Può un Romano Pontefice legittimamente eletto e Successore legittimo del Beato Apostolo Pietro essere privo della grazia di stato ?

— attualità ecclesiale —

PUÒ UN ROMANO PONTEFICE LEGITTIMAMENTE ELETTO E SUCCESSORE LEGITTIMO DEL BEATO APOSTOLO PIETRO ESSERE PRIVO DELLA GRAZIA DI STATO ?

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Cari e numerosi Lettori: io non vi prenderò mai in giro, perché «Dio vi ha affidati a me», ed un padre non può né mai deve prendere in giro i figli che domandano conforto, aiuto e sostegno nella prova, pur di non affrontare gli spettri dei Dèmoni che ci volteggiano attorno e che ci spaventano moltissimo in questa notte buia.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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la statua di San Pietro Apostolo nella omonima arcibasilica vaticana

In questo momento dovremmo far tesoro delle parole del Cardinale Charles Journet [1891-1975] che nella sua opera Eglise du Verbe Incarné  spiega: 

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«L’assioma “dov’è il Papa lì è la Chiesa”, vale quando il Papa si comporta come Papa e Capo della Chiesa; in caso contrario, né La Chiesa è in lui, né lui è nella Chiesa».

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Sono stanco di dibattere inutilmente con coloro che in modo deciso e assoluto negano di prendere solo in vaga considerazione l’ipotesi che un Sommo Pontefice possa essere chiuso alle azioni di grazia dello Spirito Santo, su di lui riversate con indubbia abbondanza, ma che in lui ed attraverso di lui possono operare solo se egli accetta i doni di grazia e li mette a frutto. Ecco allora che questi soggetti si arrampicano sugli specchi del loro totale rifiuto, ed a questo problema reagiscono confermando e sostenendo come dei juke box a gettone la cantilena … «Si, però il Sommo Pontefice non può mai errare quando si pronuncia in materia di dottrina e di fede, è dogma, dogma, dogma!».

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Domanda molto seria: ma è la grazia di Dio che parla e agisce attraverso di lui, od è invece lui che agisce a prescindere dalla grazia, giacché essendo magicamente non defettibile in materia di dottrina e di fede, può esprimersi infallibilmente anche se chiuso alla grazia e fuori dalla grazia santificante di Dio? Perché in tal caso non siamo né dinanzi alla metafisica né dinanzi alla dogmatica, ma dinanzi alla magia. È infatti la magia che in sé e di per sé è totalmente irrazionale, mentre la dogmatica ed il dogma non sono affatto irrazionali, si edificano su principi razionali, per quant’è vero che il Verbo s’è fatto carne, non s’è fatto pensiero vaporoso, si è fatto fisicamente e razionalmente carne.

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Dinanzi a queste forme di chiusura al ragionamento che sono la conseguenza della fuga dalla realtà da parte di tutti coloro che presumono di avere sempre una decisa risposta logica per tutto, salvo rinchiudersi in quattro formule protettive quando di risposte da dare al momento non ve ne sono, torno a ripetere che non siamo nell’ambito né della metafisica né in quello della dogmatica, ma nell’ambito della magia, se non peggio dello gnosticismo. Come può infatti lo Spirito Santo, attraverso le sue azioni di grazia, annullare la volontà o la non volontà dell’uomo, vale a dire la sua libertà ed il suo libero arbitrio, per sdoppiarlo a proprio piacimento e renderlo così all’occorrenza totalmente indefettibile, qualora la sua natura non fosse liberamente aperta alla grazia di Dio? Perché se ciò avvenisse, in tal caso Dio entrerebbe in contraddizione con il mistero della creazione e quindi con sé stesso per opera dello Spirito Santo, ed in tal caso il nostro Dio sarebbe un dio magico, un dio gnostico. Il tutto sempre per tornare alle grandi menti speculative che di fronte a problemi sino a pochi anni prima inimmaginabili, ma purtroppo oggi reali, anziché speculare veramente si rinchiudono dentro la gabbia delle loro quattro formule dogmatiche ribadendo decisi e inamovibili dinanzi alla tragica evidenza dei fatti: «… è indefettibile, non può errare, è dogma, dogma, dogma!» …

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… e qui merita ricordare che i dogmi non sono gabbie per uomini che rivendicano a un certo punto il diritto a non ragionare, ma sono il cuore più profondamente ragionato del mistero della fede, perlomeno stando ad un grande maestro della scolastica, Sant’Anselmo d’Aosta, che afferma in che misura «la fede richieda l’intelletto e l’intelletto la fede» [Fides quaerens intellectum. In Prosl., Proemio], ed ancora: «Credo per comprendere, comprendo per credere» [credo ut intelligam, intelligo ut credam]. E questi due sono i fondamenti portanti della filosofia scolastica, la quale mai, a proprio fondamento, ha posta la magia.

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Ebbene confesso che di questi ragionamenti sono stanco. Sono stanco di coloro che dinanzi ad un incendio in una biblioteca di testi sacri destinati ad andare perduti per sempre, si precipiterebbero a salvare il libro Iota Unum di Romano Amerio mentre il Santo Vangelo brucia. Come del resto sono un po’ stanco in generale, tanto da chiedermi con una certa frequenza: merita seguitare a speculare, analizzare e scrivere, oppure sarebbe più opportuno rinchiudersi per tutta la vita che mi resta in una certosa con voto di assoluto silenzio, dedicandomi alla preghiera e alla penitenza sino alla morte? Nel mese di agosto, pochi giorni dopo il compimento del mio 55° compleanno, mentre il tempo scorre veloce mi sono proposto più che mai di lavorare ad impiegare bene tutto il tempo di questa vita che mi separa dalla morte, né intendo sprecarlo per difendere l’indifendibile o per salvare l’insalvabile, meno che mai per esporre la mia dignità umana e sacerdotale al pubblico ridicolo pur di cercare nei documenti del Sommo Pontefice Francesco I ciò che egli non ha mai detto e scritto, tirando fuori a tutti i costi da essi il buono che semmai non c’è, attraverso artifici interpretativi che hanno invero del patetico, perché non gli si può mettere sulla bocca quel che di buono non ha detto dopo avere fatto il processo alle sue più profonde intenzioni …

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… e dinanzi all’indifendibile le soluzioni sono tre: i rimproveri e le denunce di San Giovanni Battista, il quale come sappiamo perse la testa; la analisi speculativa della situazione per ciò che è, non invece per ciò che vorremmo che fosse; il completo ritiro dal mondo e il voto di totale silenzio per tutta la vita. Sono tre modi diversi ma tutti efficaci per operare al meglio in questa situazione disastrosa e irreversibile. Per adesso io ho scelto la prima soluzione, il modello Giovanni Battista, ma potrei anche decidere di scegliere la terza, con efficacia forse persino maggiore.

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Il problema, non è infatti lieve: come possiamo, noi, interpretare colui che dovrebbe essere il custode e l’autentico interprete della fede? O duole proprio molto a certe menti dover accettare ed ammettere che il custode della “magica infallibilità”, da cinque anni a questa parte ha dimostrato con le sue deliberate e per nulla involontarie ambiguità, di aver fatto esplodere nella Chiesa il relativismo teologico e morale, assieme allo sconcerto e alla divisione, come mai prima s’era visto nella Chiesa visibile? Possibile che tra i soloni della grande teologia, non ce ne sia uno solo che si ponga un quesito, semmai destinato a rimanere senza risposta, vale a dire questo: potrebbe verificarsi un caso nel quale un Sommo Pontefice, chiuso alle azioni della grazia santificante dello Spirito Santo, finisca col risultare privo della grazia di stato che è propria del suo alto ufficio, semmai con tutte le conseguenze che oggi abbiamo sotto gli occhi, il tutto a prescindere dalla sua legittima elezione e dal ruolo da egli altrettanto legittimamente occupato?

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E con questo è presto detto, cari e numerosi Lettori: io non vi prenderò mai in giro, perché «Dio vi ha affidati a me», ed un padre non può né mai deve prendere in giro i figli che domandano conforto, aiuto e sostegno nella prova, pur di non affrontare gli spettri dei Dèmoni che ci volteggiano attorno e che ci spaventano moltissimo in questa notte buia.

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In questo momento la nostra salvezza è racchiusa nella virtù teologale della speranza, sulla quale scrissi abbondantemente nel 2014 [vedere QUI]. La speranza è la grande virtù mediana che lega assieme fede e carità. E siccome io sono stato istituito a servizio del Popolo di Dio ed immesso col sacerdozio nella paternità universale, a questo Santo Popolo intendo offrire la via della speranza, mai però la via dell’illusione, proprio perché sono un sacerdote di Cristo, non uno spacciatore di acidi allucinogeni, ma soprattutto perché considero quello di Dio un Popolo Santo, non un popolo bue al quale dare una carezza e un’aspirina mentre un cancro in fase terminale corrode da tempo il nostro corpo ecclesiale ed ecclesiastico, mentre la Chiesa visibile è già nell’anticamera di un obitorio ridotto per l’occasione ad un circo equestre di pagliacci, nani e ballerine.

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Volete sapere che cosa ha sempre salvato il mio sacerdozio? Forse la scolastica, che ho studiata e approfondita; forse la metafisica, che ho studiata e approfondita; forse San Tommaso d’Aquino, che ho studiato e approfondito? Ebbene, il mio sacerdozio non è stato salvato da questi “mezzi” efficaci, ma pur sempre mezzi. È stato salvato dal mio profondo amore per la Chiesa Corpo Mistico, di cui Cristo è Capo e noi membra vive; è stato salvato dall’amore per quella Chiesa che è opera divina nata dall’amore del Cuore Divino. È con questa consapevolezza che tutti i giorni sollevo il Corpo e il Sangue di Cristo sull’altare acclamando:

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Per ipsum, et cum ipso, et in ipso

est tibi, Deo Patri omnipotenti,

in unitate Spiritus Sancti,

omnis honor et gloria

per omnia saecula saeculorum.

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O qualcuno pensa forse che io avrei dato un solo giorno della mia preziosa vita a questa povera mignotta di Chiesa visibile che oggi abbiamo sotto gli occhi, devastante opera tutta quanta puramente umana di nani, ballerine e buffoni in carriera alla Corte dei Miracoli del grande Re Nudo ?

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dall’Isola di Patmos, 16 dicembre 2018

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Questo articolo è solo l’ultima parte rivisitata di un articolo molto più articolato pubblicato il 10 settembre 2018 e che potete trovare nel nostro archivio sotto il titolo: «Dinanzi ad una Chiesa visibile affetta da una decadenza dottrinale e morale irreversibile, è necessario aprire quanto prima la banca del seme» [il testo è leggibile QUI]

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Il deserto e le vie tortuose offerte ad un uomo oggi più che mai emblema del vivere «in una selva oscura» dove «la diritta via era smarrita»

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

IL DESERTO E LE VIE TORTUOSE OFFERTE AD UN UOMO OGGI PIÙ CHE MAI EMBLEMA DEL VIVERE «IN UNA SELVA OSCURA» DOVE «LA DIRITTA VIA ERA SMARRITA»

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San Giovanni porta a compimento un’antica e lunga stagione profetica segnata da uomini altrettanto straordinari: i grandi profeti d’Israele. Ma che cosa accomunava uomini come Geremia, finito lapidato. Isaia, condannato a morte, pare sia stato segato in due. Daniele, gettato in pasto ai leoni … e il Battista? Tutti questi uomini, servi anch’essi della verità e della giustizia, morti come Giovanni non di serena morte naturale in un quieto giaciglio, erano accomunati tra di loro dall’intuizione, un dono racchiuso per natura nell’istinto di ogni uomo, che se sviluppato dal tocco della grazia di Dio per opera dello Spirito Santo può portare chiunque a percepire e vedere oltre il tempo e le ristrettezze dello spazio presente

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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Laudetur Jesus Christus !

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San Giovanni Battista in vignetta

Tra le righe dell’Evangelista Luca di questa IIª Domenica di Avvento [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI] c’è il nostro inizio remoto, il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. O come spesso ripeto: nel messaggio in movimento della parola viva di Dio c’è la totalità del nostro essere presente e del nostro divenire futuro.

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Essenziale, a tratti ombrosa, quasi selvatica come le locuste e il miele di cui si cibava, quella di San Giovanni detto il battista e il precursore, non è figura che nasca dal nulla; né una figura che termina la propria vita morendo in un quieto letto colto da senile morte naturale. Giovanni, che amava la verità e la giustizia, — perché senza verità e giustizia non possono operare né la misericordia né la grazia — fu sacrificato per una danza di Salomè; e la sua testa, in nome di quelle ragioni politiche alle quali pare talvolta non si possa mai dire di no, specie quando vilipendono la verità e la giustizia, fu recisa di netto e deposta su di un vassoio per la perversa gioia di Erodiade che la richiese in dono. Un dono non negato, anzi prontamente concesso, perché da esso dipendeva il mantenimento di tanti fragili equilibri legati al potere per il potere; non importa se immorali e perversi, ciò che solo contava era di mantenerli.

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San Giovanni porta a compimento un’antica e lunga stagione profetica segnata da uomini altrettanto straordinari: i grandi profeti d’Israele. Ma che cosa accomunava uomini come Geremia, finito lapidato. Isaia, condannato a morte, pare sia stato segato in due. Daniele, gettato in pasto ai leoni … e il Battista? Tutti questi uomini, servi anch’essi della verità e della giustizia, morti come Giovanni non di serena morte naturale in un quieto giaciglio, erano accomunati tra di loro dall’intuizione, un dono racchiuso per natura nell’istinto di ogni uomo, che se sviluppato dal tocco della grazia di Dio per opera dello Spirito Santo può portare chiunque a percepire e vedere oltre il tempo e le ristrettezze dello spazio presente, nel quale spesso ci facciamo prigionieri anziché creature libere, perché se nel nostro spazio sviluppiamo la libertà, la nostra esistenza sarà una continua emancipazione. Se invece rimaniamo chiusi nel nostro spazio, ci riduciamo alla limitatezza, ed in questo caso la nostra esistenza sarà una prigionia, semmai dorata, ma pur sempre una prigione.

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Altro elemento sul quale oggi più che mai si dovrebbe parlare in modo approfondito, forse anche drammatico, è il concetto di deserto. Da questa pagina del beato Evangelista Luca abbiamo appena udito: «Voce di uno che grida nel deserto». Ebbene, proviamo a pensare quali generi di sordi e muti deserti si è costretti a vivere oggi in mezzo al rumore, tra le fibre ottiche che corrono invisibili e le reti telematiche super tecnologiche del nostro mondo della notizia in tempo reale. Eppure mai come oggi, l’uomo è stato solo nei moderni spazi deserti dell’anima, che sono totalmente diversi dai deserti in cui l’uomo si ritirava in passato, per trovare se stesso e avvertire il soffio della carezza di Dio su di lui.

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Quale senso può avere la frase del profeta Isaia riportata dall’Evangelista Luca: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri?» [cf. Is 40, 3]. Si tratta di una frase all’apparenza chiara, che necessita però di profonde spiegazioni. Esempio: tutti abbiamo udito qualche volta nel corso della vita, attraverso i modi di dire degli anziani: «Dio raddrizza le vie storte». Cosa che la sua grazia fa e che più volte nel corso della storia ha mostrato di fare. Però, in questo caso, il soggetto chiamato in causa, o per meglio dire all’opera, pare proprio che sia l’uomo. Dio ha bisogno di sentieri adeguati per camminare tra gli uomini, che per andare incontro alla sua Maestà Divina devono lavorare a raddrizzare quei sentieri che all’origine Dio aveva tracciato diritti. Volendo possiamo aggiungere altro ancora: talvolta le vie non sono neppure più storte, molto di più e molto peggio: all’apparenza le vie non esistono proprio più!

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Si pensi a tal proposito quante antiche strade sono scomparse nel tempo, inghiottite dalla terra, dalla vegetazione, da strati urbani e architettonici sovrapposti gli uni sugli altri. Basti solo pensare alla nostra antica Roma. Eppure, quelle strade una volta esistevano. E si trattava di strade non solo reali, ma pure funzionali; e per lunghi periodi di tempo furono percorse per secoli dagli etruschi, appresso dai romani. Poi, dopo la caduta dell’Impero Romano che segnò la grande decadenza, molte di quelle strade, assieme a numerosi stabili ed opere architettoniche, furono ingoiate dalla vegetazione e sommerse da strati di terra.

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Talvolta, la strada, per poter essere preparata richiede un attento e faticoso recupero archeologico, cosa questa che a suo tempo San Giovanni Battista intuì. E dal deserto tracciò il recupero inducendo alla purificazione e al pentimento dei peccati, quindi alla preparazione annunciando: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo» [cf. Mt 3, 11].

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Proviamo a riflettere su quello che nei Santi Vangeli è l’apertura di un inizio senza fine. Avete mai riflettuto sul fatto che il Vangelo, in sé e di per sé, è un inizio senza fine? In quale dei Vangeli è infatti scritta, o anche solo vagamente sottintesa la parola: fine?

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Scrive il beato Evangelista Matteo:

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«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che io vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» [Mt 28, 19-20].

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Scrive il beato Evangelista Marco:

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«Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» [Mc 16, 20].

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Scrive il Beato Evangelista Luca:

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«Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» [Lc 24, 51-53].

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Mentre il Beato Evangelista Giovanni, nella sua conclusione non manca di precisare:

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«Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» [Gv 21, 25].

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In modo diverso, al termine delle loro stesure gli Evangelisti non pongono in alcun modo la parola fine a un racconto, tutt’altro: delineano che quel racconto — che tale semplicemente non è —, racchiude in sé il mistero della rivelazione che dà avvio all’inizio: adesso cominciate a partire, fate discepoli e battezzate [cf. Mt supra] … allora partirono e cominciarono a predicare dappertutto [cf. Mc supra] … e dopo che il Signore fu salito al cielo loro tornarono a Gerusalemme e cominciarono ad andare sempre al Tempio a lodare Dio [cf. Mc supra]. E, beninteso: tutto questo è solo una piccola parte di tutto ciò che realmente è accaduto [cf. Gv supra].

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Il Vangelo procede di inizio in inizio sino alla parusia che traccerà un nuovo eterno inizio: Dio che irrompe nell’esperienza dell’uomo in modo reale, fisico e  corporeo  attraverso l’incarnazione. Sino a  giungere, dopo  l’ intera esperienza cristologia che pare culminare con l’infamia della croce, alla pietra rovesciata di un sepolcro che non segna la chiusura di una storia a lieto fine, ma l’inizio della vera storia dell’umanità che col Cristo è risorta e che comincia a muovere il passo con i due discepoli lungo la via di Emmaus [cf. Lc 24, 13-53] sino al ritorno del Cristo alla fine dei tempi.

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«Noi infatti», dice il Beato Apostolo Pietro: «Secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» [cf. II Pt 3, 8-14]. E di questa nuova terra e di questi nuovi cieli, Dio non ci vuole certo spettatori, ma protagonisti costruttori, per bagnare questa nuova terra con l’acqua che stilla dalle fonti dell’eterna giustizia. L’amore di Dio è infatti giustizia e la giustizia è l’espressione divina più perfetta del suo immenso amore. Chi infatti ama, è sempre giusto; e nella giustizia trova senso ed espressione il suo amore di creatura creata a immagine e somiglianza del Dio Vivente. Solo allora «Le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie spianate». E «ogni uomo» di buona volontà, che ha saputo percorrere i deserti «vedrà la salvezza di Dio» [Lc 3, 6]. 

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dall’Isola di Patmos, 9 dicembre 2018

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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È DISPONIBILE IL LIBRO DELLE SANTE MESSE DE L’ISOLA DI PATMOS, QUI

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A.A.A. Cappellano ospedaliero cercasi, pregasi astenersi: inabili al lavoro, disoccupati in cerca d’impiego e problematici di varia fatta

— pastorale sanitaria —

A.A.A. CAPPELLANO OSPEDALIERO CERCASI, PREGASI ASTENERSI: INABILI AL LAVORO, DISOCCUPATI IN CERCA D’IMPEGO E PROBLEMATICI DI VARIA FATTA

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e così scegliemmo di andare in giro per l’ospedale mantenendo il nostro abito religioso per poter essere subito riconosciuti, tra tanti camici bianchi, come Frati Minori Cappuccini. E, debbo dire: la cosa funzionò. Dopo qualche tempo, nell’ospedale, si accorsero che i due tizi vestiti di marrone, con cingolo attorno ai fianchi, sandali ai piedi e barba, erano i nuovi cappellani.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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Cagliari, Chiesa di Santa Lucia: Santa Caterina di Labouré che distribuisce la medaglia miracolosa [opera di Aurelio Galleppini]

Vorrei cercare di far chiarezza sull’identità del cappellano ospedaliero, perché per strano che possa sembrare, in effetti mi sono accorto che alla prova dei fatti, tra le diverse figure pastorali all’interno della Chiesa, è un essere quasi mitologico.

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Anzitutto è necessario chiarire l’aspetto canonico e pastorale: il cappellano è un sacerdote scelto dal vescovo per la cura pastorale di quella porzione di Popolo di Dio che si trova a vivere il tempo della malattia presso una struttura sanitaria, per esempio un ospedale, una clinica, o presso una residenza sanitaria assistita geriatrica.

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Già questa prima definizione permette di fare alcune considerazioni particolari: il luogo d’azione del cappellano non è la chiesa parrocchiale o conventuale, bensì un luogo di cura dove lui svolge una funzione di operatore specializzato insieme ad altre figure. Capire questo è fondamentale perché, all’interno della struttura sanitaria, il cappellano non è il padrone, neppure il rappresentante giuridico, come avviene invece nel caso del parroco. Nei concreti fatti, è quindi uno dei tanti. Comprendere questo aspetto, è cosa fondamentale.

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Spesso, lo spirito di vanità di noi appartenenti al clero, non digerisce questa sfumatura che mal si adatta al sacerdote, né ciò aiuta certo a creare occasioni in cui Dio si possa rivelare in un ministero tanto delicato come quello ospedaliero, perché è indubbio che il sacerdote sia un uomo, senza però mai dimenticare che egli è — ed è chiamato ad essere — un uomo consegnato a Dio, che nel cappellano ed attraverso il cappellano agisce per mezzo di una dinamica di ordinarietà e nascondimento che a me piace accostare biblicamente al periodo della giovinezza di Gesù a Nazareth.

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Cagliari: Chiesa di Santa Lucia: Le martiri di Arras uccise in odium fidei durante la rivoluzione francese [opera di Aurelio Galeppini]

Il luogo in cui il cappellano opera è l’ospedale, la clinica, l’hospice, la residenza sanitaria assistita. Tutti luoghi non consacrati dal profumato olio del Crisma che il vescovo usa per consacrare a Dio un luogo adibito al culto. Per questo motivo oggi, il cappellano, opera all’interno di un luogo di cura che assume connotazioni fortemente laiche. Possiamo pertanto anche dimenticare le vecchie pellicole in bianco e nero degli anni Cinquanta del Novecento, nelle quale si vedevano le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli con i loro cappelloni bianchi inamidati, intente a suonare la campanella nei reparti per annunziare l’arrivo del sacerdote recante il Santissimo Sacramento. Nulla di questo avviene oggi in queste strutture, all’interno delle quali il cappellano è presenza silenziosa, spesso confusa tra le diverse figure professionali del mondo della salute.

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Detto questo apro adesso una piccola divagazione: al mio arrivo all’Ospedale Brotzu di Cagliari, nel 2013, sbrigate le pratiche dell’assunzione ci fu proposto l’utilizzo del camice bianco: quello comune a tutti gli operatori sanitari. Dopo qualche istante di riflessione, io ed il mio confratello, decidemmo di rifiutare la proposta, semplicemente per non aumentare il divario di anonimato ed uniformità che il camice bianco conferisce. Così, scegliemmo di andare in giro per l’ospedale mantenendo il nostro abito religioso, soprattutto per poter essere subito riconosciuti tra tanti camici bianchi come Frati Minori Cappuccini. E, debbo dire: la cosa funzionò. Dopo qualche tempo, nell’ospedale si accorsero che i due tizi vestiti di marrone, con cingolo attorno ai fianchi, sandali ai piedi e barba, erano i nuovi cappellani.

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Adesso desidero condividere coi Lettori de L’Isola di Patmos qualche altra interessante considerazione: nelle strutture sanitarie, il cappellano, giorno dopo giorno ha il compito di guadagnarsi un diritto di cittadinanza. O per meglio chiarire: se il ruolo del cappellano — fino ad oggi — è ancora riconosciuto dalla Legge, la persona che ricopre tale ruolo ha necessità di farsi conoscere, quindi deve necessariamente attuare una socialità nella comunità sanitaria in cui opera.

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Le Figlie della Carità ieri l’altro –  immagine della Beata Giuseppina Nicoli [1863-1924]

Non è mia intenzione fare prediche, tuttavia debbo dire che l’identità del cappellano è insita nel suo essere sacerdote. Solo il sacerdote può essere cappellano [cf. can. 564 del Codice di Diritto Canonico]. A ragion veduta, al cappellano è per ciò richiesto uno stile confacente alla sua identità, una socialità che manifesti la sua donazione a Dio. E questo debbo precisarlo a chiare lettere, perché spesso accade che il cappellano sia invece identificato come una sorta di assistente sociale, come uno psicologo o come un amico confidente di tutti. E se da un certo punto di vista ciò è la conseguenza di una tipologia di laicismo sempre più dilagante che tende a rimodellare quello che gli è estraneo, d’altro canto è necessario vigilare affinché il sacerdote non eserciti la sua identità snaturandola, sino ad assumere altre identità più accattivanti che risultino ben accette alla modernità per un verso, allo spirito di laicismo per altro verso.

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Nei luoghi di cura, il sacerdote cappellano è profeta che parla a nome di Dio perché capace di ascoltarlo. È l’angelo del Getsemani che consola il morente e lo riconcilia con Dio [cf. Lc 22, 43]. È custode della misericordia e della giustizia affinché il Regno di Dio si realizzi tra le corsie di tanti malati e deboli, e padre e maestro per guidare e istruire gli uomini al Vangelo che è buona notizia per tutti.

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le Figlie della Carità ieri –  immagine di Madre Suzanne Guillemin, Superiora Generale dal 1962 al 1968

Davanti a questa identità sacerdotale si inserisce la variegata opera di Dio che, nel creare ogni uomo, elargisce a ciascuno doni personali caratteristici, arricchendo così il sacerdozio ministeriale con carismi propri a servizio del popolo di Dio e della Chiesa.

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Desidero infine mettere in risalto una nota critica che riguarda la figura del cappellano ospedaliero e di un certo stile di fare Pastorale Sanitaria. Da quel poco che ho scritto sulla figura del sacerdote chiamato a ricoprire l’incarico di cappellano in una struttura sanitaria, si evince come questi debba essere un elemento di buona qualità o, perlomeno, non problematico. Purtroppo, il dato oggettivo che deriva dai fatti come dalle esperienze, non sempre è invece questo. Infatti, in un momento storico nel quale la Chiesa soffre di una sempre più crescente penuria di sacerdoti a fronte di molto lavoro da compiere, l’area pastorale della sanità è spesso discriminata. I nostri pastori preferiscono impiegare i loro migliori sacerdoti nelle parrocchie, nella pastorale familiare, nella formazione catechetica dei giovani, nella accoglienza degli emarginati e via dicendo. Si tratta di una scelta che si può anche capire, non però condividere.

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Cristo non ha mai fatto una hit parade nel proprio ministero, ma tutti gli uomini che venivano a Lui erano degni della Sua attenzione e tutti ricevevano aiuto e salvezza.

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le Figlie della Carità oggi – incontro di formazione per religiose

Alcuni esempi di cattiva pastorale sanitaria che implica la figura del cappellano. Partiamo dal primo caso: nominare cappellano un sacerdote anziano e malato poiché non più in grado di reggere il ritmo parrocchiale che richiede di per sé dinamicità, equivale a pensare che l’ospedale possa fornirgli una pronta assistenza per i suoi malanni. Per seguire col secondo caso: nominare cappellano un sacerdote che in assenza di una consona collocazione parrocchiale è costretto per obbedienza dal suo vescovo a stare in ospedale, ma ciò col rischio che questo soggetto finisca presto per rivelarsi insofferente alla malattia e alla morte, sino a non sopportare l’odore del disinfettante o la vista del sangue, diventando ben presto un latitante difficilmente raggiungibile, eccezione fatta per il giorno 27 del mese, quando ritira lo stipendio dall’Ente Ospedaliero. Il terzo caso, forse il più triste, è quello dell’ospedale visto da alcuni vescovi come luogo d’esilio, una sorta di nuova Isola di Sant’Elena per i sacerdoti disobbedienti e turbolenti che finiscono per questo collocati tra i malati, come una sorta di punizione.

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In questi tre diversi casi, come sarà possibile vivere e praticare nella pastorale sanitaria il ministero sacerdotale attraverso la concretezza dell’amorevole invito rivolto da Cristo Signore che ci esorta: «Ero malato e mi avete visitato» [cf. Mt 25, 36], nella piena consapevolezza che «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» ? [cf. Mt 25, 40].

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Cagliari, 8 dicembre 2018

Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria

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Gesù Cristo nel sofferente. La teologia pastorale sanitaria narrata da chi vive la dimensione della malattia e della disabilità nella quotidiana esperienza di vita sacerdotale

— pastorale sanitaria —

GESÙ CRISTO NEL SOFFERENTE. LA TEOLOGIA PASTORALE SANITARIA NARRATA DA CHI VIVE LA DIMENSIONE DELLA MALATTIA E DELLA DISABILITÀ NELLA QUOTIDIANA ESPERIENZA DI VITA SACERDOTALE

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La malattia ha il vantaggio di ridimensionare l’orgoglio dell’uomo e la debolezza fisica induce ad essere sostenuto dagli altri nelle pratiche corporali, anche in quelle più intime. Purtroppo, esiste la remota possibilità che il sacerdote malato – così come Cristo nell’Orto degli Ulivi – conosca l’abbandono dei confratelli e dei familiari in fuga davanti alla desolazione che la malattia comporta.

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Autore
Ivano Liguori, Ofm. Capp.

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PDF  articolo formato stampa

 

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San Leopoldo Mandic, riconosciuto dall’Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana come protettore degli ammalati di tumore [cf. QUI]

Inizio a collaborare con L’Isola di Patmos con una riflessione sul ministero più bello e delicato nella vita di un sacerdote: la cura pastorale degli infermi. Questo articolo è tratto da un incontro coi seminaristi del Pontificio Seminario Regionale Sardo, dove mi sono intrattenuto con un gruppo di futuri sacerdoti in un momento di dialogo, rifuggendo la tentazione di condurre una lezione di teologia pastorale.

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Voglio chiarire da subito cosa significhi «si opera bene solo se si crede bene», un concetto di estrema importanza che riguarda ogni tipologia di pastorale. Spesso ed erroneamente, la pastorale è identificata con la sola prassi; quasi fosse una realtà pratica chiamata a realizzare il solo “operare”. Vista in questi termini, la pastorale sembra quasi la naturale antagonista della teologia dogmatica, vista come la realtà statica della verità. In realtà, è invece necessario fare uno sforzo di logica e comprendere che per poter “operare bene” è necessario “credere bene”. La stessa cosa viene vissuta nel campo della divina liturgia, in cui celebriamo nei riti e nei segni quello che crediamo fermamente nel cuore [cf. Rm 10,10]. In forza di ciò, non posso pretendere di operare una buona pastorale – qualunque essa sia – senza partire dalla solidità del dato rivelato e dal magistero della Chiesa. È necessario coniugare la verità al fare, la fede alle opere, l’essere alla prassi, affinché la teologia pastorale divenga:

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«presenza e azione della Chiesa finalizzata all’evangelizzazione del mondo […] attraverso l’attualizzazione della presenza liberatrice, sanante, e salvatrice di Cristo, nella potenza dello Spirito Santo» [cf. Brusco – Pintor, Sulle orme di Cristo medico, EDB, Bologna 1999, p.37].

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San Leopoldo Mandic

La pastorale così correttamente intesa, mi trasforma in un cercatore di Dio, di quel Dio che sempre entra in dialogo con gli uomini per farsi conoscere intimamente e che nella pienezza dei tempi si comunica pienamente attraverso il Figlio parola di Verità [cf. Eb 1,1-2]. La pastorale è l’annuncio gioioso che Dio abita il tempo dell’uomo e in questo contesto, in modo gratuito e definitivo, opera la salvezza. E in questo tempo di grazia in cui l’uomo cerca Dio, si viene guidati dallo Spirito Santo a comunicare alle fonti della salvezza, che sono i Sacramenti; a vivere relazioni trasfiguranti all’interno della Chiesa comunità dei credenti; a testimoniare e proclamare che ogni uomo dal battesimo appartiene a Cristo risorto tanto da essere da lui assimilato, secondo le belle parole che troviamo nelle Confessioni di Sant’ Agostino:

«Non sarai tu che assimilerai me a te, ma io che assimilerò te a me» [cf. S. Agostino, “Confessioni”, VII, 10].

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Poste in essere queste considerazioni, la teologia pastorale è la più pura presa di coscienza dell’azione di Dio nell’identità di fede – già espressa dalla teologia dogmatica – che la Chiesa propone all’uomo che vuole incontrare Dio. La pastorale non è il contenitore di strategie accattivanti per annunciare Cristo o guadagnare discepoli, ma comunicazione del depositum fidei nel cuore di un’umanità che sull’esempio del beato Pietro apostolo proclama:

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«Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» [cf. Gv 6,68-69].

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Proprio per questo affermiamo che la pastorale è un cammino di fede e di conoscenza di Cristo.

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UNA PASTORALE DEI SOFFERENTI PER INCONTRARE IL “SOFFERENTE”

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San Leopoldo Mandic

Chiarito a grandi linee il discorso sulla pastorale nel suo rapporto alla verità rivelata, passiamo ad analizzare ora la cura pastorale dei fratelli infermi e sofferenti. Da sempre, questa è una tipologia di attività tipicamente cristiana, in quanto Cristo ha identificato la sua persona con l’infermo [cf. Mt 25,36ss] e nel momento della sua passione si è fatto carico non solo dei peccati, ma  di ogni sofferenza fisica [cf. Is 53,4]. Il suo corpo santissimo e il suo sangue preziosissimo che noi adoriamo nel  pane e nel vino costituisce sacramentum cioè segno sacro, velo di una presenza reale; similmente nel corpo sofferente del malato Cristo è velato ma presente nel segno di colui che soffre per la sua infermità. A questo proposito, si narra che Pascal alla fine della sua vita, non potendo ricevere il santo viatico a causa di un male allo stomaco che avrebbe comportato il pericolo di profanare l’eucaristia, chiese di poter ricevere il Signore attraverso il segno-presenza dei poveri malati dell’ospedale degli incurabili.

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Per noi sacerdoti e per i futuri sacerdoti, la cura pastorale del malato è prosecuzione naturale della celebrazione eucaristica dove abbiamo avuto la possibilità di incontrare e farci adoratori e ascoltatori di Cristo sull’esempio di Maria di Bethania, per poi diventarne suoi miti servitori come Marta. Per questo mi sento di affermare – senza timore di smentita –  che il sacerdote che nella sua giornata non visita e serve gli infermi sofferenti, svilisce seriamente il sacrificio eucaristico che celebra. Purtroppo nel dialogo fraterno con diversi confratelli sacerdoti e parroci, ho maturato la sensazione di come la visita agli infermi stia diventando uno tra i doveri sacerdotali più trascurato e dimenticato. E quanto ho appena detto trova solida testimonianza nell’esperienza dei santi. Il beato San Francesco d’Assisi fece esperienza sacramentale di Cristo redentore proprio nel segno del malato di lebbra che incontra sul suo cammino:

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«Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo» [cf. S. Francesco d’Assisi, “Testamento” 1-3, FF. 110].

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San Leopoldo Mandic

Prima ancora dell’incontro e del dialogo con il Crocifisso di San Damiano, Francesco d’Assisi è folgorato da Cristo attraverso il segno della malattia del fratello lebbroso [cf. 1Cel17, FF. 348; 3Comp11, FF. 1407-1408]. Così, seguendo l’esempio del suo fondatore, la prima fraternità francescana scelse di stare con i malati di lebbra e di servirli come immedesimazione a coloro che nella malattia, causa di marginalità, sono imago Christi.

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Prima ancora della scelta pauperistica, San Francesco sceglie come via di riavvicinamento a Cristo la categoria di infermi più spaventosi del suo tempo: i lebbrosi [cf. Manselli, San Francesco d’Assisi, Ed. San Paolo, pp. 109-110].

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LA CURA DEL SOFFERENTE È CAUSA DI CONVERSIONE PER IL SACERDOTE

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Attraverso l’esempio di San Francesco che incontrando il lebbroso si converte, voglio ora sottolineare come questa tipologia di pastorale è condotta non solo in vista di una dinamica assistenziale ministeriale verso i sofferenti, ma come occasione di grazia e conversione personale per la persona del sacerdote.

         

San Leopoldo Mandic

Visitare l’infermo, ripropone l’ineludibile certezza della condizione di fragilità della nostra natura umana contratta con il peccato originale. Devo tener presente che, nel trascorrere del tempo e delle stagioni, un domani la condizione di infermità sarà anche la mia. Nell’esperienza come cappellano ospedaliero, mi sono occupato diverse volte dell’assistenza di confratelli ammalati ricoverati che hanno sperimentato nella propria carne quello che nel tempo della loro giovinezza vivevano solo indirettamente attraverso la pratica pastorale. In tale condizione di debolezza e di infermità, le insegne sacerdotali esteriori e le bardature cerimoniali che spesso nutrono la vana gloria restano mute e vengono meno. Nel sacerdote malato, si rende presente con tutta la crudezza del realismo una spogliazione necessaria che rende fulgida l’immedesimazione a Cristo sacerdote e vittima [cf. Fil 2,7; Mt 27,35]. A seconda della gravità della malattia e delle condizioni di accudimento personali, il sacerdote malato specchia la propria immagine in quella del Servo sofferente di JHWH:

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«Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto» [cf. Is 53,2].

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La malattia ha il vantaggio di ridimensionare l’orgoglio dell’uomo e la debolezza fisica induce ad essere sostenuto dagli altri nelle pratiche corporali, anche in quelle più intime. Purtroppo, esiste la remota possibilità che il sacerdote malato – così come Cristo nell’Orto degli Ulivi – conosca l’abbandono dei confratelli e dei familiari in fuga davanti alla desolazione che la malattia comporta. Eventualità questa che potrebbe riguardare ogni ammalato. Ma è nel sacerdote che assume un valore particolarmente identitario con Cristo in virtù della sacra ordinazione. A questo proposito, basta ricordare gli episodi di infermità che hanno toccato la lunga vita di Giovanni Paolo II per capire il ruolo conformante a Cristo che la malattia assume nella persona del sacerdote malato.

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San Leopoldo Mandic

Il sacerdote infermo, a volte non è più in grado di offrire il pane e il vino ma solo la sua persona al Padre. Dio accetta questo sacrificio in unione a quello di Cristo in vista di una purificazione personale e per la redenzione del mondo. Non già dunque come realtà cruenta che ricerca il dolore per il dolore così da estinguere la coppa dell’ira della divinità [cf. René Girard, Il capro espiatorio].

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Ricordo molto bene le parole di un sacerdote anziano dopo avergli amministrato il sacramento degli infermi:

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«Riferisci al vescovo che offro tutto questo per i sacerdoti e i bisogni della Chiesa!».

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Già San Paolo aveva espresso questo concetto con le parole: «completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» [cf. Col 1,24]. Ecco come la malattia chiama a conversione, a rivedere le proprie priorità e posizioni personali, a verificare la propria vita così come l’oro è purificato e raffinato nel crogiolo [cf. Sir 2,4-5].

     

Guardando alla nostra debolezza di ministri di Dio, nel momento in cui soffriamo con Cristo non è più tempo di mettere le nostre mani tra quelle del vescovo come nel giorno dell’ordinazione sacerdotale ma in quelle stesse del Padre come segno di unione all’obbedienza del Figlio sulla croce. E ripetendo con San Bernardo diciamo:

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Non fu la morte di Cristo che piacque a Dio Padre, ma la sua volontà di morire spontaneamente per noi» [cf. San Bernardo di Chiaravalle, Epistola 90, De Errore Abelardi, 8,21-22 PL 182, 1070, «Non mors, sed voluta placuit sponte morientis»].

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Questa riflessione sulla malattia nella persona del sacerdote, non solo produce il proposito di una vera e concreta conversione, in quanto acuisce il desiderio di essere ben preparato ad affrontare l’infermità e la morte con le armi della fede. Ma anche rende presente come la malattia di coloro che serviamo come ministri, acquista un senso solo attraverso la sapienza della fede che troviamo espressa nelle scritture:

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«Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» [cf. Lc 13 2-5].

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LA SALUTE MESSIANICA È COMPITO CHE CRISTO CONSEGNA AL SACERDOTE.

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San Leopoldo Mandic

Il sacerdote che si occupa della cura pastorale degli infermi intraprende un cammino di guarigione insieme al fratello sofferente, che è il soggetto messianico a cui Gesù si rivolge all’inizio del suo ministero pubblico:

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«Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella» [cf. Lc 7,22].

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Siamo di fronte a un nuovo tipo di pastorale, Gesù opera una pastorale terapeutica, capace di coinvolgere gli uomini in un cammino di guarigione e di riavvicinamento a Dio proprio perché  richiede la conversione [cf. Mc 1,14-15]. Questo tipo di pastorale compie un salto che non è solo metodologico ma ontologico: si passa da una pastorale centrata solo sulla malattia ad una pastorale della salute che richiede il prendersi cura del malato. E Gesù non è forse il Salvatore, colui che ci si cura della salus e la realizza? San Pietro Crisologo esprime questo pensiero così:

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«Cristo è venuto a prendere le nostre infermità e a conferirci le sue virtù, a farsi carico dell’umano e a donarci il divino, ad accogliere le ingiurie e a rendere merito, a sopportare il fastidio e a restituire la salute. Il medico infatti che non si fa carico delle malattie non le sa curare e colui che non è malato con il malato non gli può dare la salute. [cf. S. Pietro Crisologo, Sermones,  PL 52, 50].

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Quando il cristianesimo parla di salvezza, usa la parola latina salus. Ogni domenica nel Credo diciamo propter nostram salútem, cioè per la nostra salvezza. La salute cristiana, quella che vediamo nei Vangeli è tale nel momento in cui Cristo mi strappa dall’infermità voluta dal diavolo – origine e causa di ogni peccato e male – e mi introduce dentro la guarigione pasquale ottenuta a prezzo del suo sangue. Dentro questa logica ogni guarigione e liberazione che ha Cristo come autore diviene momento pasquale dove l’opera del demonio è sconfitta e l’uomo è restituito in salute secondo il piano salvifico di Dio.

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San Leopoldo Mandic

L’agire terapeutico che Cristo compie nel suo ministero pubblico è anticipazione di quel ministero definitivo di salvezza e di salute che si realizza con la sua passione, morte e risurrezione. La pietà popolare ci viene incontro in questo ragionamento con la bella preghiera attribuita a Sant’Ignazio di Loyola: Anima ChristiAd un certo punto della preghiera l’orante si esprime così:

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«Sangue di Cristo, inebriami. Acqua del costato di Cristo, lavami».

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Siamo messi davanti a Gesù crocifisso sul Golgota, i soldati controllano i corpi dei condannati e secondo la prassi della crocifissione romana spezzano le gambe ai condannati per impedire una lenta agonia e anticiparne la morte, ma a Gesù questa sorte non spetta poiché è già morto, tanto che per sicurezza gli viene inferta una ferita al costato che versa sangue e acqua [cf. Gv 19,31-36]. Il lavacro che mi guarisce e mi strappa dal potere del diavolo è certamente quello battesimale figura dell’acqua che sgorga dal costato del redentore. Ma esiste un secondo lavacro, quello nel sangue di Cristo che il sacerdote amministra ogni volta che assolve i peccati.

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San Leopoldo Mandic

Il sangue e l’acqua sono così i due torrenti dove l’uomo può mondare tutta la sua vita e acquistare con la salvezza anche la guarigione. Interessante notare che del sangue di Cristo nella preghiera Anima Christi viene detto che inebria. A cosa allude l’autore? Non penso di sbagliare se interpretiamo queste parole in riferimento allo Spirito Santo, presenza discreta che inebria la vita dei credenti con lo stesso amore che unisce il Padre e il Figlio. Il sangue che Cristo ha versato è segno di obbedienza al Padre, segno dell’amore di fedeltà più alto che un figlio può manifestare al proprio genitore. Nel momento stesso in cui il sangue di Cristo mi purifica dai peccati, mi lava dalle colpe, vengo anche raggiunto dallo stesso amore che il Figlio ha per il Padre. Vengo riempito di Spirito Santo che mi dona la dolcezza inebriante della sua presenza vitale che mi rende la vita [cf. Ez 37,9]. Non per nulla l’apostolo Matteo dice che Gesù al momento della sua morte restituì lo spirito [cf. Mt 27,50]. A chi lo restituisce? Al Padre come totale consegna della sua persona e all’uomo come dimostrazione e insegnamento di un amore che si spinge fino alla fine [cf.  Gv 13,1]. Nel momento in cui Cristo mi salva con il suo sangue, mi concede anche la caparra del suo amore inebriante che è lo Spirito Santo, facendomi gustare la salvezza e il bene che Dio Padre mi vuole. Il sacerdote è reso da Gesù strumento di questa grazia per i fratelli, fino al dono totale della sua persona, del suo tempo e del suo ministero.

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Estrema unzione, oggi Sacramento dell’Unzione degli infermi [dipinto di Rogier van der Weyden, 1445]

Concludo citando il sacramento di guarigione che la Chiesa concede ai fratelli infermi. Questo sacramento è la sintesi mirabile della passione del Cristo e del suo amore offerto a ogni infermo. Nel ministero a favore degli infermi, il sacerdote è chiamato ad amministrare con sollecitudine il sacramento dell’Unzione dei malati. Sacramento che unisce il carattere terapeutico e salvifico dell’azione di Cristo sui corpi e sulle anime dei sofferenti. L’efficacia terapeutica e remissoria di questo sacramento sui mali del corpo e dello spirito comporta un lavacro spirituale che agisce sempre in virtù di quel sangue sgorgato dal costato aperto del redentore. L’imposizione delle mani del sacerdote sul capo del malato prima dell’unzione è il richiamo esplicito al dono dello Spirito Santo che in quel momento viene effuso come linimento all’uomo oppresso dalle sofferenze.

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La fedeltà del sacerdote a compiere questi gesti salvifici nel suo ministero, rendono presente l’azione salutare e salvifica di Cristo tra i fratelli. Il dovere-compito del sacerdote di donare la salvezza è identico a quello di Cristo. E se Gesù è venuto a donarci la vita in abbondanza [cf. Gv 10,10], lo stesso è chiamato a realizzare il sacerdote: donare la vita, non possederla; operare per una guarigione degli uomini, non per aumentarne le ferite.

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Cagliari, 4 dicembre 2018

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