetta sperimentò sulla propria carne insanguinata e martoriata durante la sua dolorosa passione, il senso di totale impotenza. Dinanzi a quella suprema prova inflitta alla sua umanità, come reagì? La sua reazione è racchiusa tutta in una frase: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» [Lc 23, 34]. A condividere col Verbo di Dio questa totale impotenza, c’erano due malfattori, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra. Dinanzi al dolore e all’impotenza, i due ebbero delle opposte reazioni, uno lo insultava acceso di rabbia, l’altro, dopo averlo rimproverato, si rivolse al Cristo dicendo: «[…] ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Rispose Cristo Signore: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» [Lc 23, 43]. Ecco, questo secondo, meglio noto come il buon ladrone, non era certo l’Arcivescovo Carlo Maria Viganò con i suoi sodali, tutti impegnati a urlare la loro rabbia assieme all’altro malfattore. Questa, è la nostra situazione: siamo inchiodati alla croce accanto a Cristo Dio, bisogna solamente scegliere quale dei due ladroni vogliamo essere.

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La domanda molto seria è infine la seguente: che cosa possiamo fare, in questa situazione? Anzitutto salvare i semi del Santo Vangelo e del deposito della fede, poi stare vicini e assistere tutte quelle membra del Popolo di Dio che si sentono smarrite e che cercano una guida sacerdotale sicura, quindi un autentico e prezioso conforto spirituale. Con tutti gli altri, non merita perdere tempo, meglio lasciarli alle loro cieche rabbie, ai loro catastrofismi o alla tramutazione dei cecchini della moderna Sarajevo in vitelli d’oro della nostra contemporaneità. E si badi bene che non si tratta affatto di un atto di abbandono di certe membra ribelli e ingestibili del Popolo di Dio, al contrario, ciò comporta mettere in pratica proprio ciò che indica il Santo Vangelo:

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«[…] se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi. In verità vi dico, nel giorno del giudizio il paese di Sòdoma e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città» [Mt 10, 11-15].

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Esiste una guida sicura per vivere questo momento di grande crisi e di grande prova? Esiste, ed è racchiusa nel Qelet o Libro dell’Ecclesiaste:

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Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace [Ec 3, 1-8].

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Basterebbe solo leggere e seguire le Sacre Scritture, seguendo al tempo stesso chi le conosce ed è in grado di trasmetterle, anziché abbeverarsi a quelle fonti avvelenate all’ombra delle quali molti poveri cattolici bivaccano allo sbando, tra catastrofi e  pruriginosi misteri, tra le parole vane e menzognere di chi afferma di conservare dei tremebondi segreti dati personalmente dalla Madonna, in attesa del grande colpo magico di scena che segnerà l’imminente trionfo risolutivo del cuore immacolato della Beata Vergine, trasformata, in modo blasfemo, in una via di mezzo tra la dea Athena e la Fata Morgana.

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C’è un tempo, c’è un tempo, c’è un tempo … tutto era stato scritto, basterebbe solo leggere l’Ecclesiaste, anziché leggere gli sproloqui di un ecclesiastico ridottosi a fare il cecchino che spara alle spalle nell’ombra verso il finire della sua vita … c’è un tempo, c’è un tempo, c’è un tempo ….

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dall’Isola di Patmos, 21 giugno 2020

 

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«Un nostro campione diventa sacerdote». Invitiamo chiunque lo desideri a partecipare alla consacrazione sacerdotale di Gabriele Giordano M. Scardocci, dell’Ordine dei Frati Predicatori, il più giovane dei Padri de L’Isola di Patmos

«UN NOSTRO CAMPIONE DIVENTA SACERDOTE». INVITIAMO CHIUNQUE LO DESIDERI A PARTECIPARE ALLA CONSACRAZIONE SACERDOTALE DI GABRIELE GIORDANO M. SCARDOCCI, DELL’ORDINE DEI FRATI PREDICATORI, IL PIÙ GIOVANE DEI PADRI DE L’ISOLA DI PATMOS 

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Con tutto l’affetto che possono nutrire dei confratelli più anziani, possiamo solo rallegrarci e dire con purezza di cuore sincero che un campione di fede, di amabilità, di grande cuore pastorale, di grande cultura filosofica e teologica, diventa sacerdote, a lode e gloria di Dio e della sua Santa Chiesa..

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Autore
Redazione de L’Isola di Patmos

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Ricevi le offerte del popolo santo per il
Sacrificio Eucaristico. 
Renditi conto di ciò che farai, imita
ciò che celebrerai, conforma la tua vita 
al mistero della croce di Cristo

[dal rito della sacra ordinazione dei presbìteri]

 

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Padre Gabriele Giordano M. Scardocci, dell’Ordine dei Frati Predicatori

Cari Lettori,

sabato 29 giugno in Roma, nella solenne festività dei Santi Pietro e Paolo, alle ore 11 presso la Chiesa di Santa Maria sopra Minerva, retta dell’Ordine dei Frati Predicatori, il Domenicano Gabriele Giordano M. Scardocci sarà consacrato sacerdote per la Preghiera Consacratoria e l’imposizione delle Mani di S.E. Rev.ma Mons. Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo Metropolita di Bologna, già Vescovo ausiliare di Roma per il settore centro.

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Per l’Isola di Patmos di cui Padre Gabriele è autore e membro del comitato scientifico delle Edizioni L’Isola di Patmos, è una grande festa.

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un gruppo di tifosi cattolici della Lazio ci ha scritto per ringraziare Padre Gabriele per avergli sempre prestata assistenza ogni volta che si sono rivolti a lui per colloqui e incontri spirituali

Invitiamo i nostri Lettori che lo desiderassero e in particolare coloro che si trovano a Roma, a partecipare alla solenne celebrazione.

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Tra pochi giorni pubblicheremo una lettera indirizzata da Padre Gabriele ai Lettori de L’Isola di Patmos, ai quali ha voluto rivolgere il suo pensiero prima della consacrazione sacerdotale.

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Roma, 20 giugno 2019

Nella festa del Corpus Domini

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Padre Gian Matteo Serra, O.P. Rettore della Chiesa di Santa Maria sopra Minerva, illustra questi spazi che accolsero Santa Caterina da Siena

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