Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

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Padre Giovanni

Riflessione sull’onestà morale del linguaggio: la Chiesa ha da sempre una propria lingua chiara e precisa

RIFLESSIONE SULL’ONESTÀ MORALE DEL LINGUAGGIO: LA CHIESA HA DA SEMPRE UNA PROPRIA LINGUA CHIARA E PRECISA

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La Chiesa, con lavorìo di secoli, grazie alle opere della teologia scolastica che hanno approfondito la dottrina della fede, ha elaborato un vocabolario tecnico della teologia e della dottrina cattolica, confluito in alcune delle formule dogmatiche. Questo vocabolario, per la sua perfezione, perspicuità e precisione, in linea di massima non conviene mutarlo.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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immagini, comunicazione e linguaggio …

La Chiesa è una societas che ha un suo preciso linguaggio. Il linguaggio è questione molto delicata che impegna in modo serissimo il prestigio, l’onestà e la credibilità dei pastori, dei teologi e dei predicatori del Vangelo. Quando infatti si tratta della Parola di Dio, della Scrittura, della Tradizione, del dogma, della dottrina, della predicazione, della cultura cattolica, della formazione, dell’opera evangelizzatrice e missionaria, della pratica sacramentaria e liturgica, dell’esegesi biblica, della critica teologica e della formazione morale e teologica del clero, in gioco è la salus animarum, pertanto è sacro dovere di usare un linguaggio assolutamente chiaro, limpido e onesto, tale da evitare strumentalizzazioni, equivoci o fraintendimenti, un linguaggio esente da qualunque piaggeria o compromissione nei confronti del linguaggio mondano. 

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Con tutto ciò non si può di certo evitare il problema ermeneutico, se è vero che esso si pone anche per interpretare le stesse parole luminose e misteriose di Cristo, Luce del mondo. Ma ecco che qui è essenziale l’opera del Magistero, col suo proprio linguaggio. A tal riguardo è quindi da deplorare la banalizzazione, per non dire la corruzione di questo linguaggio in documenti attuali della Chiesa a causa dell’inserimento scriteriato nel linguaggio ecclesiale, nell’ambito della dottrina e della pastorale, di parole ad esso estranee, tratte dalla mentalità mondana,  quindi fuorvianti, o quanto meno ambigue ed improprie.

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Si tratta di un fraintendimento del rinnovamento del linguaggio ecclesiale promosso dal Concilio Vaticano II. Ciò precisando che il Concilio si fece giustamente promotore di un aggiornamento ed ammodernamento del linguaggio ecclesiale, al fine di renderlo più comprensibile e più attraente per gli uomini del nostro tempo, onde veicolare più efficacemente le immutabili verità della fede e renderle più credibili, superando e abbandonando certe espressioni, formule, linguaggi e modi dire ritenuti sorpassati e antiquati, o non più comprensibili o accettabili dall’uomo d’oggi. Lo stesso linguaggio del Concilio è ispirato a questo principio e si sforza di metterlo in pratica. Così molte espressioni nuove, prese dal linguaggio corrente moderno, sono indubbiamente indovinate ed hanno avuto un meritato successo.

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Occorre però tener presente che un linguaggio può essere più o meno perfetto, più o meno appropriato, più o meno adatto ad esprimere ciò che si deve comunicare. La Chiesa, con lavorìo di secoli, grazie alle opere della teologia scolastica che hanno approfondito la dottrina della fede, ha elaborato un vocabolario tecnico della teologia e della dottrina cattolica, confluito in alcune delle formule dogmatiche. Questo vocabolario, per la sua perfezione, perspicuità e precisione, in linea di massima non conviene mutarlo, se non con somma prudenza e per gravi motivi, evitando col pretesto di facilitare la comprensione del contenuto di fede, riconoscendo comunque che tutto sommato, i modi del linguaggio, non sono immutabili, ma evolvono per vari motivi culturali, sociali e psicologici nel corso della storia.

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Purtroppo, a un certo punto si è verificato un grave equivoco che, col pretesto di mutare ed aggiornare il linguaggio, si è finito in molti casi per mutare e deformare o abolire certi concetti della fede, cadendo in quello che fu già l’errore modernista condannato dal Santo Pontefice Pio X. Caso noto ed esemplare di questo equivoco è la posizione di Edward Schillebeeckx [1], il quale confonde il concetto di fede col linguaggio, sicché, mutando il linguaggio, viene a mutare il concetto.

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Edward Schillebeeckx ha ragione nel sostenere che il dato di fede si può concepire ed esprimere in diversi tipi di linguaggio e secondo diversi «modelli interpretativi» e che una data formula dogmatica divenuta meno espressiva, può essere in  qualche modo mutata, al fine di esprimere meglio il medesimo dato di fede in quel dato tempo e in quella data cultura. Ma il guaio è che per Schillebeeckx il dato rivelato o di fede non è contenuto nel concetto dogmatico, che per lui è mutevole e relativo, ma in una cosiddetta «esperienza atematica pre-concettuale», della quale il concetto dogmatico non sarebbe che un’opinabile, passeggera e soggettiva interpretazione, fosse pure la dottrina della Chiesa.

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L’errore di Schillebeeckx è quello di credere che il concetto sia una forma di linguaggio, per cui, come si può significare una medesima cosa con linguaggi diversi, egli crede che sia possibile e doveroso significare il medesimo dato rivelato o mistero di fede con concetti diversi. Ma questo è falso, perché ogni concetto rappresenta quella data cosa e ad un cosa corrisponde solo il suo concetto, per cui, cambiando il concetto, la  cosa non può essere stessa, ma cambia.

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Ma veniamo alla proposta del Concilio, che prescrive sì un nuovo linguaggio per esprimere e spiegare le medesime immutabili verità di fede, ma non muta i concetti della fede, che possono continuare ad essere espressi in concetti scolastici, come avevano fatto i Concili precedenti. Il Concilio, pertanto, usa un linguaggio moderno; ma è chiaro che nel sottofondo c’è il tradizionale linguaggio scolastico, che ogni tanto emerge, tanto che il Concilio arriva addirittura a raccomandare, com’è noto, il pensiero di San Tommaso d’Aquino.

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Il Concilio propone quindi un linguaggio che sintetizza quello scolastico con quello moderno. Raccoglie i vantaggi che provengono dall’uno e dall’altro: l’autorevolezza, la dignità, la formalità, l’esattezza, la precisione, la specificità e la sottigliezza del linguaggio scolastico e l’odierna comprensibilità; la popolarità, la facilità, l’immediatezza, la duttilità, l’efficacia e la pastoralità del linguaggio moderno.

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Il compito che oggi si impone alla predicazione ecclesiale è quello di mantenere questo metodo proposto dal Concilio, senza cedere: da una parte, alla tentazione di tornare ad uno scolasticismo inutilmente sottile e lontano dal modo di pensare e di esprimersi del nostro tempo; dall’altra, senza cedere alla tentazione di abbandonare la Scolastica, lasciandosi infettare da quei modi espressivi moderni che risentono degli errori della modernità, o meglio del Modernismo.

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Il buon pastore si sforza da una parte di rendersi comprensibile al popolo con modi espressivi a lui familiari ed esempi adatti ai contenuti di fede da trasmettere, mentre si prende cura di educare il popolo alla comprensione ed alla familiarità con quei termini scolastici che maggiormente la Chiesa usa per la spiegazione del dogma e della Parola di Dio.

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Varazze, 11 novembre 2018

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NOTE

[1] Cf il mio articolo Il criterio di verità in Schillebeeckx, in Sacra Doctrina, 2, 1984, pp.188-205; Voce EDWARD SCHILLEBEECKX, nel DIZIONARIO ELEMENTARE DEL PENSIERO PERICOLOSO, Istituto di Apologetica, Milano, 2016; EDWARD SCHILLEBEECKX. UN CONFRATELLO ACCUSA, Edizioni Chorabooks di Aurelio Porfiri, Hong Kong 2016.

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L’obolo della povera vedova che offre le due sole monete che ha, predicato ai preti ed ai loro vescovi, ma anche a certi nostri fedeli avari

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

L’OBOLO DELLA POVERA VEDOVA CHE OFFRE LE DUE SOLO MONETE CHE HA, PREDICATO AI PRETI ED AI LORO VESCOVI, MA ANCHE A CERTI NOSTRI FEDELI AVARI

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Quante volte, a disonore della Chiesa e con grave scandalo per il Popolo di Dio — agli occhi del quale certe cose non sfuggono mai — è capitato di assistere alle vicende di alcuni preti entrati poverissimi dentro i seminari, mantenuti agli studi di formazione al sacerdozio dal buon cuore di qualche benefattore o dalle premure della diocesi, che alla loro morte hanno lasciato cospicue eredità ai loro amati nipoti, non però un solo centesimo alla Chiesa, il tutto dopo avere vissuto una vita improntata sulla cupidigia e sull’avarizia?

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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dal Santo Vangelo di questa domenica: L’obolo della povera vedova

In questa XXXII domenica del tempo ordinario s’è proclamata l’incisiva pagina del Santo Vangelo narrante l’episodio della Povera Vedova che getta nel tesoro del tempio le due sole monete che possiede [cf. Mc 12, 38-44. Testo della Liturgia della Parola, QUI]. Questo testo ci pone dinanzi una realtà difficile da sfuggire con voli pindarici, perché se la concretezza del gesto della Povera Vedova è disarmante, il monito in esso racchiuso non è poco severo: le due monete rappresentano il senso della totalità. Offrire a Dio tutto il nostro essere senza risparmio e paura, nella certezza di fede del nostro divenire futuro tutto racchiuso nel mistero del Cristo Dio. E noi presbìteri, quando durante il rito della sacra ordinazione abbiamo detto «eccomi!» e poco dopo siamo stati consacrati sacerdoti, a nostro modo ci siamo trasformati nelle due monete della Povera Vedova, gettandoci nel tesoro di Cristo Dio, che ha depositato e impresso in noi il grande tesoro di quel dono che ci ha segnati con un carattere indelebile ed eterno: il sacerdozio ministeriale.

Nella parte finale di questo Santo Vangelo Cristo Signore dice …

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«In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» [Mt 12, 44].

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In questo monito è racchiuso il richiamo severo alla nostra profonda responsabilità. Noi uomini chiamati a servire la Chiesa tramite il sacro ordine sacerdotale che ci rende indegni partecipi del sacerdozio ministeriale di Cristo, siamo responsabili di questa duplice ricchezza: della fede della povera vedova e del denaro della povera vedova. Ogni cosa che viene offerta per Dio deve essere infatti impiegata per Dio, a servizio di Dio ed a gloria di Dio. Tutto ciò che in ricchezza di doni abbiamo avuto dalla Chiesa e per la Chiesa, alla nostra morte deve tornare moltiplicato alla Chiesa, come ci insegna la celebre parabola dei talenti [cf. Mt 23, 14-30].

Seguendo le orme della divina scorrettezza di Cristo, senza falsi pudori o penosi nascondimenti, desidero porre un quesito alla mia coscienza di prete: in che modo noi vediamo talvolta amministrare questi due tesori, il patrimonio della fede e i doni materiali che ci vengono dalle membra vive del Popolo di Dio? Oggi che si parla tanto di Misericordia, dovremmo essere più che mai consapevoli in che misura la ricchezza della fede si regga o cada tutta sull’esempio. Dunque ogni giorno dovremmo interrogarci: quale esempio diamo al Popolo di Dio per indurlo a mantenere, a sviluppare ed a diffondere la ricchezza della fede?

A questo primo quesito dovrebbe seguirne un secondo non meno doloroso: in una società dove sempre più famiglie stentano ad arrivare alla fine del mese, come sono ripartite le ricchezze all’interno della Chiesa? Con quale oculata ed equa ripartizione queste sostanze sono usate per il più alto decoro della Casa del Signore, per il decoroso sostentamento dei suoi fedeli ministri, per il sostegno dei poveri e dei bisognosi?

Quante volte, nello svolgimento del mio ministero sacerdotale in varie parti d’Italia, mi è capitato di entrare in sacrestie puzzolenti, di estrarre da armadi tarlati e mezzi marci dei camici ingialliti dallo sporco, dei paramenti sacri maleodoranti, oppure essere costretto a deporre il prezioso sangue di Cristo dentro calici non giovabili corrosi al loro interno? E quante volte mi è accaduto poi di passare da queste sacrestie all’abitazione privata del mio confratello e di vedere al suo interno strumenti elettronici di ultima generazione, maxi schermi televisivi altamente costosi … per non parlare della cura maniacale con la quale il confratello teneva pulita la propria automobile, ricolma di accessori tanto inutili quanto costosi? Anch’io tengo sempre pulita la mia automobile, che non è un’utilitaria ma è un’automobile di media cilindrata sufficientemente costosa, la quale non costituisce né un capriccio né un lusso ma una necessità per i miei lunghi e frequenti viaggi, spesso effettuati anche in stato di maltempo e soprattutto per tragitti di centinaia di chilometri. Però, prima dell’automobile, che va di certo ben conservata, io tengo pulito il Tabernacolo del Santissimo Sacramento. Più volte mi è infatti capitato di trovare dentro qualche tabernacolo della polvere e del grasso incrostato, persino una mosca morta dentro la pisside.

Quante volte, a disonore della Chiesa e con grave scandalo per il Popolo di Dio — agli occhi del quale certe cose non sfuggono mai — è capitato di assistere alle vicende di alcuni preti entrati poverissimi dentro i seminari, mantenuti agli studi di formazione al sacerdozio dal buon cuore di qualche benefattore o dalle premure della diocesi, che alla loro morte hanno lasciato cospicue eredità ai loro amati nipoti, non però un solo centesimo alla Chiesa, il tutto dopo avere vissuto una vita improntata sulla cupidigia e sull’avarizia?

A rendere più grave il tutto, è che mentre costoro accumulavano tesori destinati non alla Chiesa, non alla Casa di Dio, non ai poveri e ai bisognosi del suo Popolo Santo … altri loro confratelli inseriti in contesti ecclesiali e pastorali meno felici — o se preferiamo molto meno redditizi — dovevano battere cassa presso i propri familiari, perché non ce la facevano ad andare avanti, perché non avevano soldi per mettere la benzina dentro il serbatoio dell’automobile per andare a prestare i loro servizi pastorali, perché non avevano soldi per comprarsi un cappotto pesante che li riparasse dal freddo invernale.

A conclusione di questo penoso discorso che ritengo però abbia una sua precisa utilità nell’economia della salvezza, vorrei invitarvi alla lettura di un’Enciclica scritta nell’anno 1935 dal Sommo Pontefice Pio XI, Ad Chatolici Sacerdotii, nella quale il Santo Padre non esita a puntare il dito su certi malcostumi del clero di ieri e di oggi, andando alla radice dei potenziali problemi che bisognerebbe sempre evitati a monte, ma soprattutto offrendo soluzioni. A tal scopo, egli invita i formatori dei candidati al sacerdozio a capire e percepire anzitutto che cos’è la vera misericordia e come essa opera. Scrive in quell’enciclica Pio XI al paragrafo dedicato alla scelta dei candidati al sacerdozio:

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«Correggere l’errore quando lo si avverte, senza umani riguardi, senza quella falsa misericordia che diventerebbe una vera crudeltà, non solo verso la Chiesa, a cui si darebbe un ministro o inetto o indegno, ma anche verso il giovane stesso che, sospinto così sopra una falsa via, si troverebbe esposto ad essere pietra d’inciampo a sé e agli altri, con pericolo di eterna rovina  […]. Per ottenere che gli altri abbraccino il Vangelo, l’argomento più accessibile e più persuasivo è il vedere quella legge attuata nella vita di chi ne predica l’osservanza» [testo integrale, QUI].

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Questo il messaggio, ed in parte l’amorevole dramma che si cela dietro alle due monete della povera vedova. Sulle quali può nascere o sulle quali può morire la fede del Popolo di Dio e la credibilità verso i suoi sacerdoti chiamati a servire la Chiesa, non certo a servirsi della Chiesa. Questo è l’imbarazzo e la provocazione con la quale Gesù Cristo Figlio di Dio e Dio fatto uomo sfida la nostra indifferenza e il nostro torpore, chiedendoci oggi più che mai di annunciare ciò che è stato detto sulle righe e oltre le righe del suo Santo Vangelo, non ciò che di comodo e di de-responsabilizzante spesso noi interpretiamo, al triste e nefasto fine di eluderne la verità, sino ad omettere di guidare gli uomini a conoscere quella verità che ci farà liberi [cf. Gv 8, 32].

I due soldi della povera vedova hanno una profonda valenza teologica: rappresentano e manifestano il mistero della fede e l’azione di grazia di Dio sull’uomo che, accolta liberamente la grazia, risponde donando tutto se stesso senza alcun risparmio, affinché gli uomini possano entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Non ci si serve della Chiesa di Dio e tanto meno dell’ obolo della povera vedova per arricchire noi stessi o le nostre fameliche consorterie. La Chiesa si serve per arricchire l’umanità intera, dopo essersi fatti poveri in spirito [cf. Mt 5, 3] per divenire beati e per guadagnare la ricchezza eterna del Regno dei Cieli, consapevoli che Cristo ci ha chiamati a sé e istituiti per sacramento di grazia «Pescatori di uomini» [cf. Mt 4, 19], forniti di tutti i migliori mezzi affinché la nostra, come la sua, possa essere una pesca miracolosa.

Detto questo resti però chiaro il fatto che allo stesso tempo non è ammissibile neppure la mancanza di sensibilità e di generosità da parte di molti nostri fedeli, perché l’esempio della Povera Vedova applicato ai preti, lo dobbiamo applicare anche a quei numerosi fedeli che fin quando hanno da chiedere e da pretendere per tutti i loro bisogni umani, morali e spirituali, non esitano a gettare il prete giù dal letto anche alle due della notte, ma quando poi il prete deve pagare il riscaldamento o la bolletta della luce della chiesa parrocchiale e dei locali destinati alle attività pastorali e caritative, ecco che cadendo dal settimo cielo non pochi replicano: «Ma come, voi non avete il Vaticano … la Banca Vaticana?». E poi c’è lo Stato, c’è la Regione, c’è il Comune … insomma, ci sono tanti, ci sono tutti, fuorché lui, il fedele avaro, che fin quando ha da prendere, allora prende, però, se deve dare, allora indica l’esistenza di altri, ma soprattutto i portafogli altrui …

Questo per dire che le monete della Povera Vedova hanno un diritto e un rovescio: uno per certi preti — di cui noi per primi riconosciamo senza alcun problema limiti, debolezze, avidità e avarizie —, l’altro per quei nostri fedeli che hanno solo le mani per prendere, mai per dare, scaricando su altri la responsabilità per il mantenimento del decoro della Casa del Signore e delle strutture sociali, giovanili, caritative, assistenziali e via dicendo.

Uno dei miei formatori, con la saggezza tutta quanta tipica degli anziani mi disse un giorno: è vero, certi sacerdoti possono dare l’impressione di essere avari, o attaccati ai soldi, ma dietro quell’apparente attaccamento, che in realtà non è poi tale, si celano in verità tutt’altre paure: la paura di rimanere soli e abbandonati nella vecchiaia. Spesso, molti di questi sacerdoti, sono rimasti molto toccati — quando ancora non erano anziani — da casi di sacerdoti morti soli e ammalati. Detto questo, sempre il mio anziano formatore, seguitando a parlare delle paure dei preti anziani, aggiunse: «… e specie in certe zone, dove spesso i fedeli arrivano solo a mani tese per chiedere con lo spirito di coloro ai quali tutto è dovuto, è capitato che certi preti, divenuti vecchi, malati e non più sfruttabili, trovandosi senza soldi si sono trovati privi di qualcuno che portasse loro un bicchiere d’acqua».

Questo il motivo per il quale spesso insisto, coi giovani confratelli, sulla importanza della vicinanza che specie i giovani devono avere verso i presbiteri anziani. E vi dirò: ogni volta che io sono stato vicino ai presbìteri anziani, ne ho tratto un bene profondo, perché poca cosa è stata la compagnia che io ho fatto a loro, o l’aiuto che ho dato a presbìteri semi infermi, a confronto di ciò che costoro hanno dato a me, trasmettendomi il loro bagaglio di prudenza, sapienza, conoscenza …

I presbìteri anziani non andrebbero messi a riposo, ma tutt’altro messi a lavoro. Sarebbe bene che i vescovi, specie quelli giovani, se li tenessero vicini come consiglieri, anziché circondarsi di gruppi di giovani preti — mossi non di rado da interessi personali o da condizionanti aspettative di carriera —, perché certi anziani sono la memoria storica viva delle loro diocesi. Che i vescovi li mettano a fare i rettori, i confessori, od i padri spirituali dei seminari, perché per poter sviluppare la prudenza, la sapienza, la conoscenza, non occorrono i giovani rettori mandati a fare i corsi di socio-psicologia nelle università laiche, bensì anziani capaci ad insegnare ai giovani non solo per mezzo delle loro virtù, ma anche attraverso i loro stessi difetti, che sono propri dell’umanità di ciascuno di noi, presbiteri inclusi.

Per dare sul finire un’altra lettura al racconto evangelico della povera vedova: la povera vedova è la Chiesa che dona la propria totalità; le due monete preziose che lei depone nel pubblico tesoro del tempio — che è pubblico e visibile a tutti —, sono la prudenza e la sapienza degli anziani.

Pertanto, a quei vescovi che dicono «bisogna ripartire dalla formazione», io ho sempre risposto: allora dovere ripartire dagli anziani, visto che nessun giovane, per quanto dotato, può avere la sapienza dei vecchi. Né può avere lo slancio della povera vedova, che ha dato tutta se stessa attraverso il poco che aveva, ma quel poco era la sua totalità. E per dare veramente tutto occorre tempo, occorre una vita. E questo i vecchi lo hanno fatto, mentre i giovani devono imparare a farlo. E per imparare a farlo hanno bisogno dell’esperienza dei vecchi, specie di quelli che nel corso di tutta la loro di vita cristiana e sacerdotale hanno cercato di trasformarsi — per Cristo con Cristo e in Cristo — nella Povera Vedova.

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dall’Isola di Patmos, 11 novembre 2018

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È DISPONIBILE IL LIBRO DELLE SANTE MESSE DE L’ISOLA DI PATMOS, QUI

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