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il Papa eretico, Antonio Livi e la toppa che finisce con l’essere peggiore dello strappo, il dramma della superbia intellettuale
/7 Commenti/in Attualità/da RedazioneIL PAPA ERETICO, ANTONIO LIVI E LA TOPPA CHE FINISCE CON L’ESSERE PEGGIORE DELLO STRAPPO, IL DRAMMA DELLA SUPERBIA INTELLETTUALE
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«Per mezzo di parole, atti e omissioni e per mezzo di passaggi del documento Amoris laetitia, Vostra Santità ha sostenuto, in modo diretto o indiretto (con quale e quanta consapevolezza non lo sappiamo né vogliamo giudicarlo), le seguenti proposizioni false ed eretiche, propagate nella Chiesa tanto con il pubblico ufficio quanto con atto privato» [dalla Correctio filialis]
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«Non pigliateli sul serio, pigliateli per il culo»
[Lettera apocrifa di Sant’Ireneo di Lione]
Buongiorno!
Oggi, su La Nuova Bussola Quotidiana, è apparso un articolo di Mons. Antonio Livi, uno dei firmatari della supplica filiale nella quale si formula una accusa di sette eresie che, a quanto pare, non sarebbe tale. E, chi lo pensa, sbaglia, perché ha frainteso il testo [cf. Correctio filialis – testo italiano].
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Con questo articolo Mons. Antonio Livi entra in piena comunione col Sommo Pontefice Francesco I, condividendo con Sua Santità un elemento che caratterizza questo pontificato: «il Santo Padre è stato capito male», «è stato male interpretato», «con quell’espressione voleva dir tutt’altro, ma è stato travisato per colpa dei giornalisti che hanno riportate male le sue parole».
Uno scritto col quale Mons. Antonio Livi s’inserisce a pieno titolo in quello che è il cosiddetto e impropriamente detto spirito bergogliano, per usare questo infelice termine giornalistico che nulla ha da spartire col linguaggio ecclesiale ed ecclesiastico, meno che mai con quello teologico.
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Nel testo latino della supplica filiale, molti, inclusa la Santa Sede e gli organi della Conferenza Episcopale Italiana, pensano d’aver ravvisato la formulazione di sette eresie, cadendo però sicuramente in errore dinanzi a questo testo latino:
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His verbis, actis, et omissionibus, et in iis sententiis libri Amoris Laetitia quas supra diximus, Sanctitas Vestra sustentavit recte aut oblique, et in Ecclesia (quali quantaque intelligentia nescimus nec iudicare audemus) propositiones has sequentes, cum munere publico tum actu privato, propagavit, falsas profecto et haereticas.
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Un testo tradotto dagli stessi Supplicanti a questo modo in lingua italiana:
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Per mezzo di parole, atti e omissioni e per mezzo di passaggi del documento Amoris laetitia, Vostra Santità ha sostenuto, in modo diretto o indiretto (con quale e quanta consapevolezza non lo sappiamo né vogliamo giudicarlo), le seguenti proposizioni false ed eretiche, propagate nella Chiesa tanto con il pubblico ufficio quanto con atto privato.
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Nella altre lingue in cui questo testo è stato scritto, il verbo italiano «sostenuto» è stato tradotto: upheld, sostenido, soutenu …
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Malgrado la lapalissiana ed evidente chiarezza di queste parole, oggi, diversi degli estensori, affermano di non avere mai accusato di eresia il Sommo Pontefice, neppure dopo avere firmato un testo che recita: «Vostra Santità ha sostenuto, in modo diretto o indiretto […] le seguenti proposizioni false ed eretiche». Insomma, dinanzi all’articolo di smentita e di chiarimento di Mons. Antonio Livi tornano davvero alla mente le parole di quel “Santo dottore della Chiesa ” di Hegel, che in una frase a lui attribuita afferma: «Se i fatti non si adeguano alla teoria, tanto peggio per i fatti».
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Nel Santo Vangelo possiamo leggere queste parole: «Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo squarcia il vestito e si fa uno strappo peggiore» [cf. Mt, 16]. Esattamente quel che fa Antonio Livi che su La Nuova Bussola quotidiana di oggi si straccia le vesti sotto il titolo «Correzione al Papa, la verità che i lettori meritano». Ecco, se c’è una cosa che i Lettori proprio non meritano, tutti, ed in particolare i nostri fedeli, è quella di essere trattati da perfetti imbecilli. Perché quando si comincia a giocare sulle parole, si esce dall’ambito della teologia, che richiede sempre e di per sé termini chiari e precisi che significano e possono significare una sola cosa, non una molteplicità di cose. In caso contrario si esce appunto dall’ambito teologico per entrare nei sofismi ed in quei bizantinismi giuridici che funsero da preludio alla caduta dell’Impero Romano, cosa questa che, come storico della Chiesa, dovrebbe sapere anzitutto Roberto de Mattei [cf. QUI]. Altrettanto la dolce Cristina Siccardi, che oggi cerca di nascondersi dietro la «materna protezione di Maria» [QUI], che è bene ricordare essere Madre della Chiesa e Madre dei Sacerdoti, non Madre dei politicanti maldestri di siffatta bassa lega, che dietro pretesti dottrinali e teologici celano tutt’altri fini, malumori, frustrazioni, caste nobiliari venute meno e non ultimo anche interessi economici, visto che fare gli ultra-tradizionalisti, da una parte è per alcuni molto costoso, mentre per altri è invece molto redditizio.
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Pertanto, chi di parola ferisce di parola perisce: Infatti, l’accusa — va da sé legittima — che è fatta a diversi passaggi del testo della esortazione post sinodale Amoris laetitia, è proprio quella di non essere chiara, di essere a tratti ambigua, foriera della più diverse e disparate interpretazioni, in quanto scritta in un linguaggio e con termini non sempre chiari.
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Antonio Livi è caduto nello stesso gioco attraverso il testo da lui firmato, del quale a suo dire sarebbero state male interpretate le parole, od il senso delle parole stesse. Il tutto detto da un filosofo e teologo che dovrebbe sapere molto bene che il termine ipostasi, ha un preciso significato e non una varietà di significati, perché al proprio interno esso non contiene solo la spiegazione precisa, ma anche l’interpretazione già data attraverso la enunciazione di un dogma, così come il termine transustanziazione e via dicendo. E questi termini, nella loro sostanza e nel loro significato, rimangono tali anche se trasposti o tradotti in altre lingue.
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A meno che non si viva in un mondo nel quale tutti fraintendono tutto, in tal caso, Mons. Antonio Livi dovrebbe anche spiegare questa sua affermazione, perché alla domanda, ripetuta per la seconda volta … «Ripetiamo: ci sono eresie in Bergoglio?». Egli risponde:
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«Lui non è personalmente e formalmente in eresia, non ne ha dette in modo palese. Lui non proclama cose che risultino eretiche, però le fa dire agli altri senza correggerle o smentirle, pertanto avallandole. Penso che sia quantomeno un peccato contro la prudenza ed è una prassi pastorale dannosa. Noi cerchiamo di farlo ravvedere sia nella prassi sia nella dottrina che risente negativamente del modernismo. Questa iniziativa è doverosa» [cf. QUI].
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Mons. Antonio Livi non si è forse reso conto di avere affermato, con questa sua risposta, che il Sommo Pontefice, a suo dire, è di fatto a tal punto pavido e privo di virili attributi, che neppure ha il coraggio di enunciare eresie, le fa proclamare agli altri, poi lui le avalla in modo tacito? O forse abbiamo capito e interpretato male anche questa sua magistrale risposta?
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Il Santo Padre Francesco ha tanti difetti, più volte noi li abbiamo messi in luce e ne abbiamo discusso su L’Isola di Patmos [cf. QUI], ma se c’è una cosa della quale egli non è privo, sono proprio gli attributi virili.
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Duole riportare certi fatti, ma Mons. Antonio Livi non è nuovo a certe sparate a raffica pericolose e fuorvianti proprio sul piano dottrinario. Ci limitiamo solo a un paio di esempi: dopo aver pubblicamente definito «famigerato» il discorso del Santo Pontefice Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II, egli prosegue rincarando la dose affermando «faccio fatica a chiamarlo San Giovanni XXIII, perché una canonizzazione che avviene fuori dalle leggi canoniche pone dei problemi». Dinanzi a queste parole, è per noi molto doloroso dover ricordare all’improvvido relatore che si picca di essere uno degli ultimi puri difensori del dogma rimasti nella devastata Orbe Catholica, che questa canonizzazione non dovrebbe creargli proprio alcun problema, perché ogni canonizzazione comporta un pronunciamento che implica quella infallibilità suggellata come dogma di fede dal Beato Pio IX. Pertanto duole ricordare, a questo difensore di una dogmatica che rischia di essere una dogmatica a elastico soggettivo, che il Prof. Andrea Grillo, da noi più volte duramente criticato in dispute teologiche su queste colonne e indicato come un esponente del modernismo, reso “pericoloso” dalla sua profonda preparazione e dalla sua spiccata intelligenza, non si è mai permesso — che finora se ne sappia — di mettere in discussione né la beatificazione di Pio IX né tanto meno la canonizzazione di Pio X. Inoltre, l’onestà intellettuale e teologica, ci impone oggi di rimanere molto ben colpiti per il modo ed contenuti attraverso i quali, il Prof. Andrea Grillo, ha commentato la vexata quaestio [cf. QUI]. E, detto questo, tragga Mons. Antonio Livi le sue debite conclusioni, a ben considerare che sempre in questo suo lungo intervento egli prosegue affermando:
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«[…] come ho scritto più volte a proposito dell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, il Papa ha voluto essere volutamente ambiguo. Perché? Perché da una parte vorrebbe dire cose sostanzialmente eretiche, e dall’altra sa che non le può dire».
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Leggendo questa frase infelice alla luce della logica, del diritto e della stessa teologia, questo meschino parlare ed esprimersi si chiama “processo alle intenzioni”. E per oltre un’ora, dinanzi ad un numeroso pubblico, Mons. Antonio Livi, registrato e filmato, infine sbobinato e pubblicato, ha affermate queste ed altre cose ben peggiori. Senza quindi procedere oltre, rimandiamo i Lettori alla lettura di questa sua lectio magistralis tenuta lo scorso anno [la lectio magistralis è leggibile QUI], in attesa che il direttore de La Nuova Bussola Quotidiana pubblichi presto un altro suo articolo di smentita più o meno improntato sul principio che «Se i fatti non si adeguano alla teoria, tanto peggio per i fatti». E, va da sé, con l’aggiunta, da parte di Mons. Antonio Livi che, chi non la pensa come me, è uno storicista, un rahneriano ed un pericoloso eretico modernista. Ignaro del fatto che, per essere teologi ortodossi, non basta essere contrari alle speculazioni teologiche di Karl Rahner, salvo poi agire, in certi concreti fatti, in modo molto peggiore di quanto non abbia agito questo pericoloso teologo gesuita tedesco. Pertanto, il caro Mons. Antonio Livi, anche in questo abbia l’umiltà di imparare da un autentico uomo di Dio come Padre Giovanni Cavalcoli, che studiato per un trentennio e poi criticato in ogni modo il pericoloso pensiero di Karl Rahner, non ha mai mancato di metterne sempre in luce, anche e soprattutto, i non pochi aspetti interessanti in esso contenuti. Così come più volte, il Padre Ariel S. Levi di Gualdo, nemico giurato del modernismo, non ha mancato di mettere in luce sia il problema oggettivo del «modernismo reattivo ad un rigore eccessivo», sia il fatto che il povero Don Ernesto Buonaiuti, dopo la sua meritata condanna, fu trattato dall’Autorità Ecclesiastica con una mancanza di carità veramente disumana; perché la Madre Chiesa non può trattare disumanamente neppure un pericoloso eretico, severamente si, ma disumanamente no.
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E questa, per inciso, si chiama: onestà intellettuale, in assenza della quale si cade nella cieca ideologia, ed anziché fare teologia, si rischia di fare solo soggettiva egologia.
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Dinanzi alla penosa vicenda di Mons. Antonio Livi torna alla mente Socrate, che poco prima di bere la cicuta affermò: «Meglio morire con il corpo sano per evitare la decadenza».
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In ogni caso siamo certi che Mons. Antonio Livi, uomo di fede e di gran pietà sacerdotale, non avrebbe alcuna difficoltà, a pena della salute o della dannazione eterna della sua anima, a dichiarare solennemente che, a partire dal 2014 a oggi, egli non ha mai sostenuto che il Sommo Pontefice Francesco I è eretico. Non ha mai detto nulla di simile ad alcuna persona, ad alcun gruppo di persone, in nessun circolo e raduno scelto di persone. Mai, in alcun suo messaggio privato, indirizzato a una o più persone, ha risposto a quesiti a lui posti da fedeli smarriti e disorientati, dichiarando che il Sommo Pontefice Francesco è eretico, né mai ha spiegato a nessuno, con tutti i dettagli del caso, quali fossero le sue eresie.
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Analoga dichiarazione, non avrebbe difficoltà a farla neppure quel vescovo emerito che dietro le quinte di questo testo ha caricato diversi laici in buona fede, usando la propria autorità episcopale per trarli in grave errore. Questo prelato, che mai ha superata e digerita la rabbia di non essere stato creato cardinale, dal canto suo, sempre a pena della salute o della dannazione eterna della propria anima, potrebbe aggiungere anche la rassicurazione che in alcun dove, ad alcuna persona e ad alcun gruppo di persone, egli ha mai affermato, a partire dalla fine del 2013, che il Sommo Pontefice Francesco I, oltre a essere eretico, sarebbe persino legato alla Massoneria internazionale (!?).
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Dinanzi a questa straziante desolazione, è nostro desiderio rimandare i Lettori ad un articolo scritto nel 2015 dal Padre Giovanni Cavalcoli e dedicato alla apologia della superbia. È un articolo molto illuminante, nel quale il teologo domenicano indica e spiega in qual misura, quella intellettuale, è da sempre la forma di superbia peggiore. Quella che tra le varie cose impedisce al superbo di chiedere scusa, dopo avere palesemente sbagliato, trasformando di fatto quel «Confesso a Dio Onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni», solo in una filastrocca ritmata, particolarmente suggestiva se recitata poi in latino [l’articolo di Giovanni Cavalcoli è leggibile QUI].
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Buon pranzo!
L’Isola di Patmos, 27 settembre 2017
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Un Sommo Pontefice eretico? La cieca stoltezza del “partito dei bergogliani”: per difendere il Santo Padre Francesco e con lui il ministero petrino, è necessario mettere in luce anche i suoi molti difetti, anziché cantargli “osanna, osanna nell’alto dei cieli!” e trattarlo come fosse più perfetto di Cristo
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L’eretico vescovo scismatico Bernard Fellay, con la propria firma su questo documento in cui si accusa il Pontefice regnante di sette eresie, ha data una sonora e meritata sberla all’imprudente Francesco I, il quale pensava che, tra offerte di pasticcini della tenerezza e di torte aromatizzate al misericordismo, potesse addolcire dei concentrati di fiele come i seguaci dell’eretico che si trova a monte: Marcel Lefebvre, conferendo ad esempio ai suoi seguaci facoltà di amministrare in modo lecito i Sacramenti. E questi sono stati poi i conseguenti risultati piovuti a breve addosso all’uomo Jorge Mario Bergoglio, che tende a non ascoltare nessuno. E, quando ascolta, tende ad ascoltare le persone sbagliate …
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È stato reso pubblico un documento, inviato al Sommo Pontefice Francesco l’11 agosto, poi reso pubblico il 24 settembre da un nutrito gruppo di studiosi, perlopiù laici, che hanno dolcemente intitolato la missiva «correzione filiale» e nella quale il Successore di Pietro è accusato di eresia [cf. documento QUI]. Siccome il testo era «filiale», gli estensori si sono limitati ad attribuirgli solo sette eresie, meno male! Immaginate che cosa sarebbe accaduto, se anziché «filiale» fosse stato invece un testo arrabbiato.
La vera gran colpa dei firmatari è anzitutto la desolante stupidità, come prova il loro testo di venticinque pagine contenenti accozzaglie, temi nei temi e fuori tema a non finire, assai più numerosi di quanti non se ne trovino invece nelle pagine ben più numerose che compongono il testo della esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, che non è propriamente chiara e felice, ma che non è però un testo tacciabile di eresia.
Il problema delle sette eresie lo esamineremo a breve, perché prima è necessario un preambolo nel quale è doverosa la difesa di alcune persone, ma al tempo stesso anche la doverosa presa di culo di altre [cf. QUI]. Detto questo si tranquillizzino i puritani, perché San Josemaria Escriva de Balaguer diceva molte più parolacce di me, che a confronto del Santo fondatore dell’Opus Dei ho una lingua comparabile in candore a quella della Beata Imelda. Poi si tenga presente che la lingua mia, dinanzi a quella di San Pio da Pietrelcina, è comparabile a quella di Sant’Agnese vergine e martire che sussurra dolci parole all’orecchio del tenero agnellino che tiene in braccio. A tal guisa basti rammentare che il Santo confessore di Pietrelcina fece fuggire dal confessionale una trentenne urlandole nel dialetto del gargano: «Vattene via grandissima puttana!». Anni dopo, la «grandissima puttana», entrò nel monastero di clausura delle monache clarisse, morendo novantenne oltre mezzo secolo dopo, in fama di santità, dopo quella brutale cacciata dal confessionale del Santo Cappuccino. E questa monaca io l’ho conosciuta, ho predicato più volte nel suo monastero. E sempre lo stesso confessore, ad un altro giovane, poi divenuto uno dei suoi devoti figli spirituali, disse: «Tu non sei un semplice peccatore, sei proprio un uomo di merda!». Ora, essendo io anche postulatore delle cause dei santi, prendendo spunto da certe venerate figure, conto un giorno di giungere a quella santità alla quale tutti i battezzati sono chiamati, usando all’occorrenza anche un linguaggio pastoral pedagogico da carrettiere di Dio.
Il nome usato dalla gran parte dei giornalisti per dare risalto alla notizia, incluso uno tra i più celebri vaticanisti, più ancòra che al fatto ed al testo in sé, è stato quello del Professor Ettore Gotti Tedeschi, fino al 2012 presidente dello I.O.R. la cosiddetta banca vaticana [cf. QUI]. Chi, come il sottoscritto e Padre Giovanni Cavalcoli, ha avuto modo di conoscere questo cattolico devoto, nonché uomo di fede e specchiate virtù di vita, capisce anzitutto la purezza delle sue intenzioni. Gotti Tedeschi ha infatti agito seguendo un istinto improntato sul suo amore verso la Chiesa ed il papato, ma anche verso lo stesso Pontefice regnante. Come lui, presumo abbiano agito la gran parte degli altri laici firmatari, che per la quasi totalità non conosco, fatta eccezione per il Professor Roberto de Mattei, che è uno studioso che tende ad applicare alla Chiesa schemi e criteri socio-politici celati dietro la difesa della purezza della fede. Come del resto fanno i lefebvriani, che non sono devoti eredi del Santo Pontefice Pio X, al quale è titolata la loro Fraternità Sacerdotale, ma devoti eredi inconsapevoli dello stile di Martin Lutero: abbattere il pontefice col falso pretesto di difendere il papato che non difende a loro dire la purezza della fede.
Tra i firmatari intrisi di questo stile socio-politico filo-luterano non poteva mancare la Katharina von Bora della situazione, la deliziosa Cristina Siccardi, compito della quale dovrebbe essere quello di lavare e stirare le tovaglie d’altare della Fraternità Sacerdotale di San Pio X, inamidare i corporali con la colla di pesce e rammendare gli amitti recitando le litanie del Sacro Cuore di Gesù, non quello di fare la storica della Chiesa in modo a dir poco maldestro e soprattutto accecato di ideologia. E ciò detto ricordiamo per inciso che la von Bora era una ex monaca cistercense divenuta poi moglie dell’eresiarca Lutero.
La mia stima verso un uomo di fede come Gotti Tedeschi non è diminuita, valutata la purezza delle sue intenzioni. Ciò sul quale merita riflettere è che non sempre, la purezza delle intenzioni, porta a scelte giuste, almeno sin da quando esiste il peccato originale, che per noi credenti e teologi ortodossi è un fatto reale, non una metafora allegorica. E, come tutte le persone esposte al peccato, merita ricordare che un conto è errare in buona fede nella certezza di fare la cosa buona e giusta, altra cosa è errare mossi da una mala fede resa tale dai molteplici secondi fini che certe pretestuose esternazioni spesso nascondono. Or bene, se il primo dei due casi testé esposti, è quello di Gotti Tedeschi, la cui “colpa” è attenuata sin quasi alla inesistenza della colpa stessa, il secondo ― lungi dal voler giudicare la sua coscienza ―, è invece il caso di Roberto de Mattei, di chi lo segue e di chi oltre oceano foraggia le sue attività a botte di parecchi soldi. Perché una fondazione come la Lepanto, con le sue molteplici attività nazionali e internazionali, incluse attività editoriali a perdere, fatte di libri stampati e diffusi i cui proventi non riescono a coprire neppure le spese vive di stampa, non può essere sostenuta con la vendita per abbonamento del mensile Radici Cristiane ; e chi sostenesse questo od altro di simile, recherebbe grave offesa all’intelligenza altrui.
Mentre un coretto di adulanti vaticanisti della prima e dell’ultima ora si sono sbizzarriti a prendersi perlopiù beffa di questi firmatari, facendo dal mio canto quel mestiere che mi compete, che è quello di teologo dogmatico e di persona che ha acquisita un po’ di formazione giuridica, indicherò agli uni e agli altri di questi vaticanologi, quelli della prima e quelli dell’ultima ora, chi sono coloro che tra i firmatari vanno veramente sbeffeggiati: i ministri in sacris che hanno apposte le loro firme su un testo che è giuridicamente e teologicamente empio e delirante.
Noi tutti ricordiamo con qual garbo e umiltà, seguendo una antica tradizione apostolica, quattro Padri Cardinali hanno presentato dei dubia al Romano Pontefice chiedendo una sua risposta [cf. QUI]; il tutto nel legittimo esercizio del loro sacro ministero episcopale, muovendosi all’interno di una Chiesa a tal punto “aperta” e “collegiale” da avere cessato di disquisire sulle materie di dottrina e di fede dopo la morte del Santo Pontefice Giovanni Paolo II e dopo l’atto di rinuncia del Venerabile Pontefice Benedetto XVI. Che dire poi delle contestazioni alle quali fu sottoposto il Beato Pontefice Paolo VI, a difesa del quale mai si levarono tutti gli atei anticlericali che al presente si sono eletti papafranceschisti, o che senza pena di ridicolo ricordano oggi, a noi teologi talvolta legittimamente perplessi per certe posizioni pastorali del Sommo Pontefice Francesco I e per certe sue espressioni foriere di ogni peggiore ambiguità, che ogni suo sospiro è infallibile e che compito nostro è solo quello di tacere e di ubbidire dopo avere spento il cervello e la coscienza cattolica, prendendo semmai come atti di solenne magistero infallibile i proclami pubblicati sull’organo ufficioso della Santa Sede, il quotidiano La Repubblica. E, mentre si è costretti a vivere e spesso subìre questi assurdi paradossi, ecco che Eugenio Scalfari, Alberto Melloni, Enzo Bianchi, Andrea Grillo e via dicendo a seguire, proseguono indisturbati, ma soprattutto mai smentiti dalla Santa Sede, nel diffondere una immagine assurdo-grottesca di un “Papa Francesco” che è soltanto la loro personale parodia sia del ministero petrino, sia del papato, sia dello stesso Pontefice regnante.
Accettabile sarebbe stata anche una eventuale “correzione fraterna” da parte di un gruppo di vescovi, fatta con tutti i crismi dell’umiltà e del riconoscimento della somma autorità del Principe degli Apostoli, ovviamente in privato, nell’ambito dei colloqui più intimi e segreti. E, detto questo, merita ricordare ― in questi tempi d’abissale ignoranza esercitata da molti che scrivono di “faccende di Chiesa” sui vari giornali o blog ―, che i vescovi, non sono dei dipendenti subalterni del Romano Pontefice, ma suoi fratelli a pari dignità sacramentale, chiamati come membri del Collegio Apostolico al governo pastorale della Chiesa. Infatti, sia il Supremo Pastore della Chiesa, sia i Pastori di tutte le Chiese particolari che formano il corpo della Chiesa universale, sono rivestiti dello stesso grado in dignità sacramentale: la pienezza del sacerdozio apostolico [cf. C.I.C. can. 334]. Il Romano Pontefice non è superiore per grado sacramentale neppure all’ultimo vescovo della più sperduta diocesi missionaria di questo mondo, è solo superiore nel primato di giurisdizione sull’intera Chiesa universale [cf. C.I.C. cann. 331-332], perché a lui spetta presiedere il Collegio degli Apostoli e scegliere all’occorrenza gli Apostoli stessi.
I vescovi hanno quindi, anzitutto, titolo canonico per rapportarsi da pari a pari in dignità sacramentale al Romano Pontefice [cf. C.I.C. can. 333 – §1], il quale esercita la potestà di primato su tutti loro [cf. C.I.C. can. 333 §2]. I presbiteri non hanno tale titolo, né noi teologi, che siamo chiamati a servire e diffondere il magistero della Chiesa, possiamo correggerlo, nemmeno i maestri di logica aletica possono farlo, meno che mai i laici, posto che le pecore del gregge non possono né guidare né tanto meno correggere il pastore, con buona pace di Roberto de Mattei che per meglio inguaiare i Frati Francescani dell’Immacolata, anni fa mise in piedi una via di mezzo tra una raccolta firme e un referendum contro un provvedimento preso dal Romano Pontefice [cf. QUI], verso il quale non è possibile fare appello né ricorso [cf. C.I.C. can 333 §3]. In caso contrario, non si cade neppure nel luteranesimo, ma proprio nel peggiore calvinismo, nel quale il sacerdozio ministeriale ordinato non esiste, di conseguenza, laddove esiste, va considerato come «una invenzione politica della Chiesa».
Tutta quanta la questione sollevata in quel testo, elaborato con magistrale e non poco confusa artificiosità, è anzitutto priva di una solida struttura giuridica che lo rende per questo privo di logico senso comune, anche se uno dei presbìteri firmatari si picca d’esser maestro della filosofia del senso comune, rifacendosi, lui come altri, ai migliori criteri logici e metafisici di San Tommaso d’Aquino. Pertanto, i due Padri de L’Isola di Patmos, prendono atto che queste persone hanno conosciuto e studiato un Tommaso d’Aquino diverso dal nostro. Ovviamente, l’Aquinate autentico, è il nostro e non il loro, vale a dire quello che per logico e autentico senso comune ci insegna tra le righe di tutta la sua magna opera che dare dell’eretico al Sommo Pontefice, comporta ipso facto essere eretici palesi e manifesti, con buona pace della logica aletica e delle varie supercazzole prematurate con scappellamento a destra [cf. QUI].
Detto questo passiamo all’accusa, premettendo ch’essa, se non fosse tragica sarebbe comica: il Sommo Pontefice è stato pubblicamente accusato di ben sette eresie. E, come sopra appena spiegato, è bene ribadire che rivolgere una pubblica accusa formale di eresia al Supremo Custode del Santo deposito della fede cattolica, comporta essere eretici. Pertanto, i firmatari, sono caduti in eresia sostanziale e formale.
In questi giorni, il teologo domenicano Giovanni Cavalcoli si trova a predicare gli esercizi spirituali alle monache di clausura, ed il prezioso ministero al quale sta adempiendo non gli consente di dedicarsi alla redazione di un appropriato testo sulla questione in corso, data però la nostra comunione sacerdotale e teologica, unita ad una conoscenza reciproca molto profonda, ritengo di poter parlare io anche a nome di questo insigne accademico pontificio, col quale a suo tempo ho potuto approfondire gli aspetti più delicati della metafisica e della dogmatica alla scuola di San Tommaso d’Aquino.
Se a spingere diversi dei firmatari sono state ragioni di carattere più politico che teologico, il risultato è stato anzitutto quello di avere trasformato il difettoso Sommo Pontefice Francesco I in una vittima vilipesa e insolentita nel peggiore dei modi, facendo così il gioco di coloro che al suo seguito, o manovrandolo con diabolica astuzia, stanno distruggendo la Chiesa attraverso scelte pastorali discutibili e nomine di persone improponibili piazzate in tutti i posti chiave di governo della Chiesa [cf. QUI].
I Padri de L’Isola di Patmos non possono essere accusati di spirito adulatorio nei riguardi del Sommo Pontefice, al quale abbiamo rivolto numerose volte delle critiche parecchio dure e severe, senza mai perdere di vista per un solo istante che egli è la pietra attraverso la quale, sopra la roccia di Cristo, il Verbo di Dio incarnato ha edificata la sua Chiesa [tra i numerosi articoli, vedere QUI]. A riprova di quanto io non sia tacciabile di spirito adulatorio, a parte i miei numerosi scritti pubblicati e tutti reperibili nell’archivio de L’Isola di Patmos, mi limito a citarne solo alcuni, per esempio quello nel quale mi interrogo sulla sanità mentale del Sommo Pontefice [cf. QUI], oppure quel saggio breve nel quale esprimevo un anno fa un timore che oggi, alla prova dei fatti, si sta rivelando tutt’altro che infondato, purtroppo! Ossia che «questo pontificato rischia di finire a fischi in piazza e fratture drammatiche» [cf. QUI]. E quando il Pontefice regnante sarà ― Dio non voglia, mai! ― preso a fischi in piazza, a difenderlo, a prezzo della nostra pelle, ci saremo noi, che siamo stati bistrattati nel peggiore dei modi dai cortigiani ruffiani della sua corte dei miracoli, lanciatisi in grandi carriere ecclesiastiche all’insegna di poveri&profughi e di periferie esistenziali varie [cf. QUI], ma pronti come nulla fosse a indossare domani una cappa magna di sette metri al primo cambio di vento [cf. QUI]. Pertanto penso di avere tutta quella libertà e di conseguenza tutta quella credibilità che mi porta ad affermare in chiari termini ciò che penso: temo sempre di più ― possa Dio concedermi la grazia di avere assolutamente torto! ― che l’uomo Jorge Mario Bergoglio, seguitando di questo passo, può correre il rischio di passare veramente alla storia come uno dei peggiori pontefici che la Chiesa abbia mai avuto. Non mi piace il suo modo di porgersi, di parlare, di fare pastorale; considero molti dei suoi atti di magistero intrisi di accozzaglie confuse e soprattutto di non poche ambiguità; giudico molto pericoloso che la corte dei miracoli del manipolo di delinquenti che lo circonda e lo circuisce, stia riaprendo in modo subdolo delle questioni trattate e chiuse dai suoi Sommi Predecessori, che sono peraltro, rispettivamente, un Beato e un Santo: dal diaconato alle donne [cf. QUI] alla “reinterpretazione” della Humanae vitae [cf. QUI]. Però non ho mai messo, ne mai metterò in discussione la sua autorità, a prescindere dal fatto che possa temere che passi alla storia come uno dei peggiori Sommi Pontefici della Chiesa. Un pensiero del tutto soggettivo, questo mio, che non tocca in alcun modo la mia fede nel ministero petrino e la mia devota obbedienza tributata a chi al momento lo esercita nella Chiesa universale, il Sommo Pontefice Francesco I.
In caso contrario sarebbe a dir poco incoerente che io proseguissi a esercitare il sacro ministero sacerdotale, per il quale è richiesta la comunione col Vescovo in piena comunione col Vescovo di Roma, non certo la comunione con quel che “io penso”. E non potrei esercitare il sacro ministero perché ogni giorno, sul Corpo e sul Sangue vivo di Cristo, durante la celebrazione del Sacrificio Eucaristico recito con autentica fede queste parole: «Ricordati Padre della tua Chiesa diffusa su tutta la terra, rendila perfetta nell’amore in comunione con il nostro Papa Francesco, il nostro Vescovo …». Ora, io non so, il maestro della filosofia del senso comune e delle supercazzole aletiche che celebra il Sacrificio Eucaristico come me, in che modo possa, dall’alto della sua fumosa ego-teologia, recitare delle parole del genere dopo avere firmato un documento nel quale si accusa il Romano Pontefice di ben sette eresie. Ma soprattutto mi domando come queste parole possa recitarle quel tal vescovo emerito, inesorabilmente trombato nella sua spasmodica corsa ad alcune delle più grandi e prestigiose sedi arcivescovili italiane, ma soprattutto escluso dalla dignità cardinalizia, che oggi vaga da un salotto all’altro a gettare benzina sul fuoco di questi scontenti che si sentono disorientati ― a volte anche a giusta ragione ―, da certi discorsi o da certe espressioni ambigue del Pontefice regnante. È forse questo il compito di un vescovo? E che dire di quel teologo e liturgista, oggi tutto tradizione liturgica e difesa della vera dottrina, anch’esso più o meno salottiero vagante, che dieci anni fa, quanto ancora non era settantenne ed era in speranzosa corsa per la carica di arcivescovo segretario della Congregazione per la dottrina della fede, non avrebbe mai proferito neppure un peto per fisiologico eccesso di gas intestinali, neppure se il Sommo Pontefice avesse ― per ipotesi pressoché impossibile ― enunciata per davvero un’eresia? Perché questi, miei cari Lettori, sono i perniciosi vigliacchi che si trovano dietro le quinte, alle spalle di questi firmatari, che sono stati da loro usati in modo spregiudicato e diabolico come “utili idioti”, per poter consumare a questo modo non la difesa della vera fede o della autentica dottrina, ma per consumare la loro ennesima vendetta per le aspettative di carriera a loro non concesse.
Sia chiaro, neppure il Beato Apostolo Pietro era uno stinco di santo, pur essendo stato scelto da Cristo in persona. Ma soprattutto merita ricordare che santo lo divenne poco prima di morire, attraverso il martirio, che fu una grazia da Dio concessa e da lui accettata, dopo che anche nella vecchiaia stava per fuggire la seconda volta lungo la Via Appia, detta anche la via del «Quo vadis Domine? » [cf. QUI].
Ora, le cose stanno in questi termini: lamentare che Amoris laetitia è un testo scritto male e foriero di potenziali ambiguità, è vero, ma affermare che contenga eresie sostanziali è falso; una falsità grave che rende eretici coloro che asseriscono una simile empietà.
Discutendo tra di noi nella redazione de L’Isola di Patmos, la nostra saggia domenicana Suor Matilde Nicoletti faceva giustamente notare che le accuse formulate e dalle quali i firmatari vogliono ricavare delle eresie, non stanno in piedi. E assieme al nostro giovane filosofo e teologo Jorge Facio Lince, siamo giunti tutti e tre ad una conclusione consequenziale: queste persone sono le stesse che attribuiscono al Concilio Vaticano II, anche a causa del linguaggio usato nei suoi testi ― indubbiamente nuovo e non sempre felice rispetto al consolidato linguaggio metafisico della Chiesa [cf. QUI] ―, le deviazioni e le conseguenti interpretazioni moderniste dei teologi della stagione del post-concilio. Questa incapacità di analisi e di distinzione li porta da sempre ad affermare con cieco accanimento che il post-concilio è generato in verità dal vero male che si trova a monte e che, a loro dire, è proprio il concilio, che peraltro sarebbe «solo un concilio pastorale», come afferma quel degno sacerdote e religioso di Padre Serafino Lanzetta sulla scia errata della buonanima non meno degna e pia di Monsignor Brunero Gherardini. Come se il Concilio Vaticano II, che non ha certamente proclamati nuovi dogmi della fede, non avesse promulgate delle nuove dottrine e delle riforme che sono e che restano vincolanti per l’intera Chiesa universale.
Per smentire queste persone occorre poco, anche se, dinanzi alla loro cecità, a poco servirebbe la migliore logica, più o meno aletica. Per smentirli e metterli dinanzi al loro ragionamento oggettivamente idiota, sarebbe sufficiente questa semplice domanda: all’epoca in cui il Messale Romano in uso era quello del Santo Pontefice Pio V, dinanzi ai non pochi preti che nel corso di cinque secoli celebravano male, in modo frettoloso e sciatto la Santa Messa, sarebbe stato pertinente, sempre previa applicazione della stessa logica, affermare che un elevato numero di sacerdoti celebravano male e senza dovuta devozione e venerazione verso i sacri misteri, perché la colpa era a monte, ed andava ricercata tutta quanta, nella mala stesura del testo liturgico promulgato da quel Pontefice? Io credo che, fatte salve alcune imperfezioni, poi corrette come spesso accade in tutti i testi della Chiesa, il Venerabile Messale del Santo Pontefice Pio V, che io stesso tengo da sempre in alta considerazione, sia stato redatto molto bene e che per cinque secoli ha costituito ― e tutt’oggi costituisce ― un patrimonio inestimabile di fede e di pietà liturgica che non deve essere in alcun modo perduto, allo stesso modo in cui, fatte salve alcune imperfezioni legate al linguaggio espressivo non sempre felice e idoneo, sono stati redatti molto bene i testi del Concilio Vaticano II.
L’eretico vescovo scismatico Bernard Fellay, con la propria firma su questo documento in cui si accusa il Pontefice regnante di sette eresie, ha data una sonora e meritata sberla all’imprudente Francesco I, il quale pensava che, tra offerte di pasticcini della tenerezza e di torte aromatizzate al misericordismo, potesse addolcire dei concentrati di fiele come i seguaci dell’eretico che si trova a monte: Marcel Lefebvre, conferendo ad esempio ai suoi seguaci facoltà di amministrare in modo lecito i Sacramenti [cf. QUI, QUI]. E questi sono stati poi i conseguenti risultati piovuti a breve addosso all’uomo Jorge Mario Bergoglio, che tende a non ascoltare nessuno. E, quando ascolta, tende ad ascoltare le persone sbagliate …
Il Sommo Pontefice non può essere dichiarato eretico, meno che mai accusato pubblicamente di eresia. È necessario tenere in considerazione e accettare i limiti oggettivi dell’uomo Jorge Mario Bergoglio, facendogli giungere accorata supplica di far pubblicare quanto prima dalla Congregazione per la dottrina della fede e dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti, una Istruzione che spieghi gli insegnamenti di Amoris laetitia e che chiarisca i seguenti punti :
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1) le ragioni dell’indissolubilità del matrimonio;
2) il concetto di “stato irregolare” dei divorziati risposati;
3) se ci sono e quali sono in casi nei quali i divorziati risposati possono fare la Comunione [cf. nota 351];
4) potere e autorità della legge morale naturale, ecclesiastica e divina;
5) l’oggettività, la fallibilità e la scusabilità del giudizio morale della coscienza;
6) la gravità del peccato di adulterio;
7) come e perché i divorziati risposati possono essere in grazia;
8) come possono essere perdonati da Dio i loro peccati;
9) come, perché e quando la colpa dei divorziati risposati può essere attenuata;
10) che cosa significa “stato di peccato”;
11) quali precisi vincoli crea il grado di autorità dottrinale legato alla recezione della esortazione apostolica post sinodale Amoris laetitia ed alla sua applicazione.
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Le venticinque pagine del testo sottoscritto dai firmatari, perlopiù laici, contengono testi intrisi di teorie oggettivamente errate, ma molto elaborate a livello tecnico. È pertanto quasi impossibile che il tutto sia stato redatto in modo autonomo da dei semplici fedeli laici. La domanda è pertanto di rigore: quali prelati si nascondono dietro a questo testo, a parte i due citati poc’anzi a titolo di esempio nel corso del discorso? Perché, questi prelati, anziché mandare avanti i laici non escono loro allo scoperto? Sono domande del tutto retoriche, perché sappiamo bene come mai non escono allo scoperto, è stato spiegato in precedenza ma lo ripetiamo ancora: perché molti di loro, anche se già avanti con l’età, non si sono ancora rassegnati ad essersi vista negata la porpora cardinalizia. Probabilmente sperano che il Sommo Pontefice Francesco I renda l’anima al Creatore anche e solo qualche settimana prima di loro, che muovendosi col deambulatore o con la sedia a rotelle giungerebbero dinanzi al Successore per essere creati finalmente cardinali. Perché questo, è ciò che solo conta, non la salvezza della propria anima, ma la agognata berretta rossa, con la quale bruciare meglio tra le fiamme eterne dell’Inferno.
In questo susseguirsi di vicende che hanno sempre più i connotati del gioco al massacro e dei tiri incrociati dei cecchini sulla folla sempre più esigua dei nostri devoti fedeli, la domanda di rigore è: che cosa sta facendo, di piacioneria in piacioneria, il Sommo Pontefice? Perché al contrario di certi opinionisti affetti dalla devozione a senso unico, per amare e onorare veramente il Sommo Pontefice, noi dobbiamo prenderlo per ciò che egli realmente è, facendo i conti anche con quei suoi limiti e difetti che non emergono da alcun articolo di certa stampa più o meno cattolica, che pensa forse di calcare in eterno la cresta dell’onda, quasi come se questo pontificato non dovesse finire mai.
Per questo temo che il Sommo Pontefice Francesco I corra il serio rischio di passare alla storia come uno dei peggiori Pontefici della Chiesa, come un umorale tiranno sorridente in pubblico ma capace a essere disumano in privato, ma rimanendo sempre, per mistero di grazia, il legittimo Successore di Pietro. E questo mi basta e mi avanza per dire, assieme ad uno dei miei compianti maestri di sana e ortodossa dottrina cattolica, quelle parole che oggi, coloro che dopo morto vorrebbero tirarselo da una parte e dall’altra, si guardano bene dal dire e dal riferire:
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«Se un vescovo ha un pensiero contrario a quello del Papa se ne deve andare, ma proprio se ne deve andare dalla diocesi. Perché condurrebbe i fedeli su una strada che non è più quella di Gesù Cristo. Quindi perderebbe se stesso eternamente e rischierebbe la perdita eterna dei fedeli» [video registrazione intervista, QUI]..
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Questo disse il Cardinale Carlo Caffarra di venerata memoria, non mancando di precisare:
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«[…] avrei avuto più piacere che si dicesse che l’Arcivescovo di Bologna ha un’amante piuttosto che si dicesse che ha un pensiero contrario a quello del Papa».
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Queste ultime parole, desidero possano fungere da monito ai cacciatori politici di eresie papali, ai quali, più che dire, io intimo con molta chiarezza: scrivete quel che volete sui vostri giornali e blog di Vera&Pura Traditio, accusate pure il Sommo Pontefice Francesco I di eresia a colazione, pranzo e cena, ma non coinvolgete mai, a supporto di certe vostre empietà, la memoria di quel santo uomo di Dio del Cardinale Carlo Caffarra, oppure dovrete fare i conti con il Padre Giovanni Cavalcoli e con me, che siamo due pitt-bull di Dio, non siamo due barboncini toy da biscottini al burro.
Il Cardinale Carlo Caffarra è morto con la lancia di Longino nel cuore [cf. QUI e QUI], dopo una vita offerta ai più alti e preziosi servigi resi alla Chiesa ed ai suoi Sommi Pontefici, senza essere mai ricevuto dal Pontefice regnante; lo stesso Pontefice che però ha ricevuto atei orgogliosi, eretici pentecostali, grottesche arcivescove luterane lesbiche dichiarate, dittatorelli da quattro soldi, abortiste ed eutanasisti fieri del loro sprezzo per la vita ed in ciò indomiti e impenitenti … però non ha ricevuto un autentico uomo di Dio, nonché suo fratello nell’episcopato. Cosa questa che dà indubbiamente il polso della permalosità e della disumanità insita nell’uomo Jorge Mario Bergoglio, che per alcuni vaticanisti è però più perfetto dello stesso Cristo. Eppure, il Cardinale Carlo Caffarra, autentico uomo di Dio, è morto venerando il Sommo Pontefice e pregando per lui. E che questo possa essere di esempio per tutti, riguardo l’obbedienza e la venerazione sempre dovuta anche al peggiore dei Successori di Pietro; lezione che vale, anche e soprattutto, per tutti gli avvelenati cacciatori di eresie papali.
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da L’Isola di Patmos, 26 settembre 2017
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Il Cardinale Carlo Caffarra è morto crocifisso, come il crocifisso e con il crocifisso
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[…] in questo caso il Papa s’è comportato male, parecchio. L’abbraccio di Carpi al Cardinale Carlo Caffarra è stato ben poca cosa, anche perché è stato un saluto di pochi secondi, solo il tempo necessario per una fotografia, mentre la ferita di quest’uomo di Dio è rimasta. Il Cardinale Carlo Caffarra è morto crocifisso. Anzi, spieghiamoci meglio: è morto come il Crocifisso e con il Crocifisso.
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Il dolore propriamente religioso è quello che piange o il peccato proprio o quello degli altri. Né si duole perché questo male è colpito dalla giustizia divina, ma, se si rattrista, lo fa per quanto viene commesso dall’iniquità umana.
San Leone Magno, Discorso 95, 4-5, PL 54, 462-463
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Abbiamo perso un Santo, un Santo Cardinale, onore e vanto del sacro collegio, quel sacro collegio, che oggi purtroppo è ferito e turbato da spinte moderniste, che ne minano l’unità e la funzionalità come sostegno del Papa nel governo della Chiesa. È quel collegio di eletti pastori che più da vicino aiutano il Successore di Pietro nel suo arduo ufficio apostolico. Il colore della loro veste, come ricordava loro Santa Caterina da Siena, è il rosso, che simboleggia il sangue di Cristo, a significare che devono esser pronti a dare il proprio sangue per il bene della Chiesa. Col Cardinale Carlo Caffarra abbiamo perso un umile principe e una robusta colonna della Chiesa, un uomo di Dio, luminare della teologia morale, soprattutto nel campo del sacramento del matrimonio e della famiglia, dunque in prima linea a subire gli attacchi e gli insulti del mondo e pertanto disprezzato, calunniato e sbeffeggiato dai modernisti, strumentalizzato e vanamente corteggiato dai lefebvriani, ammirato, ascoltato ed imitato dai buoni cattolici, viventi di quella “continuità nel progresso”, che fu la massima consegna alla Chiesa fatta da un’altra grande guida spirituale: Benedetto XVI.
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Ed egli sempre sulla breccia, con indomita fermezza, fino all’ultimo, perché fondato su di una salda preparazione dottrinale e ancor più una fede calda e illuminata, non certo quella del Cardinale Carlo Maria Martini sempre in irresolubile discussione con l’ateo “interiore”.
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Riguardo la personalità di Carlo Caffarra, si è parlato di intelligenza, cultura, onestà, amore alla Chiesa, pastoralità. Tutto vero. Ma secondo me, il vero cuore della sua spiritualità, è testimoniato da alcuni episodi della sua vita, dove l’amore s’intreccia al dolore. Con San Paolo, egli ha potuto dire e ci dice ancora: «Non ci sia altro vanto per me che nella croce del Signore Nostro Gesù Cristo» [Gal 6,14].
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Come il Padre Ariel che due giorni fa ha preceduto questo mio ricordo su L’Isola di Patmos con un ricordo suo [cf. QUI], posso testimoniarvi anch’io d’aver conosciuto molto bene il Cardinale Carlo Caffarra. Ci fu tra di noi una reciproca stima ed amicizia, che trasse occasione e stimolo da quattro fattori: primo, l’esser stato il mio vescovo fino al 2012, ossia finché abitai nel Convento di Bologna; secondo, esser stato mio Superiore come Cancelliere della Facoltà Teologica di Bologna, dove insegnai fino al 2011, quando divenni emerito; terzo, l’esser stato incaricato da lui esorcista della diocesi; quarto, l’esser stato, fino alla fine del suo mandato episcopale, Giudice del Tribunale diocesano per la Causa di Beatificazione del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, inchiesta diocesana nella quale, fino al 2013, ho svolto la funzione di vice-postulatore.
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In occasione di una visita al Cardinale nel 2012, legata al mio ufficio di vice-postulatore, egli mi raccontò con emozione che fin da seminarista amava far frequenti pellegrinaggi a piedi, partendo da Busseto, suo paese natale, a pochi chilometri di distanza, fino al Santuario della Madonna del Rosario a Fontanellato, presso Parma, diretto dai Domenicani. Carlo Caffarra visse la sua vita nella luce di Maria e quando dalla sede suffraganea di Ferrara fu promosso alla sede arcivescovile metropolitana di Bologna, fervente fu da allora in poi la sua devozione per la Vergine di San Luca.
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Vorrei ricordare tre importanti episodi della sua attività di pastore da Vescovo e da Cardinale. Pur nella loro diversità, sono tutti e tre legati da un filo rosso: sante, opportune e nobili iniziative, preparate, avviate e condotte con rettitudine d’intenzione, competenza, saggezza e coraggio, dalle quali Carlo Caffarra aveva diritto di attendersi molto per il bene della sua diocesi e della Chiesa e la diffusione del Vangelo, e pur tuttavia tutte e tre bloccate e frustrate non solo da ostacoli provenienti dall’esterno della Chiesa, ma soprattutto dall’interno, addirittura da parte dell’autorità superiore.
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Carlo Caffarra è apparso ad alcuni uno sconfitto, come ha scritto Padre Ariel di recente facendo un sottile riferimento a «noi cristologici falliti» [cf. QUI]. E sconfitto è forse apparso a un modernista come Andrea Grillo [1], che lo ha dipinto tra le righe come un uomo superato dalla storia. Eppure, poiché la causa di Carlo Caffarra era giusta ― anzi sacrosanta ―, sarà proprio la storia a dargli ragione, e Grillo sarà svergognato, mentre fin da adesso il santo Cardinale si trova trionfante sui suoi nemici nella gloria celeste, alla quale è salito per essere stato un servo fedele di Cristo.
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I tre episodi salienti della sua vita sono: primo, la deposizione da Segretario del Pontificio istituto per studi su matrimonio e famiglia da parte di San Giovanni Paolo II nel 1984; secondo, gli ostacoli posti da autorità ecclesiastiche al procedere dell’inchiesta diocesana relativa alla Causa di Beatificazione del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, che fu approvata, ufficialmente aperta e appoggiata dal Cardinale; terzo, il rifiuto del Pontefice regnante di rispondere agli ormai famosi dubia e di riceverlo in udienza. Adesso vedremo come dietro a tutti tre questi episodi, che a tutta prima potrebbero dare l’impressione di una non piena consonanza con il Chiesa e il Sommo Pontefice, in realtà essi, se ben considerati e valutati con giusti criteri, mostrano invece la figura di un cattolico tutto d’un pezzo, fedelissimo alla sana dottrina, eccellente nella testimonianza cristiana, dotto e sapiente, specchio di Cristo crocifisso, splendido esempio di pastore ed educatore, soprattutto dei giovani, in pienissima comunione con la Chiesa e col Papa, a proposito del quale qualche anno fa, per controbattere alle voci maligne, ebbe a dire con fanciullesco candore che egli era papista dalla nascita, lo era allora e lo sarebbe stato fino alla morte. Uomo dotato anche di elegante umorismo, che non esitò a rispondere: «Preferirei che si dicesse che l’Arcivescovo di Bologna ha un’amante, piuttosto che si dicesse che è contro il Papa» [cf. video-intervista QUI].
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Cominciamo allora dal primo episodio e precisamente dagli antecedenti. Nella Chiesa Carlo Caffarra scelse, in sua qualità di moralista e pastore, di dedicarsi, preferenzialmente all’approfondimento, in piena comunione con la dottrina della Chiesa, dello studio del sacramento del matrimonio ― mysterium magnum [Ef 5,32] ― in tutti i suoi aspetti liturgici, spirituali, umani, morali, psicologici, sociologici, canonistici, civili ed educativi.
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In questo campo si acquistò prestigio e fama internazionali. Per questo San Giovanni Paolo II, altro grande Maestro in questa delicata ed importante materia, lo nominò, ad appena quarantatre anni, nel 1981, a capo del Pontificio Istituto per studi su matrimonio e famiglia [cf. QUI]. Il buon Carlo Caffarra, carattere mite e fiducioso nella bontà degli altri, forse non si rese conto della terribile ed insidiosa zona di guerra nella quale lo aveva posto il Successore di Pietro. Ma partì fiducioso, forte della sua fede e della sua salda preparazione. Ecco però che il potere delle tenebre, celato sia all’interno che all’esterno della Chiesa, gli preparava un perfido agguato. Nel 1984 fu intervistato da un giornalista, che gli chiese che cosa ne pensava dell’aborto. E lui, con tutto candore, con semplicità, chiarezza e sincerità, secondo il dettato della legge naturale e il precetto della fede, senza immaginare che cosa sarebbe successo, rispose tranquillamente come suo solito: «L’aborto è un omicidio!». E scoppiò così la tempesta: qualcosa come 450 teologi “cattolici”, in realtà modernisti, quello che già il Beato Paolo VI aveva chiamato il «magistero parallelo», si scatenarono non contro il povero Caffarra, ma contro il Papa, con accuse roventi di essere un tiranno medioevale, a gruppi di 40, 50, 60 teologi, da vari paesi europei, diversi dei quali, negli anni a seguire, elevati alla dignità episcopale. Cominciò il Belgio, per seguire uno appresso all’altro con gli altri Paesi di passata tradizione cattolica: la Germania, l’Olanda, la Francia, la Spagna, ed infine l’Italia, che funse da “fanalino di coda”, come commentò il mio capo-ufficio Monsignor Tommaso Mariucci, all’epoca in cui mi trovavo a lavorare come consulente teologico presso la Segreteria di Stato di Sua Santità. Che cosa fece, in quella circostanza, il Sommo Pontefice? Tolse Carlo Caffarra dall’incarico. Alcuni in Segreteria di Stato commentarono: «Ha fatto male, doveva lasciarlo al suo posto!». Ma Carlo Caffarra ricevette in ogni caso una ferita terribile. Fu per lui una prova spaventosa e, cosa che probabilmente lo turbò e lo addolorò ancora di più, ricevuta proprio da un Santo Pontefice, che pure lo stimava, ed al quale se c’era qualcosa che gli stava proprio a cuore, era proprio la famiglia. Dovette sentirsi piombare addosso come un macigno tutto lo scherno ed il trionfo dei modernisti. Dovette sentirsi trattato con immensa ingratitudine per tutto l’impegno che aveva profuso in quella delicatissima carica e probabilmente dovette avere l’impressione di una resa ai nemici sghignazzanti della Chiesa. Perché mai accontentarli, anziché premiare e confermare il fedele servitore?
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Nella storia della santità, per la verità, si danno altri casi del genere, nei quali un santo, senza sapere o senza volere, o semplicemente perché ingannato da soggetti maligni o perché mal consigliato da altri, fa un grave torto a un altro santo. Ma egli restò in silenzio, non si difese, non protestò, continuò nella sua dirittura morale, pregò e offrì al Signore. Solo dopo lunghi anni su questa linea di santità riuscì a guarire, a rasserenarsi, incrementando il suo impegno pastorale, finché San Giovanni Paolo II, nel 1995, lo nominò Vescovo di Ferrara. Trascorsi otto anni, nel 2003 lo promosse alla sede arcivescovile metropolitana di Bologna, la dotta e la gaudente. Nel 2006, Benedetto XVI lo creò Cardinale.
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Secondo episodio, la Causa di Beatificazione di Tomas Tyn. Non sto qui a ricordare la figura di questo santo e dotto teologo domenicano, di origine cèca, morto a 39 anni nel 1990, vissuto nel convento di Bologna dal 1972 fino alla morte e docente nello Studio Teologico Domenicano di Bologna. Padre Tomas, del quale si possono visitare i due siti [QUI e QUI], è ben noto ai lettori de L’Isola di Patmos ed ormai noto nel mondo cattolico.
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Carlo Caffarra ammirava Tomas Tyn, oltre che per le sue virtù, anche per la sua sapienza teologica, ed in essa vedeva una guida nella ricerca di Dio e nella fondazione dei valori morali, a rimedio degli errori del nostro tempo. Egli aveva ben intuìto, come pure lo stesso Cardinale Joseph Ratzinger scrisse a Padre Tyn [2], quanto fosse importante, seguendo la migliore tradizione domenicana, dar fondamento, giustificazione e certezza alle asserzioni morali con una solida filosofia e teologia teoretica. E qui ricordo alcune parole significative dell’Arcivescovo Metropolita di Bologna Carlo Caffarra, con le quali, nel Decreto di Introduzione della Causa del 2006 loda il Servo di Dio per la sua fedeltà alla dottrina di San Tommaso d’Aquino e rileva come:
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«[…] oggi la sua beatificazione e canonizzazione è richiesta da numerose persone che mantengono viva la memoria delle sue virtù e fama di santità già riconosciuta da tanti, quando era in mezzo a noi» [3].
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Dal 2 al 3 dicembre 2011, presso il Convento di San Domenico di Bologna, si tenne un convegno internazionale organizzato dall’Associazione Cenacolo di San Domenico di Bologna, dal tema «La figura e il pensiero di Padre Tomas Tyn» [4]. Il Cardinale Carlo Caffarra aprì i lavori con un breve discorso, nel quale ribadì la sua alta stima per il Servo di Dio come teologo esemplarmente fedele, perché tomista, al Magistero della Chiesa.
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Per Carlo Caffarra, la Causa di Padre Tyn era dunque motivo di vanto per la sua diocesi, un’Arcidiocesi come Bologna, antica e prestigiosa sede universitaria, nella quale si incontrano e si scontrano le principali correnti filosofiche del nostro tempo. La presenza dinamica ed incisiva di Padre Tomas in questo complesso e non facile ambiente forniva un appoggio e una difesa alla pastorale dell’Arcivescovo nel campo culturale e teologico.
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Al contempo, Tomas Tyn non lesinava critiche alle tendenze moderniste, secolariste, liberali, marxiste, laiciste, idealiste massoniche, protestanti ed esistenzialiste presenti nella composita cultura bolognese, delle quali qualche infiltrazione non era assente neppure tra i suoi colleghi dello Studio Teologico, allora chiamato STAB (Studio Teologico Accademico Bolognese).
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Anche in questa impresa il Cardinale fu intralciato, fino al punto che nel 2013 l’inchiesta diocesana dovette sospendere temporaneamente il suo regolare lavoro, a causa di un intervento d’autorità evidentemente ostile al Servo di Dio, intervento incompetente ed illegittimo pilotato dal di fuori del tribunale diocesano, che sospese dal suo ufficio il vice-postulatore, sicché tale ufficio, ancora dopo 5 anni, è tuttora vacante, benché fino al momento della sospensione nel 2013 il tribunale non avesse affatto riscontrato fatti o irregolarità così gravi da giustificare la sospensione dell’attività del vice-postulatore.
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Altro dolore e umiliazione per Carlo Caffarra, il quale, nel constatare un’interferenza nelle sue funzioni di Giudice del Tribunale, rinunciò a far valere il suo diritto, ma possiamo immaginare che anche in questa occasione egli abbia trovato consolazione nella Croce. Nel corso della visita che gli feci e della quale ho parlato poc’anzi, avendogli chiesto se, anche dopo la destituzione del vice-postulatore, egli continuava ad essere favorevole alla Causa di Padre Tomas Tyn, mi disse: «Si». Poi, seduto com’era vicino a me, chinò il capo tra le mani, stette un minuto in silenzio e mi disse molto seriamente: «Non riesco a capire il perché di questa ostilità del tuo Ordine nei suoi confronti».
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Negli anni successivi al 2013 fino ad oggi, di fatto, su mandato della Postulazione Generale dell’Ordine Domenicano, l’ex vice-postulatore prosegue un lavoro non ufficiale per la Causa, anche in riferimento all’esistenza citata dal Decreto dei numerosi devoti del Servo di Dio, soprattutto in Italia e nella Repubblica Ceca [5], i quali mantengono l’interesse per il pensiero e la vita di Padre Tomas, ne studiano gli scritti e ne imitano gli esempi, lo difendono dalle critiche e ne approfondiscono il pensiero, continuano a farsi vivi, attendono e pregano per la ripresa del processo.
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Terza grande croce del Cardinale Carlo Caffarra è stata la tormentata vicenda dei dubia. Ancora una volta, un dolore che gli è venuto dal Papa, a lui, che se c’era un uomo sulla terra che fin da bimbo era per lui l’oggetto della sua tenera fiducia e il garante delle sue sicurezze assolute, questo era proprio il Romano Pontefice. E la prova tremenda doveva riguardare quel mysterium magnum al quale aveva dedicato la parte principale dei suoi studi, dei suoi interessi, delle sue pubblicazioni: il matrimonio e la famiglia. Aveva già sofferto per questo nel 1984: ora gli toccava di essere un’altra volta crocifisso. Anche adesso, di nuovo, i lazzi, le derisioni, le calunnie.
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Non che vacillasse la sua fede nell’autorità del Sommo Pontefice Francesco I. Di ciò neanche a parlarne. Ma ai suoi occhi la Amoris Laetitia conteneva dei passi ambigui, che avevano bisogno di essere chiariti dal Papa, in forza della sua autorità, anche perché di fatto, attorno a quei passi, s’era scatenata un’enorme discordia, tutt’ora non sedata. Il Papa doveva ribadire con inequivocabile chiarezza il dogma del matrimonio.
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Ma come mai il Papa non rispondeva? Come mai non lo rassicurava? Questa è stata la sua angoscia. L’atteggiamento di Caffarra peraltro è stato ben diverso da quello del Card. Raymond Burke. Questi ha parlato illegittimamente di «correggere il Papa». Caffarra non si è mai sognato di prospettare un’irriverenza simile. Evidentemente i due hanno interpretato in senso opposto i dubia, benché li abbiano formulati assieme.
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Accortosi delle strumentalizzazioni alle quali venivano sottoposti i dubia, si premurò di fare questa commovente dichiarazione di fedeltà al Successore di Pietro: «Desidero rinnovare la mia assoluta dedizione ed il mio amore incondizionato alla Cattedra di Pietro e per la Vostra augusta persona, nella quale riconosco il Successore di Pietro ed il Vicario di Gesù: il “dolce Cristo in terra”, come amava dire Santa Caterina da Siena» [cf. QUI]. Ma quello che lo ha ferito è stata la mancata risposta del Papa, per lungo tempo attesa, alla quale è seguito ― ulteriore ferita ― il rifiuto di riceverlo in udienza. Qui il Papa s’è comportato male, parecchio. L’abbraccio di Carpi è stato ben poca cosa, anche perché è stato un saluto di pochi secondi, solo il tempo necessario per una fotografia. Mentre la ferita, al Cardinale Carlo Caffarra, è rimasta.
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Il Cardinale Carlo Caffarra è morto crocifisso. Anzi, spieghiamoci meglio: è morto come il Crocifisso e con il Crocifisso.
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Varazze, 9 settembre 2017
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NOTE
[1] Vedete le nostre confutazioni delle accuse e degli argomenti — se di “argomenti” si può parlare e non piuttosto di insulti — di Andrea Grillo contro Caffarra pubblicata su questo sito. Il Cardinale ci fu grato di questa difesa portata avanti da me e da Ariel S. Levi di Gualdo su L’Isola di Patmos, vedere gli articoli seguenti: QUI, QUI, QUI.
[2] Testo della lettera nel mio libro: Padre Tomas Tyn. Un tradizionalista postconciliare, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2007, p.129.
[3] Testo completo del Decreto nel mio citato libro, pp.147-149.
[4] Gli atti del convegno sono stati pubblicati nel numero unico di Sacra Doctrina, dal titolo “Tomas Tyn”, a cura di G.Cavalcoli, n.2, 2013.
[5] Ma anche in altri paesi, come per esempio negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Spagna, in Brasile, nel Messico, in Argentina, nelle Filippine.
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/13 Commenti/in Theologica/da RedazioneIL SITO DI QUESTA RIVISTA E LE EDIZIONI PRENDONO NOME DALL’ISOLA DELL’EGEO NELLA QUALE IL BEATO APOSTOLO GIOVANNI SCRISSE IL LIBRO DELL’APOCALISSE, ISOLA ANCHE NOTA COME
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(in modo più alto degli altri, Giovanni ha trasmesso alla Chiesa, gli arcani misteri di Dio)
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