Non esistono molteplici case e padri: il Figliol Prodigo torna all’unica casa del solo e vero Padre che è sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

NON ESISTONO MOLTEPLICI CASE E PADRI: IL FIGLIOL PRODIGO TORNA ALL’UNICA CASA DEL SOLO E VERO PADRE CHE È SORGENTE DI GRAZIA E CENTRO DEL MISTERO DELLA SALVEZZA 

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Il figliol prodigo torna alla casa del padre dove ad attenderlo non c’è alcuna moda sociologica, soprattutto nessuna correttezza politica. Perché da sempre Dio è fuori da ogni moda, ma soprattutto da ogni umana correttezza politica, perché Dio è totalità senza inizio e senza fine, per questo senza fine è il suo amore, per questo eterna è la sua misericordia, per questo una sola è la sua casa, non molteplici; e l’unica casa dell’unico Padre rimane nei secoli punto di partenza, sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza, punto di arrivo e centro perfetto di unità.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa

 

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Laudetur Jesus Christus !

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Il Figliol prodigo, opera dello scultore Arturo Martini, 1927 [Casa di Riposo Jona Ottolenghi, Acqui Terme]

In questa Dominica Lætare della IV settimana di Quaresima la liturgia ci dona una delle pagine dei Santi Vangeli tra le più conosciute: la Parabola del Figliol Prodigo [vedere testo della liturgia, QUI]. Pretendere di avere la legittima eredità paterna mentre il genitore era sempre in vita rappresentava un terribile oltraggio nell’antico mondo ebraico, ma non solo in esso. Sarebbe come dire: «Non ho tempo di attendere che tu tiri le cuoia, per ciò dammi subito ciò che mi spetta». Ecco allora che il padre dà una risposta iniziale e una finale: la risposta d’inizio è l’azione che esaudisce la richiesta del figlio, confermandolo padrone della sua libertà e padrone dei beni da lui rivendicati; la risposta finale è un atto di amore puro, che in sé racchiude una lezione basata sulla maturità e sulla misericordia vera; quella misericordia che procede da Dio, che non ha alcuna paura ad accogliere i peccatori ed a mangiare con loro, con buona pace di scribi e farisei di ieri e di oggi.

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Il figliol prodigo parte per un paese lontano e sperpera tutto vivendo da dissoluto, fino a quando comincia a trovarsi nel bisogno. «Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, «ma nessuno gli dava nulla». Sinceramente è difficile pensare che il ragazzo non avesse la possibilità di prendersi da sé le carrube; e questo deve richiamare la nostra attenzione sulla frase: «Nessuno gli dava nulla», riferita a questo giovane che aveva perduto tutto. Ciò equivale a dire che nessuno lo nutriva con l’amore. Aveva divorato le sue sostanze con molte prostitute, ma non era stato divorato dall’amore sincero e appassionato di una sola donna. Quindi è la mancanza di amore a generare in lui una forte crisi, perché più del bisogno fisico egli soffre per bisogni umani. L’amore che sino a prima aveva ricevuto, genera in lui la sensazione di paura, dando vita a tenera nostalgia.               

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Non sappiamo se il giovane comincia a capire di avere vissuto una vita priva di amore, od a comprendere che uscendo dall’amore aveva perduto la propria libertà per entrare nella spirale della paura, dell’angoscia e del recondito senso di colpa. L’uomo, che di per sé rimane un mistero, non può vivere senza amore; la sua vita è priva di senso, se non incontra l’amore dal quale può nascere la libertà vera: «Nell’amore non c’è paura, anzi l’amore perfetto caccia via la paura» [Gv 4, 18-19].  

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A quel punto il giovane comincia a interrogarsi: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre …». In queste parole non prevale un senso di dolore per il padre abbandonato, o per la sua incapacità di dare e di ricevere amore; pare piuttosto prevalere la situazione di disagio e di bisogno estremo che lo spingono a tornare a casa, forse ripiegato ancor più su se stesso. Per un bisogno egoistico è partito e per una esigenza egoistica decide di tornare. Tutto questo segna però il suo primo inizio e, seppure mosso da disagio e bisogno, si muove e torna da suo padre. «Quando era ancora lontano suo padre lo vide, ne ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Questi cinque parole ci aprono le porte sull’essenza dell’amore vero. Vedere qualcuno ancora lontano significa che in cuor nostro lo stavamo attendendo. Provare compassione vuol dire che non si pensa più all’ingiuria ricevuta, al contrario si è disposti ad aprire il cuore e a pensare alla sofferenza dell’altro, a prescindere da quanto accaduto. L’eterna sfida cristiana è infatti quella di accogliere con umanità chi ci ha fatto del male, sollevando il malvagio da terra quando cade, anziché infierire su di lui con quello spirito di vendetta che nulla ha da spartire con la giustizia, neppure con la giusta e a volte necessaria punizione inflitta per concorrere al miglior bene della persona, ma soprattutto al suo recupero.

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Correre incontro all’altro equivale a toglierlo da ogni disagio compiendo il primo passo che rompe ogni indugio, prerogativa questa tipica dei grandi, non certo dei piccoli uomini che vivono di rancori, dispetti e vendette. Gettarsi al collo di una persona, nella cultura giudaica dell’epoca non era un gesto di circostanza ma di accogliente amore profondo e di confidenza estrema.   

 

Ecco allora il fratello maggiore che «si indignò e non voleva entrare», cominciando a elencare i propri meriti ed i demeriti del fratello al padre, lagnandosi di non aver ricevuto mai nulla dal padre. «Figlio, tutto ciò che è mio è tuo», lo rassicura il padre per il suo dovuto. A questo modo la parabola sottolinea che ragionando così anche il figlio maggiore, in modo diverso ma simile si allontana a suo e resta fuori di casa come il fratello più giovane, manifestando un palese rifiuto verso l’azione di grazia. Perciò il Padre, che «commosso» era corso incontro al figliol prodigo, ora esce di nuovo incontro al figlio maggiore, spiegando a entrambi che il suo amore verso i figli è gratuito. Nessuno, ha infatti il diritto ad essere amato; da nessuna pagina del Vangelo si ricava questo genere di diritto, semmai se ne ricava un dovere: quello di amare. Dai passi più svariati e articolati del Vangelo possiamo anche ricavare quanto spesso l’amore sia tragicamente a senso unico, donato da una parte con potenza divina, non recepito e accolto dall’altra dall’aridità umana. Dio ci ama non perché lo meritiamo, ma perché lui è fonte inesauribile di amore. Dio non può fare a meno di amare, non ne è capace; siamo noi, capaci a fare a meno di essere amati.                        

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Come il figliol prodigo non ha perso l’amore del Padre allontanandosi da lui, il figlio maggiore non ha diritto all’amore del Padre perché non si è allontanato. In questo stesso errore cadiamo anche noi figli della Chiesa, noi preti per primi, che molto più del Popolo che Dio ci ha affidato da servire, non abbiamo acquisito alcun diritto alla salvezza, solo il dovere di rispondere molto più e molto meglio di altri per ciò che Cristo ci ha dato, attraverso il mistero della partecipazione al suo sacerdozio ministeriale.   

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Quante volte facciamo soffrire il Padre che non può fare a meno di amare, ritenendo come il figlio maggiore della parabola un’ingiustizia il suo amore e la sua misericordia verso il fratello trasgressore? Quante, specie in questi tempi di grave crisi che attraversano la Chiesa, corriamo solidali ad abbracciare con calore tutto ciò che non è cattolico, mostrando però al tempo stesso scarso amore, talora persino aperta ribellione verso la nostra Chiesa, voltando le spalle ai fratelli e ai figli delle membra vive del Cristo, che è la Chiesa suo corpo mistico? E su questa terra, il Cristo, ha istituito una Chiesa sola, merita ricordarlo di tanto in tanto, considerando che tra poco proclameremo nella professione di fede l’unità della Chiesa, non la molteplicità delle chiese [Simbolo di Fede Niceno-Costantinopolitano]; ce lo ricorda senza possibilità di errate interpretazioni teologiche uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II, la Lumen Gentium.

Anche questo è un modo per meditare sulla parabola del figliol prodigo che torna alla casa del padre, dove ad attenderlo non c’è alcuna moda sociologica, soprattutto nessuna correttezza politica. Perché da sempre Dio è fuori da ogni moda, ma soprattutto da ogni umana correttezza politica, perché Dio è totalità senza inizio e senza fine, per questo senza fine è il suo amore, per questo eterna è la sua misericordia, per questo una sola è la sua casa, non molteplici; e l’unica casa dell’unico Padre rimane nei secoli punto di partenza, sorgente di grazia e centro del mistero della salvezza, punto di arrivo e centro perfetto di unità.

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Nell’unità il Padre ci ha creati, ed a braccia aperte attende, nell’unità perfetta del suo corpo che è la Chiesa, il diletto figliol prodigo nascosto dentro ciascuno di noi, affinché i suoi figli possano essere «perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me» [Gv 17, 23].

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Dall’Isola di Patmos, 30 marzo 2019

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E disponibile il Libro delle Sante Messe per i defunti de L’Isola di Patmos [vedere QUI]

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C’erano una volta l’Eucaristia ed il Sacerdozio Cattolico, poi giunsero Kiko Argüello e Carmen Hernandez fondatori del Cammino Neocatecumenale … e l’eresia si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi

 — i saggi di Theologica —

C’ERANO UNA VOLTA L’EUCARISTIA E IL SACERDOZIO CATTOLICO, POI GIUNSERO KIKO ARGÜELLO E CARMEN HERNÁNDEZ FONDATORI DEL CAMMINO NEOCATECUMENALE … E L’ERESIA SI FECE CARNE E VENNE AD ABITARE IN MEZZO A NOI

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INDICE: I. Eresia non è una parola indecente e dare dell’eretico a chi cade e permane in eresia sostanziale e formale non è un insulto, ma una semplice constatazione di fatto — II. Il primo equivoco da sfatare: se il Cammino Neocatecumenale si è sviluppato sotto i pontificati di due Sommi Pontefici Santi, questo lo rende per caso santo e dogma intangibile della fides catholica? — III. I Neocatecumenali prendono vita sulla crisi di autorità della Chiesa e si sviluppano sotto il pontificato di Giovanni Paolo II dopo avergli presentata la famiglia de Il Mulino Bianco — IV. Il Cammino Neocatecumenale ha resa nuovamente attuale la vecchia eresia degli albigesi, senza che l’autorità ecclesiastica ponesse freno al fatto che l’Eucaristia non è un bene privato di cui essi possano disporre a proprio piacimento — V.  Quando la Chiesa trova tutte le scuse per non ascoltare le vittime di vario genere, alla fine finisce col ritrovarsi con i cardinali alle sbarre dei tribunali penali, ma anche in tal caso seguita imperterrita a non ascoltare — VI. La grande menzogna dei dirigenti del Cammino Neucatecumenale: affermare che la Chiesa ha riconosciute e pienamente legittimate le loro stramberie liturgiche e catechetiche — VII. A rendere sano un movimento bastano le tante brave persone che lo formano? sono sufficienti le testimonianze di chi afferma: «Nel Cammino mi sono convertito», «Nel Cammino mi sono riavvicinato alla Chiesa»? VIII. Il Pontefice regnante non ha tardato a lanciare anch’esso precisi richiami ai kikos ed ai mega-catechisti del Cammino Neocatecumenale ottenendo l’effetto ottenuto dai suoi tre predecessori: orecchi da mercante — IX. I Neocatecumenali sono la negazione del sapiente spirito missionario della Chiesa, ed anziché portare nuove genti al Cattolicesimo fanno nuovi adepti al Neocatecumenalesimo — X. Il Cammino Neocatecumenale è una psico-setta nella quale si annulla il senso critico dopo avere invasa la coscienza degli adepti e mutando la crassa ignoranza e la superbia in un dono di elezione dello Spirito Santo — XI. Al grave problema della errata percezione della Santissima Eucaristia si unisce la errata percezione del Sacerdozio, specie tra il sacerdozio comune dei battezzati ed il sacerdozio ministeriale di Cristo al quale partecipano solo i ministri in sacris dotati di un munus triplice: docendi, regendi, sanctificandi — XII. Conclusione.

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Autore:
Ariel S. Levi di Gualdo

Prima di avviarci nel lungo discorso è necessario chiarire il significato della parola eresia. La necessità del chiarimento è dovuta al fatto che all’interno della Chiesa stessa si è insidiata da tempo una neolingua, com’ebbi modo di spiegare anni fa in uno dei primi articoli su questa nostra Isola di Patmos [2014, vedere QUI], ed a seguire poi in una mia cosiddetta lectio magistralis [vedere video, QUI]. Neolingua non vuol dire solo dar vita a nuove parole, o cosiddetti neologismi, ma compiere un’operazione persino peggiore: dare alle parole un significato diverso da quello ch’esse etimologicamente hanno. Lo svuotamento delle parole dal loro significato riempite di tutt’altri significati, è un fenomeno di grave pericolosità che prende sviluppo prima, durante e dopo la Rivoluzione Francese. Un esempio esaustivo è dato dai concetti di libertà, uguaglianza e fraternità, che sono dei suffissi fondanti del Cristianesimo, non un’invenzione della Rivoluzione Francese. Principi che però, sul finire del Settecento, ed appresso nel corso di tutto l’Ottocento, si muteranno in principi antitetici al Cristianesimo, per di più usati per colpire e per tentare d’affossare il Cristianesimo stesso […]

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La pazienza e la misericordia di Dio sono finalizzate alla nostra salvezza, non allo sdoganamento del peccato come stile di vita

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

LA PAZIENZA E LA MISERICORDIA DI DIO SONO FINALIZZATE ALLA NOSTRA SALVEZZA, NON ALLO SDOGANAMENTO DEL PECCATO COME STILE DI VITA 

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Cerchiamo di capire anzitutto questo: che Dio sia misericordioso e magnanimo non esenta di certo il peccatore dalla fatica di condurre un cammino di verità sulla propria vita. Se non guardo con verità dentro il mio cuore e non riconosco la spazzatura che vi si accumula, io sono solo un ipocrita che nasconde la polvere sotto un bel tappeto.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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il fico sterile

La Misericordia di Dio è la terapia che trasforma i peccatori in santi e, come tutte le terapie, necessita di pazienza, di tempo, di costanza e di fatica. Non esiste una misericordia divina a buon mercato senza un sano riconoscimento della propria colpa e un autentico desiderio di cambiamento.

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Cerchiamo di capire anzitutto questo: che Dio sia misericordioso e magnanimo non esenta di certo il peccatore dalla fatica di condurre un cammino di verità sulla propria vita. Se non guardo con verità dentro il mio cuore e non riconosco la spazzatura che vi si accumula, io sono solo un ipocrita che nasconde la polvere sotto un bel tappeto.

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Nel Vangelo di questa III Domenica di Quaresima [cf. testo della Liturgia della Parola, QUI] Gesù reagisce vigorosamente alla cosiddetta Teologia della Retribuzione che consiste nel ritenere le disgrazie come la conseguenza di colpe, più o meno note, commesse dagli uomini. Nel Vangelo di Giovanni ritorna questo tipo di visione teologica nell’episodio del cieco nato: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» [cf. Gv 9,2-3].

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Ovviamente questa visione teologica è sballata, Dio non si diverte a punire gli uomini, tuttavia Gesù ha la possibilità per fare alcune considerazioni utili. Il Signore esprime chiaramente che la conversione è necessaria per poter fare una vera esperienza di Dio. Il problema non sono le disgrazie o la morte – che possono colpire tutti in ogni momento dell’esistenza – il vero problema consiste nel fatto di non volersi convertire a Dio e non voler ritornare a lui con tutto il cuore.

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La conversione, si sa è opera dello Spirito Santo, ma avviene solamente quando l’uomo riesce a mantenere un certo timor di Dio. Se non c’è timore ma spregiudicatezza e insolenza, la nostra vita è spacciata! La morte naturale sarà la conseguenza logica di quella morte alla grazia che abbiamo manifestato con la lontananza da Dio.

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Poiché la conversione presuppone il timor di Dio, il Signore ci dona tempo affinché la nostra vita si possa ravvedere il più possibile. Dio esprime una pazienza affinché il peccatore possa essere fecondato dalla Parola, dai sacramenti, dalla preghiera fiduciosa e dall’esperienza di comunione ecclesiale. Gesù è il fattore che quotidianamente domanda al Padre il tempo affinché ciascuno di noi si converta. Siamo irrigati e fecondati dal sangue di Cristo in attesa di produrre frutti di cambiamento.

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All’interno della liturgia della Parola di questa domenica, esiste la proclamazione di un annunzio di misericordia e di pazienza, ma questo viene messo come obiettivo necessario per una fruttuosità e una conversione. Non possiamo affermare che Dio nella sua misericordia e pazienza non considera il peccato, fa finta di niente davanti alle colpe, chiude gli occhi diventando nostro complice e ammantando tutto con un denso strato di buonismo melenso.

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Dio Padre non si stanca mai di accogliere i peccatori, ma i peccatori pentiti! Egli conosce la nostra debolezza, pur tuttavia ci domanda di lasciarci salvare da Gesù affinché il peccato non diventi un cancro insanabile che ci porta alla morte. Dio non vuole che alcun uomo si perda, non desidera la morte del peccatore ma la vita in abbondanza, è necessario credere sempre in questa buona notizia.

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La Sacra Scrittura ci assicura che non esiste sterilità e morte che non possa essere rinvigorita o risanata, oggi non soffermiamoci sulla grandezza del nostro peccato, ma sulla grandezza del Padre che ci chiede solo di colmare la nostra distanza da lui, così come ha avuto il coraggio di fare il figlio prodigo.

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Cagliari, 23 marzo 2019

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il blog personale di Padre Ivano

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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La trasfigurazione. il memoriale dell’incarnazione, passione, morte, risurrezione e ascensione di Cristo Signore, non si dovrebbe celebrare con danze assiro-babilonesi attorno all’altare ridotto a totem

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

LA TRASFIGURAZIONE. IL MEMORIALE DELL’INCARNAZIONE, PASSIONE, MORTE, RISURREZIONE E ASCENSIONE DI CRISTO SIGNORE, NON SI DOVREBBE CELEBRARE CON DANZE ASSIRO-BABILONESI ATTORNO ALL’ALTARE RIDOTTO A TOTEM 

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Spesso, in nome delle proprie  esotiche e arbitrarie “tradizioni” che celano solamente gli smodati personalismi egocentrici di certi loro fondatori, i nostri movimenti laicali rischiano di smarrire la cattolica tradizione della Chiesa universale; e certe insidie si capiscono proprio dal loro modo di pregare. Non è infatti raro che al centro di certe azioni liturgiche finisca con l’essere posto l’uomo e non Cristo. Così, la centralità, non è più data dall’Eucarista, ma da tutto ciò che attorno ad essa è stato messo in circolo: dalle cosiddette “risonanze” — che non di rado sono veri e propri sproloqui emotivi infarciti di errori dottrinari e teologici — sino alla danze assiro-babilonesi eseguite attorno all’altare mutato in una specie di totem.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa
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Laudetur Jesus Christus !

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Danze assiro-babilonesi attorno al totem [per aprire il video cliccare sopra l’immagine]

In questa IIª Domenica di Quaresima il Santo Vangelo narra la trasfigurazione di Cristo Signore [cf. Lc 9, 28-36, testo della Liturgia della Parola, QUI]. Dopo il brano delle tentazioni dove Gesù vero Dio e vero uomo vince la presenza di Satana [cf. QUI], il Signore sale di nuovo sul monte. Assieme a Lui ci sono Pietro, Giacomo e Giovanni, le colonne della prima Chiesa. Sul monte Gesù si trasfigura, cambia d’aspetto. Il suo volto brilla come il sole e la sua veste diviene candida come luce. Il Beato Evangelista Luca, a differenza del Beato Evangelista Matteo, narra che Cristo Signore stava pregando [cf. Lc 9, 29].

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È proprio nella preghiera che ci scopriamo diversi, se veramente preghiamo Dio. Se invece preghiamo noi stessi e pregando adoriamo le nostre tradizioni religiose o laicali fatte passare per Dio, confuse con Dio o peggio messe spesso al di sopra di Dio, questa è altra faccenda. A dire il vero è anche una faccenda alquanto pericolosa, presente e insidiosa da sempre negli ambiti della vita religiosa e nei movimenti laicali che sovente hanno preso vita proprio sulle macerie della vita religiosa. Spesso, in nome delle proprie esotiche e arbitrarie “tradizioni” che celano smodati personalismi egocentrici di certi fondatori, i nostri movimenti laicali rischiano di smarrire la cattolica tradizione della Chiesa universale; e certe insidie si capiscono proprio dal loro modo di pregare. Non è infatti raro che al centro di certe azioni liturgiche finisca con l’essere posto l’uomo e non Cristo. Così, la centralità, non è più data dall’Eucarista, ma da tutto ciò che attorno ad essa è stato messo in circolo: dalle cosiddette “risonanze” — che non di rado sono sproloqui emotivi infarciti di errori dottrinari e teologici — sino alla danze assiro-babilonesi eseguite attorno all’altare mutato in una specie di totem.

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Il problema è che oggi un numero elevatissimo di fedeli non sa più che cos’è la Santa Messa, motivo per il quale sono stati inseriti in essa cosiddetti vezzi e malvezzi meglio noti come abusi liturgici, che mirano proprio a supplire questa carenza di conoscenza, affinché tutto cada ed anneghi nell’emotivo soggettivo o di gruppo. Tentiamo allora di dirlo con poche brevi e precise parole: la Santa Messa è sacrificio di grazia è sta al centro del mistero della redenzione. Nella Prima Preghiera Eucaristica, o Canone Romano — quella che in molte chiese è caduta ormai in disuso, sostituita dall’uso quasi unico della più breve delle Preghiere Eucaristiche, la Seconda —, dopo che il Popolo di Dio ha acclamato «Mistero della fede», il sacerdote, che non è semplicemente “il presidente” ma un alter Christus il quale agisce come tale in Persona Christi, seguita recitando:

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«Unde et mémores, Dómine, nos servi tui, sed et plebs tua sancta, eiúsdem Christi Fílii tui Dómini nostri tam béatæ Passiónis, nec non et ab ínferis Resurrectiónis, sed et in coelos gloriósæ Ascensiónis: offérimus præcláræ maiestáti tuæ, de tuis donis, ac datis, hóstiam puram, hóstiam sanctam, hóstiam immaculátam, Panem sanctum vitæ ætérnæ et Cálicem salútis perpétuæ».

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[In questo sacrificio, o Padre, noi tuoi ministri e il tuo popolo santo celebriamo il memoriale della beata passione, della risurrezione dai morti e della gloriosa ascensione al cielo del Cristo tuo Figlio e nostro Signore; e offriamo alla tua maestà divina, tra i doni che ci hai dato, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell’eterna salvezza].

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Già da queste brevi parole si dovrebbe comprendere che nella celebrazione di tutte le azioni sacramentali, che sono una azione trinitaria compiuta nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, noi realizziamo il nostro incontro col Cristo risorto. Nel Sacrificio Eucaristico Cristo Signore si rende presente — attraverso la Santissima Eucaristia — con la sua vita intera: dalla sua incarnazione nel ventre della Beata Vergine Maria sino alla discesa dello Spirito Santo — il Consolatore — inviato dal Padre e dal Figlio nel cenacolo degli Apostoli a Pentecoste.

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Con la risurrezione, la passione e morte di Cristo è tutt’altro che cancellata, n’è prova il fatto che il Risorto si è mostrato agli Apostoli con il suo corpo glorioso nel quale erano sempre impressi i segni della passione. E il corpo glorioso di Cristo, seguita tutt’oggi a portare impressi su di sé i segni della passione.

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Quando il celebrante recita «… questo sacrificio vivo e santo», indica con quelle parole l’azione redentrice della passione e morte di Cristo Signore. Verrebbe pertanto da domandarsi: a qualcuno risulta che sul Calvario, sotto la croce, la Beata Vergine Maria, assieme a Maddalena ed al giovane Apostolo Giovanni, danzassero in circolo gioiosamente abbracciati in un appassionato girotondo attorno alla “croce totem“? Fede e tradizione ci tramandano tutt’altro, per esempio:

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Stabat Mater dolorósa
iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius.

[La Madre addolorata stava
in lacrime presso la Croce
sulla quale pendeva il Figlio]

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O risulta invece che

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Danzava la madre giocosa

sotto la croce gioiosa

sulla quale pendeva il Figlio?

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Quando si prega veramente, anche in totale solitudine ed isolamento, si prega sempre in comunione di fede e di amore con tutta la Chiesa universale; non in comunione con un particolare gruppo o con i suoi stili personalistici di preghiera. E quando veramente si prega, in solitudine o con i fratelli, dopo un po’ di tempo si ha questa esatta sensazione: si cambia d’aspetto, si è meno rigidi, il pensiero vola verso un reale infinito e si sperimenta una sensazione oserei dire mistica. L’esperienza e la dimensione della preghiera parte necessariamente — e così deve essere — da una dimensione fisica attraverso la quale saremo condotti in una dimensione di esperienza tutta quanta metafisica.

                                                                             

Questo il frangente nel quale Cristo Signore dialoga con Mosè ed Elia secondo la fedele cronaca di questo Santo Vangelo. Mosè rappresenta la Legge del Sinai, i dieci comandamenti, la Torah ebraica. Elia, il profeta asceso al cielo in un carro di fuoco di cui gli ebrei attendono da un momento all’altro il ritorno. La legge e i profeti, l’antica e prima alleanza dialogano in comunione con Gesù, il Verbo di Dio che si è incarnato non per abolire la legge degli antichi profeti, ma per portarla a pieno compimento [cf. Mt 5, 17-19], ed il pieno compimento è lui: il Verbo fatto carne [cf. Gv 1, 14]. 

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Tenera oltre modo la figura di Pietro, mediterraneo e focoso come sempre, che vorrebbe fermare questo momento mettendolo in cornice in una bella foto. Vorrebbe che la vita si fermasse lì al Tabor, senza andare al Calvario.  

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La nube avvolge infine i tre discepoli che entrano al suo interno. Una nube che rappresenta Dio che avvolge l’uomo ogni volta che l’uomo decide di lasciarsi avvolgere. E dopo questo avvolgimento si ode la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato. Ascoltatelo» [cf. Mc 9, 7].

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Il Padre proclama ai discepoli Gesù suo Figlio diletto, che tutti noi siamo chiamati ad ascoltare, riconoscendo adoranti in lui la parola del Verbo Incarnato.

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Davanti a queste parole i discepoli si prostrano con la faccia a terra e hanno timore. Il Vangelo non dice che hanno paura, ma che hanno timore. Quel santo timore di Dio di cui avremmo molto bisogno oggi. Un santo timore che è dono ineffabile dello Spirito Santo di Dio, che non vuole la nostra paura, ma il nostro libero e adorante rispetto. Come infatti scrisse l’equipollente e quasi coevo Tommaso d’Aquino degli ebrei, Moshe ben Maimon, meglio conosciuto come Maimonide: «il timore di Dio è il principio di ogni sapienza».                                 .                                             

Gesù, fa risvegliare infine i discepoli caduti per sacro timore con la faccia a terra; e li fa rialzare usando precise parole: «Alzatevi e non temete» [Mt 17, 7]. E vengono invitati a rimanere in silenzio.                  

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Solo dopo la Pasqua potranno comprendere ciò che è avvenuto. Gesù ha rivelato nella trasfigurazione la sua gloria futura, che però avverrà solo dopo la morte in croce. Non vi sarà solo il monte Tabor, quello della trasfigurazione, i discepoli dovranno scoprire un altro monte molto più amaro: il monte Calvario. Tra questi due monti ve n’è un altro ancora nell’esperienza di vita dell’uomo Gesù: il monte sul quale in precedenza s’è ritirato per quaranta giorni e dove viene tentato dal Demonio. Monte, quest’ultimo, che raffigura la tremenda realtà del mistero del male, che ci segue sin dagli inizi dei tempi.                                                              

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La vita è sofferenza e gioia che si sfidano in un duello perenne in questa nostra storia. Una vita che è costellata di momenti meravigliosi e di momenti molto tristi, a volte intersecati insieme. Ma proprio quando sembra che tutto svanisca, il Signore arriva a salvarci, a sostenerci. Quando viceversa tutto appare positivo, quando è la vita a vivere noi anziché noi a vivere la vita, a volte succede quell’evento negativo che  non aspettavamo.

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La vita è in fondo questa: una Pasqua continua attraverso la quale Gesù, risorgendo, restituisce speranza nuova a ciascuno di noi, invitandoci a salire il monte e non a temere Dio, ma a nutrire libero e amorevole timore verso il mistero d’amore di Dio, che si realizza attraverso l’incarnazione, la vita, la passione, la morte, la risurrezione e l’ascensione al cielo di Cristo Signore, il cui corpo glorioso vive tutt’oggi portando impressi i segni della passione. Ecco perché, la Santa Messa, è sacrificio; è il sacrificio incruento della croce che si rinnova, non un banchetto gioioso, una mensa tra allegri commensali, più o meno danzanti, più o meno tamburellanti secondo le stramberie dettate da un bohémienne spagnolo rimasto illeso da decenni di impunità…

 

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Dall’Isola di Patmos, 17 marzo 2019

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E disponibile il Libro delle Sante Messe per i defunti de L’Isola di Patmos [vedere QUI]

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È morto il Cardinale Godfried Danneels, una perdita incolmabile. La beata gatta del Cardinale Carlo Maria Martini è apparsa alla gatta mistica della Barbagia Sarda facendole una rivelazione: «L’Eminente Defunto è già nella gloria degli Angeli e dei Santi»

— il cogitatorio di Ipazia  —

È MORTO IL CARDINALE GODFRIED DANNEELS, UNA PERDITA INCOLMABILE. LA  BEATA GATTA DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI È APPARSA ALLA GATTA MISTICA DELLA BARBAGIA SARDA FACENDOLE UNA RIVELAZIONE: «L’EMINENTE DEFUNTO È GIÀ NELLA GLORIA DEGLI ANGELI E DEI SANTI»

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… questo Porporato amava così tanto la Santa Chiesa di Cristo che cercò di dissuadere un giovane dal denunciare il responsabile degli abusi sessuali compiuti per anni in suo danno. Infatti, l’autore e abusatore era S.E. Mons. Roger Vangheluwe, vescovo di Bruges, di cui l’abusato era nipote. Animato da profondo spirito compassionevole, il Cardinale Gotfried Danneels chiese alla vittima di attendere a denunciare le violenze, visto che lo zio vescovo si sarebbe dimesso dall’incarico l’anno successivo per sopraggiunti limiti di età …

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Autore
Ipazia gatta romana

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I tumori più terribili e difficili da guarire sono le malattie che ci impediscono di essere testimoni di Cristo [IIIª riflessione: «La mancanza di perdono»]

visita il blog personale di Padre Ivano

— Pastorale sanitaria —

I TUMORI PIÙ TERRIBILI E DIFFICILI DA GUARIRE SONO LE MALATTIE CHE CI IMPEDISCONO DI ESSERE TESTIMONI DI CRISTO 

IIIª RIFLESSIONE: La mancanza di perdono ]

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Partiamo da una constatazione banale: perché proviamo il rancore e non riusciamo a perdonare? Semplicemente perché riviviamo interiormente il male che ci è stato fatto, rimuginandolo nel nostro cuore. La memoria dell’offesa arrecata — in questo caso — non lavora più affinché si giunga a una risoluzione ma lavora per reiterare l’offesa, che nel tempo cronicizza e resta calcificata come ossessione nel nostro animo.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

 

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le vignette di Gioba [Giovanni Berti, presbìtero veronese] originale in gioba.it  QUI

La terza patologia spirituale che tratterò è legata alla tendenza a non concedere il perdono facilmente, ed è assai diffusa. Essa non risparmia i fedeli laici come i consacrati. Così, da sacerdote dedito al ministero di confessore,spesso mi trovo a sondare questo aspetto all’interno della vita dei penitenti che s’accostano al prezioso Sacramento della riconciliazione.

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Assisto così il più delle volte ad una sorta di schizofrenia spirituale, infatti, se da un lato si vuole ottenere il perdono di Dio a qualunque costo — dato il proliferare delle tendenze misericordiste — questo desiderio non corrisponde però ad una concessione di perdono altrettanto voluta verso gli altri. La ricerca del perdono e la rigidità nel concederlo costituisce certamente un paradosso nella vita di molti uomini e donne che vivono la fede.

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Da confessore, devo ammettere che la realtà più dolorosa consiste nel prendere atto di come la mancanza di perdono difficilmente viene percepita come peccato da confessare, e a volte non viene neanche recepita come conditio sine qua non che rende conformi all’immagine di Cristo [cf. 1Pt 2,23]. Ogni giorno recitando la preghiera del Padre Nostro, siamo messi davanti a una clausola di perfezione ascetica che chiede a Dio di rimettere le nostre mancanze, nella misura in cui noi ci facciamo portatori di perdono verso coloro che ci hanno offeso. Dunque cerchiamo di stare attenti a ciò che chiediamo in preghiera, difatti Dio prende sul serio queste parole che non sono dell’uomo ma di Cristo, cosa questa che c’insegna la versione del Padre Nostro nel Vangelo di San Matteo che dice così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» [cf. Mt 6,12], quella del Vangelo di San Luca invece: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore» [cf Lc 11,4]. Le differenze sono minime, ma la sostanza non cambia: il cristiano si riconosce da come perdona, cioè dal modo in cui esercita la propria giustizia non secondo la logica del mondo ma secondo la logica del Vangelo [cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2838; Compendio n. 594].

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Il Padre Nostro è da sempre una preghiera problematica — è stato così per Sant’Agostino — ma tale problematicità non è sinonimo di impossibilità a realizzare ciò che chiede, semmai di resistenza alla grazia, ovvero indice di un cuore umano ammalato.

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Ci sono tante persone che dicono: «Io non perdono» oppure «Io perdono ma non dimentico». Sono frasi estrapolate dal loro contesto e dalla carica emozionale con cui vengono pronunciate, ma che racchiudono realmente una profonda verità. E con questa mia riflessione voglio cercare di rispondere proprio a queste due obiezioni.

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I. DIO PERDONA, IO NO: UN TRAGUARDO CHE SUPERA L’UOMO.

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Che l’uomo fosse un disastro nel perdonare lo aveva ben capito il Beato apostolo Pietro [cf. Mt 18,21-22], quando rivolgendosi a Gesù domanda fino a quante volte è lecito perdonare il proprio offensore. Pietro interroga Gesù sulla liceità di un atto morale previsto dalla legge, ma il maestro risponde capovolgendo in positivo la cifra della vendetta di Lamec [cf. Gn 4,23-24]: «Non ti dico fino a sette volte, ma a settanta volte sette». Con questa risposta spiazzante Gesù — tenendo presente tutta la valenza simbolica dei numeri sette e settanta — vuol far capire a Pietro che il perdono non è un atto morale che tocca l’obbligatorietà giuridica ma la grazia. La parabola successiva del servo spietato, illustra molto bene la vexata quaestio e la corretta ermeneutica del pensiero di Gesù espresso a Pietro [cf. Mt 18,23-35].

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Il perdono insegnato da Cristo ai discepoli raggiunge il suo vertice sul Calvario e vive della mistica dell’incontro col Padre autore della grazia e quindi del per-dono [cf. Lc 23,34]. Perdonare significa ritornare a Dio, permettere che lui ci renda nuovi. Il santo re Davide, consapevole di questa necessità di conversione e di rinnovamento nello spirito che indirizza verso il perdono, nel Miserere si fa portatore di una richiesta precisa «Crea in me, o Dio, un cuore puro rinnova in me uno spirito saldo» [cf. Sal 51,12].

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Il ricorso alla conversione, necessario per essere docili alla grazia e ammorbidire il cuore, ci permette di essere perdonati e di perdonare a nostra volta. Colui che perdona, infatti, è un graziato ed è consapevole di dover vivere in un perenne desiderio di conversione. Non basta una generosa volontà di sapore pelagiano per attuare pienamente il perdono. L’esperienza quotidiana insegna che, nella maggioranza dei casi, posso tentare di isolare l’offesa e l’offensore, forse anche tentare di dimenticare, ma questo non significa ancora perdonare.

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Sono solito dire ai penitenti che perdonare vuol dire avere, verso coloro che ci hanno offeso, il medesimo sguardo che Dio Padre ha verso di noi quando ci inginocchiamo davanti al sacerdote confessore. Significa fare l’esperienza autentica del Padre Misericordioso di Luca [cf. Lc 15,11-32], che concede il perdono, visto quasi come impossibile dal figlio minore, senza indugiare sulle motivazioni del ritorno e senza la costrizione di un ritorno stabile nella casa paterna. È proprio questo il modo corretto di esercitare il perdono cristiano, tanto da rafforzare la credibilità della nostra fede e della proposta che Gesù fa ad ogni discepolo [cf. C. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità, I-II, Bologna, EDB, 2009]. Non posso che condividere, a questo punto, l’ottimo pensiero di Alessio  Rocchi, quando afferma che:

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«Avere viscere di misericordia non significa essere smidollati, ma piuttosto disporre di un supplemento di forza (o di grazia, ndr). In questo senso il perdono è redenzione, non negazione o riduzione del male ma sua revisione. Non è miracolo non azione priva di fatica compiuta da un potente mago o da un onnipotente dio, ma dura prova di esistenza terrena, attraverso sguardi che (re)inseriscono in una relazione, mediante parole che (re)integrano in una storia» [cf. A. Rocchi, Il tempo del perdono, Aporie del perdonare tra filosofia e teologia, p. 97, IUSTO – Studi e ricerche, 2015].

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Proprio perché il perdono è un momento redentivo che riconduce a una relazione intima e nuova, esso si colloca come luogo teologico in cui è possibile vivere la novità promessa da Dio per bocca del profeta Isaia [cf. Is 43,19]; cioè vedere nascere una strada nel deserto in cui è possibile percorrere nuove situazioni, e in cui l’uomo può muoversi in piena comunione con il Padre senza la paura di sentirsi vulnerabile o nudo [cf. Gn 3,11].

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Perdonare significa costruire vie nuove, perciò il rapporto che si crea tra offeso e offensore non ha nulla a che fare con la relazione precedente il torto, ma è un rapporto trasfigurato in cui Dio si rivela. Studiando la dinamica del perdono a cui Dio invita l’uomo, siamo così ricondotti alla riflessione sulla dinamica escatologica della vita oltre la vita.

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Nel mio ministero di cappellano ospedaliero è prassi comune assistere i morenti e le loro famiglie. Il nodo più doloroso che il malato morente deve recidere prima del congedo definitivo è quello di concedere il perdono o di accettare il perdono. Una prova simile deve essere affrontata anche dalla famiglia del malato. Tralasciando in questa sede, le motivazioni e le cause scatenanti i debiti da condonare prima della morte, è necessario soffermarsi sul bisogno che il morente ha di morire riconciliato. Riconciliato con Dio e quindi riconciliato con i fratelli che ha offeso o che sono stati per lui motivo di sofferenza.

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L’episodio del Buon Ladrone detta il nostro approfondimento. I vangeli testimoniano come Gesù sia stato crocifisso tra due ladroni [cf. Mc 15,27]: sappiamo come il termine greco λήστοι [lèstoi] individui un criminale politico — oggi diremo un terrorista — piuttosto che un ladro o un delinquente generico. La situazione che si presenta sul Calvario agli occhi dei romani è chiara: l’esecuzione di due prigionieri politici insieme a Gesù visto come un sobillatore e un sovvertitore del popolo d’Israele. Ma ecco che nel pieno dell’agonia, uno di questi nemici di Roma, ormai prossimo alla fine, si rivolge a Gesù e — riconoscendo in lui il Signore e insieme bisognoso di conversione e rappacificazione per una vita di delitti, odi e rancori — esclama: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno» [cf. Lc 23,42].

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Queste parole che ci permettono di capire come

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«Il perdono venga – ancora una volta – insieme richiesto e offerto. A leggerle e rileggerle suonano come tre grazie. Grazie, ti chiedo grazie, ti chiedo perdono perché la mia vita non è stata un granché. Grazie, ti faccio grazie, ti perdono per la tua impotenza, per il tuo non scendere dalla croce, per il tuo non farmi scendere insieme a te. Ti grazio e ti accetto per quello che sei, mettendo da parte la mia delusione nei tuoi confronti. Ti faccio la grazia di non chiederti un miracolo, di non imprecare – e ne avrei molti motivi – sulla mia e sulla tua sorte. Questo malfattore crocifisso chiede di essere perdonato attraverso la domanda di un ricordo, sembra perdonarsi attraverso il riconoscimento della propria pena, decide di perdonare tacendo le proprie legittime maledizioni e zittendo le rivendicazioni miracolistiche del compagno condannato» [cf. A. Rocchi, Il tempo del perdono, Aporie del perdonare tra filosofia e teologia, p. 95, IUSTO – Studi e ricerche, 2015].

Il dialogo del ladrone pentito con Gesù si colloca nell’orizzonte della vita che non tramonta, di una speranza escatologica molto netta, di cui tutti abbiamo bisogno. È evidentissimo il desiderio che questo condannato ha di vivere, ed è altrettanto evidente in lui la consapevolezza che il morire senza chiedere e concedere il perdono, pregiudica la vita futura con l’aggravante della conclusione di una vita terrena dentro una tragicità non necessaria. L’unica speranza per non morire eternamente — nell’oblio, tra i fantasmi di una storia personale che dice violenza, distruzione e odio — è la benedizione che giunge con il perdono. Sebbene la morte si atteggi a signora — così come ricorda il cantautore Branduardi in una sua famosa ballata [cf. video QUI] — il perdono prima dell’addio vince sulla morte, e può essere già caparra di eternità, riscatto di un’esistenza rovinata, garanzia di guarigione verso se stessi e verso il prossimo. Del resto sarebbe paradossale che il cristiano iniziasse la nuova vita in Paradiso con diverse pendenze a suo seguito. Una vita piena [cf. Gv 10,10] è il sinonimo di una vita pienamente riconciliata, una vita a metà è al contrario l’espressione di un rallentamento che ci priva della comunione con Dio e con i fratelli, una frizione che dovrà essere ricomposta o espiata in altro modo.

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II.  BUONA MEMORIA PER PERDONARE

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Siamo sinceri, dopo aver ricevuto un’offesa è difficile metterci una pietra sopra. Molti desidererebbero mettere una pietra sopra l’offensore, ma questo non è civilmente e cristianamente accettabile. Esistono poi le persone che ci invitano a dimenticare e a far finta di niente. Costoro finiscono per essere consolatori inopportuni come i tre amici del saggio Giobbe [cf. Gb 3,ss], e non ci arrecano nessun buon servizio. Per questo motivo — come detto in precedenza — abbiamo bisogno della grazia di Dio insieme a una richiesta di preghiera costante ed esplicita, affinché il Signore guarisca la nostra ferita e ci doni il tempo necessario per giungere convertiti al perdono. Ma il raggiungimento del perdono include la capacità di una buona memoria, infatti dimenticare completamente l’offesa — opzione improbabile — ci priverebbe della possibilità di concedere il perdono e quindi di raggiungere la pace e quella benedizione che è garanzia per un nuovo inizio di vita.

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Partiamo da una constatazione banale: perché proviamo il rancore e non riusciamo a perdonare? Semplicemente perché riviviamo interiormente il male che ci è stato fatto, rimuginandolo nel nostro cuore. La memoria dell’offesa arrecata — in questo caso — non lavora più affinché si giunga a una risoluzione ma lavora per reiterare l’offesa, che nel tempo cronicizza e resta calcificata come ossessione nel nostro animo.

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Uno dei sintomi di coloro che non vivono il perdono è la sensazione di avere un peso nel cuore, e tale sensazione spesso viene trascinata per anni. Il filosofo Paul Ricoeur diceva:

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«l’autentico perdono non implica l’oblio degli eventi stessi, ma un modo diverso di significare un debito […] che paralizza la memoria e di conseguenza la capacità di ricreare noi stessi in un nuovo futuro» [cf. R. Kearney M. Dooley, Questioni di etica: dibattiti contemporanei in filosofi, Armando Editori, 2005, p. 40;  a completamento del pensiero cf. anche P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004].

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Questa fissazione della memoria sull’offesa è deleteria, quando la memoria deve concentrasi sull’offesa è solo per avviare un processo di liberazione che condoni, pezzo per pezzo, il torto subito.

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Alcune volte, per vincere l’ossessione insieme all’ansia del perdono non concesso, si ha la tendenza a sostituire il rancore con l’indifferenza, ma ciò è un falso rimedio. La medicina de «l’occhio non vede, cuore non duole», non solo non è cristiana ma diventa una modalità sottile e tremenda per condurre a morte il fratello esiliandolo dalla propria esistenza.

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L’insieme dei processi appena descritti ci aiutano a capire nell’insieme la frase: «non riesco a perdonare!». Realmente la persona è impossibilitata a perdonare, perché tale offesa si è indurita, sclerotizzata, non bastano più le medicine tradizionali ma urge l’intervento chirurgico. L’intervento d’urgenza consiste nell’associare la memoria alla presenza di Dio. Una parola che ricorre molto nell’Antico Testamento è «ricorda», il verbo che si collega direttamente alla memoria delle persone, delle cose e degli eventi. Ma per l’agiografo biblico, il ricordare si traduce in memoriale. Detto semplicemente il memoriale è il ricordare insieme a Dio.

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Fare memoria di quelle situazioni e di quegli eventi in cui Dio si è rivelato — e ancora si rivela — nella sua potenza, tanto da operare meraviglie a beneficio dell’uomo. Il memoriale perciò è più che far memoria, è ricordare attraverso la fede, ripristinare una ben definita identità teologica, che vede in Dio il riscattatore e nell’uomo una creatura da riscattare e redimere.

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Per perdonare da cristiano devo fare memoriale, cioè ricordare insieme a Dio, vedere con nitidezza le offese e le ferite, affinché si formi uno sguardo provvidenziale all’interno del quale lo Spirito di Dio — memoria viva della Chiesa [cf. Gv 15,26] — lavori affinché ogni offesa e ferita si traduca in occasione di lode. Facendo memoriale vedo nella persona che mi ha ferito, i lati positivi, le buone intenzioni realizzate, i propositi di bene naufragati, le immancabili contraddizioni e incoerenze. Riesco a vedere nell’offensore non più un nemico da combattere ma una persona bisognosa di aiuto perché anch’essa ferita e assetata di redenzione. Nel memoriale percepisco bene anche le mie responsabilità, mi assumo la consapevolezza di aver forse agevolato determinati comportamenti nell’altro e ridimensiono la tendenza a vedermi come capro espiatorio.

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Il memoriale è l’esame di coscienza con cui, come per Abramo, Dio mi permette di diventare intercessore verso chi si è reso ostile [cf. Gn 18,20-32], senza chiudere gli occhi davanti al male inferto e ricevuto e con la tendenza a far trionfare la giustizia misericordiosa di Dio.

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[fine della IIIª meditazione]

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Cagliari, 10 marzo 2019

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Se il Demonio che osò tentare persino Cristo Signore riesce a prenderci nell’ambizione, può fare di noi ciò che vuole

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

SE IL DEMONIO CHE OSÒ TENTARE PERSINO CRISTO SIGNORE RIESCE A PRENDERCI NELL’AMBIZIONE E NELLA VANITÀ, PUÒ FARE DI NOI CIÒ CHE VUOLE 

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Se il Demonio riesce a prenderci nel punto debole dell’ambizione e della vanità può fare di noi ciò che vuole e ottenere quel che brama sin dalla notte dei tempi: che ci prostriamo dinanzi a lui e che adorandolo lo chiamiamo Signore, semmai dopo avere detto, dinanzi al male che a volte pare quasi soffocare la Chiesa stessa: «… ma chi me lo fa fare di mettermi contro i potenti e prepotenti accoliti del Demonio? A che serve farsi la vita amara, quando per vivere tranquilli, dentro la Chiesa di oggi, basta solo non vedere, non parlare e soprattutto farsi sempre e di rigore gli affari propri?».

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa

 

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Laudetur Jesus Christus !

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Gerico, il Monte della Quarantena o Monte della Tentazione di Gesù Cristo

Nella pagina del Vangelo di questa Iª Domenica di Quaresima [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI] siamo di fronte a un paradosso: è veramente accaduto che il Demonio abbia tentato Dio Incarnato, il Verbum caro factum est? Può essere che il Demonio ha tentato di colpire Dio nella sua umanità, fingendosi ignaro di quanto Gesù fosse divino nella sua umanità e umano nella sua divinità?

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Gli accecati dalla superbia e dal delirio di onnipotenza partono sempre sopravvalutando al massimo se stessi e sottovalutando gli altri, per questo sono destinati alla sconfitta. Può essere che non cadano nell’immediato, ma cadranno inevitabilmente al primo cambio di stagione, con l’appassire dei fiori di campo.

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Nel Vangelo delle tentazioni, verrebbe da pensare che il Demonio sopravvaluti se stesso e sottovaluti Dio. Nei primi secoli della Chiesa, con la ragione siamo riusciti a cogliere e definire il mistero rivelato della Persona di Cristo: due nature in una persona, quella umana e quella divina. Grazie alle menti e alla sapientia cordis dei grandi Padri della Chiesa nei primo otto secoli di storia del Cristianesimo si giunse a definire il mistero della Persona di Cristo, che anzitutto richiedeva la creazione di appropriate terminologie, assunte attraverso lemmi attinti dalla filosofia e dal lessico greco, modulate e applicate alla nostra prima grande speculazione teologica: riuscire prima a percepire e poi a definire cosa anzitutto s’intendeva, con le parole «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio … » [Gv 1,1]. Introdotti per mezzo dell’intelletto al mistero del Cristo vero Dio e vero Uomo, la ragione deve cedere il passo alla fede [Cf. S.S. Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et Ratio], perché il problema non è più né lessicale né filosofico. Quando si apre il portale della fede che va oltre l’umana logica, la ragione deve cedere il passo ad altre categorie, per esempio al dono della percezione deposto in ogni uomo dai doni di grazia dello Spirito Santo. Con la ragione umana dobbiamo leggere le righe di questo Vangelo, con la fede, frutto della nostra libertà benedetta dalla grazia di Dio, dobbiamo penetrarle, perché parola dietro parola siamo prima introdotti e poi portati ad avvertire quanto reale e perfetta fosse la natura umana di Gesù.

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Parte di questo ineffabile mistero è racchiuso anche in un’altra realtà: quanto in Gesù — vero Dio e vero Uomo — la perfezione divina potesse coesistere con la fragilità umana; perché è del tutto evidente che il Demonio non tenta il Cristo-Dio, ma il Gesù-Uomo, cercando di colpire le fragilità della sua umanità perfetta. Il Demonio tenta di corrompere la perfezione divina di questa umanità come in passato corruppe la nostra umanità originariamente creata come perfetta da Dio.

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Dunque il Demonio punta a quelle tenere e umane fragilità che lo stesso Gesù mostrerà a una a una nel corso della sua intera esistenza, durante la quale piange [cf. Gv 11, 35] e si commuove profondamente [cf. Gv 11, 33], è emotivamente turbato [cf. Gv11, 33], soffre e avverte paura per la morte: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» [Lc 22, 41-42]. Gesù sceglie di non rispondere all’autorità quando è interrogato [cf. Mt 27, 12] e mentre è accusato, anziché replicare si mette a scrivere con un dito per terra [cf. Gv 8,6], in modo a dir poco provocatorio. Si ribella ripetutamente all’ingiustizia perpetrata in nome di Dio dai potentati religiosi del tempo e lo fa anche con parole dure, a tratti volutamente offensive, per esempio chiamando «razza di vipere» degli zelanti religiosi osservanti [cf. Mt 12, 34], devoti più alla tradizione che al Verbo di Dio; e li apostrofa ripetutamente «ipocriti» [Mt 23, 13-29]. Non págo di questo, posto che nella lingua di Gesù chiamare ”razza” o “stirpe” di vipere era offensivo non solo per l’interessato ma anche per il suo intero albero genealogico, reputa opportuno rincarare la dose chiamandoli anche «serpenti» [Mt 23, 33], ben sapendo che nella cultura ebraica dell’epoca — e non solo in quella ebraica — il serpente era il simbolo del male. Si infiamma di passione e in tono grave afferma e accusa che sulla cattedra di Mosè sono seduti ipocriti che non fanno quel che predicano [Mt 23, 1-3], equipara molti zelanti ecclesiastici dell’epoca ai «Sepolcri imbiancati», premurandosi di precisare quanto queste tombe siano belle fuori ma piene di putrido marciume dentro [cf. Mt 23, 27]. Non esita ad arrabbiarsi e a menare le mani, o per l’esattezza le funi [cf. Mt 21, 12-13. Mc: 11, 11-15. Lc 19, 45-46]. Gesù è pervaso di dolore e forse di intima delusione quando si volge a un suo apostolo con un drammatico quesito: «Giuda, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo?» [Lc 22, 48]. Riguardo a quest’ultima frase due sarebbero le cose alle quali dovremmo prestare attenzione, anzitutto la domanda posta in forma interrogativa che troviamo anche nella versione greca originale, tanto per dire quanto non sia una formulazione né una traduzione casuale: Gesù rivolge una domanda al traditore rimanendo in attesa di una risposta, che però non giungerà mai, perché di prassi i traditori non rispondono, perché sono per loro diabolica natura codardi; perché la forza procede da Dio, la debolezza dal Demonio. Ecco perché l’uomo di Dio è intelligente, mentre l’uomo del Demonio è solo furbo. E mentre oggi seguitiamo a commentare l’episodio e la figura di Giuda, non sempre ci poniamo il vero quesito drammatico: quanto ha sofferto l’uomo Gesù dinanzi al tradimento di Giuda? O forse, più ancora che per il tradimento, per la mancata risposta da parte sua? Ecco, proviamo solo a pensare quanti oggi, anche nelle più alte gerarchie della Santa Chiesa, si rifiutano di rispondere a Cristo Signore che seguita a interpellarli attraverso la voce, spesso di profondo dolore, dei devoti Christi fideles e dei fedeli Sacerdoti.

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In queste gesta, azioni e parole è racchiusa e manifesta l’umanità di Gesù, che prosegue all’occorrenza a chiamare tutti noi, suoi moderni sacerdoti, dottori della legge e zelanti religiosi ripiegati nell’idolatria delle forme e delle tradizioni umane, coi titoli di nostra legittima spettanza: razza di vipere … ipocriti … serpenti … sepolcri imbiancati … Parole attuali ieri, ma forse ancóra di più oggi. Per questo, quando la Liturgia della Parola ci obbliga a predicare alcuni di questi brani evangelici, lo facciamo sempre parlando al passato, come se la razza di vipere, gli ipocriti, i serpenti e i sepolcri imbiancati non fossimo noi, ma solo i membri di alcune correnti religiose del Giudaismo dell’epoca gesuana, ormai morte e sepolte nella storia.

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Queste parole accese di passione, talvolta anche pedagogicamente aggressive, riassumono il mistero storico della concreta umanità e del virile πατος gesuano, che se non raccolto e penetrato renderà impossibile giungere alla perfetta comunione col Cristo della fede: il Dio incarnato, morto e risorto.

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L’uomo Gesù non può essere mutato in un ibrido santino de-virilizzato coi piedi sollevati da terra e gli occhi stravolti al cielo, perché ciò reca offesa, anzi: ciò è una bestemmia contro la sua umanità e la sua divinità. Per leggere questo brano sulle tentazioni bisogno quindi partire dal dato di fede che il tutto è realmente accaduto, che non si tratta di una parabola o di una allegoria; quindi concentrarsi sulla concreta umanità storica, fisica e palpabile del Verbo Divino: l’uomo Gesù. 

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La prima tentazione che il Demonio rivolge è l’invito a mutare le pietre in pane, alla quale Gesù risponde con una frase tratta dal libro del Deuteronomio: «Non di solo pane vivrà l’uomo» la cui prosecuzione è «… ma da ogni parola che esce dalla bocca di Dio» [Dt 8,3]. Siamo dinanzi alla tentazione dell’immediato, del tutto e subito in modo concreto e superficiale, mentre invece la nostra concretezza è ciò che esce dalla bocca di Dio, perché quello solo è un pane di vita che porta frutto e nutrimento eterno, costasse anche soffrire una vita intera, posto che dinanzi alla beatitudine eterna la vita umana è soltanto un soffio, ed in questo soffio merita vivere anche il dolore salvifico [cf. S.S. Giovanni Paolo II, Salvifici doloris], per pagare così il prezzo della nostra redenzione.

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La seconda tentazione è forse la più terribile: «Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni». È la tentazione che racchiude in se l’ambizione e il desiderio di dominio sugli altri. È la brama del comando, del governo inteso non come servizio ai fratelli e alle membra del Popolo di Dio, ma come potere per il potere che conduce al perfetto capovolgimento diabolico: servirsi della Chiesa per scopi malvagi nella brama di essere qualcuno, o di «diventare un personaggio importante attraverso il sacerdozio» [Omelia del Sommo Pontefice Benedetto XVI per l’ordinazione di 15 diaconi, Basilica Vaticana IV Domenica di Pasqua, 7 maggio 2006], meglio attraverso l’episcopato, meglio ancóra attraverso il cardinalato; anziché servire la Chiesa con amore e vedendo sempre in essa il Corpo palpitante di Cristo, la nostra sposa mistica verso la quale noi corriamo incontro con la passione degli sposi innamorati nel giorno delle nozze, come raffigura l’Evangelista Giovanni attraverso la poetica delle sue pagine.

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Se il Demonio riesce a prenderci nel punto debole dell’ambizione e della vanità può fare di noi ciò che vuole e ottenere quel che brama sin dalla notte dei tempi: che ci prostriamo dinanzi a lui e che adorandolo lo chiamiamo Signore, semmai dopo avere detto, dinanzi al male che a volte pare quasi soffocare la Chiesa stessa: «… ma chi me lo fa fare di mettermi contro i potenti e prepotenti accoliti del Demonio? A che serve farsi la vita amara, quando per vivere tranquilli, dentro la Chiesa di oggi, basta solo non vedere, non parlare e soprattutto farsi sempre e di rigore gli affari propri?».

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Per rivolgere all’uomo Gesù l’ultima disperata tentazione Satana si fa teologo, forse anche ecumenista, forse anche progressista politicamente corretto, semmai parlando in tedesco e in olandese anziché in aramaico. Satana principia a parlare con padronanza biblica come se fosse appena uscito dottorato in sacra teologia dalle nostre università pontificie: «Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano”» [Lc 4, 9-10].Il Demonio, come diceva San Girolamo: «Scimmiotta Dio e vuole creare un’altra realtà» [L’esatta locuzione poi ripresa anche da Sant’Agostino è: Diabolus est simia Dei, il Demonio è la scimmia di Dio], perché egli è il maestro del capovolgimento; anche del capovolgimento della Parola di Dio usata in modo deviante per compiere azioni malvagie. L’uomo Gesù, che grazie a Dio non aveva mai studiato nelle nostre università pontificie e che per indole era politicamente scorretto, la Torah la conosceva meglio del Demonio, quindi replica senza esitare con un’altra citazione biblica: «Non metterai alla prova il Signore Dio tuo» [Dt 6,16]. E da questa frase emerge in modo chiaro un monito: l’uomo Gesù ricorda al Demonio che egli è sì vero uomo, ma anche vero Dio.

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Infine «Il diavolo si allontanò da lui …» leggiamo sul finire di questa pagina del Vangelo, che si conclude con la frase: «… per ritornare al tempo fissato», ossia per tornare da noi e tra di noi.

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Satana esiste oggi più di ieri. Non è un’immagine simbolica, non è — come lo definirono alcuni teologi degli anni Settanta, le cui teorie sono purtroppo tutt’oggi usate per formare i nostri futuri preti — «una raffigurazione mitica e allegorica delle antiche paure ancestrali dell’uomo». Satana esiste, è reale e vuole rubarci più che mai la nostra immagine e somiglianza con Dio; vuole rubarci il nostro stupore e il nostro amore di fronte a Dio incarnato morto e risorto, che nella sua unica persona racchiude la perfetta natura umana e la perfetta natura divina, insegnandoci a essere veri uomini per essere veri figli di Dio nel modo in cui Dio ci ha pensati, creati e amati prima ancora dell’inizio dei tempi.

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Dall’Isola di Patmos, 10 marzo 2019

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E disponibile il Libro delle Sante Messe per i defunti de L’Isola di Patmos [vedere QUI]

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Dal Sodoma allo Spinello sino agli esercizi spirituali alla Curia Romana, mentre nel mondo dell’irreale nessuno si rende conto che la vita monastica è morta e ciò che ne resta è una parodia: «Tu chiamale se vuoi, emozioni»

— attualità ecclesiale —

DAL SODOMA ALLO SPINELLO SINO AGLI ESERCIZI SPIRITUALI ALLA CURIA ROMANA, MENTRE NEL MONDO DELL’IRREALE NESSUNO SI RENDE CONTO CHE LA VITA MONASTICA È MORTA E CIÒ CHE NE RESTA È UNA PARODIA: «TU CHIAMALE SE VUOI, EMOZIONI»

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L’Abate predicatore parlerà alla Curia Romana del sognatore Giorgio La Pira e del poeta Mario Luzi, come se la spiritualità fosse un sogno e la teologia poesia, come se il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, proclamato a gran voce santo non avesse mai scritta l’Enciclica Fides et Ratio, alla base della quale c’è il pensiero di un grande Abate Benedettino, poi Arcivescovo di Canterbury, Sant’Anselmo d’Aosta, che non viveva il rapporto con la fede tra sogni e poesia, ma spiegando che fides quaerens intellectum [la fede richiede la ragione] e precisando: «credo ut intelligam, intelligo ut credam» [credo per comprendere, comprendo per credere]. Purtroppo il famoso cantante italiano Lucio Battisti è morto da anni, altrimenti, per i prossimi esercizi spirituali, forse il Cardinale Gianfranco Ravasi avrebbe proposto i testi meditati della sua celebre canzone Emozioni …

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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L’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore [cliccare sopra la foto per ingrandire l’immagine]

Avanti il Concilio di Trento che tentò di porre freno alle derive del clero, molte abbazie versavano in condizioni morali disastrose. Di recente se n’è parlato in un saggio dedicato alla vita religiosa [cf. QUI]. Lo stato delle abbazie maschili, sul finir del XV secolo non era dissimile da quello desolante di molti monasteri femminili, specie in quelle dotate di ricchi patrimoni.

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Un esempio tra i tanti: nell’architettura di molte storiche abbazie possiamo osservare delle costruzioni indipendenti, distaccate dal complesso monastico perlomeno di un centinaio di metri. Se domandiamo ai monaci che seguitano a vivere in quelle abbazie e monasteri — perché molte di queste strutture oggi non sono più abbazie e monasteri, altre non sono più abitate da monaci —, le risposte che ne riceveremo saranno disparate, ed in modo altrettanto disparato non sarà risposto il vero, perché spesso la verità brucia, soprattutto può risultare davvero poco edificante.

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l’antica garçonnière degli abati più o meno rinascimentali

Giacché parleremo degli affreschi del chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, eretta nel XIV secolo nelle campagne delle crete senesi, come esempio prenderemo uno di questi stabili distaccati dal monastero e oggi indicato come porta d’ingresso. Nulla da dire che gli stili architettonici mutino nel corso dei secoli, ma che funzione aveva una torre distaccata dall’abbazia e non visibile dal complesso abbaziale, che si sviluppa su quattro livelli ed incorpora una struttura che partendo dal piano terra è sovrastata da due livelli superiori, il tutto su una superficie di oltre mille metri quadrati? Dobbiamo proprio credere che questo architettonico ben di Dio sia stato veramente creato solo come porta d’ingresso all’abbazia, oppure forse come fortilizio? Ma un fortilizio sarebbe tale se vi fossero delle solide ed alte mura di cinta, che in quella struttura non sono però mai esistite, dunque?

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Dunque quella struttura era la residenza di certi gaudenti abati, divenuti tali per i buoni uffici di potenti famiglie o per questioni legate a precisi assetti politici, che essendo avvezzi condurre stili di vita affatto monastici, in quei locali avevano le proprie piccole corti, erano dediti alle battute di caccia, alle feste e via dicendo. Poi ogni tanto scendevano nel monastero, per adempiere all’occorrenza i loro uffici.

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l’antica garçonnière degli abati più o meno rinascimentali

L’epoca di fine Quattrocento segnò una crisi dottrinale, morale e dei costumi preceduta circa tre secoli prima da altrettanta infausta epoca, quando nel XIII secolo il Sommo Pontefice Eugenio III indisse il IV Concilio Lateranense che sancì severi canoni contro i malcostumi del clero e dei religiosi. E fu in questa gaudente epoca rinascimentale che giunge da Vercelli presso la ricca e potente Abbazia di Monte Oliveto Maggiore un gaio personaggio: Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma [1477-1549].

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Riguardo Il Sodoma, le successive storiografie vergate da pii religiosi tenteranno di precisare quanto fosse malizioso collegare il soprannome col quale il celebre artista è passato alla storia dell’arte con quelli che sarebbero stati i suoi gusti omosessuali. Si tentò persino di ricorrere ad un sofisma patetico affermando che il soprannome de Il Sodoma non aveva a che fare con la pratica della sodomia bensì fosse legato ad un’espressione dell’artista che nel suo dialetto piemontese era solito dire «su, ‘nduma», che significava «su andiamo». Diversamente da ciò che in seguito tentarono di affermare i pii critici per salvare l’onore non del Bazzi, ma quello delle strutture monastiche che questo sodomita se lo contendevano tra di loro, il celebre pittore e architetto aretino Giorgio Vasari [1511-1574], che fu suo coevo e conoscitore delle sue gesta, afferma che l’origine di siffatto soprannome derivava proprio dalla sua omosessualità. Il Vasari precisa che quella del Sodoma era anche una omosessualità per nulla celata, tutt’altro: era esibita in modo ostentato e sfacciato.

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Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma: Cristo legato alla colonna per la flagellazione [cliccare sopra la foto per ingrandire l’immagine]

Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma si sposò in gioventù, ma molto presto si separò dalla moglie. Chissà se pur a tal proposito qualche pio critico d’arte — convinto che nessuno conosca il diritto canonico e la disciplina dei Sacramenti —, possa affermare che questa separazione era dovuta a pura incompatibilità caratteriale. Come se sul finire del Quattrocento separarsi dalla moglie e darsela a gambe fosse quanto di più ovvio potesse accadere?

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La gaia ricerca del bello che in questo artista trascende nell’omoerotico, è una caratteristica della pittura del Sodoma, basti analizzare la figura davvero eclatante del Cristo legato alla colonna ubicata in un angolo del chiostro centrale dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore prima della porta d’ingresso interna alla cattedrale abbaziale. Immagine questa sufficiente per valutare se Cristo legato alla colonna può avere quell’aria sensuale da maschietto ammiccante. Ma per la carità divina, si guardi con attenzione l’aria e la posizione sfacciata di quel Cristo alla colonna ritratto dal Sodoma: non vi ricorda forse certe immagini del celebre film Un uomo da marciapiede, con l’allora giovane Jon Voight nei panni del provinciale texano che giunto a New York pieno di sogni finisce poi appoggiato ad un palo della strada a fare marchette?

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la storica locandina del celebre film Un uomo da marciapiede, con il giovane Jon Voight appoggiato al palo nel ruolo del marchettaro

Il Sodoma, in quel luogo di apparente quiete, nonché di religiosità ancor più apparente, forse il segno lo ha lasciato non solo negli affreschi, ma anche nell’aria, ed attraverso i secoli! Infatti, la splendida natura che circonda quell’abbazia altrettanto splendida con tutte le opere d’arte architettoniche e pittoriche, incluse le pitture omoerotiche, suppliscono da secoli alla carente mancanza di religiosità; cosa questa che non affermo io, perché a provarlo è la storia. Basterebbe porsi solo questa domanda: dal 1313 ad oggi, quanti sono i monaci della Congregazione Benedettina Olivetana che nei successivi settecento anni di vita sono stati beatificati e canonizzati? Si tenga presente che questa Congregazione, seppur giunta tra la fine del XV e la fine del XVII secolo a contare sino a 1200 monaci distribuiti in diverse decine di monasteri italiani, in sette secoli di vita ha dato alla Chiesa un unico beato, il proprio fondatore Bernardo Maria Tolomei [Siena 1272 — †Siena 1348], beatificato a tre secoli di distanza dalla sua morte. Poi, decorsi 661 anni, il Beato Bernardo Maria Tolomei fu infine canonizzato il 20 agosto 2009.

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Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma [cliccare sopra la foto per ingrandire l’immagine]

Riguardo la canonizzazione di Bernardo Maria Tolomei sarebbe interessante verificare in che modo l’illustre agiografo benedettino belga Dom Réginald Grégoire [1935 — †2013], postulatore della causa, abbia infine reperito i documenti per portare avanti questa causa storica presso la Congregazione delle cause dei Santi, a ben considerare che per diversi secoli è stata lamentata proprio la oggettiva impossibilità di procedere con un processo di canonizzazione per la mancanza di necessaria documentazione storica, alla quale pare abbia infine supplito la agiografia (!?). Essendo però questa Congregazione dotata di un ricco patrimonio ed essendo annoverata tra le grandi aziende toscane che posseggono i più grandi appezzamenti terrieri, può essere che abbia avuto i mezzi per reperire infine le storiografie che per secoli non sono esistite?

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particolare dell’affresco grande

Di Bernardo Maria Tolomei ci sono stati forse tramandati memorabili sermoni e mirabili lezioni di spiritualità tenute ai propri monaci o altrettanti suoi testi di alta levatura teologica? A dire il vero, la raccolta delle sue lettere [cf. QUI] più che dello spirituale hanno il sapore degli scritti di un amministratore che organizza, dirige, impartisce direttive e che richiede a legati pontifici e vescovi concessioni e privilegi per i propri monasteri. Per quanto riguarda i testi sulla sua vita, a partire da uno dei più antichi [cf. QUI], essi sono una evidente accozzaglia di ordinarie leggende auree con le quali erano infiorettate alla metà del Seicento le vite dei Santi o dei candidati alla canonizzazione, il tutto attraverso stili precisi e ripetitivi, grazie agli agiografi che spesso riunivano assieme episodi, visioni e prove di virtù che emergevano tali e quali nelle vite di altre decine di santi o di candidati alla canonizzazione. E lavorando neppure di agiografia in agiografia ma di apografia in apografia, l’insigne agiografo benedettino belga ha infine mutato apografie stratificate nei secoli in una Positio super vitavirtutibus et fama sanctitatis. Dunque oggi, narrare le sante gesta di Bernardo Maria Tolomei, di cui non esistono scritti ed opere originali ma solo biografie postume, è come narrare la lotta di San Giorgio con il drago, canonizzando infine biografi e agiografi. Detto questo è bene chiarire, a coloro ai quali non fosse eventualmente chiaro, che i discorsi testé fatti non si basano su opinioni più o meno severe o addirittura ingenerose, ma su dati rigorosamente scientifici e non facili da smentire. 

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Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma [cliccare sopra la foto per ingrandire l’immagine]

A puro titolo di indagine storica, vogliamo verificare quanti beati e santi sono stati invece donati, compresi anche alcuni Dottori della Chiesa, da altre Congregazioni religiose, in un lasso di vita molto inferiore alla Congregazione dei Monaci Benedettini Olivetani? Può una Congregazione monastica non donare alla Chiesa Beati e Santi in settecento anni? Sì, è possibile, quanto un gaio personaggio come Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma non si limita a lasciar la propria impronta solo negli affreschi del passato, ma anche nell’aria che impregna quelle mura, dal palazzotto d’ingresso che fu la garçonnière dei gaudenti abati rinascimentali sino allo stabile monastico popolato di svariati altri monaci non meno gaudenti. Se è vero il detto che «la bótte dà il vino che ha», la carenza di beati, santi, mistici e padri della spiritualità, è stata però compensata con altri talenti, a partire da quello di Dom Francesco Ringhieri [1721-1787], dedito in epoca barocca alle opere teatrali e definito dai critici come «Più eretico d’ogni altro frate tragediante in quel secolo» [si può consultare QUI, QUI, QUI].

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Sempre parlando sul piano patrimoniale: nessun Abate di Monte Oliveto Maggiore ha mai avuto problema ad accogliere tra quelle mura ricche di uno spirituale estetico ma spesso vuote di Anima Christi, un nutrito esercito di figli del Sodoma simili all’incirca al povero Cristo sensuale e ammiccante legato alla colonna. Quando però l’Abate Dom Maurizio Maria Contorni [1986-1992], in precedenza già economo generale della Congregazione, fu coinvolto nell’avallo di operazioni finanziarie che comportarono la perdita di svariati miliardi delle vecchie lire, i figli del Sodoma non esitarono a destituirlo, perché sulla morale dei monaci sfarfallanti legati alla colonna si può soprassedere, ma sui soldi depositati presso la Banca del Monte dei Paschi di Siena non si può invece transige. Il tutto sebbene un Abate rimanga in carica fino a 75 anni d’età, quantunque rieletto dal capitolo generale ogni sei anni. A documentare il tutto è la cronotassi degli abati del Novecento, che fino al 1970 rimanevano in carica a vita, solo a partire dal successore di Dom Romualdo Maria Zilianti [1928-1946], con il suo successore Dom Angelo Maria Sabatini [1970-1986] subentra la prassi della rinuncia alla cattedra abbaziale al compimento del 75° anno di età.

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Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma, tra sacro, profano e scene da baccanali … alla destra sono raffigurati i familiari dell’Abate dell’epoca

Se oggi possiamo dirci cristiani lo dobbiamo ai figli di San Benedetto da Norcia che attraverso il monachesimo hanno prima salvato, poi diffuso la Cristianità nell’Occidente. Lo stesso lemma Europa, di cui San Benedetto è patrono, nasce come idea e concetto nel grande circuito delle abbazie benedettine, perché sono stati i figli di San Benedetto a creare l’Europa. E se oggi possiamo leggere e studiare la filosofia greca, la letteratura classica latina o conoscere le opere dei grandi Padri della Chiesa, se possediamo tante opere profane dai contenuti tutt’altro che cristiani, ivi incluso Valerio Gaio Catullo, lo dobbiamo proprio ai Monaci Benedettini, nati figli di San Benedetto, per poi essere ridotti secoli dopo ai figli del Sodoma.

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A chi ha sempre nutrita grande venerazione storica e teologica verso l’Ordine Benedettino, strazia il cuore vedere oggi il monachesimo ridotto in simile decadenza. Purtroppo in questo mondo nel quale anche le notizie più scandalose nascono oggi per morire domani e lasciare spazio ad altri scandali, temo che in pochi si siano resi conto che a Montecassino, madre di tutte le abbazie dell’Occidente, un omosessuale incancrenito nei propri vizi sfrenati ha decretata la morte del monachesimo; ed oggi, ciò che ne resta, è un guscio vuoto, fatto di storiche abbazie — quelle che oggi sono sopravvissute — ricche di opere d’arte e di bellezze paesaggistiche, ma vuote della sostanza della fede e di quel glorioso monachesimo che a partire dal VI secolo la fede l’ha salvata e poi diffusa. Insomma: attenzione a lasciarsi sedurre dalle storiche cornici di quel bello e di quell’estetico che cela però il vuoto dello spirito e delle cristiane virtù, perché il Demonio, oltre ad avere straordinario senso estetico, canta meravigliosamente in gregoriano e “celebra i pontificali abbaziali” con grande eleganza esteriore, dopo essersi formato alla vita monastica saltando da una “amicizia particolare all’altra”. E oggi, tutti gli “amici particolari” di ieri, sono abati nelle varie abbazie, per non parlare dei monaci che le “amicizie particolari” le hanno suggellate col loro voto nei capitoli monastici e nel capitolo generale, vale a dire quanto basterebbe a pregare la misericordia di Dio per tutta la loro vita affinché possa preservarli dalle fiamme dell’Inferno.

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Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: autoritratto di Giovanni Antonio Bazzi detto Il Sodoma.

La marcia funebre sul monachesimo, dopo tanti scandali avvenuti nelle abbazie e nei monasteri d’Europa l’ha infine suonata Dom Pietro Vittorelli, 191° successore di San Benedetto da Norcia, che si dilettava a condurre una vita di lusso in giro per l’Europa, a soggiornare in hotel costosi ed pagare ad elevato prezzo la compagnia di giovani gay con i soldi dell’Abbazia [cf. QUI, QUI, QUI, ecc …]. A questo va poi aggiunto pure l’uso delle droghe, per le quali ha avuto conseguenti problemi di salute costati all’Abbazia di Montecassino somme molto elevate quando per un periodo di tempo l’Abate si ricoverò in una clinica svizzera per disintossicarsi e per cercare di curare la propria dipendenza dalla cocaina. La cosa però più tragica è che costui non sia stato sottoposto a sanzioni canoniche e che non sia stato dimesso dallo stato clericale, tanto da risultare tutt’oggi nella cronotassi degli Arciabati di Montecassino e negli annuari della Conferenza Episcopale Italiana come «Abate Ordinario emerito» [cf. QUI] anziché come «destituito».

 

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le figure omoerotiche per nulla celate nella pittura “sacra” di Giovanni Bazzi detto il Sodoma [cliccare sopra la foto per ingrandire l’immagine]

Con l’Abate di Montecassino la marcia funebre del monachesimo è giunta solo al finale, perché l’esecuzione è avvenuta in precedenza con scandali morali disseminati per le abbazie sparse per l’Europa. Certo, altri casi s’è riusciti a trattarli con riservatezza, dall’Abbazia di San Paolo fuori le mura, privata infine dello status di prelatura territoriale, per seguire con l’Abbazia di Grottaferrata, dove fu destituito l’Abate Dom Emiliano Fabbricatore, anche in quel caso ciò avvenne specie pel viavai notturno degli immancabili giovanotti a pagamento che andavano a sollazzare alcuni monaci viziosi, tanto che la Santa Sede — cosa invero rara — procedette a dichiarare invalide alcune ordinazioni sacerdotali di giovani monaci. Potremmo seguire col Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, struttura accademica della Confederazione Benedettina, alla quale più volte il Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica [1999-2015], tra il 2007 ed il 2008 intimò che se non ripulivano il loro collegio interno dalle varie gaiezze e dalle numerose coppiette di fatto, la Santa Sede glielo avrebbero chiuso. Per limitarci sempre e solo all’ambito romano: che cosa accadde all’Abbazia cistercense di Santa Croce in Gerusalemme, dove fu eletto abate un ex stilista milanese, anch’esso molto gaio, passato dal mondo della moda al monachesimo e divenuto in pochi anni monaco, sacerdote e infine abate estetico? Eppure, sul vicino Colle Aventino, si trova la Curia Generalizia dei Monaci Cistercensi, dove un decennio fa, all’epoca di certi fatti, risiedeva l’Abate Generale Dom Mauro Esteva i Alsina [1933 — †2014], la preoccupazione del quale era di impartire ossessive lezioni di galateo ai giovani monaci e di verificare che il refettorio fosse apparecchiato con le forchette ed i coltelli posizionati a giusta distanza alla destra ed alla sinistra del piatto, o che gli inchini fossero fatti secondo l’angolazione giusta, quasi che da essi fosse dipesa la sopravvivenza e lo storico onore dell’Ordine Cistercense. Possa oggi quest’uomo riposare in pace nella cripta dell’Abbazia catalana di Poblet e possa la misericordia di Dio perdonargli con un mite purgatorio tutti i gravi ed irreparabili danni da lui recati all’intero Ordine Cistercense durante il suo mandato di Generale svolto tra il 1995 ed il 2010.

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particolare: efebo ammiccante

Per gli esercizi spirituali alla Curia Romana quest’anno è stato scelto dal Cardinale Gianfranco Ravasi e presentato al Pontefice un membro della Congregazione dei Monaci Benedettini Olivetani, Dom Bernardo Gianni, Abate dell’Abbazia di San Miniato al Monte in Firenze. Se nell’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore primeggia Il Sodoma, a San Miniato gli affreschi più pregevoli sono quelli di Spinello Aretino. La sostanza resta però la stessa, pur spaziando dall’arte del Sodoma a quella dello Spinello. E quest’ultimo — lo Spinello —, sarebbe stato particolarmente apprezzato dall’Arciabate di Montecassino Dom Pietro Vittorelli, che delle droghe era un gran cultore e consumatore.

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L’Abate dell’Abbazia di San Miniato in Firenze è uno che sa parlare a questo mondo. Egli parla al mondo il linguaggio che piace al mondo. Infatti, gli esercizi spirituali, saranno improntati su sogno e poesia: il sogno del politico Giorgio La Pira e la poesia di Mario Luzi, la cui poesia, cristianamente parlando, non è certo quella dello scrittore e poeta francese Padre Michel Quoist [cf, QUI].

 

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le figure omoerotiche per nulla celate nella pittura “sacra” di Giovanni Bazzi detto il Sodoma [cliccare sopra la foto per ingrandire l’immagine]

L’Abate predicatore, figlio del nobile Ordine di San Benedetto cui dobbiamo la sopravvivenza della Cristianità e la salvaguardia del patrimonio storico, filosofico e letterario, parlerà alla Curia Romana di un sognatore e di un poeta, come se la spiritualità fosse un sogno e la teologia poesia, come se il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, proclamato a gran voce santo, non avesse mai scritta l’Enciclica Fides et Ratio, alla base della quale c’è il pensiero di un grande Abate Benedettino, poi Arcivescovo di Canterbury, Sant’Anselmo d’Aosta, che non viveva il rapporto con la fede tra sogni e poesia, ma spiegando che fides quaerens intellectum [la fede richiede la ragione] e precisando: «credo ut intelligam, intelligo ut credam» [credo per comprendere, comprendo per credere]. Purtroppo il famoso cantante italiano Lucio Battisti è morto da anni, altrimenti, per i prossimi esercizi spirituali, forse il Cardinale Gianfranco Ravasi avrebbe proposto i testi meditati della sua celebre canzone Emozioni :

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particolare: efebo ammiccante che mostra il posteriore

«E chiudere gli occhi per fermare 
qualcosa che è dentro me 
ma nella mente tua non c’è 
Capire tu non puoi 
tu chiamale se vuoi 
emozioni » [Mogol-Battisti, 1970]

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Sappiamo che dopo la tragedia giunge sempre la farsa grottesca che spazia appunto tra Il Sodoma e lo Spinello. Ragione in più per pregare e per purificarci durante questa Santa Quaresima, nel corso della quale, la più grande delle mortificazioni, resta la consapevolezza di non essere più credibili al mondo, ma di essere invece derisi dal mondo, specie quando per compiacere il mondo cerchiamo di parlare il linguaggio del mondo, dopo esserci svuotati di Cristo e del mistero della Croce, per riempirci di sogni e poesie … «tu chiamale se vuoi emozioni».

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Chiostro dell’Abbazia di Monte Oliveto Maggiore: la insistente ossessione del Sodoma a raffigurare il posteriore maschile che “si offre” e nel quale potremmo leggere la profezia sul postumo monachesimo decadente …

Una cosa è certa: l’arte non lascia il segno semplicemente sui muri, specie se certe immagini pittoriche sono la più realistica rappresentazione di chi certe mura le abita. Ovviamente, il quesito sul perché in settecento anni di vita i Monaci della Congregazione Benedettina Olivetana non hanno dato alla Chiesa beati, santi, mistici, teologi, dottori e padri della spiritualità, è una domanda puramente retorica, la risposta è infatti tutta contenuta nelle immagini omoerotiche che campeggiano negli affreschi realizzati dal Sodoma nel chiostro; ed al chiostro si giunge dopo essere entrati nel territorio abbaziale passando dal palazzotto usato un tempo come garçonnière dagli abati rinascimentali gaudenti. Nel Paradiso, invece, si giunge solo dopo essersi convertiti, pentiti e mondati dai peccati, non ci si giunge né coi sogni di Giorgio La Pira, né con le poesie di Mario Luzi. La Quaresima inizia con l’imposizione delle ceneri seguita dal monito «convertiti e credi al Vangelo», non comincia con l’invito a credere nei sogni e vivere le poesie 

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dall’Isola di Patmos, 08 marzo 2019

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Dom Bernardo Maria Gianni, OSB.Oliv. Abate di San Miniato al Monte in Firenze

«Ora et labora» i modelli del nuovo rigore ascetico monastico benedettino

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Dalla maschera teatrale dell’ipocrita greco alla trave ed alla pagliuzza nell’occhio narrata dal Santo Vangelo

L’angolo dell’omiletica dei Padri de L’Isola di Patmos

DALLA MASCHERA TEATRALE DELL’IPOCRITA GRECO ALLA TRAVE ED ALLA PAGLIUZZA NELL’OCCHIO NARRATA DAL SANTO VANGELO

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Al contrario della Grecia, l’ipocrita non è più l’attore che interpreta un ruolo nell’antico teatro, ma diviene colui che non ha sincerità di cuore e nei confronti di Dio ha un rapporto solamente formale e costruito su meccaniche abitudini. Al tempo di Gesù, i farisei tendevano ad essere ipocriti in questo senso: non avevano davvero conosciuto Dio, semplicemente eseguivano mnemonicamente i precetti della Legge rabbinica senza averli davvero compresi e senza che essi potessero aiutarli a vivere meglio la fede.

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Gabriele Giordano M. Scardocci, O.P.

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Cari fratelli e sorelle.

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aforismi

In questa VIIIª Domenica del tempo ordinario ci è donato un brano evangelico reso celebre dall’immagine della trave e della pagliuzza nell’occhio [cf. testo della Liturgia della Parola, QUI]. Nella Grecia antica molti uomini si prestavano nel ruolo di ὑποκριτής [ypocrités] cioè di attori che, portando una maschera, fingevano e mettevano in scena una tragedia o una commedia. Per gli antichi greci era importante parlare e raccontare storie che aiutassero gli spettatori a vivere un rapporto profondo e intimo con i loro dei. Nelle letture di oggi il Signore ci offre spunti per avere un rapporto profondo e sincero, una fede che sia vera e al tempo stesso sincera.

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Innanzitutto in Siracide leggiamo: «Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore» [27, 5]. In questo proverbio dell’autore, il saggio ebreo Ben Sirach, si vuole richiamare l’attenzione alla coerenza delle parole. Esse sorgono innanzitutto dai pensieri del cuore: nella cultura ebraica il cuore è il luogo dell’incontro intimo con Dio. Se dunque ognuno di noi coltiva questa esperienza di incontro personale e intimo col Signore, mediante la preghiera, certamente avremo parole di gioia e di speranza. Aiuteremo anche altri ad avere un incontro fecondo e molto intenso con Dio.

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In questa ricerca di una coerenza di base fra pensieri e parole, il Signore ci aiuta sempre. San Paolo scrive:

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«Fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore» [1 Cor 5,58].

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L’apostolo richiama ogni cristiano alla perseveranza, ad avere pazienza anche nei momenti di difficoltà e di crisi e dunque quando occorre avere più stabilità. L’opera del Signore è la continua vittoria sulla morte: in questo ambito, questo va inteso oggi come replicare a tutte le mode mortifere come per esempio le droghe, la prostituzione, la promozione dell’aborto, dell’eutanasia, del “matrimonio” tra coppie delle stesso sesso e la possibilità ad esse data di adottare bambini … Al tempo stesso siamo chiamati anche a vincere insieme al Signore le proprie morti, ossia le paure, le ferite e i drammi esistenziali. Infatti, la coerenza e la perseveranza, hanno questi splendidi frutti in ognuno di noi.

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In questo cammino, la via tracciata dal Signore è molto forte e chiara: Gesù, nel Vangelo lucano tuona: «Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello» [Luca 6,42b]. Qui, al contrario della Grecia, l’ipocrita non è più l’attore che interpreta un ruolo nell’antico teatro, ma diviene colui che non ha sincerità di cuore e nei confronti di Dio ha un rapporto solamente formale e costruito su meccaniche abitudini. Al tempo di Gesù, i farisei tendevano ad essere ipocriti in questo senso: non avevano davvero conosciuto Dio, semplicemente eseguivano mnemonicamente i precetti della Legge rabbinica senza averli davvero compresi e senza che essi potessero aiutarli a vivere meglio la fede. Dunque, nel cammino di fede e di lotta alla morte, il Signore bandisce l’ipocrisia. Al tempo stesso, Dio ci chiede un continuo esercizio di umiltà, di mettersi in discussione sempre aperti alle sollecitazioni che Lui stesso ci pone davanti, soprattutto nelle circostanze concrete nella vita. Quando sapremo essere umili, saremo un po’ come humus, pronti ad essere concimati e dare frutto secondo la parola di Dio. Solo allora saremo pronti alla correzione fraterna.

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Come ha scritto John Donne:

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«Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto». 

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Ognuno di noi vivrà quel tutto come una grande fratellanza, pronti ad essere tutti fratelli nel Battesimo. Dunque in grado di accettare anche quella correzione che può infastidirci. Allora sarà la fine dell’orgoglio e l’inizio della inabitazione di tutta la Trinità nel nostro cuore, il Signore ci renda forti e perseveranti per uscire dall’isola dei nostri egoismi, guardando verso ben altre isole, compresa non ultima L’Isola di Patmos, nell’arcipelago greco, isola nota anche come Il luogo dell’ultima rivelazione, nella quale San Giovanni Apostolo, durante il suo esilio, scrisse quel grande messaggio di speranza che è l’Apocalisse, in cui narra della Donna vestita di sole e della vittoria di Cristo sul Princìpe del Male.

Così sia.

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Roma, 3 marzo 2019

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