Legittima difesa dalla Unione dei Cretini Confermati e Riconosciuti (U.C.C.R.)

— nota redazionale —

LEGITTIMA DIFESA DALLA UNIONE DEI CRETINI CONFERMATI E RICONOSCIUTI (U.C.C.R).

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In questa giungla telematica anche l’ultimo degli ignoranti, mettendo mano sulla tastiera di un computer dietro l’anonimato della rete, diviene un arrogante esperto di quelle discipline verso le quali noi, che pure abbiamo dedicato ad esse la vita e lunghi anni di studio, seguitiamo ad avere un approccio sempre basato sul sacro timore e sull’umile pudore, tanto ci sentiamo piccoli, limitati e profondamente inadeguati dinanzi ai grandi misteri della fede.

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Autore
Redazione dell’Isola di Patmos

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Marrucine Asini, manu sinistra
non belle uteris: in ioco atque vino
tollis lintea neglegentiorum.
Hoc salsum esse putas?

[Catullo, carme XII]

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U.C.C.R. Unione Cretini Confermati e Riconosciuti 

Mai il Padre Ariel S. Levi di Gualdo s’è irritato con chi l’ha criticato. La critica, che lui stesso esercita talora in modo severo, rientra nell’esercizio delle libertà garantite [Cost. art. 21]. Non rientra però nei diritti costituzionali il diritto alla falsità, come nel caso del blog casereccio denominato U.C.C.R, che vorrebbe indicare l’acronimo Unione Cristiani Cattolici Razionali, dove in uno scritto rigorosamente non firmato [cf. QUI] si afferma:

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«il preoccupante fenomeno dei preti mediatici che trovano nei social network la loro valvola di sfogo. Conosciamo bene i preti “progressisti” che combatterono aspramente Benedetto XVI dai loro blog, come don Giorgio De Capitani, don Paolo Farinella, don Aldo Antonelli, don Franco Barbero. Anche Papa Francesco ha i suoi nemici tra i preti-blogger, legati questa volta all’eresia del “tradizionalismo”: don Curzio Nitoglia, don Minutella (recentemente scomunicato), don Ariel Levi di Gualdo e i vari esponenti della Fraternità San Pio X. Un’eccezione in mezzo a tantissimi buoni pastori, ma un grosso problema a causa della visibilità loro donata dal web» [cf. QUI].

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Questo sproloquio, che peraltro annovera implicitamente il Padre Ariel S. Levi di Gualdo tra i cattivi pastori escludendolo di fatto dai «tantissimi buoni pastori», è inserito nel delicato contesto di quel rapporto ebraico-cristiano per dissertare sul quale sono richieste alte e profonde competenze bibliche, storiche e teologiche, non un gruppo che si definisce:

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«UCCR è solo un sito web, non ha sede, non ha statuto, non ha organico, non spaccia tessere e non batte cassa. Nasce il 2 febbraio 2011 come hobby di un gruppetto di universitari [cf. QUI] ai quali, in poco tempo, si uniscono altri amici conosciuti in rete».

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Per inciso, i burloni di questo blog casereccio che si definiscono niente meno che «Razionali», sorvolando sul fatto che ad esercitare il munus docendi ed il munus santificandi sono per Sacramento di grazia i cattivi pastori come Padre Ariel, dovrebbero spiegare in modo giust’appunto razionale in quali faccende sono invece affaccendati i «tantissimi buoni pastori» di loro conoscenza, a ben considerare che l’affluenza alla nostre chiese è in caduta libera, che la Santa Sposa di Cristo è oggi deturpata da una crisi morale e dottrinale senza precedenti storici, che i battesimi sono in vertiginoso calo assieme ai matrimoni ed ai Sacramenti della iniziazione cristiana, mentre sui confessionali sopravvissuti — ossia quelli che i «tantissimi buoni pastori» non hanno ancora messo in magazzino o venduti agli antiquari —, abbonda la polvere e crescono sopra le ragnatele. E lo sanno, questi razionali, qual è la Diocesi che detiene l’assoluto primato nazionale delle chiese vuote? Ebbene: è Roma. 

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Marrucine Asini, manu sinistra non belle uteris … [U.C.C.R. Unione Cretini Confermati e Riconosciuti]

Il gruppetto di universitari ed amici vari uniti nella rete, ignorano che il Padre Ariel S. Levi di Gualdo dette alle stampe 12 anni fa il libro Erbe Amare, il secolo del sionismo, in commercio per sei anni, diverse migliaia di copie vendute e considerato da studiosi di fama nazionale e internazionale una «pietra miliare sulla fenomenologia ebraica». In questo libro di 360 pagine con 520 note storico-scientifiche, la sezione centrale, pari a 120 pagine, è interamente dedicata alla figura di Pio XII, a cui riguardo l’Autore smonta con inconfutabili dati storici le polemiche ideologiche montate contro questo Sommo Pontefice da certi circoli ebraici che, come ampiamente dimostrato, sono risultati tutti quanti legati ai vari movimenti marxisti ed alle varie logge massoniche internazionali. Il libro è attualmente in fase di ristampa.

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Accomunare il Padre Ariel S. Levi di Gualdo ai membri della Fraternità di San Pio X o cosiddetti lefebvriani, è cosa invero grottesca. Infatti, questo presbìtero e teologo, ha ripetutamente indicato i lefebvriani come scismatici, di conseguenza come eretici, spiegando ripetutamente i loro errori, oltre a sollecitare in più occasioni i fedeli cattolici a non partecipare alle loro sacre celebrazioni ed a non ricevere da essi i Sacramenti, se non in caso di pericolo di vita, perché in questo caso persino un prete scomunicato e dimesso dallo stato clericale può amministrare validamente i Sacramenti [cann. 976; 986 §2; can. 883 n. 3].

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Marrucine Asini, manu sinistra non belle uteris … [U.C.C.R. Unione Cretini Confermati e Riconosciuti]

Riguardo il presbitero Alessandro Minutella, in un articolo addolorato firmato dai Padri de L’Isola di Patmos Ariel S. Levi di Gualdo e Padre Giovanni Cavalcoli [cf. QUI], i due teologi lo hanno pregato di ritornare sui propri passi. Poco dopo, Padre Ariel, non avendo ottenuto alcun effetto, lo ha amaramente indicato come un modello da non seguire, invitandolo a rinnovare la sua professione di obbedienza al Vescovo in comunione col Vescovo di Roma [cf. QUI].

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Indicare poi il Padre Ariel S. Levi di Gualdo come «nemico di Papa Francesco» nonché legato alla «eresia del tradizionalismo», denota due diverse forme di stoltezza: anzitutto non conoscere la devozione che questo presbìtero nutre verso il Successore di Pietro, quindi confondere la legittima critica rivolta a certe espressioni od a certe scelte pastorali del Romano Pontefice con quelli che invece sono i suoi atti di magistero, dinanzi ai quali ripetutamente, in quattro anni di attività pubblicista sulla rivista telematica L’Isola di Patmos, egli ha invitato alla dovuta obbedienza, perché «Se il Sommo Pontefice emana un motu proprio, il discorso è chiuso e non c’è proprio nulla su cui discutere, c’è solo da obbedire».

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Marrucine Asini, manu sinistra non belle uteris … [U.C.C.R. Unione Cretini Confermati e Riconosciuti]

Questi goliardici universitari che si palesano teologi, ecclesiologi e canonisti per hobby, si sono pertanto qualificati e squalificati con l’espressione «eresia del tradizionalismo», ignorando che i Santi Padri e Dottori della Chiesa, la traditio catholica l’hanno diffusa e difesa, alcuni sino allo spargimento del proprio sangue. Infatti, mutare la parola “tradizione” e “tradizionalismo” in accezione negativa sino ad usarla persino come sinonimo di eresia, equivale ad affermare autentiche assurdità, come quelli che usano in accezione negativa le parole “dogma” e “dogmatico”. Basterebbe infatti conoscere anche e solo superficialmente i documenti del Concilio Vaticano II per sapere quante volte i Padri della Chiesa riuniti in quella assise si richiamano e richiamano alla tradizione ed al rispetto della tradizione, variamente definita come «santa», come «sacra» e come «perenne».

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Poste queste premesse, i ragazzi del blog U.C.C.R rischiano di essere annoverati nella Unione dei Cretini Confermati e Riconosciuti, che vi preghiamo di prendere per ciò che sono, soprattutto per ciò che intellettualmente dimostrano di valere, in questa giungla telematica dove anche l’ultimo degli ignoranti, mettendo mano sulla tastiera di un computer dietro l’anonimato della rete, diviene un arrogante esperto di quelle discipline verso le quali noi, che pure abbiamo dedicato ad esse la vita e lunghi anni di studio, seguitiamo ad avere un approccio sempre basato sul sacro timore e sull’umile pudore, tanto ci sentiamo piccoli, limitati e profondamente inadeguati dinanzi ai grandi misteri della fede.

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dall’Isola di Patmos, 29 novembre 2018

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Si invitano infine gli “scienziati” del blog U.C.C.R. a smentire questa lectio sul piano prettamente e strettamente teologico, oppure a dichiarare in caso contrario che i Santi Vangeli e che i Beati Evangelisti hanno sbagliato

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Morale cattolica e gioco d’azzardo: il problema della ludopatia e le dipendenze dai giochi d’azzardo

— i video dell’Isola di Patmos —

MORALE CATTOLICA E GIOCO D’AZZARDO: IL PROBLEMA DELLA LUDOPATIA E LE DIPENDENZE DAI GIOCHI DI AZZARDO

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Per la morale cattolica, il gioco d’azzardo non sempre è considerato un peccato, ma può divenire tale quando il gioco d’azzardo reca offesa alla giustizia e alla carità, esponendoci al vizio strutturato su quella dipendenza patologica che nasce da una nostra libera scelta.

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ludopatia isola

il convegno sulla ludopatia promosso dal Lions Club, presso il quale ha tenuto una relazione Ariel S. Levi di Gualdo sul rapporto tra morale cattolica e gioco d’azzardo

Ridurre le persone schiave dei sentimenti irrazionali-emotivi, delle illusione e dei sogni, non è forse la forma peggiore di schiavitù?

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La schiavitù moderna è peggiore di quella degli antichi romani, che era un istituto giuridico del diritto civile; un istituto che prevedeva la emancipatio, la liberazione dello schiavo. E una volta divenuto libèrto, l’ex schiavo, specie in epoca imperiale, poteva fare persino brillanti carriere. Al contrario della schiavitù moderna, non codificata in alcuna legge, perché i sistemi democratici che promuono la schiavitù psicologica sono quelli che la schiavitù la condannano in modo deciso, ma risultando poi nei fatti gli stessi che esercitano massicci controlli sulle masse di schiavi, per i quali non è prevista quella possibilità giuridica di emancipazione prevista invece già oltre due millenni fa nel diritto civile romano.

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Lions Club 31.03.2017 ok

il prof. dott. Franco Cirillo (a sinistra), il padre Ariel S. Levi di Gualdo (a destra) durante la conferenza

Riguardo il gioco d’azzardo, il Catechismo della Chiesa Cattolica usa un termine molto più forte del termine “dipendenza”, usa il termine “schiavitù”. E qui vi faccio notare che non tutte le dipendenze sono in sé e di per sé cattive, a volte non sono neppure nocive. Infatti, la “dipendenza”, può nascere da una nostra lucida scelta iniziale che poi può sfuggire al nostro controllo, sino a renderci schiavi, ma partendo comunque da un atto iniziale della nostra libera volontà. Esistono infatti due diverse forme di schiavitù: possiamo essere ridotti in schiavitù attraverso una violenta privazione totale della libertà, o possiamo essere ridotti in schiavitù da varie forme di dipendenza psicologica, senza che quasi ce ne rendiamo conto.

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Oggi che si è riacceso il dibattito sulla ludopatia e le dipendenze dai giochi d’azzardo, riproponiamo, con estrema attualità, questa conferenza tenuta lo scorso anno [segue il video della conferenza]

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Per aprire il video della conferenza cliccare sull’immagine sotto:

fotograma a1

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you tube

Canale You Tube de L’Isola di Patmos

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

La definizione dell’essenza dell’uomo

— i video dell’Isola di Patmos —

LA DEFINIZIONE DELL’ESSENZA DELL’UOMO

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L’uomo potrebbe essere ragionevolmente definito anche come un animale animato da un’anima razionale.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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Giovanni Cavalcoli, O.P.

Qual è la differenza tra l’uomo e gli animali dotati d’istinto ma non di ragione? Perché questa è la differenza tra l’animale e l’uomo che invece è dotato della facoltà di ragionare. L’animale è dotato di istinto, l’uomo, che non è certo privo della propria istintività umana, è dotato però di libero arbitrio.

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Per questo, l’uomo, potrebbe essere ragionevolmente definito anche come un animale animato da un’anima razionale.

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In questa sua lectio, il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli, attraverso le speculazioni della filosofia classica e della metafisica tomista, ci conduce all’intero  di uno dei più grandi misteri della creazione: l’essere dell’uomo [per aprire il video cliccare sotto …]

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Canale You Tube de L’Isola di Patmos

Canale cattolico Gloria Tv 

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Chi è Cristo Re dell’Universo e che cos’è la verità?

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

CHI È CRISTO RE DELL’UNIVERSO E CHE COS’È LA VERITÀ ?

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Il quesito ironico «che cos’è la verità?», oggi non risuona più nel pretorio di Ponzio Pilato, purtroppo risuona da anni all’interno della Chiesa visibile, dove si rischia di smarrire la verità per correre dietro alle nostre egocentriche voglie fatte di individualistiche favole.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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PDF  articolo formato stampa
 

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Laudetur Jesus Christus !

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icona bizantina raffigurante Cristo Re dell’Universo

In questa XXXIV domenica del tempo ordinario, con la narrazione del Beato Evangelista Giovanni il Santo Vangelo ci dona il dialogo tra Cristo Signore ed il Governatore della Giudea Ponzio Pilato [cf. Gv 18, 33-37], incentrato sulla regalità e sulla verità [vedere testo della Liturgia della ParolaQUI].

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La festa di Cristo Re fu istituita dal Sommo Pontefice Pio XI nel 1925 con l’intento di manifestare la signoria di Dio sul mondo in antitesi alle forme di moderno ateismo ed a tutti gli ismi sorti a tra l’Ottocento ed il Novecento. Degli ismi che l’umanità si è trascinata dietro sino all’alba del Terzo Millennio senza averli ancora elaborati, ma soprattutto senza averli risolti. Merita precisare che mi riferisco agli illuminismi, ai liberalismi, ai socialismi, ai comunismi, ai fascismi, ai materialismi, ai capitalismi, agli edonismi, ai relativismi ed ai religiosi sincretismi, per proseguire con i falsi ecumenismi sino ad arrivare ai pauperismi ed ai misericordismi …

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Se il Beato Pio IX intuì le conseguenze del liberal-capitalismo indifferentista e del marxismo in fase di gestazione, il Sommo Pontefice Pio XI toccò i frutti concreti dell’uno e dell’altro. Per questo volle riproporre all’umanità il mistero di fede del cristocentrismo cosmico: Cristo unico re dell’universo.

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Ecco quindi che il Sommo Pontefice Pio XI cerca di porre nuovamente Cristo sul trono dal quale si era tentato di spodestarlo prima, durante e dopo la Rivoluzione Francese, la quale esaltò in modo truffaldino tre principi ben lungi dall’essere inventati dagli illuministi, perché da sempre sono pilastri sui quali si regge il messaggio cristiano: libertà, uguaglianza e fraternità. Se però alla libertà, che è dono supremo di Dio all’uomo e che è un suffisso portante del mistero stesso della creazione [cf. Gen 1, 26-31]; se all’uguaglianza, che prende vita dal nostro essere creature libere create a immagine e somiglianza di Dio; se alla fraternità, che ci rende figli in comunione con Dio; togliamo però il fondamento eterno e immutabile che è il Creatore, non nascerà alcuna Èra dei Lumi, ma solo il buio della presunta ragione. E questo buio della presunta ragione si fonderà sulla più satanica delle umane presunzioni: poter fare a meno di Dio ed eliminare Dio dalla storia dell’umanità.

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Per noi cristiani la ragione risiede nel Cristo vero Re dell’Universo che ricapitola in sé tutte le cose, come esprime il Beato Apostolo Paolo nella lettera indirizzata ai fedeli della Chiesa di Efeso [Ef 1, 10]. Dinanzi a questa lirica che racchiude l’intero deposito della fede, siamo chiamati a penetrare ed a lasciarci penetrare dal mistero del Cristo incarnato, morto e risorto. Il Cristo non è una parte della nostra vita, è la totalità del nostro essere ed esistere, o come amava definirlo Sant’Agostino Vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa: il Christus Totus.

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Nella narrazione del Vangelo del Beato Evangelista Giovanni, è contenuto il colloquio tra Gesù Cristo e Ponzio Pilato incentrato sul concetto di regalità. Un colloquio che si svolge dopo che le autorità giudaiche avevano giudicato Gesù Cristo passibile di morte e lo condussero nel pretorio dinanzi al Governatore della Giudea affinché questi ratificasse il loro giudizio traducendolo in sentenza di morte. Così, Ponzio Pilato, entrato nel pretorio domanda a Gesù Cristo se egli è realmente il re dei Giudei. Risponde Cristo Signore: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» [Gv 18, 34]. E qui va fatto notare che mentre nei tre Vangeli sinottici Cristo Signore risponde in modo indefinibile «tu lo dici», nel Vangelo del Beato Evangelista Giovanni Egli risponde in modo molto chiaro facendo uso del termine greco βασιλεία, basileia, che significa appunto regalità [nei Santi Vangeli con: ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν, si indica il regno dei cieli]. A quel punto, il Divino Re dell’Universo, cerca di far capire al proprio interlocutore che questa sua regalità non è di questo mondo. Ponzio Pilato, che però è un militare pratico, a suo modo un materialista, prosegue a interloquire domandando: «Dunque tu sei re?». Al ché Cristo Signore risponde: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

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Che la regalità del Cristo non sia di questo mondo, non deve però indurci a credere ch’essa sia solo ed unicamente oltre il terreno, altrimenti perché mai, il Verbo di Dio, si sarebbe incarnato nascendo su questa terra? Quella di Cristo Dio Re dell’Universo è infatti una regalità divina, che però si inserisce pienamente nel mondo terreno per essere esercitata sull’umanità, benché in modi e forme del tutto diverse da quelle che caratterizzano i regni della terra.

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Ponzio Pilato, militare pratico e materialista, non riesce a seguire quei discorsi. Ciò che a lui interessa è solo di sapere se Gesù il Cristo è il re dei giudei; dunque in parte non vuole, ed in parte non è neppure capace di seguire il discorso di Gesù Cristo, perché da buon romano vuole conoscere i fatti e sapere se quell’uomo è il re dei Giudei.

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Il Beato Evangelista Giovanni, nel presentare la domanda chiave di Ponzio Pilato, la formula così: «Tu sei re?» [Gv 1,37]. Con questa formulazione del tutto diversa dal quesito «sei tu il re dei giudei?» che affiora invece nei Santi Vangeli sinottici [Mt 27, 11; Mc 15, 2; Lc 23, 3] la regalità del Cristo valica di molto il riduttivo concetto di «re dei giudei», infatti Egli non è re di una piccola regione di questa terra, ma di tutto l’universo, colui che — come scrive il Beato Apostolo Paolo —, per divino volere, una volta risuscitato dai morti fu fatto sedere alla destra di Dio Padre nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione [cf. Ef 1, 20-21].

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La regalità di Cristo Dio ha quindi una estensione molto più vasta rispetto a ciò che pensa o che cerca di capire Ponzio Pilato: essa si colloca in una dimensione universale nella quale  la regalità del Redentore ha portata ben più ampia. Cristo Signore è re perché mediante il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio nel ventre della Beata Vergine Maria, è venuto nel mondo «per rendere testimonianza alla verità» [Gv 18, 37]. Non a caso, proseguendo nel suo interrogatorio, il Governatore della Giudea esordisce con la domanda: «Τί ἐστιν ἀλήθεια», nel testo latino «quid est veritas?», che tradotto significa «che cos’è la verità?» [Gv 18, 38]. Domanda nella quale si potrebbe cogliere ed interpretare un desiderio di capire, quindi di sapere, mentre invece è solo una domanda retorica formulata in modo puramente ironico.

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Questa la riflessione che vi lascio nella solennità di Cristo Re dell’Universo e che purtroppo risuona da anni all’interno della Chiesa visibile, dove si rischia di smarrire la verità per correre dietro alle nostre egocentriche voglie fatte di individualistiche favole. E anche questo, due millenni or sono, ce lo aveva detto e profetato il Beato Apostolo Paolo nella Lettera indirizzata al discepolo Timoteo:

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«Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [II Tm 4, 3-4].

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Il modo in cui salvarsi e salvare la Chiesa visibile da questo pericolo distruttivo, ce lo indica quindi l’Apostolo stesso:

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«Se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàthema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàthema».

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Ecco, che cos’è la verità: il trono sul quale è assiso Cristo Signore, il Re dell’Universo, colui che ricapitola in sé tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra [cf. Ef 1, 10]. E se qualcuno, chiunque esso sia, dovesse predicarvi un Vangelo diverso: sia anàthema! 

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dall’Isola di Patmos, 25 novembre 2018

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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv 8,32],
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È DISPONIBILE IL LIBRO DELLE SANTE MESSE DE L’ISOLA DI PATMOS, QUI

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La splendida intervista del Cardinale Gerhard Ludwig Müller e lo squallido silenzio indifferente della stampa “cattolica” di regime ridotta ormai ai tamburini della Pravda sovietica e di TeleKabul

— attualità ecclesiale —

LA SPLENDIDA INTERVISTA DEL CARDINALE GERHARD LUDWIG MÜLLER E LO SQUALLIDO SILENZIO INDIFFERENTE DELLA STAMPA “CATTOLICA” DI REGIME RIDOTTA ORMAI AI TAMBURINI DELLA PRAVDA SOVIETICA E DI TELEKABUL

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«Il primato del Papa è indebolito dai cortigiani e dai carrieristi alla corte papale — gli stessi di cui parlò già nel XVI secolo il noto teologo Melchior Cano — e non da chi consiglia il Papa con competenza e responsabilità».

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Autore
Redazione dell’Isola di Patmos

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PDF  articolo formato stampa
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due giganti della Baviera

Analizzando in che misura la stampa “cattolica” di regime somigli oggi a quella dei regimi dell’ex blocco sovietico in periodo di piena guerra fredda, si ricava l’impressione d’aver compiuto un triste salto all’indietro. Infatti, una clamorosa intervista come quella rilasciata dal Prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della fede, Cardinale Gerhard L. Müller, può essere fatta passare sotto silenzio solo adottando la stessa indifferenza con la quale i figli di papà rivoluzionar-comunisti del Sessantotto tacquero indifferenti quando durante la famosa Primavera i carri armati sovietici invasero Praga.

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Per molte di queste persone, sebbene iscritte da molti anni all’Albo dei giornalisti professionisti, non esiste più neppure il diritto-dovere di cronaca. E, se proprio debbono esercitarlo per lanciare un po’ di fumo negli occhi, si limitano a dissertare sulle ossa umane rinvenute sotto il pavimento della casa del portiere annessa alla nunziatura apostolica in Italia [cf. QUI], ben guardandosi dal disquisire su tutti gli scheletri che gli armadi della Domus Sanctae Marthae non riescono più neppure e contenere. Mentre per quell’augusta casa seguitano ad aggirarsi personaggi come Mons. Giovanni Battista Ricca, poiché il Dominus è talmente umile, ma talmente umile, che se sbaglia anche in modo imprudente e grossolano nello scegliere le persone, mai ammetterebbe di avere sbagliato, il tutto, ovviamente, per questioni di profonda umiltà.

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Proponiamo ai nostri Lettori l’intervista che il Prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della fede ha rilasciato a LifeSite [testo originale QUI], gentilmente offerta in traduzione italiana dal giornalista Marco Tosatti sul suo blog personale Stilum Curiae.

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LifeSite — I vescovi americani hanno appena chiuso la loro assemblea autunnale a Baltimora, nel corso della quale è stato loro impedito di votare una risoluzione su una strategia riguardante il coinvolgimento episcopale nei casi di abuso sessuale — chi ha commesso gli abusi e chi ha omesso di prendere misure o ha insabbiato —, perché il Vaticano ha detto loro di fare così. Le nuove linee guida avrebbero previsto un codice di condotta e l’istituzione di un organismo di sorveglianza diretto da laici e incaricato di indagare sui vescovi accusati di condotte inappropriate. Molti cattolici in America attendevano iniziative concrete, e ora sono indignati. Pensa che la decisione sia stata saggia o crede invece che ai vescovi Americani si sarebbe dovuto consentire di adottare la loro strategie nazionali e istituire la commissione, così come hanno potuto fare i vescovi francesi il mese passato?

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Cardinale Gerhard Ludwig Müller — È necessario operare una netta distinzione, da un lato i crimini in materia di sessualità e le indagini condotte dalla giustizia secolare – di fronte alla quale tutti i cittadini sono uguali, perciò una legge valida solo per la Chiesa Cattolica rappresenterebbe una contraddizione nei sistemi legislativi degli stati democratici moderni – dall’altro i procedimenti canonici per il clero con i quali l’autorità ecclesiastica determina le sanzioni da comminarsi in caso di condotte che contraddicano diametralmente l’etica del consacrato. Il vescovo esercita su ogni religioso all’interno della sua diocesi una giurisdizione canonica che in alcuni casi speciali è condivisa con la Congregazione per la Fede a Roma, la quale a sua volta opera in forza dell’autorità pontificia. Se un vescovo non adempie alle proprie responsabilità, può essere chiamato a rispondere davanti al Papa. Le conferenze episcopali possono quindi stabilire linee guida che divengono strumenti preziosi nelle mani dei vescovi, quando nelle rispettive diocesi devono prevenire o perseguire. In mezzo a questa crisi americana dobbiamo mantenerci lucidi. Non ne usciremo certo adottando regole che consentono il linciaggio e favoriscano un clima di sospetto diffuso verso l’intero episcopato “romano”. Non credo sia una soluzione quella di lasciare il controllo ai laici con la spiegazione che i vescovi — come qualcuno crede — non siano in grado di provvedere con le proprie forze. Non supereremo le mancanze rovesciando la costituzione gerarchico-sacramentale della Chiesa. Caterina da Siena si rivolse con candore e instancabilmente alle coscienze dei Papi e dei vescovi, ma non ne prese il posto. Questa è la differenza con Lutero, a causa del quale soffriamo ancora la divisione della cristianità. Sarebbe importante se la conferenza episcopale americana si assumesse le proprie responsabilità con indipendenza e autonomia. I vescovi non sono impiegati soggetti alle direttive del Papa e non sono nemmeno, diversamente dall’esercito, generali chiamati a obbedienza assoluta verso il comando supremo. Piuttosto sono chiamati a farsi carico, insieme al successore di Pietro, quali pastori nominati da Cristo medesimo, della responsabilità della Chiesa Universale. Però si attendono che Roma sia al servizio dell’unità nella Fede e nella comunione dei Sacramenti. Questo è il momento di unire le forze per superare la crisi, piuttosto che di favorire polarizzazioni e compromessi, così che a Roma non ci sia rancore verso i vescovi americani e in America la gente non sia arrabbiata con Roma.

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— Una parte importante della discussione nel corso dell’incontro della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti d’America è stata dedicata ancora allo scandalo McCarrick; come è stato possibile che qualcuno come McCarrick abbia potuto salire i vertici della Chiesa Cattolica americana ed essere in grado di influenzare a tal punto Roma. Qual è il suo pensiero sul caso McCarrick e cosa dovrebbe imparare la Chiesa dall’esistenza di questa rete di omertà che ha circondato un uomo il quale, praticando l’omosessualità, seducendo seminaristi che dipendevano dalla sua autorità inducendoli quindi nel peccato e, soprattutto, abusando di minori, ha condotto un vita costantemente opposta alle leggi della Chiesa?

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Io non lo conosco quindi desidero astenermi dal giudicare. Mi auguro vi sia presto un processo canonico alla Congregazione per la dottrina della fede che faccia luce sui crimini sessuali commessi con giovani seminaristi. Quando ero Prefetto di questo Dicastero [2012-2017] nessuno mi ha mai riferito di questo problema, probabilmente per il timore di una reazione troppo “rigida” da parte mia. Il fatto che McCarrick, insieme alla sua cerchia e a una rete omosessuale, sia stato capace di portare scompiglio nella chiesa con metodi analoghi a quelli mafiosi, è connesso alla sottovalutazione del grado di depravazione morale che gli atti omosessuali tra adulti provocano. Se a Roma qualcuno avesse sentito riferire anche solo sospetti, avrebbe dovuto indagare e valutare la fondatezza della accuse, impedendo che McCarrick fosse promosso all’episcopato di una diocesi importante come Washington, evitando altresì di nominarlo cardinale della Santa Romana Chiesa. E poiché erano anche state pagate somme sottobanco [per evitare scandali n.d.t.] — ammettendo così la responsabilità di crimini con giovani uomini — ogni persona ragionevole si chiede come una tale persona possa essere stata consigliere del Papa nella nomina dei vescovi. Non so se questo corrisponda al vero, certo sarebbe necessario fare chiarezza. Un mercenario che aiuta a cercare buoni pastori per la chiesa del Signore — questo è incomprensibile. In questo caso, la Chiesa dovrebbe riferire pubblicamente sui fatti e sui legami tra i soggetti coinvolti, così come sul grado di consapevolezza da parte delle autorità ecclesiastiche; si potrebbe al tempo stesso pensare a un’ammissione di responsabilità per avere valutato in modo inadeguato persone e situazioni.

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— Nel corso degli ultimi cinque anni lei ha mai avuto notizia di casi nei quali all’allora Cardinale McCarrick fosse stata data ampia fiducia e incarichi in specifiche missioni da parte del Papa o del Vaticano?

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Come ho detto, io non ero informato di nulla. La Congregazione per la dottrina della fede era responsabile solo per i casi di abusi su minori, non per gli adulti, quasi che i reati in materia di sessualità commessi dal clero con un altro consacrato o con un laico non fossero anch’essi gravi violazioni della Fede e della santità dei Sacramenti. Ho sempre sottolineato come anche gli atti omosessuali compiuti da religiosi non possano mai essere tollerati; la morale sessuale della Chiesa non può essere relativizzata dall’accettazione secolare dell’omosessualità. Si deve poi distinguere tra la condotta peccaminosa occasionale, il reato e una vita trascorsa in un continuo stato di peccato.

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Uno degli aspetti problematici del caso McCarrick è che già nel 2005 e nel 2007 vi furono accordi legali con alcune vittime, ma l’Arcidiocesi di Newark — allora sotto l’arcivescovo John J. Myers — non informò il pubblico e nemmeno i propri sacerdoti. Trattenne quindi informazioni essenziali per coloro i quali lavorano ancora con McCarrick e si fidavano di lui. Lo stesso fece il Cardinale Joseph Tobin quando, nel 2017, divenne arcivescovo di Newark. Per quanto mi risulta né Myers né Tobin si sono scusati per le omissioni e per avere tradito la fiducia dei loro sacerdoti. Pensa che l’arcidiocesi avrebbe dovuto rendere pubblici gli accordi legali, specialmente dopo il 2002 quando la Carta di Dallas aveva chiamato a una maggiore trasparenza?

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In altri tempi, si credeva di poter risolvere casi complessi sommessamente e con discrezione. In questo modo il responsabile era messo in condizione di poter continuare ad abusare della fiducia del suo vescovo. Nella situazione odierna, i cattolici e il pubblico hanno il diritto morale di conoscere questi fatti. Non si tratta di accusare qualcuno, ma di imparare da questi errori.

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un problema di questa portata può essere risolto adottando nuove linee guida oppure è necessaria nella Chiesa una profonda conversione dei cuori?

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L’origine di questa crisi va individuata nella secolarizzazione della Chiesa e nella riduzione del sacerdote al ruolo di un funzionario. In ultima analisi è l’ateismo che si è diffuso nella Chiesa. Questo spirito malvagio dice che la Rivelazione riguardo a Fede e morale deve essere adattata al mondo, indipendentemente da Dio, così che Egli non possa più interferire in una vita condotta secondo le proprie voglie e i propri bisogni. Solo il 5% dei responsabili sono stati valutati come pedofili patologici. La gran parte di loro, a causa della propria immoralità, ha scientemente calpestato il sesto comandamento rifiutando in modo blasfemo la Santa Volontà di Dio.

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Cosa pensa dell’idea di istituire nuove norme canoniche che prevedano la scomunica dei preti colpevoli di abusi?

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La scomunica è una sanzione coercitiva che viene rimossa non appena il responsabile si pente. Nel caso di gravi abusi e di offese alla Fede e all’unità della Chiesa, dovrebbe essere decisa la riduzione permanente allo stato laicale, vale a dire la proibizione permanente di esercitare il sacerdozio.

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Il vecchio codice di diritto canonico del 1917 prevedeva pene chiare nei confronti dei preti coinvolti in abusi e anche dei preti omosessuali attivi. Queste sanzioni concrete sono in gran parte state rimosse dal codice nel 1983, che ora è meno preciso e non menziona nemmeno esplicitamente gli atti omosessuali. Alla luce della grave crisi originata dagli abusi, pensa che la Chiesa dovrebbe tornare a un sistema più rigoroso di sanzioni per tali casi?

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Si è trattato di un errore disastroso. Contatti sessuali tra persone dello stesso sesso contraddicono direttamente e completamente il senso e lo scopo della sessualità come stabilita sin dalla creazione. Sono il segno di istinti e desideri disordinati, della relazione interrotta tra l’uomo e il suo Creatore con la caduta nel peccato originale. Il prete celibe e il prete coniugato nel rito orientale devono essere i modelli per il gregge, al tempo stesso esempio della redenzione che coinvolge anche il corpo e le passioni fisiche. La donazione di sé, agape, fisica e spirituale a una persona del sesso opposto, e non il selvaggio desiderio di soddisfacimento, sono il senso e lo scopo della sessualità. Questo conduce alle responsabilità verso i familiari e i figli che Dio ci dona.

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Nel corso del recente incontro di Baltimora, il Cardinale Blase Cupich ha affermato che bisogna «distinguere» tra atti consensuali tra adulti e l’abuso dei minori, sottintendendo così che i rapporti omosessuali dei preti con altri adulti non sarebbero un problema importante. Cosa risponde a questo tipo di impostazione?

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Si può distinguere tutto – anche considerare se stessi dei grandi intellettuali –  ma non un peccato grave che esclude la persona dal Regno di Dio, almeno non può distinguerlo un vescovo che è vincolato al dovere di difendere la verità del Vangelo e non di esibire lo spirito dei tempi. Sembra essere giunto il tempo «in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» [cf. II Tim 4, 3].

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Nel suo lavoro di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha avuto modo di visionare numerosi casi di abusi da parte di religiosi. È vero che la maggioranza delle vittime in questi casi sono adolescenti maschi?

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Oltre l’80% delle vittime di questi reati sono adolescenti di sesso maschile. Non si può concludere però che la maggioranza dei preti siano inclini alla fornicazione omosessuale, piuttosto che la maggioranza dei colpevoli hanno cercato, nel profondo disordine delle loro passioni, vittime di sesso maschile. Le statistiche del crimine ci dicono che la maggior parte dei responsabili nei casi di abusi sessuali sono gli stessi parenti delle vittime, persino genitori con i loro figli. Da questo non possiamo dedurre che la maggior parte dei padri siano inclini a commettere questi crimini. Dobbiamo sempre essere attenti a non generalizzare partendo da casi concreti, per non cadere nello tentazione dello slogan o del pregiudizio anticlericali.

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Se questa è la situazione — e lo studio sugli abusi sessuali condotto in Germania o il John Jay Report, riferiscono di numeri simili — la Chiesa non dovrebbe affrontare direttamente il problema della presenza di preti omosessuali?

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Dal mio punto di vista, non esistono uomini o preti omosessuali. Dio ha creato l’essere umano maschio e femmina. Ma ci possono essere maschio e femmina con passioni disordinate. L’unione sessuale ha un posto solo nel matrimonio tra un uomo e una donna. Fuori c’è solo fornicazione e abuso della sessualità, sia con persone del sesso opposto che nella innaturale esacerbazione del peccato con persone dello stesso sesso. Solo chi ha imparato a controllarsi soddisfa i requisiti per l’ordinazione sacerdotale [cf. I Tim 3, 1-7].

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Al momento sembra esserci un problema nella Chiesa, all’interno della quale manca persino il consenso sul fatto che i preti omosessuali attivi abbiano una gran parte di responsabilità nella crisi legata agli abusi. Persino alcuni documenti vaticani parlano di «pedofilia», o di «clericalismo» come problemi principali. Il giornalista italiano Andrea Tornielli è arrivato a dire che McCarrick non aveva rapporti omosessuali, ma che esercitava il proprio potere sugli altri. Intanto abbiamo chi, come Padre James Martin, S.J, viaggia per il mondo — anche invitato al meeting mondiale delle famiglie in Irlanda — a promuovere l’idea di «Cattolici-LGBT» pretendendo addirittura di teorizzare l’omosessualità di alcuni santi. Questo per dire che è presente una forte spinta nella Chiesa che porta a minimizzare il carattere peccaminoso delle relazioni tra persone delle stesso sesso. Lei condivide e se condivide, come pensa si potrebbe — e dovrebbe — porre rimedio?

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Questa è la parte della crisi le cui cause nessuno vuole vedere, nascondendole con l’aiuto della retorica propagandata dalla lobby omosessualista. La fornicazione con adolescenti e adulti è peccato mortale e nessun potere umano sulla terra può dichiararla moralmente neutra. Questa è l’opera del demonio – contro la quale Papa Francesco spesso ci mette in guardia – dichiarare buono il peccato. «Alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza» [cf. I Tim 4,1]. È infatti assurdo che improvvisamente le autorità ecclesiastiche utilizzino tipici slogan anticlericali giacobini, nazisti e comunisti per attaccare sacerdoti ordinati nel Sacramento. I preti sono investiti dell’autorità di proclamare il Vangelo e amministrare i Sacramenti di Grazia. Se qualcuno abusa della propria giurisdizione per raggiungere obiettivi egoistici, quel qualcuno non è eccessivamente clericale, al contrario, è anticlericale perché nega a Cristo la possibilità di operare attraverso di lui. L’abuso sessuale da parte del clero deve quindi chiamarsi anticlericale in massimo grado. Però è ovvio — e potrebbe essere negato solo da chi vuol essere cieco — che i peccati contro il sesto comandamento del Decalogo originano da inclinazioni disordinate quindi sono peccati di fornicazione che escludono dal Regno di Dio almeno fino a quando non vi sia pentimento ed espiazione, e non vi sia il fermo intendimento di evitare tali peccati nel futuro. Il tentativo di offuscare queste cose è un segno negativo di secolarizzazione della Chiesa. Si pensa come il mondo, non secondo la volontà di Dio.

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Al recente sinodo della gioventù a Roma si sono potute sentire voci dello stesso tenore. Lo instrumentum Laboris ha usato per la prima volta il termine LGBT, mentre il documento finale ha sottolineato la necessità di accogliere nella Chiesa rifiutando verso di loro ogni forma di discriminazione nei loro confronti. Questo genere di affermazioni non potrebbe minare la pratica costante della Chiesa di non consentire di impiegare omosessuali attivi per esempio nel ruolo di insegnanti in chiese cattoliche?

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L’ideologia LGBT è basata su una falsa antropologia che nega Dio come Creatore. Poiché essa è essenzialmente atea o al più sfiora appena il concetto cristiano di Dio, non può avere posto nei documenti della Chiesa. Questo è un esempio dell’influenza strisciante dell’ateismo nella Chiesa, responsabile da oltre mezzo secolo della grave crisi. Sfortunatamente esso continua a operare nella pensiero di alcuni pastori i quali, nel loro ingenuo convincimento di essere moderni, non si accorgono del veleno che essi stessi assumono ogni giorno e finiscono con l’offrire agli altri.

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Possiamo affermare oggi che tra le gerarchie della Chiesa cattolica esista una potente lobby gay ?

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Questo non lo so poiché queste persone con me non si espongono. Ma può essere che si siano sentiti compiaciuti nel sapermi lontano dalla Congregazione e dai casi di crimini sessuali specialmente con giovani adolescenti maschi.

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Recentemente lei ha rivelato che nel corso del suo mandato alla Congregazione per la dottrina della fede il Papa aveva istituito una commissione che avrebbe dovuto fornire consigli alla Congregazione su possibili sanzioni contro preti coinvolti in abusi. La commissione, però, era incline a un atteggiamento più morbido nei confronti dei preti coinvolti, diversamente da lei che avrebbe desiderato imporre, nei casi più gravi, la riduzione allo stato laicale, per esempio il caso del Reverendo Mauro Inzoli. Lo scorso anno — quando lei fu rimosso dalla sua carica alla Congregazione per la dottrina della fede — la rivista dei Gesuiti America rivelò che «un certo numero di cardinali aveva chiesto a Francesco di sollevare il Cardinal Müller dall’incarico perché in numerose occasioni aveva manifestato discordanza, o si era distaccato, dalle posizione del Papa ed essi vedevano in questo un indebolimento dell’ufficio e del magistero papale». Vede una possibile relazione tra i criteri severi da lei adottati nell’affrontare i casi di abusi commessi da religiosi e il gruppo di cardinali vicino al Papa che avrebbero desiderato un approccio più morbido? Se non è questo il caso, affermerebbe ancora di essere stato rimosso a causa della sua difesa ferma dell’ortodossia?

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Il primato del Papa è indebolito dai cortigiani a dei carrieristi alla corte papale — gli stessi di cui parlò già nel XVI secolo il noto teologo Melchior Cano — e non da chi consiglia il Papa con competenza e responsabilità. Se è vero che un gruppo di cardinali mi ha accusato davanti al Papa sulla base delle mie idee differenti, allora la Chiesa si trova in una situazione non buona. Se fossero stati uomini coraggiosi e retti, avrebbero parlato direttamente con me; avrebbero poi dovuto sapere che in quanto vescovo e cardinale, sono chiamato a presentare l’insegnamento della Fede cattolica, non a giustificare le varie opinioni private di un Papa. La sua autorità si estende sulla Fede rivelata della Chiesa Cattolica e non comprende le opinioni teologiche personali o dei suoi consiglieri. Forse mi si potrà accusare di interpretare Amoris Laetitia in chiave ortodossa, ma non possono affermare che io abbia deviato dalla dottrina Cattolica. Si aggiunga l’irritazione che si prova nel vedere persone prive di formazione teologica elevate al rango episcopale, le quali ritenendo di dover manifestare gratitudine al Papa manifestano un genere di sottomissione puerile. Forse avrebbero potuto scorrere le pagine del mio libro Il Papa, missione e mandato, la cui traduzione in italiano e inglese è in corso d’opera.  Allora si potrebbe discuterne a un livello adeguato. Il magistero dei vescovi e del Papa è sottoposto alla Parola di Dio come si trova nelle Sacre Scritture e nella Tradizione, e deve essere al Suo servizio. Non è cattolico credere che il Papa sia una persona che riceve la Rivelazione direttamente dallo Spirito Santo, e che può interpretarla in base ai suoi desideri mentre il resto dei fedeli devono seguirlo ciecamente e in silenzio. Amoris Laetitia deve assolutamente concordare con la Rivelazione, non dobbiamo essere noi a dover concordare con Amoris Laetitia, quantomeno non nelle interpretazioni eretiche che contraddicono la Parola di Dio. Sanzionare coloro i quali insistono su un’interpretazione ortodossa dell’enciclica come di qualsiasi altro documento magisteriale del Papa, sarebbe un abuso di potere.” Solo chi si trova in stato di Grazia può ricevere fruttuosamente la Santa Comunione. Questa verità rivelata non può essere sovvertita da nessuna potenza terrena e nessun cattolico potrà mai credere il contrario o essere costretto ad accettare il contrario.

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In retrospettiva, nel suo ruolo di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede a quali delle innovazioni proposte alla Chiesa si è opposto con più forza? Quale parte della sua testimonianza ha contributo maggiormente alla sua rimozione e al modo in cui essa è avvenuta, senza cioè che le fosse offerta una posizione alternativa all’interno del Vaticano?

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Non mi sono opposto ad alcuna innovazione o riforma. Perché riforma significa rinnovamento in Cristo, non adattamento al mondo. Le ragioni del mancato rinnovo del mio mandato non mi sono mai state comunicate. Questo è insolito perché normalmente il Papa conferma tutti i Prefetti nelle loro posizioni. Non conosco ragioni possibili che potrebbero essere ipotizzate senza cadere nel ridicolo. In fondo non si può credere, contrariamente a quanto ha creduto Papa Benedetto, che Müller manchi di sufficiente preparazione teologica, che non sia ortodosso, o sia negligente  nel perseguire i crimini contro la fede in caso di abusi sessuali. Per questo si preferisce tacere e lasciare ai media di orientamento liberale e progressista il compito di commentare malevolmente.

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Attualmente alcuni osservatori confrontano la sua rimozione dall’importante posizione in Vaticano — certamente dovuta anche alle sua rispettosa resistenza riguardo ad Amoris Laetitia con il trattamento accondiscendente ricevuto da altri come il Cardinale e McCarrick. Ancora oggi non è stato ridotto allo stato laicale, nonostante la sua condotta criminale. Sembra quindi che coloro i quali hanno tentato di preservare l’insegnamento cattolico su famiglia e matrimonio così come è stato trasmesso sono messi da parte, mentre coloro i quali sono a favore di innovazioni in questo campo della morale, sono trattati con mitezza o addirittura promossi, si pensi al Cardinal Cupich e Padre James Martin. Ha un commento su questo?

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Chiunque può formarsi un’idea sui criteri secondo i quali alcuni sono promossi e protetti, mentre altri sono combattuti ed eliminati.

 

 

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Sempre nel merito di questa  apparente soppressione dei religiosi ortodossi e la promozione di rappresenti progressisti, Padre Ansgar Wucherpfennig S.J. ha appena ricevuto dal Vaticano il permesso di ritornare alla posizione di rettore della facoltà gesuita di Francoforte, nonostante egli sostenga e promuova l’ordinazione della donne e la benedizione per le coppie dello stesso sesso. Gli è stato persino chiesto di pubblicare i suoi articoli a riguardo. Come valuta questo ulteriore sviluppo?

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Questo è un esempio di come le autorità della Chiesa di Roma stiano danneggiando se stesse e di come la chiara competenza ed esperienza della Congregazione per la dottrina della fede sia messa da parte. Se questo sacerdote ritiene che la benedizione delle relazioni omosessuali sia il risultato della sviluppo della dottrina, e continua il suo lavoro in questa direzione, siamo di fronte a null’altro che alla presenza di un pensiero ateo nella Cristianità. Egli non nega l’esistenza di Dio sul piano teorico, ma lo rinnega in quanto fonte della morale, presentando alla stregua di una benedizione ciò che invece agli occhi di Dio è peccato. Il fatto che il Sacramento del Sacro Ordine possa essere riservato solo alle persone di sesso maschile non è il risultato di circostanze culturali o di una legislazione della Chiesa positiva quindi modificabile. Esso è fondato nella natura di istituzione divina del Sacramento, così come la natura del Sacramento del matrimonio richiede la differenza tra i due sessi.

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Dal suo punto di vista, ritiene che la Chiesa Cattolica sia prossima a raggiungere il controllo della questione legata agli abusi adeguato e coerente, e abbia trovato le soluzioni giuste? Altrimenti quale pensa sia stato il maggior ostacolo al sostanziale miglioramento della situazione? Come può la Chiesa tornare a rappresentare un’istituzione credibile agli occhi delle famiglie cattoliche?

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L’intera Chiesa, con i suoi sacerdoti e vescovi, deve compiacere Dio più dell’uomo. La nostra salvezza  è l’obbedienza nella Fede.

 

Pubblicato da L’Isola di Patmos, 24 novembre 2018

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Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo …

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

IL SOLE SI OSCURERÀ, LA LUNA NON DARÀ PIÙ LA SUA LUCE, LE STELLE CADRANNO DAL CIELO …

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Prima che tutto questo accada vi saranno molti segni premonitori, lasciati alla percezione ed alla lettura di un uomo purtroppo sempre più incapace a leggere quei segni che oggi sembrano in parte evidenti, in parte sembrano ricorrere tutti, come mi disse in uno dei nostri ultimi colloqui privati il compianto Vescovo e Cardinale Carlo Caffarra.

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore e gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» [Mc 13, 24-25].

In questa XXXIII domenica del tempo ordinario, attraverso la narrazione del Beato Evangelista Marco il Santo Vangelo ci dona la Parabola del fico [vedere testo della Liturgia della Parola, QUI].

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L’Evangelista si esprime in uno stile profetico-apocalittico:

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«Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dalle estremità della terra fino all’estremità del cielo» [Mc 13, 27].

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Nei giorni antichi in cui l’Evangelista stilava questo Vangelo, a pochi decenni di distanza dalla morte, risurrezione e ascensione al cielo del Verbo di Dio fatto uomo, si credeva che il ritorno di Cristo Signore nella gloria alla fine dei tempi fosse vicina. Anche il Beato Apostolo Paolo lo credeva, ed inizialmente era convinto di poter essere presente e partecipe su questa terra al ritorno di Cristo Signore alla fine dei tempi.

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Attorno all’anno 52, nella prima delle lettere indirizzata agli abitanti di Tessalonica, il Beato Apostolo parla del ritorno di Cristo Signore; un ritorno indicato col termine greco di παρουσία [parusia], che indica la definitiva e manifesta presenza divina [cf I Ts 4,13-18]. Nell’annunciare ai giudei ed ai pagani il mistero del Verbo di Dio morto, risorto e asceso al cielo, il Beato Apostolo deve fronteggiarsi con le perplessità ed i dubbi di coloro ai quali questo annuncio è rivolto, anche per questo egli scrive:

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«Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti» [I Ts 4,14].

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Dopodiché seguita a spiegare:

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«Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore» [I Ts 4,16-17].

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Per spiegare la verità di fede della parusia, il Beato Apostolo fa uso di immagini allegoriche che, come le parabole attraverso le quali si esprimeva Cristo Dio, sono utili ed efficaci per trasmettere un messaggio molto profondo: il mistero della vita eterna nella piena comunione con Dio.

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Nel testo della seconda lettera agli abitanti di Tessalonica il Beato Apostolo muta la sostanza del proprio messaggio e comincia a parlare di eventi terribili che precederanno quel giorno che segnerà la fine dei tempi, affermando:

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«Non bisogna lasciarsi ingannare come se il giorno del Signore fosse davvero imminente».

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Procedendo poi a spiegare:

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«Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!» [II Ts 2,1-3].

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Segue a questo punto quel terribile e drammatico racconto che da sempre dovrebbe farci riflettere, forse però in modo del tutto particolare nel presente che stiamo vivendo:

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«Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà esser rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità [II Ts 2, 4-12].

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Quella indicata come «uomo iniquo» è figura universalmente conosciuta come Anticristo, del quale narra l’Apocalisse del Beato Apostolo Giovanni [Ap 13,13-14] redatta durante il suo esilio nell’Isola di Patmos, nota anche come il luogo dell’ultima rivelazione.

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Il Beato Apostolo, nella sua opera di evangelizzazione, non manca di ricordare che l’attesa della parusia di Cristo Signore non può certo essere vissuta in uno stato di pigra apatia, ma in modo estremamente attivo e operoso, come siamo esortati a fare nella parabola dei talenti, a noi dati per essere messi a frutto, non per essere sotterrati e poi restituiti tal quali al ritorno del Signore [cf. Mt 25, 14-30].

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Ai tempi del Beato Evangelista Marco si pensava che questo glorioso ritorno di Cristo Signore fosse vicino. Una gloria che circa due secoli e mezzo dopo, il primo Concilio di Nicea imprimerà nell’anno 325 nella nostra professione di fede, nota anche come Simbolo Niceno-Costantinopolitano, dove professiamo la fede nella parusia acclamando: «… un giorno tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine».

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Col trascorrer dei secoli l’attesa della imminente parusia si è affievolita, non ultimo per il fatto che l’uomo è condizionato al tempo e dal tempo, spesso dimentico che quello del tempo è solo un problema dell’uomo, non di Dio, che è eterno e a-temporale, ossia senza tempo, perché in Dio regna solamente la dimensione eterna.

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La nostra Santa Fede racchiusa nei Santi Vangeli e nelle Lettere Apostoliche ci ricorda, assieme alla nostra Professione di Fede, che la creazione non è eterna, perché eterno è solo il mistero di Dio Creatore e la Parola del Verbo di Dio Cristo Signore, Suo figlio unigenito.

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Il discorso contenuto in questo Santo Vangelo nasce da una spiegazione catechetica data ai discepoli da Cristo Divino Maestro, che uscendo dal tempio lo invitano ad ammirare le pietre con le quali era stato costruito. La risposta di Cristo Signore fu anzitutto una profezia sulla futura distruzione del tempio:  «In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra» [Mt 24, 2]. Giunti poi sul monte degli Ulivi, Gesù seguitò a rispondere attraverso un discorso interamente incentrato sulla escatologia — termine derivante dal greco ἔσχατον [escaton] che significa “le cose ultime” — ossia la fine del mondo. Il discorso escatologico di Cristo Dio si articola su tre diversi livelli che comprendono la persecuzione dei discepoli fedeli [cf. Mt 13,5-13]; quella grande tribolazione dinanzi alla quale Cristo Dio suggerisce di cercare rifugio sui monti [cf. Mt 13,14-23]; espressione evangelica usata cinque anni fa dal Venerabile Pontefice Benedetto XVI che dopo il proprio atto di rinuncia al sacro soglio affermò che si sarebbe ritirato sul monte a pregare per la Chiesa [cf. discorso all’Angelus del 24.02.2013, testo QUI]. Dopodiché, consumati tutti questi eventi, avverrà la manifestazione nella gloria del Figlio dell’uomo [cf. Mt 13,24-32].

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Cristo Signore, in questa pagina del Beato Evangelista ci rivolge diversi moniti, anzitutto l’invito ad essere sempre vigilanti. E come spesso ripeto nelle mie omelie e catechesi, ed in specie di questi tristi tempi, è bene ricordare che allegorico o metaforico è solo il linguaggio, non sono allegorici e metaforici quei contenuti che costituiscono invece delle certe, innegabili e assolute verità della fede.

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Prima che tutto questo accada vi saranno molti segni premonitori, lasciati alla percezione ed alla lettura di un uomo purtroppo sempre più incapace a leggere quei segni che oggi sembrano in parte evidenti, in parte pare che ricorrano tutti, come mi disse in uno dei nostri ultimi colloqui privati il compianto Vescovo e Cardinale Carlo Caffarra, assieme al quale meditai nel corso di questo lungo colloquio sulla frase: «Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte» [Mc 13, 29].

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La grazia di Dio, tramite i doni dello Spirito Santo da noi accolti e fatti fruttare come preziosi talenti, permetterà sempre di mettere in salvo la nostra anima per la vita eterna, basta essere pronti ad andare verso il Divino Sposo, come ci esorta a fare la Parabola delle vergini stolte e delle vergini sagge [cf. Mc 25, 1-13], che si conclude con l’invito a vegliare in attesa dell’arrivo dello sposo « perché non sapete né il giorno né l’ora» [Mt 25, 13].

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Quest’ultimo monito, riguardo il giorno e l’ora che non sono conosciuti a nessuno se non al Divino Padre, dovrebbe stimolarci a non indugiare a forme di schizofrenico catastrofismo, spesso purtroppo trasferite dalla letteratura delle frange più esaltate di certi pentecostali ed evangelici all’interno della Chiesa Cattolica, tramite il triste e pernicioso cavallo di Troia degli adepti di certi nostri movimenti laicali cattolici che si atteggiano a veri e propri possessori esclusivi del mistero dello Spirito Santo. Compito degli eletti, è quello di crearsi con la propria vita santamente vissuta su questa terra il supremo premio della propria elezione, per poi essere radunati dai quattro angoli della terra e vedere per sempre la luce del Volto di Dio, le cui parole eterne non passeranno mai: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» [Mc 13, 31].

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Laparusia, chiusa quindi nel segreto cuore di Dio Padre, null’altro è che la morte del tempo e la proiezione nell’Eterno Assoluto, dopo che il Divino Giudice, tornato nella gloria, avrà giudicati i vivi e i morti. E questa, ripeto, non è una metafora né un’allegoria poetica — come purtroppo non pochi affermano e insegnano —, ma è una verità assoluta della nostra Santa Fede.

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dall’Isola di Patmos, 18 novembre 2018

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Gabriele Giordano M. Scardocci
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Gabriele

Dalle partite di calcio al Santo Vangelo: il comandamento più difficile è quello di amare i propri nemici

catechesi & pastorale —

DALLE PARTITE DI CALCIO AL SANTO VANGELO: IL COMANDAMENTO PIÙ DIFFICILE È QUELLO DI AMARE I PROPRI NEMICI

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I nemici che dobbiamo amare, possono essere i terroristi dell’Isis, i massoni, i mafiosi o i falsi progressisti. Tanto per citarne qualcuno. Un nemico che è una persona ma che sprigiona una violenza, ideologica e fisica, contro il nostro essere fedeli alla Chiesa di Gesù Cristo.

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Autore
Gabriele Giordano Scardocci, O.P.

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tefferugli degli hooligans

Nel Vangelo di San Matteo troviamo il celebre monito che ci esorta ad amare i nostri nemici:

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«… avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» [Mt 5, 43-48].

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Prima di diventare frate ho sempre avuto diversi hobby di natura artistica e sportiva. Da sempre ho amato il calcio e l’ho anche praticato fino a quando non sono entrato nell’Ordine dei Predicatori. Ricordo un episodio legato al mondo del calcio, che mi ha molto stupito. Avvenne durante una partita di un campionato di Serie B.

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Le tifoserie di Ternana e Perugia, data la vicinanza geografica, ordinariamente non si amano. Quando le loro squadre si incontrano, i rispettivi supporters generano sempre incidenti e tafferugli e c’è bisogno delle forze dell’ordine per evitare il peggio. Durante una di queste partite, ci furono degli scontri. Un tifoso perugino si trovò riverso a terra, pronto per essere linciato dagli avversari. Ma in quel momento giunse una ragazza ternana che lo abbracciò e gli mise al collo una sciarpa della propria squadra. In questo modo, salvò l’avversario dal prendere tante botte. Non si seppero mai i nomi dei protagonisti di questa storia. Eppure, questo episodio, mi portò a riflettere sul tema dell’amore dei nemici.

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Anche il brano che ho scelto di meditare oggi su L’Isola di Patmos torna su questo tema: Amate i vostri nemici! Per me, esso rappresenta il nucleo centrale del messaggio di Gesù sull’amore. La richiesta che il Signore esprime nei confronti dei suoi ascoltatori sembra veramente impossibile. Infatti, il greco evangelico esprime questo amore con ἀγάπαω [agapao], che assurge a verbo tipico dell’amore del Cristianesimo. Un amore, cioè, che porta a donare tutto sé stesso al servizio del prossimo.

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In questo passaggio del Vangelo di San Matteo, la agapé [ἀγάπη] è portata alle sue massime conseguenze. Occorre però stare attenti alla distinzione che il Nuovo Testamento pone nei confronti del termine nemico. C’è infatti il temibile Nemico di cui parla San Paolo: il Diavolo. Vari sono i riferimenti che San Paolo fa al Diavolo, uno di questi in una delle lettere indirizzata al discepolo Timoteo, proprio laddove illustra quelli che devono essere i requisiti del vescovo [cf. I Tm 3,6].

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È impossibile pregare e donarsi per il Diavolo. Gesù non chiede di donarci per lui. Il Diavolo sin dal momento della sua creazione ha fatto una professione eterna di disobbedienza a Dio ed a tutto il creato. Stupende sono le parole del Faust di Marlowe, in cui Mefistofele, un diavolo, afferma:

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«Sono lo spirito che nega continuamente: ho ragione; perché quello che sussiste è degno di essere distrutto: e sarebbe stato pur meglio che nessuna cosa fosse mai uscita ad esistenza. Or dunque tutto ciò che voi uomini dite peccato, distruzione, quel che in somma chiamate male, è mio  elemento speciale».

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Il Diavolo odia profondamente e continua a odiare in primo luogo tutto il creato. E in primo luogo noi, religiosi. Ci odia perché vede nella nostra professione d’obbedienza a Dio una opposizione diretta a lui. Il Diavolo, che è il grande divisore, continua e continuerà a istigare le sue suggestioni degeneri: il relativismo, i totalitarismi, il modernismo, il falso progressismo … tanto per citarne alcuni. Ma, accanto al Diavolo, vi sono altri nemici: gli uomini. A questi uomini-nemici si riferisce il Signore quando ci chiede di amarli. Così, se si decide di amare, occorre amare tutta l’umanità.

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L’amore che Cristo chiede a noi, sua Chiesa, è un amore universale. Non è quindi un caso se la Chiesa di Cristo si chiama Chiesa Cattolica, ossia: universale. Ricordiamo per inciso che il termine “cattolica” deriva dal greco κατα ολων [kata olon], una categoria neoplatonica del filosofo Plotino che con essa indica «secondo il tutto». Questa definizione non era di tipo spaziale-geografico ma di tipo qualitativo. Infatti, per i primi grandi Padri della Chiesa, essere o divenire cattolici voleva dire che «nulla è umano».

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Nella dimensione cristiano cattolica è quindi necessario amare i propri nemici ed essere al di sopra di una delle mode del tempo attuale: la moda della vendetta. O anche un’altra delle mode che purtroppo ha infettato alcuni cattolici che si riferiscono di altri cattolici come nemici usando verso di questi espressioni come «li aspettiamo al varco, preghiamo Dio che muoiano presto» e “delicatezze” simili … 

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Siamo nella Chiesa Cattolica o nel Colosseo come gladiatori? È forse questo l’atteggiamento che Gesù ci ha chiesto e continua a chiederci di avere? Pertanto, i nemici che dobbiamo amare, possono essere i guerriglieri dell’Isis, i massoni, i mafiosi o i falsi progressisti. Tanto per citarne qualcuno. Un nemico che è una persona ma che sprigiona una violenza, ideologica e fisica, contro il nostro essere fedeli alla Chiesa di Gesù Cristo.

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Com’è possibile amarli? Solo con uno sguardo sub specie aeternitatis è possibile cogliere con pienezza l’insegnamento di Cristo. Gesù ci dice amate i vostri nemici e sarete figli di Dio, e sarete perfetti.

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Nella nostra offerta incessante di preghiera per loro, proveremo a convertirli, a renderci figli di Dio per loro. Figli di Dio per quelli che ci odiano. Essere perfetti come il Padre nostro nei cieli, implica mostrare Dio sul proprio volto al nemico, come stanno facendo i martiri di oggi. Allo stesso tempo significa accogliere ciò che Dio sta permettendo nell’azione del nostro nemico. Basti pensare agli effetti cruenti della Passione. I centurioni provocano violenza e morte su Gesù. Gesù lo permette e allo stesso tempo si dona a loro. L’effetto è la stessa redenzione di quei romani pagani.

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Se davvero allora vogliamo essere, con la grazia di Dio, suoi consacrati, ed un giorno futuri sacerdoti, non possiamo esimerci dal comandamento dell’amore per i nemici. Davvero allora saremo sale della terra [cf. Mt 5, 13-16] ogni atto di inimicizia si schiuderà in un’unica preghiera universale verso il Dio morto sulla croce per amore.

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È nella nostra essenza di frati domenicani, essere infine croce da cui sgorga amore. Altrimenti, la prostrazione a croce che abbiamo fatto il giorno della nostra professione, rischia di essere solamente un’azione teatrale. Uno splendido atto scenico. Saremo stati perfetti attori, che detta in greco equivale a perfetti ipocriti [dal greco ὑποκριτής, hypokritēs, deriva la parola attore].

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A ognuno di noi sta di scegliere se aver professato da hypokritēs o da veri figli di Dio e, per quanto mi riguarda, da figli di San Domenico, consacrati per Cristo nei diversi stati di vita.

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 Gesù dolce, Gesù amore! [cf. Santa Caterina da Siena]

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Roma, 17 novembre 2018

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Cambia il Padre Nostro per volere del Sommo Pontefice, mentre c’è chi prega che il Padre Nostro cambi lo stile di governo del Sommo Pontefice

— attualità ecclesiale —

CAMBIA IL PADRE NOSTRO PER VOLERE DEL SOMMO PONTEFICE, MENTRE C’È CHI PREGA CHE IL PADRE NOSTRO CAMBI LO STILE DI GOVERNO DEL SOMMO PONTEFICE

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Dinanzi ad una decadenza morale e dottrinale senza precedenti come quella che stiamo vivendo, pare che qualcuno non abbia trovato di meglio da fare che usare una parola del Pater Noster e l’apertura del Gloria come delle armi di dissuasione di massa …

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo

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PDF  articolo formato stampa
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…merita sempre avere un buon dizionario

La Conferenza Episcopale Italiana ha stabilito — ovviamente nella piena, totale, collegiale e sinodale libertà dei figli di Dio —, la modifica della Preghiera del Padre Nostro nella nuova edizione del Messale Romano [cf. QUI], dove la frase «non indurci in tentazione» diventa «non abbandonarci alla tentazione». Volendo, avrebbero potuto usare l’espressione «e non esporci alla tentazione», però, alla “esposizione” in uso presso le Comunità Evangeliche Valdesi, hanno preferito una espressione di “abbandono”, forse valutando che mai, come in questa nostra epoca, ci siamo abbandonati a noi stessi. La sostanza resta però la stessa: i Cattolici, come i Protestanti, hanno mutata un’espressione che affonda le proprie radici nei testi più antichi, come tra poco vedremo. E i primi, come i secondi, hanno entrambi rivendicato: il ritorno alle autentiche origini dei testi.

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Il Padre della Chiesa Tertulliano [Cartagine 155 – Cartagine 227], spiega che il Padre Nostro, la Preghiera che il Verbo di Dio stesso ci ha insegnato [cf. Mt 11, 1] «è la sintesi di tutto il Vangelo». Questa affermazione dovrebbe indurre quanto meno all’uso della totale cautela nel toccare anche un solo sospiro di questo testo.

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Per quanto riguarda la frase “incriminata” che recita: «et ne nos inducas in tentationem» [e non ci indurre in tentazione], nel discorso n. 57 dedicato al Passo del Beato Evangelista Matteo [cf. Mt 6, 9-13], il Santo Dottore della Chiesa Agostino Vescovo d’Ippona è molto chiaro ed esaustivo nello spiegare che Dio non può compiere il male, però permette che esso operi attraverso Satana e con lui gli Angeli caduti che lo realizzano. Certo, Dio non tenta nessuno verso il peccato, però permette che le forze del male inducano i cristiani a cadere in esso. Tutto questo, è racchiuso nel principio stesso della creazione, presupposto fondante della quale sono la libertà ed il libero arbitrio dell’uomo. Altrettanto illuminante commento al Pater Noster ed alla frase “incriminata” ci è stato donato dal Santo Dottore della Chiesa Tommaso d’Aquino, che ricalcando in buona parte l’Ipponate afferma: 

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«Dio induce forse al male, quando ci fa dire “non ci indurre in tentazione”? Rispondi che si dice che Dio induce al male nel senso che Egli lo permette, giacché a causa dei suoi numerosi peccati precedenti sottrae l’uomo alla grazia, venuta meno la quale cade nel peccato» [ San Tommaso d’Aquino, Commento al Padre nostro, 6].

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…merita sempre avere un buon dizionario

Prima dell’Ipponate e dell’Aquinate, un altro Padre della Chiesa, il Santo Vescovo Cipriano di Cartagine [Cartagine 210 – Cartagine 258], spiega che Dio può dare il potere al Demonio in due modi: per il nostro castigo, se abbiamo peccato, oppure per la nostra glorificazione, se invece accettiamo la prova. E questo, spiega il Santo Vescovo e Dottore [cf. Patrologia latina del Migne – Vol. IV Cyprianus carthaginensis De oratione dominica], fu ad esempio il caso di Giobbe: «Ecco, tutto quanto gli appartiene io te lo consegno; solo non portare la mano su di lui» [Gb 12, 1]. Il Signore stesso, nel momento della sua passione, dice: «Non avresti su di me nessun potere se non ti fosse stato dato dall’alto» [cf. Gv 19, 11]. Quando dunque preghiamo per non entrare in tentazione, ci ricordiamo della nostra debolezza, affinché nessuno si consideri con compiacenza, nessuno si inorgoglisca con insolenza, nessuno si attribuisca la gloria della sua fedeltà o della sua passione, allorché il Signore stesso ci insegna l’umiltà quando dice: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è ardente, ma la carne è debole» [Mc 14, 38].

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Un altro grande Padre della Chiesa, Origene [Alessandria 185 – Tiro 254], per commentare il «et ne nos inducas in tentazionem» parte dal Beato Apostolo Paolo che scrivendo agli abitanti di Corinto afferma:

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«Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» [ I Cor 10, 13].

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Chiarisce così Origene:

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«Che significa dunque il comando del Salvatore di pregare a non indurci in tentazione, dal momento che Dio stesso quasi ci tenta? Dice infatti Giuditta, rivolgendosi non soltanto agli anziani del suo popolo, ma a tutti quelli che avrebbero letto queste parole: “Ricordatevi di quanto operò con Abramo e quanto tentò Isacco e tutto quello che accadde a Giacobbe che pasceva in Mesopotamia di Siria il gregge di Laban, fratello di sua madre; poiché non come purificò costoro per provare il loro cuore, Colui — il Signore — che flagella per emendarli quelli che gli si avvicinano, castigherà anche noi”. Anche Davide, quando dice: “Molte sono le afflizioni dei giusti”, conferma che questo è vero per tutti i giusti. L’Apostolo, a sua volta, negli Atti dice “perché attraverso molte tribolazioni dobbiamo entrare nel regno di Dio” [At 14, 22]» [Origene, Commento al Padre Nostro].

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Non è comunque da escludere che in un vicino futuro, una squadra di esegeti provveda quanto prima a cambiare anche la pagina del Vangelo del Beato Evangelista Matteo che narra del Demonio che tenta l’uomo Gesù nel deserto [cf. Mt 4, 1-11], dove il Divino Figlio non si è rivolto al Divino Padre domandando: «E non abbandonarmi alla tentazione», posto che il Creatore permise che Satana lo inducesse in tentazione.

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Dovranno poi intervenire i biblisti per riscrivere e attualizzare anche vari passi biblici secondo le direttiva della nuova gestione e secondo la «rivoluzione epocale» in corso, visto che Dio ci mette alla prova e ci rafforza permettendo che noi fossimo tentati. Non possiamo infatti dimenticare che l’uomo è immerso nelle tentazioni sin dalla sua caduta con la conseguente entrata nella scena del mondo e dell’umanità del peccato originale. Leggiamo infatti nei testi vetero testamentari: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione» [Sir 2,1]. Ma soprattutto è bene ricordare che la Chiesa, in documenti non certo sospetti, giacché si tratta di una delle costituzioni del Concilio Vaticano II, da molti ritenuto il concilio dei concili, ricorda che la tentazione è legata al valore di quella libertà che nell’uomo è il «segno altissimo dell’immagine divina» [Gaudium et spes, 8].

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Un altro testo da correggere è sicuramente quello della Lettera agli Ebrei laddove l’Autore, riprendendo la letteratura dei Salmi, spiega in che modo gli stessi uomini osarono di tentare Dio:

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non indurite i vostri cuori
come nel giorno della ribellione,
il giorno della tentazione nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri mettendomi alla prova,
pur avendo visto per quarant’anni le mie opere [Eb 3, 8-9].

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Proviamo allora ad andare alla fonti più antiche, perché da mezzo secolo a questa parte siamo spettatori e vittime delle gesta e delle varie «rivoluzioni» di coloro che vogliono tornare alle origini. Più volte ho spiegato nei miei scritti che certi teologi, col pretesto di origini che in verità non sono mai esistite nella storia antica, vogliono invece imporre il proprio pensiero moderno. Ma se di origini vogliamo parlare, allora basterà dire che la Preghiera del Padre Nostro, nell’antico ed originario testo aramaico, recita:

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La frase “incriminata” proclama alla lettera testuali parole: «e non portarci in tentazione».

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Quando dall’originale testo il Pater Noster fu tradotto dall’aramaico al greco, per evitare di caricare la frase con una lunga perifrasi è usato soltanto un verbo che significa “indurre” o “far entrare”:

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E se il greco non è un’opinione, la frase “incriminata” tradotta alla lettera recita proprio: «Non ci indurre in tentazione». Da questi due testi nasce la terza traduzione, quella latina, del tutto aderente e fedele al testo originale greco:

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Pater Noster qui es in cælis: 

sanctificetur nomen tuum;

adveniat regnum tuum;

fiat voluntas tua, 

sicut in cælo, et in terra.

Panem nostrum cotidianum da nobis hodie;

et dimítte nobis debita nostra, 

sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;

et ne nos inducas in tentationem,

sed libera nos a malo.

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Agli amanti dei ritorni alle origini va ricordato che la frase “incriminata” «Non ci indurre in tentazione», deriva dal greco εἰσενέγκῃς, da cui la fedele traduzione latina inducas, che nella lingua italiana è altrettanto fedelmente tradotta con indurre. Detto questo è d’obbligo e di rigore chiedersi: si rendono conto gli amanti del ritorno alle autentiche origini, che, stando così le cose, questo “errore” oggi finalmente corretto, risale ai tempi delle prima epoca apostolica?

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Se i testi patristici conosciuti da secoli sono quelli tutt’oggi noti, se le lingue antiche e le loro traduzioni fedeli sono quelle che sono, ecco allora che ciascuno, senza essere indotto ad alcuna tentazione, può trarre da se stesso le proprie conclusioni, dato che in nome di un non meglio precisato ritorno alle origini si è alterato quell’originale che è tale sin dalle aramaiche e greche origini più remote, ed è tale prima del latino e molto prima delle attuali lingue moderne.

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Il problema che forse si cela dietro a questa ennesima querelle, temo che abbia poco di teologico e molto di socio-politico, il tutto con delle strategie più o meno limpide. O per meglio spiegare il problema: la Chiesa Cattolica sta vivendo il periodo forse più tragico della propria intera storia. Siamo in un clima di grande decadenza dottrinale dal quale ha preso vita una profonda crisi morale, perché la crisi morale, nella Chiesa nasce sempre da una crisi dottrinale. Non occorre ricordare che ormai non passa giorno, senza che qualche vescovo o prete non salti agli onori delle cronache per scandali quasi sempre molto gravi. La decadenza e la crisi morale, dal Collegio Sacerdotale ha finito per infettare il Collegio Episcopale, ed appresso il Collegio Cardinalizio. La nostra crisi di credibilità spazia ormai tra il tragico ed il comico-grottesco. È quindi singolare che in un momento senza precedenti storici come quello che stiamo vivendo, non si trovi di meglio da fare che ritoccare le parole del Pater Noster e del Gloria.

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Questa vicenda ricorda la storia del dittatore Saddam Hussein accusato di nascondere arsenali d’armi di distruzione di massa. Quelle armi non furono mai trovate, però, con tutte le implicazioni politico-economiche che ne seguirono, si sono avute due guerre nel Golfo che hanno destabilizzato gli assetti politici ed economici. Così, poco dopo, si cominciò a parlare di … armi di dissuasione di massa.

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Dinanzi ad una decadenza morale e dottrinale senza precedenti come quella che stiamo vivendo, pare che taluni non abbiano trovato di meglio da fare che usare una parola del Pater Noster e l’apertura del Gloria come delle armi di dissuasione di massa, convinti e sicuri che nessuno avrebbe mai capito e scoperto il loro gioco …

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καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν

et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo.

E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.

Amen !

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dall’Isola di Patmos, 16 novembre 2018

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Una spiegazione al «non ci indurre in tentazione» del teologo domenicano Giuseppe Barzaghi [per aprire il video cliccare sopra l’immagine]

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Giovanni Cavalcoli
Dell'Ordine dei Frati Predicatori
Presbitero e Teologo

( Cliccare sul nome per leggere tutti i suoi articoli )
Padre Giovanni

Riflessione sull’onestà morale del linguaggio: la Chiesa ha da sempre una propria lingua chiara e precisa

RIFLESSIONE SULL’ONESTÀ MORALE DEL LINGUAGGIO: LA CHIESA HA DA SEMPRE UNA PROPRIA LINGUA CHIARA E PRECISA

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La Chiesa, con lavorìo di secoli, grazie alle opere della teologia scolastica che hanno approfondito la dottrina della fede, ha elaborato un vocabolario tecnico della teologia e della dottrina cattolica, confluito in alcune delle formule dogmatiche. Questo vocabolario, per la sua perfezione, perspicuità e precisione, in linea di massima non conviene mutarlo.

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Autore
Giovanni Cavalcoli, O.P.

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PDF  articolo formato stampa

 

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immagini, comunicazione e linguaggio …

La Chiesa è una societas che ha un suo preciso linguaggio. Il linguaggio è questione molto delicata che impegna in modo serissimo il prestigio, l’onestà e la credibilità dei pastori, dei teologi e dei predicatori del Vangelo. Quando infatti si tratta della Parola di Dio, della Scrittura, della Tradizione, del dogma, della dottrina, della predicazione, della cultura cattolica, della formazione, dell’opera evangelizzatrice e missionaria, della pratica sacramentaria e liturgica, dell’esegesi biblica, della critica teologica e della formazione morale e teologica del clero, in gioco è la salus animarum, pertanto è sacro dovere di usare un linguaggio assolutamente chiaro, limpido e onesto, tale da evitare strumentalizzazioni, equivoci o fraintendimenti, un linguaggio esente da qualunque piaggeria o compromissione nei confronti del linguaggio mondano. 

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Con tutto ciò non si può di certo evitare il problema ermeneutico, se è vero che esso si pone anche per interpretare le stesse parole luminose e misteriose di Cristo, Luce del mondo. Ma ecco che qui è essenziale l’opera del Magistero, col suo proprio linguaggio. A tal riguardo è quindi da deplorare la banalizzazione, per non dire la corruzione di questo linguaggio in documenti attuali della Chiesa a causa dell’inserimento scriteriato nel linguaggio ecclesiale, nell’ambito della dottrina e della pastorale, di parole ad esso estranee, tratte dalla mentalità mondana,  quindi fuorvianti, o quanto meno ambigue ed improprie.

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Si tratta di un fraintendimento del rinnovamento del linguaggio ecclesiale promosso dal Concilio Vaticano II. Ciò precisando che il Concilio si fece giustamente promotore di un aggiornamento ed ammodernamento del linguaggio ecclesiale, al fine di renderlo più comprensibile e più attraente per gli uomini del nostro tempo, onde veicolare più efficacemente le immutabili verità della fede e renderle più credibili, superando e abbandonando certe espressioni, formule, linguaggi e modi dire ritenuti sorpassati e antiquati, o non più comprensibili o accettabili dall’uomo d’oggi. Lo stesso linguaggio del Concilio è ispirato a questo principio e si sforza di metterlo in pratica. Così molte espressioni nuove, prese dal linguaggio corrente moderno, sono indubbiamente indovinate ed hanno avuto un meritato successo.

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Occorre però tener presente che un linguaggio può essere più o meno perfetto, più o meno appropriato, più o meno adatto ad esprimere ciò che si deve comunicare. La Chiesa, con lavorìo di secoli, grazie alle opere della teologia scolastica che hanno approfondito la dottrina della fede, ha elaborato un vocabolario tecnico della teologia e della dottrina cattolica, confluito in alcune delle formule dogmatiche. Questo vocabolario, per la sua perfezione, perspicuità e precisione, in linea di massima non conviene mutarlo, se non con somma prudenza e per gravi motivi, evitando col pretesto di facilitare la comprensione del contenuto di fede, riconoscendo comunque che tutto sommato, i modi del linguaggio, non sono immutabili, ma evolvono per vari motivi culturali, sociali e psicologici nel corso della storia.

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Purtroppo, a un certo punto si è verificato un grave equivoco che, col pretesto di mutare ed aggiornare il linguaggio, si è finito in molti casi per mutare e deformare o abolire certi concetti della fede, cadendo in quello che fu già l’errore modernista condannato dal Santo Pontefice Pio X. Caso noto ed esemplare di questo equivoco è la posizione di Edward Schillebeeckx [1], il quale confonde il concetto di fede col linguaggio, sicché, mutando il linguaggio, viene a mutare il concetto.

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Edward Schillebeeckx ha ragione nel sostenere che il dato di fede si può concepire ed esprimere in diversi tipi di linguaggio e secondo diversi «modelli interpretativi» e che una data formula dogmatica divenuta meno espressiva, può essere in  qualche modo mutata, al fine di esprimere meglio il medesimo dato di fede in quel dato tempo e in quella data cultura. Ma il guaio è che per Schillebeeckx il dato rivelato o di fede non è contenuto nel concetto dogmatico, che per lui è mutevole e relativo, ma in una cosiddetta «esperienza atematica pre-concettuale», della quale il concetto dogmatico non sarebbe che un’opinabile, passeggera e soggettiva interpretazione, fosse pure la dottrina della Chiesa.

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L’errore di Schillebeeckx è quello di credere che il concetto sia una forma di linguaggio, per cui, come si può significare una medesima cosa con linguaggi diversi, egli crede che sia possibile e doveroso significare il medesimo dato rivelato o mistero di fede con concetti diversi. Ma questo è falso, perché ogni concetto rappresenta quella data cosa e ad un cosa corrisponde solo il suo concetto, per cui, cambiando il concetto, la  cosa non può essere stessa, ma cambia.

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Ma veniamo alla proposta del Concilio, che prescrive sì un nuovo linguaggio per esprimere e spiegare le medesime immutabili verità di fede, ma non muta i concetti della fede, che possono continuare ad essere espressi in concetti scolastici, come avevano fatto i Concili precedenti. Il Concilio, pertanto, usa un linguaggio moderno; ma è chiaro che nel sottofondo c’è il tradizionale linguaggio scolastico, che ogni tanto emerge, tanto che il Concilio arriva addirittura a raccomandare, com’è noto, il pensiero di San Tommaso d’Aquino.

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Il Concilio propone quindi un linguaggio che sintetizza quello scolastico con quello moderno. Raccoglie i vantaggi che provengono dall’uno e dall’altro: l’autorevolezza, la dignità, la formalità, l’esattezza, la precisione, la specificità e la sottigliezza del linguaggio scolastico e l’odierna comprensibilità; la popolarità, la facilità, l’immediatezza, la duttilità, l’efficacia e la pastoralità del linguaggio moderno.

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Il compito che oggi si impone alla predicazione ecclesiale è quello di mantenere questo metodo proposto dal Concilio, senza cedere: da una parte, alla tentazione di tornare ad uno scolasticismo inutilmente sottile e lontano dal modo di pensare e di esprimersi del nostro tempo; dall’altra, senza cedere alla tentazione di abbandonare la Scolastica, lasciandosi infettare da quei modi espressivi moderni che risentono degli errori della modernità, o meglio del Modernismo.

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Il buon pastore si sforza da una parte di rendersi comprensibile al popolo con modi espressivi a lui familiari ed esempi adatti ai contenuti di fede da trasmettere, mentre si prende cura di educare il popolo alla comprensione ed alla familiarità con quei termini scolastici che maggiormente la Chiesa usa per la spiegazione del dogma e della Parola di Dio.

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Varazze, 11 novembre 2018

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NOTE

[1] Cf il mio articolo Il criterio di verità in Schillebeeckx, in Sacra Doctrina, 2, 1984, pp.188-205; Voce EDWARD SCHILLEBEECKX, nel DIZIONARIO ELEMENTARE DEL PENSIERO PERICOLOSO, Istituto di Apologetica, Milano, 2016; EDWARD SCHILLEBEECKX. UN CONFRATELLO ACCUSA, Edizioni Chorabooks di Aurelio Porfiri, Hong Kong 2016.

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L’obolo della povera vedova che offre le due sole monete che ha, predicato ai preti ed ai loro vescovi, ma anche a certi nostri fedeli avari

L’Angolo di Girolamo Savonarola: omiletica cattolica in tempi di vacche magre

L’OBOLO DELLA POVERA VEDOVA CHE OFFRE LE DUE SOLO MONETE CHE HA, PREDICATO AI PRETI ED AI LORO VESCOVI, MA ANCHE A CERTI NOSTRI FEDELI AVARI

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Quante volte, a disonore della Chiesa e con grave scandalo per il Popolo di Dio — agli occhi del quale certe cose non sfuggono mai — è capitato di assistere alle vicende di alcuni preti entrati poverissimi dentro i seminari, mantenuti agli studi di formazione al sacerdozio dal buon cuore di qualche benefattore o dalle premure della diocesi, che alla loro morte hanno lasciato cospicue eredità ai loro amati nipoti, non però un solo centesimo alla Chiesa, il tutto dopo avere vissuto una vita improntata sulla cupidigia e sull’avarizia?

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Autore
Ariel S. Levi di Gualdo.

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dal Santo Vangelo di questa domenica: L’obolo della povera vedova

In questa XXXII domenica del tempo ordinario s’è proclamata l’incisiva pagina del Santo Vangelo narrante l’episodio della Povera Vedova che getta nel tesoro del tempio le due sole monete che possiede [cf. Mc 12, 38-44. Testo della Liturgia della Parola, QUI]. Questo testo ci pone dinanzi una realtà difficile da sfuggire con voli pindarici, perché se la concretezza del gesto della Povera Vedova è disarmante, il monito in esso racchiuso non è poco severo: le due monete rappresentano il senso della totalità. Offrire a Dio tutto il nostro essere senza risparmio e paura, nella certezza di fede del nostro divenire futuro tutto racchiuso nel mistero del Cristo Dio. E noi presbìteri, quando durante il rito della sacra ordinazione abbiamo detto «eccomi!» e poco dopo siamo stati consacrati sacerdoti, a nostro modo ci siamo trasformati nelle due monete della Povera Vedova, gettandoci nel tesoro di Cristo Dio, che ha depositato e impresso in noi il grande tesoro di quel dono che ci ha segnati con un carattere indelebile ed eterno: il sacerdozio ministeriale.

Nella parte finale di questo Santo Vangelo Cristo Signore dice …

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«In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» [Mt 12, 44].

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In questo monito è racchiuso il richiamo severo alla nostra profonda responsabilità. Noi uomini chiamati a servire la Chiesa tramite il sacro ordine sacerdotale che ci rende indegni partecipi del sacerdozio ministeriale di Cristo, siamo responsabili di questa duplice ricchezza: della fede della povera vedova e del denaro della povera vedova. Ogni cosa che viene offerta per Dio deve essere infatti impiegata per Dio, a servizio di Dio ed a gloria di Dio. Tutto ciò che in ricchezza di doni abbiamo avuto dalla Chiesa e per la Chiesa, alla nostra morte deve tornare moltiplicato alla Chiesa, come ci insegna la celebre parabola dei talenti [cf. Mt 23, 14-30].

Seguendo le orme della divina scorrettezza di Cristo, senza falsi pudori o penosi nascondimenti, desidero porre un quesito alla mia coscienza di prete: in che modo noi vediamo talvolta amministrare questi due tesori, il patrimonio della fede e i doni materiali che ci vengono dalle membra vive del Popolo di Dio? Oggi che si parla tanto di Misericordia, dovremmo essere più che mai consapevoli in che misura la ricchezza della fede si regga o cada tutta sull’esempio. Dunque ogni giorno dovremmo interrogarci: quale esempio diamo al Popolo di Dio per indurlo a mantenere, a sviluppare ed a diffondere la ricchezza della fede?

A questo primo quesito dovrebbe seguirne un secondo non meno doloroso: in una società dove sempre più famiglie stentano ad arrivare alla fine del mese, come sono ripartite le ricchezze all’interno della Chiesa? Con quale oculata ed equa ripartizione queste sostanze sono usate per il più alto decoro della Casa del Signore, per il decoroso sostentamento dei suoi fedeli ministri, per il sostegno dei poveri e dei bisognosi?

Quante volte, nello svolgimento del mio ministero sacerdotale in varie parti d’Italia, mi è capitato di entrare in sacrestie puzzolenti, di estrarre da armadi tarlati e mezzi marci dei camici ingialliti dallo sporco, dei paramenti sacri maleodoranti, oppure essere costretto a deporre il prezioso sangue di Cristo dentro calici non giovabili corrosi al loro interno? E quante volte mi è accaduto poi di passare da queste sacrestie all’abitazione privata del mio confratello e di vedere al suo interno strumenti elettronici di ultima generazione, maxi schermi televisivi altamente costosi … per non parlare della cura maniacale con la quale il confratello teneva pulita la propria automobile, ricolma di accessori tanto inutili quanto costosi? Anch’io tengo sempre pulita la mia automobile, che non è un’utilitaria ma è un’automobile di media cilindrata sufficientemente costosa, la quale non costituisce né un capriccio né un lusso ma una necessità per i miei lunghi e frequenti viaggi, spesso effettuati anche in stato di maltempo e soprattutto per tragitti di centinaia di chilometri. Però, prima dell’automobile, che va di certo ben conservata, io tengo pulito il Tabernacolo del Santissimo Sacramento. Più volte mi è infatti capitato di trovare dentro qualche tabernacolo della polvere e del grasso incrostato, persino una mosca morta dentro la pisside.

Quante volte, a disonore della Chiesa e con grave scandalo per il Popolo di Dio — agli occhi del quale certe cose non sfuggono mai — è capitato di assistere alle vicende di alcuni preti entrati poverissimi dentro i seminari, mantenuti agli studi di formazione al sacerdozio dal buon cuore di qualche benefattore o dalle premure della diocesi, che alla loro morte hanno lasciato cospicue eredità ai loro amati nipoti, non però un solo centesimo alla Chiesa, il tutto dopo avere vissuto una vita improntata sulla cupidigia e sull’avarizia?

A rendere più grave il tutto, è che mentre costoro accumulavano tesori destinati non alla Chiesa, non alla Casa di Dio, non ai poveri e ai bisognosi del suo Popolo Santo … altri loro confratelli inseriti in contesti ecclesiali e pastorali meno felici — o se preferiamo molto meno redditizi — dovevano battere cassa presso i propri familiari, perché non ce la facevano ad andare avanti, perché non avevano soldi per mettere la benzina dentro il serbatoio dell’automobile per andare a prestare i loro servizi pastorali, perché non avevano soldi per comprarsi un cappotto pesante che li riparasse dal freddo invernale.

A conclusione di questo penoso discorso che ritengo però abbia una sua precisa utilità nell’economia della salvezza, vorrei invitarvi alla lettura di un’Enciclica scritta nell’anno 1935 dal Sommo Pontefice Pio XI, Ad Chatolici Sacerdotii, nella quale il Santo Padre non esita a puntare il dito su certi malcostumi del clero di ieri e di oggi, andando alla radice dei potenziali problemi che bisognerebbe sempre evitati a monte, ma soprattutto offrendo soluzioni. A tal scopo, egli invita i formatori dei candidati al sacerdozio a capire e percepire anzitutto che cos’è la vera misericordia e come essa opera. Scrive in quell’enciclica Pio XI al paragrafo dedicato alla scelta dei candidati al sacerdozio:

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«Correggere l’errore quando lo si avverte, senza umani riguardi, senza quella falsa misericordia che diventerebbe una vera crudeltà, non solo verso la Chiesa, a cui si darebbe un ministro o inetto o indegno, ma anche verso il giovane stesso che, sospinto così sopra una falsa via, si troverebbe esposto ad essere pietra d’inciampo a sé e agli altri, con pericolo di eterna rovina  […]. Per ottenere che gli altri abbraccino il Vangelo, l’argomento più accessibile e più persuasivo è il vedere quella legge attuata nella vita di chi ne predica l’osservanza» [testo integrale, QUI].

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Questo il messaggio, ed in parte l’amorevole dramma che si cela dietro alle due monete della povera vedova. Sulle quali può nascere o sulle quali può morire la fede del Popolo di Dio e la credibilità verso i suoi sacerdoti chiamati a servire la Chiesa, non certo a servirsi della Chiesa. Questo è l’imbarazzo e la provocazione con la quale Gesù Cristo Figlio di Dio e Dio fatto uomo sfida la nostra indifferenza e il nostro torpore, chiedendoci oggi più che mai di annunciare ciò che è stato detto sulle righe e oltre le righe del suo Santo Vangelo, non ciò che di comodo e di de-responsabilizzante spesso noi interpretiamo, al triste e nefasto fine di eluderne la verità, sino ad omettere di guidare gli uomini a conoscere quella verità che ci farà liberi [cf. Gv 8, 32].

I due soldi della povera vedova hanno una profonda valenza teologica: rappresentano e manifestano il mistero della fede e l’azione di grazia di Dio sull’uomo che, accolta liberamente la grazia, risponde donando tutto se stesso senza alcun risparmio, affinché gli uomini possano entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Non ci si serve della Chiesa di Dio e tanto meno dell’ obolo della povera vedova per arricchire noi stessi o le nostre fameliche consorterie. La Chiesa si serve per arricchire l’umanità intera, dopo essersi fatti poveri in spirito [cf. Mt 5, 3] per divenire beati e per guadagnare la ricchezza eterna del Regno dei Cieli, consapevoli che Cristo ci ha chiamati a sé e istituiti per sacramento di grazia «Pescatori di uomini» [cf. Mt 4, 19], forniti di tutti i migliori mezzi affinché la nostra, come la sua, possa essere una pesca miracolosa.

Detto questo resti però chiaro il fatto che allo stesso tempo non è ammissibile neppure la mancanza di sensibilità e di generosità da parte di molti nostri fedeli, perché l’esempio della Povera Vedova applicato ai preti, lo dobbiamo applicare anche a quei numerosi fedeli che fin quando hanno da chiedere e da pretendere per tutti i loro bisogni umani, morali e spirituali, non esitano a gettare il prete giù dal letto anche alle due della notte, ma quando poi il prete deve pagare il riscaldamento o la bolletta della luce della chiesa parrocchiale e dei locali destinati alle attività pastorali e caritative, ecco che cadendo dal settimo cielo non pochi replicano: «Ma come, voi non avete il Vaticano … la Banca Vaticana?». E poi c’è lo Stato, c’è la Regione, c’è il Comune … insomma, ci sono tanti, ci sono tutti, fuorché lui, il fedele avaro, che fin quando ha da prendere, allora prende, però, se deve dare, allora indica l’esistenza di altri, ma soprattutto i portafogli altrui …

Questo per dire che le monete della Povera Vedova hanno un diritto e un rovescio: uno per certi preti — di cui noi per primi riconosciamo senza alcun problema limiti, debolezze, avidità e avarizie —, l’altro per quei nostri fedeli che hanno solo le mani per prendere, mai per dare, scaricando su altri la responsabilità per il mantenimento del decoro della Casa del Signore e delle strutture sociali, giovanili, caritative, assistenziali e via dicendo.

Uno dei miei formatori, con la saggezza tutta quanta tipica degli anziani mi disse un giorno: è vero, certi sacerdoti possono dare l’impressione di essere avari, o attaccati ai soldi, ma dietro quell’apparente attaccamento, che in realtà non è poi tale, si celano in verità tutt’altre paure: la paura di rimanere soli e abbandonati nella vecchiaia. Spesso, molti di questi sacerdoti, sono rimasti molto toccati — quando ancora non erano anziani — da casi di sacerdoti morti soli e ammalati. Detto questo, sempre il mio anziano formatore, seguitando a parlare delle paure dei preti anziani, aggiunse: «… e specie in certe zone, dove spesso i fedeli arrivano solo a mani tese per chiedere con lo spirito di coloro ai quali tutto è dovuto, è capitato che certi preti, divenuti vecchi, malati e non più sfruttabili, trovandosi senza soldi si sono trovati privi di qualcuno che portasse loro un bicchiere d’acqua».

Questo il motivo per il quale spesso insisto, coi giovani confratelli, sulla importanza della vicinanza che specie i giovani devono avere verso i presbiteri anziani. E vi dirò: ogni volta che io sono stato vicino ai presbìteri anziani, ne ho tratto un bene profondo, perché poca cosa è stata la compagnia che io ho fatto a loro, o l’aiuto che ho dato a presbìteri semi infermi, a confronto di ciò che costoro hanno dato a me, trasmettendomi il loro bagaglio di prudenza, sapienza, conoscenza …

I presbìteri anziani non andrebbero messi a riposo, ma tutt’altro messi a lavoro. Sarebbe bene che i vescovi, specie quelli giovani, se li tenessero vicini come consiglieri, anziché circondarsi di gruppi di giovani preti — mossi non di rado da interessi personali o da condizionanti aspettative di carriera —, perché certi anziani sono la memoria storica viva delle loro diocesi. Che i vescovi li mettano a fare i rettori, i confessori, od i padri spirituali dei seminari, perché per poter sviluppare la prudenza, la sapienza, la conoscenza, non occorrono i giovani rettori mandati a fare i corsi di socio-psicologia nelle università laiche, bensì anziani capaci ad insegnare ai giovani non solo per mezzo delle loro virtù, ma anche attraverso i loro stessi difetti, che sono propri dell’umanità di ciascuno di noi, presbiteri inclusi.

Per dare sul finire un’altra lettura al racconto evangelico della povera vedova: la povera vedova è la Chiesa che dona la propria totalità; le due monete preziose che lei depone nel pubblico tesoro del tempio — che è pubblico e visibile a tutti —, sono la prudenza e la sapienza degli anziani.

Pertanto, a quei vescovi che dicono «bisogna ripartire dalla formazione», io ho sempre risposto: allora dovere ripartire dagli anziani, visto che nessun giovane, per quanto dotato, può avere la sapienza dei vecchi. Né può avere lo slancio della povera vedova, che ha dato tutta se stessa attraverso il poco che aveva, ma quel poco era la sua totalità. E per dare veramente tutto occorre tempo, occorre una vita. E questo i vecchi lo hanno fatto, mentre i giovani devono imparare a farlo. E per imparare a farlo hanno bisogno dell’esperienza dei vecchi, specie di quelli che nel corso di tutta la loro di vita cristiana e sacerdotale hanno cercato di trasformarsi — per Cristo con Cristo e in Cristo — nella Povera Vedova.

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dall’Isola di Patmos, 11 novembre 2018

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