Non esistono molteplici case e padri: il Figliol Prodigo torna all’unica casa del solo e vero Padre che è sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

NON ESISTONO MOLTEPLICI CASE E PADRI: IL FIGLIOL PRODIGO TORNA ALL’UNICA CASA DEL SOLO E VERO PADRE CHE È SORGENTE DI GRAZIA E CENTRO DEL MISTERO DELLA SALVEZZA 

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Il figliol prodigo torna alla casa del padre dove ad attenderlo non c’è alcuna moda sociologica, soprattutto nessuna correttezza politica. Perché da sempre Dio è fuori da ogni moda, ma soprattutto da ogni umana correttezza politica, perché Dio è totalità senza inizio e senza fine, per questo senza fine è il suo amore, per questo eterna è la sua misericordia, per questo una sola è la sua casa, non molteplici; e l’unica casa dell’unico Padre rimane nei secoli punto di partenza, sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza, punto di arrivo e centro perfetto di unità.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Laudetur Jesus Christus !

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Il Figliol prodigo, opera dello scultore Arturo Martini, 1927 [Casa di Riposo Jona Ottolenghi, Acqui Terme]

In questa Dominica Lætare della IV settimana di Quaresima la liturgia ci dona una delle pagine dei Santi Vangeli tra le più conosciute: la Parabola del Figliol Prodigo [vedere testo della liturgia, QUI]. Pretendere di avere la legittima eredità paterna mentre il genitore era sempre in vita rappresentava un terribile oltraggio nell’antico mondo ebraico, ma non solo in esso. Sarebbe come dire: «Non ho tempo di attendere che tu tiri le cuoia, per ciò dammi subito ciò che mi spetta». Ecco allora che il padre dà una risposta iniziale e una finale: la risposta d’inizio è l’azione che esaudisce la richiesta del figlio, confermandolo padrone della sua libertà e padrone dei beni da lui rivendicati; la risposta finale è un atto di amore puro, che in sé racchiude una lezione basata sulla maturità e sulla misericordia vera; quella misericordia che procede da Dio, che non ha alcuna paura ad accogliere i peccatori ed a mangiare con loro, con buona pace di scribi e farisei di ieri e di oggi.

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Il figliol prodigo parte per un paese lontano e sperpera tutto vivendo da dissoluto, fino a quando comincia a trovarsi nel bisogno. «Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, «ma nessuno gli dava nulla». Sinceramente è difficile pensare che il ragazzo non avesse la possibilità di prendersi da sé le carrube; e questo deve richiamare la nostra attenzione sulla frase: «Nessuno gli dava nulla», riferita a questo giovane che aveva perduto tutto. Ciò equivale a dire che nessuno lo nutriva con l’amore. Aveva divorato le sue sostanze con molte prostitute, ma non era stato divorato dall’amore sincero e appassionato di una sola donna. Quindi è la mancanza di amore a generare in lui una forte crisi, perché più del bisogno fisico egli soffre per bisogni umani. L’amore che sino a prima aveva ricevuto, genera in lui la sensazione di paura, dando vita a tenera nostalgia.               

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Non sappiamo se il giovane comincia a capire di avere vissuto una vita priva di amore, od a comprendere che uscendo dall’amore aveva perduto la propria libertà per entrare nella spirale della paura, dell’angoscia e del recondito senso di colpa. L’uomo, che di per sé rimane un mistero, non può vivere senza amore; la sua vita è priva di senso, se non incontra l’amore dal quale può nascere la libertà vera: «Nell’amore non c’è paura, anzi l’amore perfetto caccia via la paura» [Gv 4, 18-19].  

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A quel punto il giovane comincia a interrogarsi: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre …». In queste parole non prevale un senso di dolore per il padre abbandonato, o per la sua incapacità di dare e di ricevere amore; pare piuttosto prevalere la situazione di disagio e di bisogno estremo che lo spingono a tornare a casa, forse ripiegato ancor più su se stesso. Per un bisogno egoistico è partito e per una esigenza egoistica decide di tornare. Tutto questo segna però il suo primo inizio e, seppure mosso da disagio e bisogno, si muove e torna da suo padre. «Quando era ancora lontano suo padre lo vide, ne ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Questi cinque parole ci aprono le porte sull’essenza dell’amore vero. Vedere qualcuno ancora lontano significa che in cuor nostro lo stavamo attendendo. Provare compassione vuol dire che non si pensa più all’ingiuria ricevuta, al contrario si è disposti ad aprire il cuore e a pensare alla sofferenza dell’altro, a prescindere da quanto accaduto. L’eterna sfida cristiana è infatti quella di accogliere con umanità chi ci ha fatto del male, sollevando il malvagio da terra quando cade, anziché infierire su di lui con quello spirito di vendetta che nulla ha da spartire con la giustizia, neppure con la giusta e a volte necessaria punizione inflitta per concorrere al miglior bene della persona, ma soprattutto al suo recupero.

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Correre incontro all’altro equivale a toglierlo da ogni disagio compiendo il primo passo che rompe ogni indugio, prerogativa questa tipica dei grandi, non certo dei piccoli uomini che vivono di rancori, dispetti e vendette. Gettarsi al collo di una persona, nella cultura giudaica dell’epoca non era un gesto di circostanza ma di accogliente amore profondo e di confidenza estrema.   

 

Ecco allora il fratello maggiore che «si indignò e non voleva entrare», cominciando a elencare i propri meriti ed i demeriti del fratello al padre, lagnandosi di non aver ricevuto mai nulla dal padre. «Figlio, tutto ciò che è mio è tuo», lo rassicura il padre per il suo dovuto. A questo modo la parabola sottolinea che ragionando così anche il figlio maggiore, in modo diverso ma simile si allontana a suo e resta fuori di casa come il fratello più giovane, manifestando un palese rifiuto verso l’azione di grazia. Perciò il Padre, che «commosso» era corso incontro al figliol prodigo, ora esce di nuovo incontro al figlio maggiore, spiegando a entrambi che il suo amore verso i figli è gratuito. Nessuno, ha infatti il diritto ad essere amato; da nessuna pagina del Vangelo si ricava questo genere di diritto, semmai se ne ricava un dovere: quello di amare. Dai passi più svariati e articolati del Vangelo possiamo anche ricavare quanto spesso l’amore sia tragicamente a senso unico, donato da una parte con potenza divina, non recepito e accolto dall’altra dall’aridità umana. Dio ci ama non perché lo meritiamo, ma perché lui è fonte inesauribile di amore. Dio non può fare a meno di amare, non ne è capace; siamo noi, capaci a fare a meno di essere amati.                        

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Come il figliol prodigo non ha perso l’amore del Padre allontanandosi da lui, il figlio maggiore non ha diritto all’amore del Padre perché non si è allontanato. In questo stesso errore cadiamo anche noi figli della Chiesa, noi preti per primi, che molto più del Popolo che Dio ci ha affidato da servire, non abbiamo acquisito alcun diritto alla salvezza, solo il dovere di rispondere molto più e molto meglio di altri per ciò che Cristo ci ha dato, attraverso il mistero della partecipazione al suo sacerdozio ministeriale.   

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Quante volte facciamo soffrire il Padre che non può fare a meno di amare, ritenendo come il figlio maggiore della parabola un’ingiustizia il suo amore e la sua misericordia verso il fratello trasgressore? Quante, specie in questi tempi di grave crisi che attraversano la Chiesa, corriamo solidali ad abbracciare con calore tutto ciò che non è cattolico, mostrando però al tempo stesso scarso amore, talora persino aperta ribellione verso la nostra Chiesa, voltando le spalle ai fratelli e ai figli delle membra vive del Cristo, che è la Chiesa suo corpo mistico? E su questa terra, il Cristo, ha istituito una Chiesa sola, merita ricordarlo di tanto in tanto, considerando che tra poco proclameremo nella professione di fede l’unità della Chiesa, non la molteplicità delle chiese [Simbolo di Fede Niceno-Costantinopolitano]; ce lo ricorda senza possibilità di errate interpretazioni teologiche uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II, la Lumen Gentium.

Anche questo è un modo per meditare sulla parabola del figliol prodigo che torna alla casa del padre, dove ad attenderlo non c’è alcuna moda sociologica, soprattutto nessuna correttezza politica. Perché da sempre Dio è fuori da ogni moda, ma soprattutto da ogni umana correttezza politica, perché Dio è totalità senza inizio e senza fine, per questo senza fine è il suo amore, per questo eterna è la sua misericordia, per questo una sola è la sua casa, non molteplici; e l’unica casa dell’unico Padre rimane nei secoli punto di partenza, sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza, punto di arrivo e centro perfetto di unità.

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Nell’unità il Padre ci ha creati, ed a braccia aperte attende, nell’unità perfetta del suo corpo che è la Chiesa, il diletto figliol prodigo nascosto dentro ciascuno di noi, affinché i suoi figli possano essere «perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» [Gv 17, 23].

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Dall’Isola di Patmos, 30 marzo 2019

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E disponibile il Libro delle Sante Messe per i defunti de L’Isola di Patmos [vedere QUI]

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